Gv 6,41-51

Tuffo nel mistero

«Ora basta, Signore!». Elia, il più grande dei profeti, vuole morire. Lui, così grande che Gesù stesso gli fu paragonato, è talmente scoraggiato, così disperato da dire: ora basta Signore, prenditi la mia vita.

La parabola di Elia è quella di ogni cristiano. Quante volte gli eventi ci fanno dire “non ce la faccio più, non serve a niente essere buoni, non cambia nulla, non vale la pena vivere il vangelo”. Troppo cammino, troppo deserto, troppo dolore.

Ma Dio interviene. Non per offrire ad Elia un cavallo bardato per divorare le distanze desolate del deserto; non per togliere fatica, ma solo un po’ di pane, un po’ d’acqua. Il quasi niente. Lo stile di Dio, che interviene con la forza delle cose quotidiane, con l’umiltà e la povertà delle cose essenziali; il pane, l’acqua, l’aria, la luce, un amico.

La nervatura del vangelo di oggi è il verbo mangiare. Mentre le religioni orientali si concentrano sul respiro, il cristianesimo ha come gesto centrale il mangiare: Dio che entra in me come Pane buono. Dio vicino a me, Dio sotto la mia pelle, che si insedia al centro della mia povertà, come un re sul trono.

I giudei si misero a mormorare contro Gesù. Ma come? Pretendi di essere il pane piovuto dal cielo? Ma sei venuto come tutti da tua madre e da tuo padre. Tu vuoi cambiarci la vita con il tuo pane? No, il Dio onnipotente dovrebbe fare ben altro: miracoli potenti, definitivi, evidenti, solari.

Ma Dio non fa spettacolo. Ed è la stessa critica che mormoriamo anche noi: che pretese ha su di me quest’uomo di duemila anni fa? Lui pensa davvero di farci vivere meglio?

Non mormorate tra voi! Non sprecare parole a discutere di Dio, puoi fare di meglio: tuffati nel suo mistero, nel suo segreto: è cibo che sazia la tua fame di vita e di felicità, ed esiste. Cerca pane vivente per la tua fame, per cambiare la qualità della vita, per darle un colore divino. Non accontentarti di altri bocconi, tu sei figlio di Dio, figlio di Re. Prepàrati allo stupore dell’inedito: un rapporto d’amore al centro del tuo essere.

Mangiare la carne e il sangue di Cristo, non si riduce però al rito della Messa. Cristo non sta solo sull’altare, del suo Spirito è piena la terra! Mangiare il pane di Dio è nutrirsi di Vangelo, respirare aria pulita, affacciarsi al sole, continuamente.

Domandiamoci allora: di cosa nutro anima e pensieri? Sto mangiando generosità, bellezza, profondità? Oppure mi nutro di intolleranza, miopia dello spirito, insensatezza del vivere, paure?

Se accogliamo pensieri degradati, questi ci fanno come loro. Se accogliamo pensieri di Vangelo e di bellezza, essi faranno come il pane fa nel nostro corpo: si nasconderanno per sparire nell’intimo, senza fare rumore. Ma ci trasformeranno in custodi di tenerezza, di gioia. E saremo pane umano per la fame del mondo.

 

XIX B Giovanni 6,41-51

Io sono il pane disceso dal cielo. In una sola frase Gesù raccoglie e intreccia tre immagini: pane, cielo, discendere. Potenza della scrittura creativa dei vangeli, e prima ancora del linguaggio pieno di immaginazione e di sfondamenti proprio del poeta di Nazaret.

Io sono pane, ma non come lo è un pugno di farina e di acqua passata per il fuoco: pane perché il mio lavoro è nutrire il fondo della vita.

Io sono cielo che discende sulla terra. Terra con cielo è giardino. Senza, è polvere che non ha respiro.

Nella sinagoga si alza la contestazione: ma quale pane e quale cielo! Sappiamo tutto di te e della tua famiglia…

E qui è la chiave del racconto. Gesù ha in sé un portato che è oltre. Qualcosa che vale per tutta la realtà: c’è una parte di cielo che compone la terra; un oltre che abita le cose; il nostro segreto non è in noi, è oltre noi.

Come il pane, che ha in sé la polvere del suolo e l’oro del sole, le mani del seminatore e quelle del mietitore; ha patito il duro della macina e del fuoco; è germogliato chiamato dalla spiga futura; si è nutrito di luce e ora può nutrire. Come il pane, Gesù è figlio della terra e figlio del cielo.

E aggiunge una frase bellissima: nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato. Ecco una nuova immagine di Dio: non il giudice, ma la forza di attrazione del cosmo, la forza di gravità celeste, la forza di coesione degli atomi e dei pianeti, la forza di ogni comunione.

Dentro ciascuno di noi è al lavoro una forza instancabile di attrazione divina, che chiama ad abbracciare bellezza e tenerezza. E non diventeremo mai veri, mai noi stessi, mai contenti, se non ci incamminiamo sulle strade dell’incanto per tutto ciò che chiama all’abbraccio.

Gesù dice: lasciate che il Padre attiri, che sia la comunione a parlare nel profondo, e non il male o la paura.

Allora sì che “tutti saranno istruiti da Dio”, istruiti con gesti e parole e sogni che ci attraggono e trasmettono benessere, perché sono limpidi e sani, sanno di pane e di vita.

Il pane che io darò è la mia carne data per la vita del mondo. Sempre la parola ‘vita’, martellante certezza di Gesù di avere qualcosa di unico da dare affinché possiamo vivere meglio.

Ma non dice il mio “corpo”, bensì la mia “carne”. Nel vangelo di Giovanni carne indica l’umanità originaria e fragile che è la nostra: il verbo si è fatto carne.

Vi do questa mia umanità, prendetela come misura alta e luminosa del vivere. Imparate da me, fermate l’emorragia di umanità della storia. Siate umani, perché più si è umani più si manifesta il Verbo, il germe divino che è nelle persone.

Se ci nutriamo così di vangelo e di umanità, diventeremo una bella notizia per il mondo.