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Poemetti realizzati nel 2015
CIVIDALE DEL FRIULI (Patrimonio dell’Umanità)
Cividale s’adagia sulla piana
tranciata dalle forre del Natiso,
ignara della gloria che promana
dal nome Giulio Cesare inciso
in antiche pietre disseminate
dove lo sguardo ovunque sorprende.
E non v’è angolo che ricordate
senza che lo stupor il cor vi prende.
Il nome Forum Iulii ha donato
da secoli di antico splendore
alla Regione che ha dominato
fin al regno del veneto signore.
Dall’imponente ed antico Duomo
alla sobria chiesa di San Francesco,
Cividale incuriosisce l‘uomo
come davanti a fine affresco.
Dal diabolico ponte sul Natiso,
alla piazza del Diacono famoso,
il viandante s’illumina in viso,
e cammina senza alcun riposo
ovunque molti scorci ammirando,
istoriate mura di vecchie case
vicoli nascosti da chissà quando
tenendo in memoria ogni fase.
Chi è dentro al museo locale
e con critico animo osserva
ciò che per i colti assai vale,
varie sorprese in core riserva.
Pani di bronzo, asce e picconi
testimoniano gli insediamenti
di celtiche genti che più legioni
da Roma con vari armamenti
domarono nel corso degli anni,
dal console Cesare poi condotte,
colui che difese con più malanni
Aquileia dalle giapide rotte.
I posteri grati al condottiero
ne eressero la statua nel foro
per rimembrare al mondo intero
la Civitas ornata di alloro.
Dall’orde d’Alarico preservata
nel tempo di più grandi invasioni
e da Attila men considerata,
Forum Iulii ebbe più attenzioni.
Mentre Aquileia già soccombeva
sotto barbari colpi decadendo,
la Civitas di Giulio emergeva
ogni giorno d’importanza crescendo.
Il Nuovo Verbo presto si diffuse
a convertire assetate genti,
dagli dei pagani ormai deluse,
per trasformare i cor e le menti.
Poi Roma iniziò a disgregarsi,
Forum Iulii passò sotto i Goti
con Teodorico pareva rialzarsi
ma il potere lasciò molti vuoti.
Re Alboino con i suoi armenti
dal Preval scese in itale terre,
lasciò Gisulfo e le sue genti
col ducato a placare le guerre.
Bisanzio abbandonò i castelli
mentre i guerrieri longobardi
occuparono proprio i più belli
insediandovi i loro vegliardi.
Per più secoli uomini barbuti
si ingegnarono con le lor braccia,
ricuperando oggetti perduti
lasciando ovunque la loro traccia.
Armi, fibule, croci ed umboni
ritrovati in tombe riscoperte,
adornano i vistosi saloni
del museo che il colto diverte.
Un bel tesoro inestimabile
hanno lasciato nella gastaldaga,
un loco alla vista amabile,
dove ancor lo storico indaga.
È l’antico longobardo tempietto
con bei stucchi, affreschi e colonne,
un insolito vero gioielletto
ben degno delle sue nobildonne.
Ma non furono meno importanti
altre opere c’ancora s’ammira,
l’arte sacra dei suoi colti amanti*
nel cristiano Museo si respira.
Il Battistero del primo patriarca
con le sue otto colonne splende,
e l’ara del gran Ratchis un po’ parca
il lucano evangelo riprende.
Carlomagno intanto espandeva
l’impero che lui chiamava “romano”,
Forum Iulii il suo nome volgeva
in “Civitas Austriae”, ma non invano.
Evolse con gli anni questo nome
diventando l’attuale “Cividale”.
Fior di studiosi si chiedono come
abbia potuto diventare tale.
Ricordiamo il grande Paolino
dalla Schola Paladina del Magno,
che fu suo consiglier con Alcuino
per Cividale fu un gran guadagno.
Musico, teologo e poeta
non solo fu un patriarca saggio,
ma con la sua opera completa
per l’unione dei cristiani fu un raggio.
Poi venne il grande colto Lotario
la sua scuola di lettere fondando,
qui si formò il duca Berengario,
il Gran Impero stava rinnovando.
Non è di questo mondo il mio Regno,
ci disse Colui che fondò la Chiesa.
Il patriarcale seggio è segno
dei due poteri verso l’ascesa:
quello di Enrico l’imperatore
che concesse il temporal potere
a colui che scelse per amore
servire Cristo nel suo podere,
e quello del petrino successore
che un suo patriarca nominava
alla guida del gregge con onore,
ma sul quale purtroppo troneggiava.
Di patriarchi una lunga serie
conobbe il Friuli in quella era,
molti combatterono le miserie,
altri pensavano alla carriera.
Il grande Bertrando di san Genesio
molte riforme fece con amore
ma fu tradito da qualche vanesio
che da Cividale fu detrattore.
Da allora una cupa leggenda
si tramanda sulla maledizione,
proveniente da quella vil faccenda
sul patriarca e la uccisione.
A molti è nota la Santa Messa
in cui è brandita la gran spada,
di Randek Marquardo fu la promessa
che al nemico sbarrava la strada.
Per questa cerimonia ogni anno
arrivano genti da ogni parte,
ma molti dei visitator non sanno
che dietro al sacro si cela Marte.
Credono ad una benedizione
al dir il vero un po’ stravagante,
ma ignari della maledizione
per chi della spada è un amante.
Dopo l’aspra contesa con Udine,
il patriarcato senza vigore,
pur tra il martello e l’incudine
cedette al veneto invasore.
Della Serenissima bellicosa,
rimangono le marcate vestigia
su mura, facciate ed ogni cosa,
che’l ricordo defaticante pigia.
C’è il Pretorio in piazza del duomo
che dal gran Palladio fu abbellito,
ora ospita reperti che l’uomo
può ammirare se è erudito.
Il Duomo cittadino che primeggia
tra sobri edifici di valore,
sorge proprio accanto alla reggia
di chi lo bramava con più ardore.
Distrutto più volte dagli eventi
del ben fragile suolo friulano,
ricostruito da abili menti
di artisti chiamati da lontano.
Il visitatore più silenzioso
che le solenni navate ammira,
si sofferma in quel loco spazioso
perché il clima orante attira.
All’Assunta esso è dedicato,
e nella gran pala di Pellegrino
il suo trono vi è collocato
come richiamo per il cittadino:
il gran crocifisso incoronato
addita ognor al vero credente
quale Regno che lo rende salvato,
quello di Gesù Cristo il morente.
Il pellegrin che vede Cividale
nota con stupore le tante chiese
sì ricche di affreschi e gran pale
che le mani oranti rendon tese.
Tra queste è famosa San Francesco
per la ben rara gotica facciata,
in ogni suo interno affresco
la Sacra Scrittura è istoriata.
L’esile sua sagoma si staglia
sul Ponte del Diavolo nominato,
i riflessi del sole che abbaglia
son gioia al poeta ispirato.
Sei tanto bella o città ducale
che chi vi comincia a soggiornare,
si dimentica d’ogni suo male,
via da te più non vuole andare.
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AD UDINE ANTICA
Quando osservo dal suo Castello
la città che mi donò i natali,
mi è raro un momento più bello
perché lo spirito apre le ali,
per poi sui luoghi d’infanzia volare
sopra allo storico Giardin Grande,
che solevo per anni frequentare,
nelle mie infantili scorribande,
ai bei giorni di Santa Caterina
allorché di giostre si animava,
e cresceva in me l’adrenalina
con le novità che esso recava.
Da quel magico piazzale poi vola
l’animo mio nel dolce rimembrare
antichi luoghi come in moviola
con le loro piante a me sì care.
Nella scuola dedicata al Nievo
la leggenda amavo ascoltare
di chi costrui questo rilievo
che la piana voleva dominare.
Fu proprio Attila degli Unni re
che la grande Aquileia devastò:
fu tra i barbari il pieno di sé,
la romana civiltà egli annientò.
Ora si sa che il morenico colle
sin dai romani fu preso di mira
e che un console latino volle
mura i cui resti si ammira.
Lo sguardo tutta la città abbraccia
che da qui si sviluppa a spirale,
e poi penso quante sudate braccia
han travagliato per renderla tale.
Ma mille anni dopo Cividale
“Udene” divenne il suo nome:
fu Ottone che al “re” patriarcale
la donò, non si sa perché e come.
Bertoldo di Andechs la preferiva
alla ducale città più potente,
ed è qui che ormai stabiliva
il gran potere su tutta la gente.
Poi sotto i nobili del gastaldo
assunse il diritto di mercato,
diventando di fatto un araldo
del gran friulano patriarcato.
Quei periodi furon oscuri,
da Gorizia e Venezia contesa
gli interessi non furono puri
allo straniero s’era poi arresa.
La Patria del Friuli fu scossa
dalla vicina potente Venezia,
che con pretesti ed abile mossa
liberò le vie per la sua spezia.
Udene, che da tempo primeggiava,
poiché da’ patriarchi preferita,
Cividal ed Aquileia snobbava
ma poi fu nel più profondo ferita
dalla nota veneziana bramosia
che con cavalieri bene armati
cacciò i patriarchini difensor via
lasciando suoi nobili coi soldati.
Tra questi i conti di Savorgnano
da Aquileia furon discendenti
e Federico, nobil veneziano
divenne, ma dopo molti eventi.
Udene, centinaia d’anni dopo
ebbe i Savorgnan come signori,
li divideva come era d’uopo
poderi, case, preziosi ed ori.
Il casato Torre da una parte,
dall’altra i Savorgnano del Monte,
patrizi veneti poi sulle carte
non contenti del titolo di conte.
Fu l’imperatore Massimiliano
che, per estendere i suoi domini,
volle il dominator veneziano
ben sottomettere ai suoi confini,
poi scatenando atroci conflitti
nella povera patria friulana.
Calpestarono umani diritti
l’arma austriaca e veneziana.
In quegli anni piuttosto oscuri
il venezian Savorgnano Antonio
si trovava coi suoi uomini duri
a difendere il gran patrimonio
che la Serenissima deteneva
a Cividale ormai decadente.
Al ramo del Torre apparteneva
al servizio del gran Luogotenente.
Al suo nobil fianco combatteva
il bel nipote Luigi Da Porto,
il quale un incarico aveva
pur tra scritti e poemi assorto.
A più cavalleggeri comandava
come valido d’armi capitano,
la fiducia dello zio meritava
per sue doti e perché umano.
Nel palazzo Savorgnan invitato
per il suo prestigio conosciuto,
durante un gran ballo mascherato
ei rimase per un po’ come muto:
la fanciulla che avanti mirava
era veramente la più graziosa.
Lasciò allor chi lo accompagnava
e passò con lei l’ora preziosa.
Lucina era il suo bel nome,
una Savorgnan del ramo del Monte.
Luigi s’invaghì non sapendo come
e continuava a starle di fronte.
Da lei l’amor fu poi ricambiato
ma furon contrari grandi eventi:
la Zobbia Grassa aveva mutato
le sorti dei ben lontani parenti.
Monte e Del Torre antagonisti
a causa del tradimento d’Antonio
diviser i due protagonisti
che non potevano far matrimonio.
Il destino accanì con crudeltà:
Luigi fu poi ferito e accasciò.
Si erano promessi la fedeltà,
ma Lucina un Del Torre sposò.
Pensò d’esser da Lucina tradito,
Luigi ridotto come un rottame.
Scrisse la novella e fu ardito
nell’ambientarla in altro reame.
È già noto che il Genio inglese
conobbe codesta storia tradotta:
la trama in grande forma riprese
ed il dramma cambiò la sua rotta.
Or dall’ampio piazzale del castello
rivedo la impronta veneziana.
Piazze, vie e tutto ciò ch’è bello
l’antico splendore l’aria risana.
Vedo l’antica piazza Contarena
cinta da bei palazzi veneziani,
il colto visitator qui s’arena
a mirare le opere immani.
La gran Loggia dell’orafo Lionello
con le sue pietre bianche e rose
è per Udine un vero gioiello,
si distingue tra tante belle cose
che la nobile piazza adornano
ai piedi del gran colle castellano,
color che la vedono ritornano
e sempre di più Udine amano.
È sì noto per ogni udinese:
d’Ercole e Caco i monumenti
furon del Torriani, che si arrese
dopo delitti e molti tormenti.
C’è il porticato di San Giovanni
dalle colonne alla vista snelle.
Venezia fu causa di molti danni
ma donò a Udine cose belle.
Giovanni da Udine poi progettò
dell’Orologio l’amabile torre
che simbolo della città diventò
per indicar quanto il tempo scorre.
Fu poi sormontata dai due Mori
che da poco furono restaurati.
Batton le or unendosi ai cori
dei bronzi ovunque disseminati.
Sono di nuovo sull’ampio piazzale
che io frequentavo sin da bambino.
Le gran creste delle carniche Alpi
con le Giulie appaion più vicino.
Interrompe l’amabile visuale
l’abitato della Contadinanza,
poi lascio alle spalle il piazzale
per mirare tutto ciò che avanza.
vedo Santa Maria di Castello,
poi riscendo in piazza primo maggio:
tutto pare alla vista più bello
per me Udine è un gran omaggio.
Scorgo la Basilica mariana
che io frequentavo sin da infante.
Rapito da una musica strana
dell’organo mi fece un amante.
Osservo il Palazzo più avanti
che gli stupendi affreschi contiene:
del Tiepolo gli angeli e santi
e tante da lui istoriate scene.
Quando poi entro nel gotico Duomo
rimango silente a rimembrare:
or da anziano e fragile uomo
rivedo me infante a cantare.
Con Pigani, il musico maestro,
voci bianche nell’aere solenne
risonavano con aulico estro,
il ricordo resta in me perenne.
L’antica Udine oggi rifatta
non mi stanco più di rivisitare,
perché in me sempre si ricompatta
ciò che mai non potrò dimenticare.
A GRADO ANTICA
Ogni volta che mi trovo a Grado
e quell’aria salmastra io respiro,
ad arcani luoghi d’infanzia vado
e soavemente lì mi ispiro.
Seduto sul quel lido contemplavo
l’orizzonte del mare infinito,
al mistero dell’Essere pensavo
per me era assai sacro quel rito.
Tra le piccole mani scorrevano
di sabbia i minuscoli granelli :
quei microcosmi effondevano
la grande magia dei dì più belli.
Rinfrangevano le onde sul lido
con i loro riflessi scintillando,
fantasticavo lontano dal nido
ma gli spazi stavano dilatando.
Scrutavo le vele dall’arenile
che ornavano del mar l’orizzonte,
cantava un marinaio virile,
pensavo proteggendomi la fronte
dal sole accecante con le mani,
in me covando il desiderio
di poter poi essere un domani
un gran navigatore sul serio.
Spesso con la garrula compagnia
in acque limpide mi immergevo
seguendo poi sui fondali la gran scia
di strane creature che vedevo.
Terminato il bagno collettivo
sotto i ben caldi raggi solari,
con i piedi la sabbia percepivo
gustando i momenti così rari.
A Villa Ostende si alloggiava,
eravamo poi condotti la sera
allo storico centro e s’amava
tutto ciò che di insolito c’era.
Calli anguste, vivaci campielli,
abbaini, piccoli davanzali
con i rossi fiori sempre più belli:
parea volar con solide ali.
Più odori l’aria rallegravano
tra fritti, pane cotto e dolciumi.
I gentili gradesi amavano
riempire le viuzze di lumi.
Ovunque l’alemanno idioma
s’udiva nei vicoli affollati,
miravano le vestigia di Roma
color che n’erano innamorati.
La Basilica di santa Eufemia
si era soliti a frequentare,
era per noi come un’accademia
per le tante cose da imparare.
Dal vescovo Elia consacrata
che allor gran patriarca divenne,
con archi e mosaici ornata
le navate la fanno più solenne.
Nell’abside benedice il Cristo
con i santi, beati e Maria.
Chi tutta la Basilica ha visto
ben comprende quanto Grado fosse pia.
Del grande scisma se ne parla poco,
Nova Aquileia fu nominata,
ma per Grado non è stato un gioco:
da Popone fu pria insanguinata.
Il potere temporale frammisto
a quello spiritual apostolico,
rimosse le parole del buon Cristo
dividendo lo spirto cattolico.
Venezia san Marco poi venerava:
fu trasmesso da quel patriarcato,
su ampli territori dominava,
sul vessillo il leon fu marcato.
Chi nel ricco Lapidario osserva
gli antichi resti ed iscrizioni,
si rende sempre conto quanto serva
capir le passate generazioni.
I grandi sarcofagi romani
presso l’ottagonale battistero,
testimonian quante sudate mani
mostravan della morte il mistero.
La Basilica eretta accanto
per la bella Madonna generosa,
contien la statua, un ver incanto
che si venera più di ogni cosa.
O mia Grado, città misteriosa,
quanti ricordi il mio cuore serba,
nell’infanzia tu eri preziosa
io con te ero poeta in erba!
Memorabile fu Il porticciolo
da rudi pescatori frequentato:
riassettando le reti sul molo
mostravano un mondo incantato.
Io scrutavo i barconi passando
col magico mondo delle cabine,
la bella vita marina sognando,
la gioia pareva non aver fine.
“Madonnina del mare” si cantava
sin da quando eravamo infanti,
là, a Barbana il pensier andava:
dell’isola eravamo amanti.
Il rude barcone l’acqua fendeva,
seguivano la scia pur i gabbiani,
germani ed aironi si vedeva
e noi salutavamo con le mani.
Su piccole isole i casoni:
i lor tetti di paglia spiccavano,
erano quelle vere emozioni
per noi che gli affetti privavano.
Sulla piatta batèla che sfiorava
l’acqua calma della grande laguna,
il pescatore con lena remava
sfiorando l’isole, una ad una.
Tamerici, olmi, pioppi e pini
quei lembi di terra ornavano,
eleganti aironi cinerini
coi germani reali sostavano.
Percorreva la rotta Il battello
tra briccole di legno logorato,
ogni gabbiano pareva più bello
perché immobile dal sol baciato.
Giunti all’isoletta di Barbana,
subito si entrava nel santuario
a ringraziare Colei che risana,
celebrandovi il santo rosario.
L’icona mariana risplendeva
salvata dalla grande mareggiata:
presso gli eremiti si poneva
e così Grado fu risparmiata.
Ancora meraviglie al ritorno
i nostri sguardi ben catturavano,
le belle isolette tutt’attorno
la cromatica flora mostravano.
Ecco perché Il gran poeta Biagio
il suo stupor in versi cantava:
pur viaggiando con il cuore randagio,
la sua Grado non dimenticava.
Sia la vecchia parte e la laguna
o il lungomare che percorrevo,
ogni bella cosa, una ad una
a Grado io sempre molto devo.
Questa isola è così speciale,
che in ognuno di noi il poeta,
verso ben più alti stadi risale
per esprimersi anche senza meta.
A GORIZIA
È sempre piacevole visitare
la romantica città di Gorizia,
i suoi parchi si posson ammirare:
per lo sguardo sono una delizia.
Antichi palazzi, graziose ville
ornano giardini e belle strade:
il cuore alla vista fa scintille
se si trova in vetuste contrade.
L’austriaca Nizza è chiamata,
a misura d’uomo è questa città
perché dal verde ben compenetrata:
un esempio per la nostra civiltà!
Sul ripido colle salendo piano,
dove s’erge il vetusto maniero,
lo sguardo che si inoltra lontano
si accende di stupore sincero.
C’è la verde pianura isontina
dalle colline del Collio ornata,
con l’Isonzo dall’acqua smeraldina
dalla natura appare baciata.
Chi poi visita l’antico castello
considera la gloria del passato.
La sua storia scritta sul libello
ben racconta quanto fu travagliato.
Dal duca Alberto detto il saggio
il prezioso sigillo ricevette,
che doveva essere un omaggio
per evitare atroci vendette.
Quando Leonardo, ultimo conte
lasciò la tragica vita terrena,
del bel maniero sul piccolo monte
s’impossessò pur l’asburgica iena.
Poi Venezia non si dette mai pace:
chiese il goriziano vassallaggio
ma non fu davvero più sagace,
così per lei fu solo un miraggio.
Di molte guerre tu sei testimone
o Gorizia dall’Isonzo lambita,
massacrate furon troppe persone:
quanti giovani han perso la vita!
Ora è giusto che tu stia tranquilla,
ed in pace con il tuo confinante,
la tromba già da tempo non più squilla
mai più all’erta il povero fante!
AL SANTUARIO DI CASTEMONTE
Là dove svettano le Alpi Giulie,
ben vicino alla slava nazione
dove abbondano piccole guglie
una vista attira l’attenzione:
lassù il Santuario di Castelmonte,
al popol friulano così caro,
si erge su un’isolato monte
che per la fede è come un faro.
Non le mariane apparizioni
videro i suoi nobili natali,
ma alcune fedeli guarnigioni
che per proteggersi dai tanti mali
recaron i segni di devozione
dalla Chiesa-Madre ereditati:
da Aquileia con ammirazione,
e da oriente furon importati.
Già quel monte era bene protetto
dal glorioso Arcangelo Michele,
contro il paganesimo inetto
trionfò la salvezza d’Israele.
La postazione divenne castello
con torri e le mura difensive,
il loco apparve sempre più bello
decorato da icone votive.
I cividalesi si recavano
per impetrar sicura protezione
a Colei che molto veneravano
perchè le nutrivano affezione.
Molti eventi furono contrari
tra cui fulmini e gli incendi,
e gli attacchi non erano rari,
ma i devoti furono stupendi
nel ricostruire il bel santuario,
ponendovi una statua nuova:
li invitava a dir il rosario,
chè la fede era a dura prova.
Dopo invasioni ed aspre guerre
rinasceva più grande l’edificio,
venivan da molte vicine terre
l’anime che traevan beneficio.
Da Rovigo Padre Eleuterio,
all’inizi del Millenovecento,
si impegnò davvero sul serio
fondando il cappuccino convento.
Con gli altri suoi buoni confratelli,
e l’umiltà del beato Francesco
servì i pellegrini suoi fratelli
condividendo il povero desco.
Or continua la buona comunità
dei fedeli fratelli cappuccini
mantenendo la sua eredità
nel servizio ai tanti pellegrini.
Appar bruna e bella la Madonna
insieme al suo divin Bambino,
Incoronata è la Vergin Donna,
la implora ogni buon pellegrino.
Molte grazie Ella spesso concede
a coloro che le chiedon aiuto,
ma il dono più grande è la fede
che rende lo spirto più evoluto.
A CORNO DI ROSAZZO
Il paese di Corno di Rosazzo
spesso frequentavo sin da bambino,
giocherellavo sul piccolo spiazzo
della Villa Cabassi, in giardino.
Allor lì zia Elena abitava
e da lei vi soggiornavo d’estate,
da sarta cuciva e rammendava
vi lavorava da molte annate.
Gli abitanti eran contadini,
operai, piccoli artigiani:
è una terra di pregiati vini
frutto di più laboriose mani.
Le dolci colline di Gramogliano
io usavo con gioia frequentare,
da lassù ammiravo il bel piano,
querce ed acacie a me sì care.
Osservavo la torre diroccata
dell’antico maniero travagliato,
fu conteso da gente sì spietata
che più volte l’avean saccheggiato.
L’anziana arzilla dal nome Lina
a Cormons con la bici si recava,
incaricata a far da postina
ogni dì la posta recapitava.
Anch’io alle volte con lei correvo
salutando gli abitanti per via,
perché allora ben li conoscevo
affabili e di grande cortesia.
“Là di Moret” era il bar-ritrovo
di artigiani ed umili operai,
al rivederlo nostalgia io provo:
mi piaceva osservare quel via-vai.
Con amici salivam a Badia
percorrendo il sentiero sterrato,
il Corno scorreva con allegria
parea lodar Iddio pel Creato.
Al bel santuario Madonna d’Aiuto
da ragazzini spesso si andava,
più grazie avevamo ricevuto:
la Vergin Maria si ringraziava.
La piccola statua luminosa
lì fu trasportata dalla corrente.
A maggio il profumo di rosa
allietava le preci della gente.
Quando Corno a visitar ritorno
alla Villa dò presto uno sguardo:
lì ricordo il mio vecchio soggiorno
conoscerne la storia non m’attardo.
Sul terren dell’Abbazia di Rosazzo
la costruì Pozzi, un cividalese,
la qual, secondo l’antico andazzo,
fu poi trasformata a più riprese.
Al cividalese capitol passò
che la cedette a Pietro Nachini
perché l’organ di Cividal restaurò,
ei aggiunse pronao e giardini.
La villa poi ebbe più proprietari
da Eleonora Kadcigh ai Cabassi,
i cui eredi con più denari
l’ampliarono pur tra alti e bassi.
Costruirono l’ampio porticato
alla vista assai elegante
per il neoclassico colonnato
che dona un aspetto più brillante.
Il foledor fu poi edificato:
or le antiche vendemmie rimembra
con l’odore del mosto delicato,
il dinamismo dell’umane membra.
L’aperta barchessa come filanda
fu proprio in quel tempo costruita,
ed ora adibita a locanda
è ritornata ad aver più vita.
Corno di Rosazzo con le frazioni
non potrò giammai dimenticare.
Il ricordo mi dona sensazioni:
l’infanzia mi spingon a più amare.
A BUTTRIO E VILLA DI TOPPO FLORIO
Sulla via da Udine a Manzano
C’è un paese che serbo nel cuore,
dalla mia Cividale non lontano
alle volte lì passo delle ore.
È Buttrio il suo attuale nome
che ha origini assai antiche,
dei suoi alberi sui colli le chiome
sin dall’infanzia mi sono amiche.
Da quelle verdi e dolci alture
ornate di viti assai preziose
si ammirano ricche sfumature
e non mancano a maggio le rose.
La villa dei nobili Toppo Florio
simil a quelle del veneto stile,
aveva cucina e dormitorio
per poveri di età infantile.
Fui ospite tra bimbi sfortunati
ben noti col nome “Mutilatini”,
da post-bellici residui segnati
a quel dolore li sentivo vicini,
perché il mio cuore mutilato
da un’infanzia con pochi affetti,
partecipe al lor mondo straziato
non vedeva i fisici difetti.
Eppure si correva spensierati
tra quegli alberi, vero diletto,
ma tra i luoghi più desiderati
furon quelli attorno al laghetto
dove l’anatre e i cigni bianchi
rallegravano i limpidi occhi,
eravam vispi come saltimbanchi
nel mitico paese dei balocchi.
Poi nel parco proibito sconfinavo
l’armonia del bel “Cigno di Tuonela”
dalla piccola radio ascoltavo,
magici momenti ancor mi svela.
Sull’erba estasiato camminavo
tra antiche rovine collocate.
Le piante che io tanto ammiravo
dai conti Florio furon curate.
Andavo stupito e contemplavo
quel piccolo lembo di paradiso.
Al Creatore lì spesso pensavo,
il mistero m’accendeva il viso.
Quei magici momenti eran brevi
perché poi lo studio ci impegnava,
pur insieme ai compagni allievi
tante belle cose si imparava.
Dal balcone fissavo il castello
dai conti Morpurgo ricostruito,
con la torre merlata era bello,
quel maniero per me era un mito.
Al poeta Leopardi pensavo,
con la sua triste solitudine.
Le belle poesie rimeditavo,
pregne di tanta inquietudine.
Poi sui colli di Buttrio al mattino,
a primavera bene inoltrata
le ciliege erano il bottino
per farmi una bella scorpacciata.
Il paese che spesso frequentavo
nella mia mente è sempre impresso.
Sul campanile mi interrogavo
per lo stran orologio manomesso.
Quei tre anni da adolescente
di Buttrio mi fecer innamorare,
questo paese è in me presente
davver mai lo potrò più scordare.
A CORMONS ANTICA
Ai pié di una serie di colli
che serpeggiando si avvallano,
senza rendere giammai satolli
gli sguardi di chi li sta ammirando,
Cormòns si adagia tranquillamente
con il suo bel verde paesaggio
che con la sua aria accogliente
è per la mente solo un assaggio
delle meraviglie ch’esso nasconde
tra bei edifici, piazze e chiese.
Cupole ottagonali e tonde
ben ricostruite a più riprese
mostrano la sua antica gloria
che all’alto medioevo risale,
allorché, come ci narra la storia,
fu per anni la sede patriarcale.
Tra i patriarchi aquileiesi
e i conti di Gorizia contesa,
dopo scontri più aspri ed accesi
a Massimiliano si fu arresa,
così sotto l’asburgico potere
per secoli rimase sottomessa,
ribelli furon messi a tacere
fin che all’Italia fu poi annessa.
Sul Quarin il castello diroccato
testimon della storia turbolenta,
che dall’aquileiese patriarcato
fu crudele ed assai violenta,
nascosto è dalla vegetazione
ed a stento da valle lo si vede,
è mistero per la popolazione
che ben poco sa dell’antica sede.
Cormòns, là dove presso l’abitato
sovente vi si scorgono ancora
i resti del muro fortificato,
il visitator sorprende tuttora.
Chi si trova per le vie cormonesi
tra piccole piazze e vecchie case,
incontra i monumenti attesi,
quel che dalle distruzioni rimase.
C’è la chiesa del santo Adalberto,
la qual ora è duomo cittadino,
è adagiata su un terren erto
si raggiunge scalin dopo scalino.
A navata unica è l’interno
tardobarocco è l’altar maggiore,
richiamano il buono Padreterno
le opre del pittor e dello scultore.
Il santuario della Mistica Rosa
da ragazzino spesso frequentavo:
l’atmosfera mi lasciava qualcosa,
l’iconcina mariana io amavo.
La statua lignea prodigiosa
per ben quindici giorni molto sudò,
guarì un uomo la Mistica Rosa
e più tardi una luce emanò.
La chiesa fu un tempo frequentata
dalla veggente di Porzus Teresa
che sulla mano aveva fissata
la croce da Maria Vergin presa.
Poi sulla cima del Quarin mi reco
ammirando la chiesa di Sant’Anna,
lassù il tempo davvero non spreco:
il panorama mi fa dir “Osanna”!
È ornato l’interno della chiesa
di bell’opere lignee barocche,
da napoleonici fu offesa,
pure derubata da genti sciocche.
Altra chiesa che chiede attenzione
dove un Cristo grondava sudore,
è della Subida, dal bel rosone
con dentro la tela del Creatore.
A san Leopoldo è dedicata
la bella chiesa dei frati minori,
ma neppure viene dimenticata
la Santa Lucia con i suoi tesori.
Dalla tenuta di Angoris vedo
l’antica cittadina sorridente,
quasi a passo d’uomo io procedo
per ammirar l’aspetto attraente.
Cormòns con i suoi colli e vigneti,
le sue ville e i caseggiati,
pur con i suoi monumenti discreti
ed i campanili ben decorati,
io rivedo sempre più volentieri
e ne serbo il ricordo nel cuore,
perché ancora oggi come ieri
son sempre un suo ammiratore.
A MANZANO
Sotto i bei colli dell’Abbazia
si estende in pianura Manzano,
il qual si raggiunge lungo una via
che da Udine non è poi lontano.
L’enorme sedia che bene si vede
prima di entrare nel bel paese,
avverte tutti che qui si accede
dove nacquero le prime imprese
che iniziarono a costruire
mille sedie di stile raffinato,
le qual si misero ad ingrandire
coinvolgendo tutto l’abitato.
Quando a Manzano io mi ritrovo
la verde cittadina osservando,
è come se tutto fosse più nuovo,
pur molti ricordi sto conservando.
Dal vecchio castelliere della Sdricca
all’antica Abbazia di Rosazzo,
la storia di Manzano è sì ricca:
mi interessai fin da ragazzo.
Dal cormonese breve patriarcato
passò presto a quel di Cividale,
ma quando il popol fu affamato
l’Abbazia era il suo capitale.
A Rosazzo il fertile terreno
produceva grano,olio e vino.
Gli agostinian nel loco ameno
univan il “terreno” col “divino”.
I manzanesi edificarono
con gratitudine la bella chiesa,
i benedettini poi l’ampliarono
e la lor proprietà fu più estesa.
L’Abbazia divenne assai potente,
contesa da patriarchi e conti,
ma molto tribolata fu la gente:
si tramandan ancora i racconti
di assedi, incendi e carestie
e tra nobili crudeli vendette,
depradarono persin le sagrestie
annullando anche le lor vedette.
Pur i turchi feroci passarono
distruggendo più raccolti e case,
molti innocenti massacrarono
abitazioni al suol furon rase.
Molti papi si interessarono
donando l’abbazia a cardinali,
ma i venezian la dominavano
risparmiando al popolo più mali.
Ma mentre la gente fu affamata,
i nobil le ville costruivano
rendendon la città più aggraziata,
ma essi al potere ambivano.
Tra queste quelle dei conti Manzano,
dei Torriani l’antico bel palazzo,
villa Martinengo a Soleschiano
e villa Naglos in quel di Rosazzo.
A San Lorenzo quello dei Percoto
e pur a Manzinello dei Morelli,
palazzi che dopo il terremoto
son divenuti ancora più belli.
Il loco che amo rivisitare
è il palazzo di Case “Romano”,
sì romantica la torre appare
c’e il bel muro merlato friulano.
Napoleone con assurde guerre
arrecò poi ulteriori miserie,
impoverì pur quelle verdi terre:
di catastrofi ci fu una serie.
Siccità, grandine ed alluvioni
insieme al freddo ed epidemie
mal ridussero le popolazioni
insieme ad altre lunghe pandemie.
Fu la grande Caterina Percoto
a descrivere nei suoi bei racconti
come in quel triste tempo remoto
i ricchi signor non fecero sconti,
sfruttando il duro lavor di gente
che non sapeva più cosa mangiare,
cercava ogni puro espediente
per potere ogni giorno campare.
Più tardi i Fornasarig fratelli
alla fine del Milleottocento,
con trapano ed alcuni scalpelli,
avviarono uno stabilimento
per produrre sedie in gran quantità,
le casalinghe le impagliavano:
erano donne di tutte le età,
che il lavoro non disdegnavano.
Or della sedia c’è pur il distretto
con Manzano che è bene in testa,
basta solo fare là un giretto
per intuirne la gloria che resta.
Manzano sei sempre sì laboriosa
che alla crisi mai ti arrendi,
provata sei stata in ogni cosa
così nuove vie tu sempre apprendi.
Dallo spiazzo dell’Abbazia ammiro
il giardino e le dolci colline,
in quella pace io lì mi ispiro
per completare le mie quartine.
A CAMPOFORMIDO
Sulla storica strada pontebbana
Campoformido, tranquillo paese
della media pianura friulana
che Napoleone famoso rese,
si estende tra il torrente Cormor
e canali costruiti dall’uomo.
Ivi c’è pur un frammento del mio cuor
che trascritto non è in alcun tomo:
il paese natio della mia sposa
che da diversi anni io frequento,
ha il profum della gialla mimosa
per le emozioni che in me sento.
Contadini sempre affacendati,
operai che si recan sul posto,
assai pochi quelli sfaccendati,
da gente laboriosa è composto.
Non tutti sanno del suo passato,
allorché il friulano Parlamento
dell’arma aveva organizzato
le rassegne del suo gran momento.
Durante il dominio veneziano
gli abitanti patiron miseria,
da quello più giovane all’anziano
la situazione fu sempre più seria.
La grande povertà ad aggravare
furon terremoti e pestilenze,
le alluvioni non furon men rare
poi causando non poche sofferenze.
Terribili furon le invasioni
dei turchi dalle indole crudeli,
soffriron intere popolazioni
da loro ritenute infedeli.
Fu Bressa la frazione più colpita
dal fuoco turco assai devastata,
dopo gli invasor riprese vita
la speranza non fu abbandonata.
Passaron velocemente gli anni,
in grande miseria sotto Venezia,
putroppo accrebbero i malanni
dopo la firma che non fu inezia:
da un Della Torre fu preparato
nella sua dimora del paese
il locale per il grande Trattato:
Napoleon all’Austria s’arrese,
ma poi ritardò la sua venuta,
firmò il Trattato a Passariano.
La denominazion fu mantenuta
e così la tradizion lasciarono.
L’austriaco dominio poi sopportò
Campoformido, con rassegnazione,
finché l’italico Regno liberò
dal suo giogo la popolazione.
La Militare Aeronautica,
ancora prima della Grande Guerra,
lo indica la comun araldica,
rese gloriosa questa bella terra.
Fu proprio l’intrepido Corso Rino
dell’acrobatico volo amante,
che seguendo la scuola lì vicino
addestrava da vero comandante
molti uomini davver giudiziosi
del Primo Stormo ammaestratori:
già si esibivano coraggiosi,
precedendo le Frecce Tricolori.
Campoformido frequento ancora,
e l’amo per la sua accoglienza
il ricordo l’animo accalora
fu per me una bella esperienza.
A MIRAMARE DI TRIESTE
Sul Golfo di Trieste affacciato
il bianco castello di Miramare,
mi lascia sempre affascinato
quando lo desidero ammirare.
L’azzurro mare prima là osservo
scrutando fin all’altro litorale,
l’interno del maniero mi riservo
per visitare più tardi le sale.
I garriti dei gabbiani in volo
la gioia interiore mi donano,
mi ritrovo stupito lì da solo
a mirar il cielo ch’essi ornano.
Su minuscoli scogli si posano
del mar le agili onde scrutando,
si azzuffano e poi riposano
statici l’orizzonte osservando.
Mi ritrovo sul Piazzale d’Onore
ogni magico scorcio a gustare,
lì passano in fretta le mie ore:
ogni angolo è da ammirare.
L’eclettico edificio poi guardo
in più stili da Junker progettato,
mi richiama pur il gotico tardo
se da un punto diverso scrutato.
Medioevo e pur Rinascimento
con il gotico stil sono ben fusi,
rispecchia la moda del bel momento
secondo il voler di nobili usi.
Massimilian d’Astria nobiluomo,
insieme alla Carlotta consorte,
un bel castello a misura d’uomo
desiderava per sè e la corte.
Della esotica flora amante,
un grande parco voleva creare:
dall’America importò più piante,
mille specie vi fece innestare.
Insieme ad ampli spazi erbosi
lì si alternano alberi strani ,
percorrendo bei sentieri tortuosi
si godono gli ornati ripiani.
Tra vari gazebi e bei laghetti
l’inglese giardino vi si ammira,
da cinguettii di vispi uccelletti
è rallegrata l’aer che si respira.
Attorno al vetusto porticciolo,
guardo le aiuole all’italiana,
è davvero romantico quel suolo:
al mirarlo lo spirito risana.
Scrutando poi l’orizzonte marino
mi viene in mente la triste storia
di Massimiliano che un mattino
verso il Messico partì con boria,
per diventar colà imperatore,
ma fu ingannato dall’aspra sorte
perché i nativi con gran ardore
lo condannarono a cruda morte.
La vedova Carlotta molto soffrì,
ma il proprio senno poi perdette
non sapendo perché l’amato ardì
ad intrigarsi tra tante vendette.
Rimirando poi l’interno castello
da quel lusso si viene abbagliati,
lì ogni scorcio è davvero bello
ovunque gli spazi son istoriati,
da stemmi e simboli imperiali,
da rosse tappezzerie coperti
sui quali camminavan i reali
allietati dai propri concerti.
Quando la ricca biblioteca vedo
di antichi volumi ben fornita
strabiliato allora io mi chiedo
come gran parte della loro vita
i coniugi reali potevano
immergersi in tanta gran cultura:
storia e botanica sapevano
e amavano la letteratura.
È testimone la sala Novara
dal bel quadrato di poppa formata
come in Massimilian non fu rara
l’escursion sui mari così amata.
Più romantico e misterioso
questo promontorio affascinante,
mi appare quando d’esso goloso
lo frequento sempre più vigilante.
La gioiosa e triste Miramare
nei miei sogni spesso presente,
come si fa a non più ricordare
una volta fissata nella mente?
Sulle ali dei tuoi bianchi gabbiani
il ricordo vola placido sul mar,
anche se fossimo molto lontani
Miramare non potremo più scordar.
A GEMONA DEL FRIULI
Gemona ha un glorioso passato:
dal Medioevo libero comune
sotto l’aquileiese patriarcato
col commercio fece molte fortune.
Col dazio di facoltosi mercanti
fece chiese e signoril dimore,
transitaron persone importanti
come Antonio il predicatore
e Paolo Diacono lo storico
che esaltò il solido castello,
perché la strada verso il Norico
ben proteggeva col suo drappello.
I Frati Minori eran presenti
quando sant’Antonio fu Provinciale:
in pochi dì illuminò le menti
di molti che vivevano nel male.
È per questo che qui fu eretto
il primo tempio a lui dedicato,
la chiesa che avea benedetto
ora è il loco più venerato.
Il gran Duomo dai bei tre rosoni,
costruito dal Maestro Giovanni,
subì importanti evoluzioni
man a mano che passavan gli anni.
Poi Griglio Giovanni il gemonese
fu il grande scultore medievale
che maggiore gloria al duomo rese
con la statua che assai vale,
quella di san Cristoforo gigante
che con le nove sulla natività
rendono la facciata elegante
e stupiscono per la loro beltà.
Con pietre del castello rovinato
nacque poi il palazzo comunale,
da tre ampie arcate fu ornato
grazie ai maestri di Cividale.
Poi purtroppo il grande Terremoto
con epicentro il san Simeone,
è da molto tempo a tutti noto
che colpì gran parte della Regione.
Quasi quattrocento vi perirono
a Gemona, ahimé, molto distrutta,
migliaia di feriti languirono,
subendo una sorte così brutta.
Da tutto il mondo lì accorsero
dimostrandovi un grande impegno,
gli ex-alpini l’aiuto porsero:
la solidarietà fu un gran segno
che il Friul non fu dimenticato
e nessuno si comportò da vile:
avean le maniche rivoltato,
così nacque la Protezion Civile.
La burocrazia fu molto snellita,
e procedette la ricostruzione.
Gemona così riprese poi vita
giammai vinse la disperazione.
L’antica centrale via gemonese
di case l’un contro l’altra serrate,
sopra portici pieni di sorprese
con eleganti portali ornate,
al visitator dà la sensazione
di trovarsi nel tardo medioevo,
grazie alla gran ristrutturazione
ha l’impressione di esser coevo.
AD AQUILEIA ANTICA
Aquileia è ora un comune
che ha più di tremila abitanti,
ma ricca di gloriose fortune,
una storia conosciuta da tanti.
Ovunque si ammiran le rovine
di un florido e ricco passato
cancellato da torme assassine,
così ridotte in modo spietato.
Fu colonia di diritto latino
fondata dagli antichi romani:
da Nasica, Gaio ed Acidino,
triumviri di ambiziosi piani
per sbarrare la strada alle genti
che minacciavano quei confini.
Si stanziarono fanti ed armenti
per fermar i bellicosi vicini.
In Municipio fu sì trasformata
espandendosi poi a dismisura,
da Giulio Cesare fu frequentata
il qual fece innalzar altre mura.
Nel “De Bello Gallico” la descrive,
perché pose i suoi accampamenti
per attuar strategie innovative
sui futuri aspri combattimenti.
Crebbe col suo sistema portuale
e costruendo strade importanti,
diventando la grande capitale,
fu sì tra le città più rilevanti.
Aquileia nella Decima Regio,
pel commercio ed armi interessante,
presto ebbe il grande privilegio
d’essere il centro più importante.
Si narra che l’evangelista Marco
diffondere il Verbo da lì volle,
lo storico archivio ne è parco
ma è quel che si tramandan le folle.
Vescovi, diaconi e sacerdoti
il martirio proprio lì subirono,
insieme ai fedeli compatrioti
nel nome del buon Cristo morirono.
Furon Ermagora e Fortunato
i primi martiri di quella chiesa,
il papa san Pio primo è lì nato:
la fiamma della fede fu accesa
dai santi Ilario e Taziano,
dal vescovo Crisogono e Proto,
da Canzio, Canzianilla e Canziano
il cui culto è oggi più noto.
Ma dopo l’Editto di Costantino
il locale vescovo Teodoro,
della prima Basilica padrino,
di tre aule ne fece un tesoro.
Il pavimento su quattro campate,
da mosaici fu poi arricchito
con i quali vengono ben narrate
le vicende che hanno più colpito:
dalla Sacra Scrittura furon colte,
il lor significato è profondo
di figure lì ce ne sono molte,
Gesù Cristo è il centro del mondo.
Tra la tartaruga ed il bel gallo
c’è la lotta che tosto raffigura
il proprio interior oscuro fallo
ed il bene che vince la paura.
Affascina pur la storia di Giona
il qual la Risurrezione ricorda:
per ben tre giorni la sua persona
rimase nella pistrice ingorda.
Da quel mostro ei viene poi sputato
come Cristo dal sepolcro risorse,
tutto il mondo in Lui è salvato
gli uomini peccatori soccorse.
Mostran allegorie i mosaici
come la pesca, l’uva ed il pesce:
per lo spiritual non son prosaici,
nel meditarli la fede accresce.
I vescovi d’Aquileia d’allora
assai crebbero di importanza,
lasciando spesso la loro dimora,
non curandosi della lontananza
diffusero la cristiana dottrina
i seguaci di Ario combattendo,
organizzando poi una trentina
di diocesi in continuo crescendo.
Ma poi Attila con le sue orde
spietato distrusse l’intera città,
le sue schiere furono ingorde
accanendosi con grande crudeltà.
Ci fu lo Scisma Tricapitolino
che autocefala rese la chiesa,
a Grado la trasferì Paolino
finché a Roma non si fu arresa.
Più tardi il patriarca Poppone
signore di un territorio vasto
nominato dall’ultimo Ottone,
donò ad Aquileia maggior fasto.
Ricostruì la grande basilica,
eresse l’imponente campanile,
ma con azione non pacifistica
ei con Grado si comportò da vile.
Aquileia ora è un paese,
ma per il Friul un faro rimane,
per la popolazione e le chiese
il senso della patria lì permane.
A PREMARIACCO E ROCCA BERNARDA
È nella prima fascia collinare
ad oriente del Friuli situata,
che Premariacco si può ammirare
dal suo bel Natisone bagnata.
La sua storia è molto antica
come testimonian i castellieri.
Aquileia gli fu spesso amica
dopo i longobardi cavalieri,
perché il grande Paolino santo,
patriarca colto e assai saggio,
ivi nacque, ed è un vero vanto,
per Premariacco fu un gran vantaggio.
Questo gran Patriarca fu poeta,
teologo di profonda cultura
dell’ortodossia fu apologeta,
musico di fine calibratura.
Ma dopo il governo patriarcale
Il dominio veneziano avvenne.
La chiesa di San Silvestro qui vale:
sotto l’intonaco, ancor indenne
il ciclo degli affreschi si mira,
relativi al Nuovo Testamento,
il quale l’intenditore ispira
gustando quell’antico ornamento.
La Confraternita casa di fronte
col suo aspetto incantevole
conserva ancora le impronte
di ciò che è medieval notevole.
Chi si sofferma sul ponte Romano
ammira le forre del Natisone,
che da Leproso sino a Firmano
della natura son un’eccezione.
Ma il luogo che io qui più frequento
è Rocca Bernarda sul col Azzano,
una mistica atmosfera sento,
dall’umano fragore m’allontano.
Un fortilizio vi costruirono
dei Capiferro l’antica famiglia,
poi i Valvason la acquisirono
ristrutturandola con meraviglia.
Non aveva funzioni militari
ma fu luogo di incontri tranquilli,
convegni d’arte e pur letterari
organizzaron padroni arzilli.
Lì il bel parco dal colle digrada
con i suoi candidi antichi resti,
la villa-castello e la contrada
fan gli animi sereni, non mesti.
Nel giardino un cipresso ammiro
per la sua notevole vetustà
altri non se ne vedono in giro
i suoi secoli son una rarità.
Ma da quel colle così suggestivo
il mio sguardo la pianura abbraccia,
ed ogni volta che lì io arrivo
al Creatore alzo le mie braccia.
A MOIMACCO
Un tranquillo paese di campagna,
Moimacco, nei pressi di Cividale,
non ha il grande fiume che la bagna,
ma il sistema di acque zonale,
il suo terreno irrigando bene,
lo rende fertile e produttivo,
l’agricoltura lì molti sostiene
perché in fermento evolutivo.
Fin dall’antichità questo paese
accolse diverse popolazioni,
ma situandosi nel cividalese
subì ogni tipo di invasioni,
Unni e Goti, dopo i romani,
Avari, Longobardi e poi Franchi:
tutti vi misero le loro mani,
di depredare non erano stanchi.
Divenne poi sistema difensivo
per la ricca città di Cividale,
sotto il veneto esecutivo
pur i turchi la ridussero male.
Tra guerre, pestilenze e siccità
Moimacco pur non perse la speranza,
ma continuò la sua attività
ricostruendo tutto con costanza.
L’antica chiesetta di San Giovanni
è noto punto di riferimento,
sopravissuta dopo molti anni
è simbol di spiritual sentimento.
La chiesa della Vergine Assunta
ben al secolo nono risalente,
per il paese di diamante punta,
accoglie oggi la cristiana gente.
La villa de Puppi è ben famosa,
della prima metà del settecento,
a mirarla appare misteriosa:
quando son lì d’altri tempi mi sento.
È secondo lo stile palladiano
col timpano su ioniche colonne,
m’incanta il giardino italiano,
ricorda le antiche nobildonne
che tra statue, vasche d’acqua, vasi
dialogando tra lor passeggiavano,
là rimembrando chissà quali fasi
della lor vita che più amavano.
All’interno c’è il doppio scalone
che tosto conduce al primo piano,
suggestivo il centrale salone
col mobilio di stile veneziano.
C’è la chiesetta della Santa Croce
col dipinto della Vergine santa,
pare quasi di sentirne la voce:
la purezza di Maria incanta.
Moimacco è paese laborioso,
la sua gente è davver cordiale,
altro ancora dire io non oso,
perché l’importante è l’essenziale.
A SAN PIETRO AL NATISONE
Fra i colli del Friuli orientale,
sulle sponde del fiume Natisone,
sorge un paese un po’ speciale
per la geografica posizione.
Si tratta di San Pietro, l’abitato
di grande pregio paesaggistico
che ho spesso da tempo frequentato
pel suo ambiente caratteristico.
È ornato da colline stupende
e di carsiche grotte ne è pieno,
il geologo che ben si intende
per i suoi studi trova il terreno.
Ma anche per il paleontologo
vi è molto spazio per la ricerca,
e così pure per l’archeologo,
se con passione i reperti cerca.
Nel secolo settimo s’insediaron
popolazioni slave nelle Valli,
con i Longobardi si scontraron:
vinser e persero ad intervalli.
Più tardi ci fu pure un trattato
che permetteva alle slave genti,
di rimaner nel luogo conquistato
con le lor famiglie e gli armenti.
Sia al Patriarcato che a Venezia
furon utili gli insediamenti,
la lor difesa non fu un’inezia,
contro i nemici eran vincenti.
I dominanti per riconoscenza
li lasciaron liberi di gestirsi,
per secoli la lor indipendenza
permise loro di ben stabilirsi.
Fu proprio nei pressi della chiesetta
che a san Quirino fu dedicata:
nell’Arengo si riunivan in fretta
le vicinìe di tutta la vallata.
Ma fu l’invasore Napoleone
che l’antica autonomia tolse
alle verdi valli del Natisone,
ed all’Austriaco poi si rivolse
con il suo famigerato Trattato
per cedere lo stato veneziano
al gran asburgico arciducato
e così completar il suo piano.
Poi San Pietro e le sue vallate
al Regno d’Italia furon annesse,
le Due Guerre ora son passate
ma generazioni furon sopresse.
È più tranquillo oggi il paese,
le viuzze portan al Natisone
tra antiche case poco estese,
i lor balcon attiran l’attenzione,
I quali son adorni e fioriti,
donan una luce particolare,
insieme ad archi ben rifiniti
allo stupor sembrano invitare.
Sono note le sue tradizioni,
i suoi strucchi e la dolce Gubana:
son tipici di quelle popolazioni
portate alla vita artigiana.
Le tradizional feste son vivaci
In particolar quella di Vernasso,
che tra le danze, musica e baci
allieta col giovanile fracasso.
Quando spesso mi reco a San Pietro,
con l’animo di allegria pieno,
passa la voglia di tornar indietro,
ma a casa ritorno più sereno.
A MALBORGHETTO
C’è un vecchio tiglio a Malborghetto
che ora ha quasi cinque secoli,
la cui ombra fu per me diletto
soprattutto quando freschi refoli
sfioravan il viso adolescente
di quand’ero ospite in colonia,
nel venezian palazzo accogliente
dove alloggiavo con parsimonia.
Nei mesi estivi ancor studente,
in quel cinquecentesco edificio
insieme ai compagni, sorridente,
lasciavo il cultural sacrificio
per passare il tempo nello svago,
immerso in quella verde natura:
ed ancora oggi io sì m’appago
nel ricordarla sempre così pura.
Lo Jof di Montasio lì contemplavo
il mio spirto elevando in alto,
i piccoli ghiacciai osservavo,
con la mente facevo il gran salto
pensando ad arcani universi,
a bei mondi ancora sconosciuti
che mi spingon a fare questi versi
da antichi ricordi preceduti.
In quei dì estivi spensierati
era bello il gorgoglìo del Fella,
molti anni sono ormai passati
ma lì l’acqua ancor giocherella,
sopra i suoi bei ciottoli biancastri
e attraversando la Val Canale,
a volte pur arrecando disastri,
è chiara in modo assai speciale.
Mi chiedevo perché quel bel paese
portasse, nevver, un nom così strano,
ma nessun soddisfazione mi rese,
è scritto sul libro che ho in mano:
un tempo si chiamava Buonborghetto,
con i ricchi vescovi di Bamberga,
ma il paese divenne Malborghetto
conteso dalla veneziana verga.
Molte furon le nostre passeggiate
nei bei dintorni di silenzio ricchi,
tra verdi boschi, torrenti, cascate,
piccoli pianori ed alti picchi.
Sulla via che mena a Ugovizza
c’è ancor il metallico leone,
l’attenzion del passante galvanizza
per la piramide e l’iscrizione,
che commemora quei difensori
che con Hensel s’opposer ai francesi,
ma l’asburgico perse gli allori
cedendo ai nuovi conquistatori.
Tra le passeggiate impegnative
c’era quella per il rifugio Nordio,
salivam stupende cime prative
da scalatori al loro esordio.
Or quando a Malborghetto mi trovo
e rivedo la piazza principale,
una intensa nostalgia provo
che in me è davvero viscerale.
Osservo poi la gotica chiesetta
alla Santa Maria dedicata,
la domenica meta prediletta
per l’anima poi ben ricaricata.
Le piacevoli case variopinte
che attorniano la bella piazzetta
sono ornate da fiori e tinte
e il tutto la mia vista alletta.
Prima di lasciare il paesetto
ai Due Pizzi dò l’ultimo sguardo,
ed è ancora quel del ragazzetto
che in me freme a volte gagliardo.
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NOTE SULL’AUTORIALITÀ dei successivi poemetti
I successivi poemetti sono nati da un processo creativo che ha coinvolto strumenti di AI, in linea con la mia visione stilistica
FRIULI, terra d’arte e di memoria
Fra i monti e il mare dove il vento è fiero,
dimora antica di civiltà e storia,
il Friuli risplende altero e austero,
custode saldo della sua memoria.
Cividale s’adorna di ricordi,
del Natisone specchio trasparente,
tra i suoi palazzi scorron lenti accordi
di un tempo in cui brillava impenitente.
Aquilèia romana, alta regina,
con le sue pietre impresse nell’eterno,
nell’oro antico brilla e s’avvicina
l’eco di un canto sacro e sempiterno.
Udine, cuore della patria amata,
s’innalza altera sopra il colle verde,
dal suo castello guarda la vallata,
il tempo scorre e il vento la ricerde.
E più lontano Grado si rivela,
perla dorata sopra il mar lucente,
dove la fede scorre e si fa vela
d’un’antica preghiera ancor presente.
Gorizia assorta, elegante e severa,
custode d’una storia travagliata,
che alza lo sguardo e ancor si fa guerriera
nel ricucire un’epoca spezzata.
Tra vigne e colli s’alza Castelmonte,
santuario antico, meta di speranza,
fra i suoi sentieri il cuore si fa fonte
di un’anima che in cielo si bilanza.
Miramare s’adorna di splendore,
cullato dal respiro del destino,
sospeso tra bellezza e lieve ardore,
sognò invano il suo casto giulianino.
Buttrio si adagia fra vigne e colori,
i suoi filari danzan con il vento,
e il vino scorre come antichi amori,
tra i rintocchi del tempo lento e attento.
A Malborghetto un tiglio ancora siede,
testimone d’un secolo che sviene,
sotto le fronde l’anima si vede
narrar memorie a chi non più trattiene.
San Pietro al Natison s’erge isolato,
un ponte antico il corso lo attraversa,
lingue diverse in coro han sussurrato
le storie d’un’identità diversa.
Campoformido, luogo di trattato,
sigillo d’una guerra ormai sopita,
fra le sue case il vento del passato
racconta ancora l’ombra della vita.
Rocca Bernarda, vetta solitaria,
col suo cipresso antico che s’innalza,
rimira il mondo, saggio e centenario,
mentre il tramonto il cielo ancor ricalza.
Tra le foreste, il suon delle cascate,
il verde eterno che sussurra lieve,
tra il Fella e il Montasio le giornate
si fondon con la neve e il sole in breve.
Paesi vivi, terre senza tempo,
che il cuore abbraccia in dolce nostalgia,
fra i borghi antichi sparsi nel silenzio,
custodi d’una fiera armonia.
La storia qui s’intreccia alle radici,
tra mura vetuste e santi pellegrini,
ove il passato parla a voci amiche
e il suon dell’oggi accende nuovi crini.
Terra di santi, eroi e navigatori,
di uomini fieri, duri nel cammino,
custodi d’un tesoro senza ori,
d’una speranza in un sentier divino.
E mentre il tempo sfuma all’orizzonte,
il Friuli nel cuore ancor rimane,
tra il cielo azzurro e l’onda che s’affronte,
la sua bellezza il mondo non negliane.
O patria dolce, terra di poesia,
di fede e sangue, roccia senza fiato,
la tua bellezza resta in armonia
con l’eco eterno d’un amore nato.
A PORDENONE
Negli anni Settanta, a Pordenone,
lavoravo in banca, assai annoiato.
Ma tra le vie trovavo distrazione,
scoprendo il cuor del borgo incantato.
Corso Vittorio Emanuele invita,
con portici e palazzi affrescati,
un “Canal Grande senz’acqua” si addita,
dai passanti stupiti ammirati.
Il Duomo di San Marco si rivela,
con il campanil che sfida il cielo,
custode di storie, arte che svela,
tesori d’un passato ancor zelo.
Palazzo Ricchieri, museo d’arte,
narra di epoche e stili diversi,
mentre il Noncello placido si parte,
riflettendo i sogni negli universi.
Nel quartiere di Torre, il castello,
testimone di epoche lontane,
racconta di un passato assai bello,
tra mura che il tempo non scalfisce invane.
Villa Romana a Torre si cela,
con mosaici e affreschi del passato,
testimonianza che il tempo rivela,
di un’epoca che il suolo ha conservato.
Parco San Valentino, verde oasi,
dove natura e pace si incontrano,
tra alberi e sentieri, dolci estasi,
i pensieri inquieti qui si placano.
PordenoneLegge anima le strade,
festival di cultura e letteratura,
dove autori e lettori fanno squadre,
celebrando insieme l’arte e la scrittura.
Il PAFF! museo del fumetto e arte,
ospita mostre di grande valore,
dove l’immaginario prende parte,
in un viaggio di forme e colore.
Pordenone, città di storia e vita,
dove il passato e il presente danzano,
nei tuoi vicoli l’anima è rapita,
e i ricordi nel cuore si abbronzano.
A TARVISIO
Tra i monti alti e il cielo trasparente,
Tarvisio appare al limite italiano.
È terra antica, asprigna ed accogliente,
confine e incontro d’un sentier montano.
Il borgo è avvolto da foreste immense,
un mare verde ai piedi delle vette,
con alberi che sfiorano le cense,
custodi fieri delle altrui racchette.
I laghi di Fusine, acque chiare,
rispecchiano l’azzurro dei mattini,
son perle rare, gioie singolari,
sospese tra silenzi cristallini.
Sul Lussari si erge un santuario,
fra nubi e cime in un abbraccio santo.
Tre popoli vi salgono in calvario,
nell’eco della fede e nel lor canto.
Dal cuore alpino il Fella si riversa,
serpeggia vivo e il suono suo racconta,
tra sassi e anse il tempo non disperda
le storie antiche della valle pronta.
Le piste innevate in lunga scia
accendon l’inverno di sportivi ardori,
lo sci di fondo, il salto e la maestria
dei forti cuori e intrepidi scultori.
Ma quando il sole estivo torna acceso,
le valli invitano a camminar liete.
Tra pascoli e sentieri un po’ sospeso,
il viaggiator respira le segrete.
Camporosso conserva la memoria
di tempi andati e feste popolari,
tra luci e danze si ripete storia,
nell’eco vivo d’altri calendari.
Le Cave del Predil, miniere fiere,
furon fatica e sangue per la gente,
ora son vuote, ma restano vere
nei loro anfratti bui e risplendenti.
Nel centro antico, i segni medievali
raccontano mestieri e vite andate.
La chiesa in vetro e pietre spirituali
protende il tempo in forme tramandate.
Mercati e fiere accendono le piazze,
tra i cibi, i suoni e il legno lavorato,
sapori che risvegliano le razze
d’un confine in destino mescolato.
Qui l’Austria e la Slovenia si avvicinano,
i dialetti si fondono ai sorrisi,
lingue e culture insieme qui si affininano,
e i monti ascoltan gli echi condivisi.
Tarvisio, terra d’un perpetuo andare,
rifugio breve di chi va lontano.
Per chi riposa o torna a camminare,
trova tra i monti un animo sovrano.
Così nel vento il nome tuo si stende,
tra rocce e stelle brilla il tuo destino,
un luogo che ristora chi s’offende
dai passi duri d’un cammino alpino.
A TOLMEZZO
Nel cuore verde della Carnia alpina,
sorge Tolmezzo, antica e fiera terra.
Tra monti e valli, la sua sorte china,
custode di memorie e di guerra.
Le mura antiche narrano il passato,
di patriarcati e domini lontani.
Sotto Venezia il borgo fu guidato,
tra commerci, culture e artigiani.
Il But serpeggia tra le sponde amiche,
cantando storie di tempi remoti.
Le sue acque riflettono le antiche
vestigia di castelli ormai devoti.
Cadunea, frazione di Tolmezzo,
dove il maestro ebbe i suoi natali.
Somigliava all’uomo del Moretti,
con sguardo saggio e modi cordiali.
Allievo fu di Mussolini un dì,
quando il futuro Duce insegnava.
In quelle aule, tra banchi e gessetti,
la storia silenziosa osservava.
Il Museo Carnico custodisce
tradizioni, costumi e arti antiche.
Ogni sala un racconto che arricchisce,
legando il presente a radici uniche.
La Pieve di San Floriano in alto sta,
guardiana silente della vallata.
Dal colle osserva il tempo che va,
testimone di fede mai scordata.
Festa della Mela ogni anno torna,
colorando le vie di dolci aromi.
Tra bancarelle e musica che adorna,
si celebra il frutto e i suoi diplomi.
Il Monte Amariana svetta fiero,
con la sua cima a forma piramidale.
Sfida le nubi e il cielo più severo,
offrendo viste d’incomparabile vale.
Tradizioni e canti popolari
risuonano nelle piazze affollate.
Tolmezzo vive nei suoi calendari,
celebrando stagioni ritrovate.
Il mercato del mercoledì anima
le strade con colori e profumi.
Gente che viene, va, si avvicina,
scambiando merci, sorrisi e lumi.
Artigiani del legno e della lana,
custodi di mestieri ormai rari.
Le loro mani creano con cura sana,
opere d’arte, tesori necessari.
Il Duomo di San Martino si erge,
con la sua facciata semplice e pura.
Al suo interno la spiritualità converge,
in preghiere di speranza e di cura.
Le rogge scorrono tra le contrade,
un tempo forza per mulini e opifici.
Oggi raccontano storie passate,
di un’industria che fu e di sacrifici.
Il carnevale porta allegria,
maschere e carri sfilano festosi.
Tradizione che unisce in armonia,
grandi e piccini in balli gioiosi.
La biblioteca, tempio del sapere,
accoglie menti curiose e attente.
Tra scaffali colmi da scoprire,
si nutre l’anima di chi è presente.
Il Parco delle Colline offre pace,
tra sentieri ombreggiati e silenzi.
Luogo dove il pensiero si disface,
ritrovando se stesso in spazi immensi.
Tolmezzo, crocevia di lingue e genti,
dove l’italiano e il friulano
si intrecciano in dialoghi fluenti,
testimoni di un passato lontano.
Le scuole risuonano di voci vive,
giovani menti pronte ad apprendere.
In queste aule il futuro si scrive,
con speranze e sogni da difendere.
Tolmezzo, perla della Carnia amata,
tra storia, arte e natura incantata.
Custode di memorie mai scordate,
nel cuore di chi parte sei restata
A MARANO LAGUNARE
Tra acque placide e cieli tersi e chiari,
Marano sorge, antico e fiero borgo.
Le barche danzan lente nei suoi mari,
riflessi d’oro al tramonto sul corgo.
I casoni si ergono su isole remote,
intrecci di canne e legno, umili dimore.
Un tempo rifugio di notti devote,
custodi di storie e pescatori ardore.
Nelle lagune il silenzio è sovrano,
rotto soltanto dal volo d’aironi.
Tra canneti e specchi d’acqua piano,
si celano segreti e antichi suoni.
La Riserva di Valle Canal Novo,
oasi di pace e natura incontaminata.
Passeggiando tra sentieri a ritrovo,
si scopre la vita alata e incantata.
Osservatori celati tra i canneti,
svelano danze di uccelli migranti.
Fotografi e sognatori discreti,
catturano attimi affascinanti.
Il sole cala, dipinge il paesaggio,
di sfumature rosate e dorate.
Le acque rispecchiano il suo passaggio,
notte serena alle porte affacciate.
Le tradizioni vivono nel cuore,
feste e canti animano le piazze.
Sapori di mare, profumi e amore,
uniscono genti di diverse razze.
Mercati colmi di pesce appena preso,
voci che si intrecciano nell’aria.
Ogni angolo racconta un paese,
dove passato e presente fan varia.
Le calli strette narrano storie,
di pescatori e di antiche glorie.
Ogni pietra conserva memorie,
di un tempo che vive in metafore.
La chiesa svetta con il suo campanile,
guida per chi ritorna dal mare.
Le sue campane suonano gentile,
richiamo dolce al focolare.
Faro nella notte, luce che guida,
i naviganti tra le onde scure.
Marano, stella che mai si sfida,
illumina le anime pure.
Le valli circostanti offrono pace,
tra verdi prati e cieli infiniti.
Luoghi dove il pensiero si disface,
ritrovando sentieri smarriti.
Il vento porta profumi salmastri,
carezze leggere sul viso stanco.
Marano accoglie con modi illustri,
chi cerca riposo sul suo banco.
Le tradizioni culinarie son tesoro,
piatti di mare e vini pregiati.
Ogni pasto è un convivio d’oro,
dove i sensi son deliziati.
Le feste popolari riempion le strade,
musiche e danze fino all’aurora.
Marano vive nelle sue contrade,
celebrando la vita che innamora.
I giovani apprendono dai saggi,
mestieri antichi e storie passate.
Un filo invisibile lega i viaggi,
di generazioni mai separate.
Le scuole risuonano di voci vive,
semi di futuro in terra fertile.
In queste aule il domani si scrive,
con speranze e sogni gentili.
Marano, perla della laguna,
tra storia, arte e natura unita.
Custode di memorie, fortuna,
nel cuore di chi parte sei vita.
Così nel vento il tuo nome risuona,
tra onde e stelle brilla il tuo destino.
Un luogo che ristora chi perdona,
i passi duri di un cammino marino.
A PALMANOVA
Nel piano friulano sorge altera,
Palmanova, città dalla forma rara.
Stella a nove punte, forte e fiera,
custode di una storia che non scompare.
Fondata dai Veneziani in armi,
nel millecinquecentonovantatré,
per difendere i confini e gli allarmi,
contro l’ombra turca che incombeva.
Le sue mura, esempio di virtù,
racchiudono geometrie perfette.
Ogni strada converge al centro in su,
dove Piazza Grande il cuore riflette.
Tre porte solenni danno accesso,
Aquileia, Udine e Cividale.
Attraverso esse il mondo è connesso,
alla città dal disegno astrale.
Bastioni imponenti la circondano,
nove punte a guardia del suo cuore.
Fossati e rivellini la difendono,
opera d’ingegneria e di valore.
Napoleone vi pose lo sguardo,
aggiungendo una cerchia al fortilizio.
Sotto il suo dominio ebbe riguardo,
rafforzando ancor più l’edificio.
Nel duemiladiciassette l’UNESCO,
riconobbe il suo valore eterno.
Patrimonio mondiale, fresco fresco,
testimonianza di un passato moderno.
Ogni anno rievocazioni storiche,
riportano in vita antichi eventi.
Figuranti in costumi pittoreschi,
animano le vie tra gli accenti.
Il Museo Storico racconta,
le vicende della fortezza.
Armi, mappe e documenti canta,
la vita militare con finezza.
Passeggiando lungo i suoi baluardi,
si respira l’eco del passato.
Ogni pietra narra di sguardi,
di soldati nel tempo distillato.
La cattedrale in Piazza Grande sorge,
dedicata al Santissimo Redentore.
La sua facciata semplice emerge,
testimone di fede e di valore.
Le caserme, ora spazi culturali,
ospitano mostre ed eventi d’arte.
Luoghi un tempo destinati ai militari,
divenuti centri di vita in ogni parte.
Il mercato anima le sue piazze,
colori e suoni si mescolano lieti.
Tradizione che il tempo non sbiadisce,
incontri e scambi tra sorrisi e segreti.
Palmanova, esempio di utopia,
città ideale del Rinascimento.
Il suo impianto urbanistico armonia,
tra funzione e bellezza in un momento.
Le sue notti stellate rispecchiano,
la forma stessa della sua essenza.
Luci che nel buio si intrecciano,
creando un’atmosfera d’incandescenza.
Ogni angolo svela una sorpresa,
archi, portici e dettagli nascosti.
Palmanova, città che ha l’impresa,
di stupire sempre i suoi ospiti.
Le sue mura abbracciano storie,
di popoli, guerre e paci firmate.
Ogni epoca ha lasciato memorie,
incise nelle sue vie affollate.
Palmanova, gioiello del Friuli,
custode di un’eredità preziosa.
La tua stella brilla tra i lustri,
guida luminosa e virtuosa.
Chi ti visita resta incantato,
dalla tua simmetria senza tempo.
Palmanova, nel cuore hai lasciato,
l’impronta di un sogno e di un esempio.
A SACILE
Sul placido Livenza s’adagia Sacile,
riflessi d’acque limpide e cristalline.
Giardino della Serenissima, gentile,
tra ponti e palazzi dalle forme divine.
Piazza del Popolo, cuore pulsante,
con logge antiche e storiche dimore.
Mercati e feste animano l’istante,
tradizioni che il tempo non scolora.
La chiesa di San Nicolò si erge fiera,
custode di fede e arte sopraffina.
Affreschi e marmi narrano la storia vera,
di genti devote alla luce divina.
Palazzi veneziani ornano le rive,
testimoni di un’epoca fiorente.
Architetture che il passato scrive,
in ogni pietra, memoria presente.
Il ponte della Vittoria si distende,
collega sponde di storie intrecciate.
Sotto, il fiume lento si protende,
specchio di vite e acque incantate.
Tra calli e corti il passo si fa lieve,
scoprendo angoli di rara bellezza.
Ogni scorcio un dipinto che si beve,
con gli occhi colmi di dolcezza.
La natura abbraccia il borgo amato,
con verdi parchi e alberi secolari.
Luoghi di pace, dove il cuor beato,
trova ristoro in sogni familiari.
Eventi e sagre rallegrano le strade,
musica e canti si diffondon lieti.
Sacile vive nelle sue contrade,
celebrando la vita con suoi pregi.
Le acque del Livenza raccontano,
storie di barche e commerci lontani.
Flussi di vita che ancora incantano,
legando il presente ai giorni andati.
Sacile, perla del Friuli amato,
custode di tesori e tradizioni.
Nel tuo abbraccio il viaggiatore è grato,
di scoprir le tue dolci emozioni.
A VENZONE
Nel cuore del Friuli, tra monti e piani,
sorge Venzone, borgo medievale.
Le mura antiche, testimoni umani,
racchiudono storie di vita reale.
Ma il sesto giorno del maggio funesto,
del settantasei, la terra tremò.
Venzone cadde, il suo volto modesto,
in polvere e macerie si mutò.
Il Duomo crollò sotto il cielo scuro,
le case piegate dal forte dolore.
Ma il popolo unito, dal cuore puro,
giurò di ridare al borgo il suo onore.
“Com’era, dov’era” fu il giuramento,
ricostruire pietra su pietra ognuna.
Con forza e amore, senza spavento,
Venzone rinacque sotto la luna.
Oggi risplende il borgo rinato,
tra le sue vie l’eco del passato.
Le mummie antiche, il Duomo adorato,
custodi di un tempo mai dimenticato.
Museo “Tiere Motus” racconta,
la storia di un sisma e della sua gente.
La memoria vive, nulla si smonta,
Venzone risorge, fiera e presente.
Le mura abbracciano il visitatore,
sussurrando storie di resilienza.
Ogni pietra parla del gran valore,
di chi ha creduto nella speranza.
Venzone, simbolo di rinascita,
esempio fulgido di volontà.
Nel tuo cammino, la luce si affaccia,
guidando i passi dell’umanità.
A MANIAGO
Nel cuore del Friuli, tra verdi piani,
sorge Maniago, terra di mestieri.
Lame affilate forgiano le mani,
arte antica di fabbri e pensieri.
Dal Còlvera le acque incanalate,
nel millequattrocento, con ardire,
mossero magli e ruote ben temprate,
dando alle forge il loro infaticar.
Nicolò, nobile dal saggio intento,
vide nel fiume forza da domare.
Così iniziò il fabbrile movimento,
che Maniago ancor oggi sa onorare.
Coltelli e spade, forbici affinate,
uscivan dalle botteghe operose.
Strumenti d’arte, opere ricercate,
che il mondo ammira, preziose cose.
Il Museo dell’Arte Fabbrile
custodisce memorie e tradizioni.
Macchinari antichi, storie gentili,
raccontano di antiche passioni.
Piazza Italia, cuore del paese,
con la fontana al centro a rinfrescare.
Intorno, voci, passi e mille attese,
la vita scorre, pronta a raccontare.
Le Dolomiti, sfondo maestoso,
abbraccian la città con lor vette.
Natura e arte in connubio armonioso,
rendon Maniago un luogo da scoprire.
Feste e sagre animano le vie,
celebrando mestieri e cultura.
La gente accoglie con calde armonie,
chi vuol scoprire tanta bravura.
Maniago, perla del Friuli amato,
nel tuo passato vive il tuo presente.
Le tue lame, nel tempo rinomato,
son simbolo di un’arte persistente.
A FORNI DI SOPRA
Nel cuor del Friuli, tra monti e valli,
sorge Forni di Sopra, antico borgo.
Le Dolomiti, maestose spalle,
custodiscono storie d’un tempo sordo.
Tra Cella, Vico e Andrazza si snoda,
tracce romane nel suol raccontano.
Vicoli e case, memoria che loda,
radici profonde che qui si cantano.
Il Tagliamento, fiume cristallino,
serpeggia tra boschi e prati in fiore.
Specchio d’azzurro, riflesso divino,
accompagna il viandante sognatore.
Nel Parco delle Dolomiti amato,
flora e fauna danzano in armonia.
Sentieri infiniti, verde incantato,
invitan l’uomo a dolce compagnia.
D’inverno, il manto bianco si distende,
sulle piste del Varmost si scivola.
Sciatori leggiadri, il cuor s’accende,
tra neve e cielo, l’anima palpita.
L’estate offre percorsi e cammini,
tra boschi ombrosi e cime dorate.
Mountain bike e passi sopra i crini,
di monti fieri e rocce scolpite.
Le case antiche, pietra e legno unite,
raccontano storie di mani esperte.
Architetture semplici, pulite,
testimonianze di vite offerte.
Feste e sagre animano le piazze,
tradizioni che il tempo ha conservato.
Genti ospitali, sorrisi e pazze
danze che rendon l’ospite beato.
Forni di Sopra, perla nascosta,
nel cuore delle Alpi risplendi.
Chi ti visita, l’anima riposta,
nel tuo abbraccio eterno s’apprende.
A CERVIGNANO
Nel cuore del Friuli, tra fiumi e pianure,
Cervignano sorge, ricca di storie antiche.
Le sue origini affondano nelle radici,
tra leggende e miti, tradizioni uniche.
Lungo la via Annia e la Julia Augusta,
strade romane che il territorio attraversano.
Nel 181 a.C., Aquileia fu fondata,
e Cervignano nel suo abbraccio accolse.
Nel Medioevo, sotto il dominio longobardo,
la zona fiorì con cultura e splendore.
Il culto di San Michele, a loro caro,
testimonia il loro lascito d’amore.
Nel ‘700, Giovanni Biavi emerse,
poeta e storico di grande valore.
Membro dell’Arcadia, la sua penna accese,
creando versi che il tempo non cancella.
Oggi, il Duomo dedicato a Maria,
costruito nel ’65 con devozione.
Villa Chiozza racconta storia e magia,
residenza di scienziato e passione.
Il Castello di Strassoldo, imponente,
con due fortezze e chiesa dedicata.
Un patrimonio ricco e affascinante,
che la storia di Cervignano ha narrata.
Le acque del fiume Tagliamento scorrono,
donando vita a terre fertili e verdi.
Le tradizioni agricole qui non muoiono,
e il territorio conserva antichi ricordi.
Le piazze si animano con feste e colori,
celebrando culture e tradizioni vive.
Cervignano, città di mille amori,
dove il passato al presente si unisce.
Nel cuore del Friuli, tra storia e bellezza,
Cervignano brilla come stella nel cielo.
Un viaggio nel tempo, tra cultura e ricchezza,
che affascina il viandante e il pellegrino
A TARCENTO
Nel cuore del Friuli, tra valli e monti,
sorge Tarcento, perla di storie e canti.
Dai tempi preistorici, segni e racconti,
popoli e culture, intrecciati incanti.
Nel XII secolo, il nome si affaccia,
documenti parlano di donazioni.
Ma antiche tracce, più indietro si slaccia,
romani e celtici, radici e tradizioni.
Il Torre scorre, fiume di vita e pace,
lungo le sue rive, passeggiate serene.
Ville in stile liberty, fascino che abbraccia,
testimoni di un passato che ancora ci viene.
Il “Cjscjelat” sul colle di Coia,
ricorda il medievale castello in rovina.
A Loneriacco, il borgo di Villafredda,
sussurra storie antiche, memoria che cammina.
Il “Troi de Memorie” a Sammardenchia,
sentiero che narra, in ceramica e colori.
Oltre cento bassorilievi, storia che s’insegna,
tradizioni e vita, nei dettagli e nei fiori.
Le cascate di Crosis, bellezza naturale,
acque che danzano tra rocce e verdi piani.
Il forte di Monte Bernadia, imponente e leale,
custode di memorie, di battaglie lontane.
Il falò dell’Epifania, fiamme che scoppiettano,
tradizione che unisce, cuori e comunità.
Eventi che richiamano, turisti e volti lieti,
Tarcento accoglie, con calda umanità.
La “Perla del Friuli”, così è soprannominata,
per la sua bellezza, storia e cultura.
Tarcento incanta, anima appassionata,
un viaggio nel tempo, tra natura e architettura.
A MORUZZO
Nel cuore del Friuli, tra verdi colline,
sorge Moruzzo, borgo di antica origine.
Le sue radici affondano nel tempo che fu,
testimoni di storie che il vento sussurrò.
Nel milleottocentotrentatré,
tre fratelli longobardi donarono terre.
La Vigna di Grobanges, oggi Santa Margherita,
un legame profondo che il tempo non ha scalfito.
Quattro castelli nel Medioevo sorgevano,
ognuno con storie e leggende da raccontare.
Il Castello di Gruagno, testimone silenzioso,
di epoche passate, di un passato glorioso.
La chiesa di Santa Margherita del Gruagno,
con la sua pieve romanica incantata.
Nel 1983, il millenario celebrato,
un secolo di storia che il tempo ha rispettato.
Il Tiglio di Moruzzo, albero venerato,
tra i più antichi d’Italia, nel tempo radicato.
Cinque secoli e più, sotto il cielo stellato,
un simbolo di forza, nel cuore radicato.
La chiesa di San Tommaso d’Aquino,
già nel XIII secolo, luogo divino.
La parrocchiale di San Giorgio,
con affreschi che narrano storie d’oro.
Villa Antonini Manin, con torri laterali,
un gioiello architettonico tra le sue valli.
Il parco che la circonda, verde e rigoglioso,
un angolo di pace, un rifugio prezioso.
Moruzzo, terra di tradizioni e cultura,
dove il passato e il presente si fondono in un’armonia.
Un viaggio nel tempo, tra storia e natura,
un borgo che incanta, che rapisce e che dura.
Ad ARTEGNA
Nel cuore del Friuli, tra valli e monti,
sorge Artegna, borgo di antica origine.
Il suo nome, forse, da “Ara Thenae” deriva,
“Altare di Diana” che il tempo conserva.
Sul colle di San Martino, sorge il castello,
testimone di storie e leggende passate.
Nel Medioevo, torre e fortilizio,
oggi resti che narrano un antico sacrificio.
La chiesa di Santo Stefano in Clama,
ai piedi del monte Faet si erge fiera.
Nel 1281, la sua dedica si afferma,
un luogo di culto che il tempo non altera.
Il terremoto del ’76 la scosse forte,
ma Artegna risorse con nuova vita.
Le cicatrici del passato sono porte,
verso un futuro di speranza e di vita.
Il colle di San Martino, antico e saggio,
svela tracce romane nel suo paesaggio.
Postazione di vedetta, con vista sul piano,
sul Norico antico, legame lontano.
Oggi Artegna, con orgoglio e passione,
conserva la memoria di ogni generazione.
Un borgo che unisce storia e modernità,
nel cuore del Friuli, terra di comunità.