XXX DOMENICA ANNO C

 

Benvenuti all’incontro con il Signore, che accoglie ciascuno e rimette in cammino ogni vita.

Questa è la giornata del pubblicano. È anche la giornata missionaria e questo ci apre alla dimensione universale, alla missione di ciascuno: fiorire là dove siamo stati seminati, perchè Dio non si dimostra, si mostra. Con la nostra vita fiorita.

 

Omelia

A dar retta a questa parabola, all’ingresso di cappelle, cattedrali, luoghi di preghiera andrebbe affisso un cartello: Attenzione. Pericolo!

Pericolo di uscire dal tempio con un peccato in più. Come il fariseo. Di peccare nel mentre stesso che crediamo di stare pregando Dio. Di usare parole che sono come bestemmie.

Come il fariseo, che ritto in piedi, prega – dice il vangelo- “come rivolto a se stesso”: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, impuri…».

Inizia con le parole giuste, l’avvio è biblico: metà dei Salmi sono di lode e ringraziamento. Ma mentre a parole si rivolge a Dio, il fariseo in realtà si rivolge a se stesso; Dio è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la propria soddisfazione.

È affascinato da una parola, due lettere magiche, stregate, che non si stanca di ripetere: io, io, io. Tutti i verbi sono in prima persona: io ringrazio, io non sono, io digiuno, io pago. Ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu.

Pregare è dare del tu a Dio.

Nel Padre nostro mai si dice «io», mai si usa l’aggettivo «mio», ma sempre «tu, tuo» o «noi, nostro». E la mia preghiera? Prego come Gesù o come il fariseo, quando continuo a ripetere: «Io e i miei problemi, io e i miei progetti; Dio, dammi, fammi, concedimi»?

Un compito per casa: provare qualche volta almeno, a pregare senza mai dire «io», ma solo «tu» e «noi»: parla tu, Signore, e donaci pane, perdono e il coraggio di lottare insieme contro il male.

“Padre, modestia a parte, io sono onesto, io non ho fatto del male a nessuno, non ho ammazzato, mentre gli altri. Non saprei di che cosa confessarmi, mi dica lei…”

Quante volte mi è capitato… e questi possono essere anche gli osservanti del primo venerdì del mese, ma nessuno di essi uscirà giustificato dal tempio. Possono osservare tutte le regole formali della religione, e recitare coroncine devote, “ma guai a quelli che pagano la decima della menta, dell’aneto e del cumino, e poi trasgrediscono i punti fondamentali della legge: la giustizia, la compassione, la fedeltà” (Mt 23,23).

Perché poi è facile pagare le decime, difficile è dire quanto veramente si possiede, e come si è guadagnato tanto.

Il fariseo sostiene: “Io non sono come gli altri”: e il mondo gli appare come un covo di ladri, dediti alla rapina, al sesso, all’imbroglio.

Una slogatura dell’anima: non si può pregare e disprezzare; non si può cantare il gregoriano in chiesa e fuori essere spietati. Non si può lodare Dio e infierire sui suoi figli. Questa è la paralisi dell’anima.

Come tutti i fondamentalisti di ogni religione, il fariseo è un infelice. Ha una lettura drogata della realtà: l’immoralità dilaga, la disonestà trionfa. Sta male al mondo, perché non ha più fiducia, non ha fede. Infatti acquisire fede è acquisire fiducia nella bellezza del vivere. Acquisire la possibilità di una vita buona, bella e felice, come era quella di Gesù.

In questa parabola di battaglia, Gesù ha l’audacia di denunciare che pregare è pericoloso, che la preghiera può separarci da Dio, può renderci “atei”, mettendoci in relazione con un Dio che non esiste, che è solo una proiezione di noi stessi. Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare, perché poi ci si sbaglia su tutto, sull’uomo, su noi stessi, sulla storia, sul mondo (Turoldo).

Per il fariseo Dio non deve fare niente, solo registrare, prendere nota e approvare.

Invece il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, occhi bassi, ci insegna a non sbagliarci su Dio e su noi: fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

C’è una piccola parola che cambia tutto nella preghiera del pubblicano e la fa vera: «tu». Parola cardine del mondo: «Signore, tu abbi pietà».

La parabola ci mostra che la relazione con Dio non segue logiche diverse dalle relazioni in una famiglia. Le regole sono semplici e valgono per tutti. Sono le regole della vita. Se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con i figli, non con Dio.

Le relazioni familiari vissute bene parlano di Dio, sono la scuola, l’università della preghiera.

Mai separare il Dio della religione dal Dio della vita.

Il nostro vivere e il nostro pregare avanzano sulla stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di un tu, un povero, un amore, un sogno o un Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero.

E mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che egli fa (io prego, pago, digiuno…), il pubblicano la costruisce attorno a quello che Dio fa per lui (tu hai pietà di me) e si crea il contatto:

un io e un tu entrano in relazione, qualcosa va e viene tra il fondo del cuore e il fondo del cielo. Quella preghiera è come un gemito che dice: «Sono un ladro, è vero, ma così non sto bene, così non sono contento. Vorrei vivere il altro modo, non ce la faccio, ma tu perdona e aiuta».

La grande differenza tra le due preghiere: il fariseo non vuole cambiare, non ne ha bisogno, lui è a posto. Il pubblicano non è contento, non gli basta quella vita, e vorrebbe e spera di riuscire a cambiare, magari domani, magari dopo.

E qui ritorna chiara la differenza tra la vera fede e la semplice religione: vera fede è quando fai te a misura di Dio; semplice religione è quando fai Dio a tua misura (Turoldo).

Il fariseo non ha nessuna intenzione di cambiare sulla misura alta di Dio, al contrario lo rimpicciolisce, lo immiserisce sulla misura delle sue azioni, delle sue decime. È davvero ‘ateo’, un senza Dio, perché non ne ha in fondo alcun bisogno.

Altro non fa che informarlo circa i propri meriti: Dio è lo specchio in cui egli, come un perenne Narciso, si ammira. Ma Narciso è più lontano da Dio di Caino. Caino espia e dialoga con Dio (Dio addirittura protegge la sua vita) e forse arriverà a cambiare il cuore a prendersi cura del fratello, ma Narciso non si pentirà mai. È inconvertibile perché vede solo se stesso, adora il proprio cuore, e non può entrare mai in relazione con nessuno.

Il pubblicano tornò a casa perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà),

ma perché è un cercatore di un tesoro che non ha,

ha il senso di una strada da percorrere,

e si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – al venire di Dio,

che entra in lui, con la misericordia,

questa straordinaria debolezza di Dio

che è la sua unica onnipotenza,

la sola forza che ripartorisce in noi la vita.

p. Ermes Ronchi