In certe parti della Sacra Scrittura ci sono delle espressioni che incoraggiano a ricordare i benefici del passato per lodare Dio…
Nella Sacra Scrittura ci sono molte espressioni che incoraggiano a ricordare i benefici del passato come un modo per lodare e ringraziare Dio. Questi passi sottolineano l’importanza della memoria storica della salvezza e degli atti meravigliosi compiuti da Dio in favore del Suo popolo. Ecco alcuni esempi:
  1. Deuteronomio 8:2: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se avresti osservato o no i suoi comandi.”
    • Questo versetto invita il popolo d’Israele a ricordare il lungo viaggio nel deserto, durante il quale Dio li ha guidati e provati, affinché possano apprezzare la fedeltà di Dio e lodarlo.
  2. Salmo 77:11-12: “Ricorderò le opere del Signore, sì, ricorderò le tue meraviglie di un tempo. Mediterò su tutte le tue azioni e ripenserò alle tue opere.”
    • Qui il salmista si impegna a ricordare e meditare sulle grandi opere di Dio nel passato, riconoscendole come fonte di speranza e lode.
  3. Salmo 103:2: “Benedici, anima mia, il Signore e non dimenticare tutti i suoi benefici.”
    • Il salmista esorta la sua anima a benedire Dio e a non dimenticare i Suoi benefici, sottolineando l’importanza di riconoscere e ricordare le benedizioni ricevute.
  4. Deuteronomio 4:9: “Solo bada a te stesso e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto e dal fartele uscire dal cuore per tutti i giorni della tua vita; anzi, insegnale ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli.”
    • Un invito a non dimenticare le opere di Dio e a trasmetterle alle future generazioni, affinché continuino a lodarlo.
  5. Salmo 105:5: “Ricordate le meraviglie che egli ha compiuto, i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca.”
    • Un comando a ricordare i prodigi di Dio, che serve come base per lodarlo e rendergli grazie.
  6. Esodo 13:3: “Mosè disse al popolo: Ricordate questo giorno, nel quale siete usciti dall’Egitto, dalla condizione servile, perché con mano potente il Signore vi ha fatto uscire di là.”
    • Mosè ricorda agli israeliti di tenere a mente il giorno della loro liberazione dall’Egitto, per lodare Dio per la Sua potenza salvifica.
  7. Isaia 46:9: “Ricordatevi delle cose passate di un tempo, perché io sono Dio e non c’è nessun altro; sono Dio e nessuno è simile a me.”
    • Qui Isaia invita il popolo a ricordare le grandi opere di Dio nel passato, come segno della Sua unicità e potenza.
  8. Lamentazioni 3:21-23: “Questo voglio richiamare alla mia mente, ciò che mi dà speranza: le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue compassioni; esse sono rinnovate ogni mattina, grande è la tua fedeltà.”
    • Le Lamentazioni ricordano la bontà e la compassione di Dio, rinnovata ogni giorno, come motivo per lodarlo.
Questi passi dimostrano quanto sia fondamentale nella fede biblica il ricordo delle azioni salvifiche di Dio. Ricordare il passato diventa un modo per alimentare la fiducia e la speranza nel presente e nel futuro, oltre che un’occasione per lodare Dio per la Sua fedeltà e bontà.

 

 

(Luca Alberti è uno pseudonimo. La storia è vera ed i personaggi sono reali)

PRIMA INFANZIA DI LUCA ALBERTI

Alla fine degli anni ’40, nacque a Udine un bambino di nome Luca, il quale ebbe un inizio di vita piuttosto difficile. Perse subito il padre dopo la nascita. La madre, una donna coraggiosa e determinata, si trovò sola e dovette fare una scelta dolorosa: iscrivere il piccolo Luca in un collegio per poter lavorare e mantenersi. Ogni fine settimana, con il cuore pieno di amore e tristezza, andava a trovarlo.

A tre anni, Luca entrò nell’asilo dell’Istituto delle Ancelle della Carità, gestito da suor Antonietta. I suoi ricordi di quel periodo sono vaghi, ma ricchi di immagini dolci: il grande cedro che svettava nel cortile, con le tortore che gemevano sui suoi rami; la chiesetta dedicata a San Giuseppe, dove le sue preghiere infantili si perdevano tra le navate; e i giochi semplici con i rollini delle macchine fotografiche, che per lui erano come tesori preziosi.

A sei anni, Luca venne trasferito in un nuovo reparto per i più grandicelli, gestito da suor Vittoria, una bresciana di carattere forte e severo, ma con un cuore materno nascosto sotto la veste religiosa. Era incredibile come quella suora riuscisse a gestire un centinaio di maschietti vivaci, molti dei quali orfani come lui. La vita in collegio era semplice e sobria, ma mai noiosa.

Il “Prato” era il loro paradiso: un piccolo parco verdeggiante pieno di cedri, olmi e magnolie. C’era persino un giuggiolo che in autunno regalava frutti dolcissimi, che i bambini raccoglievano con entusiasmo. Qui Luca e i suoi compagni vivevano mille avventure: si arrampicavano sugli alberi come piccoli Tarzan, costruivano fortini di pietra che per loro erano vere fortezze, e giocavano a fare gli indiani sotto i rami dei cedri, sognando le storie viste nei film. Le guerre tra bande erano epiche: pigne che volavano come proiettili, fortini rinforzati con pietre, e le assistenti che urlavano disperate cercando di riportare la calma.

Non lontano, il cortile chiamato “Sotto le piante” era un altro dei loro luoghi preferiti. Gli enormi platani che ombreggiavano il cortile erano testimoni di innumerevoli mercatini improvvisati. Con foglie, pigne ed erba che diventavano merce di scambio, Luca, con il suo spirito organizzativo, si autoproclamava “sindaco”. Con piccoli bigliettini creava una moneta tutta sua, con cui mercanteggiavano felicemente. E quando non organizzava mercati, Luca era un perfetto conduttore di quiz, con domande prese dai suoi amati libri di scuola.

Suor Vittoria, con il suo piglio autoritario, non mancava mai di far rispettare la disciplina con bacchetta alla mano e sguardi severi. Ma, stranamente, nutriva un affetto speciale per Luca. Lo chiamava spesso a darle una mano in refettorio e sceglieva per lui vestiti migliori. Era evidente che Luca fosse uno dei suoi favoriti, anche se lui rimaneva spesso turbato dal trattamento riservato ai suoi compagni.

Ogni giorno, in fila e con la stessa uniforme modesta, Luca e i suoi compagni andavano alla scuola elementare esterna. Il loro rifugio, però, rimaneva il parco del collegio, dove potevano sfogare la loro energia repressa. Le visite dei parenti erano rare, e molti bambini non ne ricevevano affatto. Luca era tra i fortunati, e ogni visita della madre era per lui un momento di gioia pura.

Ma un giorno, come un raggio di sole in una giornata nuvolosa, arrivò suor Eugenia, una giovane suora dal viso angelico e dal cuore grande. Era subito diventata il loro punto di riferimento, la madre che molti di loro non avevano mai avuto. Con il suo sorriso dolce e la sua infinita pazienza, conquistò il cuore di tutti, compreso quello di Luca. Le sue storie bibliche, i racconti di aneddoti edificanti, restituivano ai bambini la speranza e la gioia di vivere.

Ogni estate, Luca si preparava con entusiasmo per un mese intero nella colonia estiva di Villa Ostende a Grado. Era un periodo che aspettava con impazienza, un’oasi di spensieratezza lontano dalle mura del collegio. Le giornate erano un susseguirsi di avventure sulla spiaggia, bagni rinfrescanti nelle acque salate del mare, e passeggiate lungo le vie del centro. La cucina, diversa dal solito, era un ulteriore piacere che arricchiva la sua esperienza estiva.

Tra le amicizie che coltivava durante quelle estati, una in particolare gli era cara: Giuseppe Filipig. Giuseppe era un bambino curioso e attento, sempre pronto a osservare ciò che accadeva intorno a loro e a condividere con Luca le sue riflessioni. Insieme, i due amici discutevano dei piccoli e grandi eventi che punteggiavano le loro giornate, rendendo quei momenti ancora più significativi.

C’era poi Francesco, l’uomo alto e robusto che svolgeva il doppio ruolo di bagnino e manutentore della colonia. Con la sua fisarmonica, Francesco animava le serate, regalando a tutti i bambini un po’ di allegria con le sue melodie coinvolgenti. La sua musica era una colonna sonora perfetta per le serate estive, e Luca adorava lasciarsi trasportare dalle note che riempivano l’aria.

Ma uno dei ricordi più vividi di Pier Angelo era legato a suor Eugenia, la “suora bella”, come la chiamavano tutti. Ogni tanto, mentre giocava sulla spiaggia, Luca notava suor Eugenia che si ritirava in un angolo tranquillo, rivolta verso l’immensità del mare. La sua figura, avvolta nella contemplazione, emanava una serenità che affascinava il bambino. Quella scena, intrisa di una sorta di misticismo, lasciò un’impronta profonda nel cuore di Luca, avviandolo, senza che lui ne fosse ancora del tutto consapevole, su un percorso di riflessione filosofica e teologica che avrebbe influenzato tutta la sua vita.

Col tempo, Luca iniziò ad avvicinarsi a suor Eugenia durante questi momenti di contemplazione. Con la curiosità tipica dei bambini, le poneva domande sull’immensità del mare e sui misteri della vita. Suor Eugenia, sempre assorta ma mai distaccata, rispondeva con garbo e umiltà, condividendo con lui il suo stesso stupore per il mondo.

Luca Alberti sentiva crescere dentro di sé un affetto profondo per quella suora che, con la sua presenza dolce e rassicurante, lo aiutava a esplorare i grandi temi dell’esistenza. Anche se ancora bambino, intuiva che suor Eugenia era una persona speciale, una guida ricca di saggezza e spiritualità che lo avrebbe accompagnato nei suoi anni a venire.

Gli anni passarono, e suor Eugenia venne trasferita in un asilo di Chioggia, per poi finire in una struttura di accoglienza tra le Alpi Carniche. Lì, tra le montagne, era amata e rispettata per il suo lavoro instancabile e il suo spirito cristiano. Per Luca, suor Eugenia rimane un esempio vivente di fede e amore, un faro che continua a illuminare il suo cammino nella vita.

E così, la prima infanzia di Luca è una storia di crescita, di amore, di sofferenza e di speranza. Una storia che ci ricorda come, anche nelle difficoltà, possiamo trovare persone speciali che ci guidano e ci aiutano a scoprire il vero significato della vita.

Suor Eugenia: La Madre Silenziosa

Nell’estate dorata di Grado, mentre i bambini si rincorrevano sulla spiaggia e le onde sussurravano segreti al vento, il giovane Luca Alberti osservava una figura solitaria e assorta sul bordo del mare. Era suor Eugenia Pizzutti, una suora che, con il volto rivolto all’infinito blu, sembrava dialogare con l’eterno. Quell’immagine, impressa a fuoco nell’animo sensibile di Luca, avrebbe dato inizio al suo percorso filosofico e teologico, un cammino di ricerca che si nutriva di quelle stesse onde che vedeva infrangersi ai piedi della suora.

Gli anni passarono, e suor Eugenia, ormai anziana e debilitata, trovò riparo nell’infermeria delle Ancelle della Carità di Santo Spirito a Udine. Ma prima di quel periodo, era stata una presenza luminosa nell’oscurità del collegio IPMI, dove Luca trascorse la sua prima infanzia. In quel luogo, la disciplina era rigida e impietosa. I bambini, un centinaio, venivano trattati con una severità che non lasciava spazio ai sorrisi. Ogni giorno, in fila, con le stesse povere divise, si recavano alla scuola esterna, la Ippolito Nievo, dove venivano accolti con scherni e sguardi di disprezzo dagli altri compagni. Erano i più miseri, gli emarginati.

Ma nel grigiore di quel collegio, un giorno arrivò suor Eugenia, giovane e splendente, con un viso angelico che i bambini non potevano credere vero. La chiamavano “la suora bella”. In lei, vedevano una madre che non avevano mai conosciuto, una figura capace di alleviare le loro sofferenze con una parola dolce, un sorriso accogliente. Con pazienza infinita, suor Eugenia si dedicava a loro, ascoltando le loro paure, consolando i loro cuori afflitti. Era la luce in un mondo di ombre, il calore in un ambiente freddo e ostile.

Anche la caporeparto, nota per la sua rigidità, non poté fare a meno di essere influenzata dall’amore e dalla dolcezza di suor Eugenia. Sebbene spesso in disaccordo con lei, dovette ammorbidire il suo approccio, osservando come quella giovane suora riuscisse a trasformare la vita dei piccoli con la sola forza della gentilezza. Suor Eugenia radunava i bambini e raccontava loro storie bibliche, aneddoti pieni di speranza, cercando di restituire loro la gioia di vivere, nonostante le difficoltà che ognuno di loro portava nel cuore.

Per Luca, suor Eugenia era molto più che una semplice educatrice. Era una guida spirituale, una presenza che sapeva valorizzare ogni bambino, soprattutto quelli che, come lui, dimostravano un po’ di buona volontà. Quando Luca iniziò a frequentare le superiori al collegio Tomadini di Udine, suor Eugenia continuò a chiamarlo durante le estati, chiedendogli di aiutare a prendersi cura dei bambini nella colonia estiva di Grado. I loro dialoghi, spesso immersi nella contemplazione del mare, spaziavano tra i misteri della fede e la grandezza di Dio, riflessa in quell’orizzonte infinito che entrambi ammiravano con stupore.

Il tempo passò, e suor Eugenia fu trasferita prima in un asilo a Treviso, poi a Chioggia, e infine a Zovello, tra le Alpi Carniche. In quel piccolo paese, divenne un faro di carità e amore cristiano, amata da tutti per la sua instancabile dedizione ai più poveri, ai malati, ai soli. Per Luca, suor Eugenia è sempre stata l’incarnazione del cristianesimo vissuto, un esempio di fede silenziosa ma potente, che si manifestava attraverso azioni semplici e umili: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare…”.

Anche oggi, Luca porta nel cuore l’immagine di quella giovane suora che, in silenzio e con umiltà, ha fatto tanto bene. Ricordarla significa onorare non solo una persona, ma un modo di vivere la fede, che ha illuminato la vita di tanti, donando amore dove c’era sofferenza, speranza dove c’era disperazione. Suor Eugenia non era solo la “suora bella”, ma la madre spirituale di tanti, una presenza che continua a vivere nei cuori di chi l’ha conosciuta.

E così, la prima infanzia di Luca è una storia di crescita, di amore, di sofferenza e di speranza. Una storia che ci ricorda come, anche nelle difficoltà, possiamo trovare persone speciali che ci guidano e ci aiutano a scoprire il vero significato della vita.

BUTTRIO

Nel 1961, dopo aver concluso la quinta elementare, Luca Alberti fu trasferito al collegio Mutilatini di Buttrio per proseguire gli studi alle scuole medie. Era un cambiamento che lo riempiva di un misto di tristezza e incertezza. Il collegio, diretto da don Pietro Bortolotti, si trovava su una collina incantevole, nell’antica villa Di Toppo – Florio, un luogo che, con il tempo, sarebbe diventato una parte indimenticabile della sua vita.

All’inizio, il cambiamento pesava sul cuore di Luca, che sentiva la mancanza della sua vecchia vita. Tuttavia, la malinconia si alleviò quando incontrò Maurizio, un ragazzo che attirò subito la sua attenzione per una risata unica e contagiosa, capace di infondere sicurezza e allegria. Da quel momento, Luca e Maurizio diventarono inseparabili, cementando un’amicizia che sarebbe durata per tutta la vita.

Il collegio stesso offriva a Luca una sorta di rifugio: un parco vasto e ricco di vegetazione, dove la natura sembrava abbracciarlo ogni giorno. Gli alberi secolari, le piante rigogliose, i reperti archeologici sparsi nel parco e il placido laghetto popolato da anatre e cigni offrivano una tregua alla sua anima inquieta. Spesso, Luca si ritirava in zone appartate del parco con una piccola radiolina in mano, lasciando che le note della musica classica si fondessero con i suoi pensieri. In quei momenti, nacque il suo amore per la poesia di Leopardi, Pascoli e Carducci, poeti che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Dalla finestra dell’aula, lo sguardo di Luca si perdeva verso l’orizzonte, dove si intravedeva il romantico Castello di Morpurgo. Quel panorama, quasi magico, risvegliava in lui un senso di meraviglia e di possibilità, rendendo le giornate scolastiche meno grigie e monotone.

Con il tempo, Luca riuscì a superare la sua iniziale timidezza, diventando una figura amata sia dai compagni che dagli adulti. La sua vena umoristica e il suo talento per l’intrattenimento lo portarono a organizzare piccoli spettacoli teatrali, dove imitava animali e personaggi con una precisione che faceva ridere tutti. Era un maestro nel raccontare barzellette, e persino il cappellano don Luigi trovava irresistibile il suo francese maccheronico, che divenne presto un motivo di risate e di complicità tra loro.

Don Pietro, riconoscendo le doti di Luca, gli affidò il compito di leggere libri d’avventura durante i pasti nel refettorio. Con un microfono in mano, Luca catturava l’attenzione di tutti, mentre la grande sala si riempiva di un silenzio carico di attesa. Le avventure di Collodi e Salgari prendevano vita attraverso la sua voce, trasportando i giovani ascoltatori in mondi lontani e affascinanti.

Le giornate di maggio portavano con sé una tradizione amata da Luca: insieme al direttore e ad altri ragazzi, andava a raccogliere ciliegie sulle colline sovrastanti. Per Luca, arrampicarsi sugli alberi era una gioia, un modo per sentirsi libero e vicino alla natura. D’estate, passava qualche giorno a Corno di Rosazzo, ospite della zia Elena, che viveva nella storica villa Cabassi. Anche lì, Luca trovò nuovi amici e nuovi giochi, arricchendo la sua infanzia con ricordi indelebili.

Un’altra estate gli regalò l’opportunità di viaggiare in Svizzera, dove fu ospite per più di due mesi da Maria Rossato, un’amica di sua madre che lavorava a Marin – Saint Blaise, vicino a Neuchatel. Qui, in un ambiente nuovo e affascinante, Luca apprese il francese, frequentando i figli del vicino e esplorando il paese con la curiosità di chi è sempre alla ricerca di nuove esperienze.

Quando Luca terminò le scuole medie, la vita prese una nuova piega. Sua madre sposò Renzo, un muratore che, nonostante le difficoltà economiche, decise insieme a lei di ritirarlo dal collegio per mantenere la promessa di farlo tornare a casa. Si trasferirono tutti insieme in vicolo Taschiutti di via Grazzano a Udine, dove viveva anche nonna Albina, la madre di Renzo. Poco dopo nacque Lorenza, una nuova vita che portò gioia e nuove responsabilità.

Luca venne infine iscritto all’Istituto Tomadini di Udine, pronto ad affrontare un nuovo capitolo della sua vita, ma portando sempre con sé i ricordi di un’infanzia ricca di scoperte, amicizie e momenti di profonda riflessione.

 

A BUTTRIO E VILLA TOPPO FLORIO

(Poesia in quartine a rime alternate di Luca Alberti)

Sulla via da Udine a Manzano
c’è un paese che serbo nel cuore,
dalla mia Cividale non lontano
alle volte lì passo delle ore.

È Buttrio il suo attuale nome
che ha origini assai antiche,
dei suoi alberi sui colli le chiome
sin dall’infanzia mi sono amiche.

Da quelle verdi e dolci alture
ornate di viti assai preziose
si ammirano ricche sfumature
e non mancano a maggio le rose.

La villa dei nobili Toppo Florio
simil a quelle del veneto stile,
aveva cucina e dormitorio
per poveri di età infantile.

Fui ospite tra bimbi sfortunati
ben noti col nome “Mutilatini”,
da post-bellici residui segnati
a quel dolore li sentivo vicini,

perché il mio cuore mutilato
da un’infanzia con pochi affetti,
partecipe al lor mondo straziato
non vedeva i fisici difetti.

Eppure si correva spensierati
tra quegli alberi, vero diletto,
ma tra i luoghi più desiderati
furon quelli attorno al laghetto

dove l’anatre e i cigni bianchi
rallegravano i limpidi occhi,
eravam vispi come saltimbanchi
nel mitico paese dei balocchi.

Poi nel parco proibito sconfinavo
l’armonia del bel “Cigno di Tuonela”
dalla piccola radio ascoltavo,
magici momenti ancor mi svela.

Sull’erba estasiato camminavo
tra antiche rovine collocate.
Le piante che io tanto ammiravo
dai conti Florio furon curate.

Andavo stupito e contemplavo
quel piccolo lembo di paradiso.
Al Creatore lì spesso pensavo,
il  mistero m’accendeva il viso.

Quei magici momenti eran brevi
perché poi lo studio ci impegnava,
pur insieme ai compagni allievi
tante belle cose si imparava.

Dal balcone fissavo il castello
dai conti Morpurgo ricostruito,
con la torre merlata era bello,
quel maniero per me era un mito.

Al poeta Leopardi pensavo,
con la sua triste solitudine.
Le belle poesie rimeditavo,
pregne di tanta inquietudine.

Poi sui colli di Buttrio al mattino,
a primavera bene inoltrata
le ciliege erano il bottino
per farmi una bella scorpacciata.

Il paese che spesso frequentavo
nella mia mente è sempre impresso.
Sul campanile mi interrogavo
per lo stran orologio manomesso.

Quei tre anni da adolescente
di Buttrio mi fecer innamorare,
questo paese è in me presente
davver mai lo potrò più scordare.

 

IL VECCHIO TOMADINI DI UDINE

Quando Luca Alberti venne trasferito al vecchio Istituto Tomadini di Udine, l’unica figura che riusciva a tranquillizzarlo nella nuova situazione era il suo amico d’infanzia, Beppino Filipig, affettuosamente chiamato “Gubana.” Beppino era già ospite del collegio da tempo e, con la sua presenza rassicurante, aiutò Luca ad ambientarsi gradualmente in quel nuovo ambiente.

Il Tomadini non era certo un luogo accogliente. La struttura mostrava i segni del tempo, con un cortile asfaltato troppo piccolo per contenere le centinaia di ragazzi che lo frequentavano. La mensa offriva pasti modesti, e i dormitori avevano soffitti pericolanti, instillando una costante sensazione di precarietà. Tuttavia, il collegio compensava queste mancanze con una vasta gamma di attività sportive e culturali, offrendo ai ragazzi opportunità di crescita personale e di sviluppo delle loro passioni.

Fu in questo contesto che Luca incontrò monsignor Primo Fabbro, un uomo di grande cultura e discrezione. Monsignor Fabbro utilizzava un metodo pedagogico unico: se c’era qualcosa che non andava, invece di rimproverare pubblicamente, scriveva a ciascun ragazzo un biglietto personalizzato. Questo approccio, delicato e rispettoso, fece breccia nel cuore degli allievi, che si sentivano valorizzati e considerati come individui, piuttosto che come parte di una massa indistinta. Tuttavia, la disciplina al Tomadini rimaneva ferrea. Luciano Marangoni, il “censore” del collegio, riusciva a mantenere l’ordine tra i ragazzi, dalle medie alle superiori, suddivisi in classi, ciascuna con un proprio istitutore.

Luca frequentava le scuole superiori a Udine e, grazie agli orari rigidi del collegio, riusciva a studiare con profitto. L’anno successivo, un nuovo censore, Aldino Tosolini, portò una ventata di novità. Tosolini era una persona eclettica, capace di suonare, dipingere e organizzare spettacoli teatrali. Con lui, Luca strinse subito amicizia e iniziò a collaborare attivamente, recitando a teatro, partecipando alle para-liturgie delle grandi festività e contribuendo a molte altre iniziative culturali. Tosolini riuscì a stimolare in Luca forme di creatività che non aveva mai esplorato prima, aprendo nuove strade per la sua espressione personale.

Durante le estati per tre anni consecutivi, Luca ricoprì l’incarico di assistente educatore presso una colonia estiva a Grado. Questo impegno estivo gli valse la stima dei superiori del Tomadini, che, durante il quinto anno, gli affidarono un incarico eccezionale: diventare assistente nella stessa classe dei suoi coetanei. Nonostante la delicatezza del ruolo, Luca fu sempre rispettato dai compagni, che lo apprezzavano per la sua pazienza e per l’aiuto che offriva nelle difficoltà scolastiche.

Nel luglio del 1969, proprio il giorno dello sbarco sulla luna, Luca conseguì il diploma di scuola superiore e si iscrisse all’Università di Lingue e Letterature Straniere di Udine, mantenendosi agli studi continuando a lavorare come assistente al Tomadini. In questo periodo, gli fu affidato anche l’incarico di docenza presso due corsi professionali di grafica, dove insegnava fisica e tecnologia.

Tuttavia, qualcosa non andava. Luca cominciava a sentirsi sopraffatto dal peso del suo doppio impegno: da un lato il lavoro di assistente, che richiedeva molto del suo tempo e delle sue energie, soprattutto la sera, dall’altro gli studi universitari, che richiedevano una dedizione che non riusciva a conciliare con le altre responsabilità. Sentiva che stava perdendo la passione per ciò che faceva e che il suo rendimento ne risentiva.

Fu allora che prese una decisione difficile ma necessaria: interrompere temporaneamente gli studi per adempiere al servizio militare obbligatorio, con l’idea di tornare all’università una volta concluso il suo impegno con l’esercito. Era un passo incerto verso il futuro, ma Luca sapeva che era necessario per ritrovare l’equilibrio e la concentrazione di cui aveva bisogno per proseguire il suo cammino.

 

Mons. Primo Fabbro: L’educatore silenzioso

Tra le figure che hanno segnato il cammino di Luca Alberti, Monsignor Primo Fabbro, il compianto direttore dell’Istituto Tomadini di Udine, brilla come una luce discreta e costante. La sua presenza, per quanto silenziosa, ha lasciato in Luca tracce indelebili, come quelle orme sottili sulla sabbia che, nonostante il tempo, non si cancellano mai del tutto.

Mons. Fabbro era un uomo dalla profonda cultura e uno stile di vita che si distaccava dagli schemi comuni, quasi a voler mostrare che l’educazione non passa soltanto attraverso le parole, ma soprattutto tramite l’esempio. Luca gli è eternamente grato per l’incoraggiamento a imparare una delle abilità che, a prima vista, poteva sembrare banale: la dattilografia. Ma era proprio in questi piccoli compiti, come redigere elenchi, relazioni, e testi vari, che Mons. Fabbro sapeva riconoscere il potenziale nascosto. E così, responsabilizzando Luca in queste mansioni, lo aiutò a sviluppare una rapidità e una precisione nello scrivere che gli sarebbero state utili per tutta la vita, dal servizio militare alle sfide quotidiane.

Mons. Fabbro sapeva davvero cosa significava dirigere un collegio. Forte della sua esperienza presso l’IFO di Cividale, dove aveva già dimostrato di saper valorizzare le persone, come nel caso dell’educatore Giovanni Cesca, fondatore del Centro Formazione Professionale di Cividale. Quando raccontava a Luca del giorno in cui il vescovo di Udine gli aveva affidato l’incarico di direttore, la sua voce si caricava di quella passione che solo chi ama davvero il proprio lavoro può trasmettere. Accettò il ruolo, ma pose una condizione: rimettere in sesto l’Istituto, allora in uno stato di evidente degrado.

Gli studenti di quel vecchio collegio conoscevano bene i disagi: soffitti che cedevano, dormitori sovraffollati, acqua calda che si faceva desiderare, e un cortile minuscolo che a malapena conteneva le loro energie durante le pause. Sopportavano la disciplina ferrea e un cibo che non faceva certo venire l’acquolina in bocca, ma vivere nella paura era troppo. Grazie al coraggio di Mons. Fabbro, il Tomadini cambiò volto: la nuova sede di via Martignacco, ancora oggi, ospita centinaia di giovani, molti dei quali universitari, in un ambiente che lui aveva contribuito a trasformare in un luogo di crescita e speranza.

Mons. Fabbro aveva uno stile educativo che rasentava l’arte. Otteneva rispetto e disciplina senza mai alzare la voce, affidandosi a un avvertimento indiretto, una parola sussurrata che bastava per far capire a chiunque che lui sapeva. Era sempre informato su tutto e su tutti, ma mai in modo invadente. Nei colloqui con chi si prendeva cura dei ragazzi – molti di loro orfani – mostrava una conoscenza sorprendente delle loro situazioni, cogliendo sempre il lato positivo, illuminando anche le ombre più scure con la sua saggezza.

Anche quando Luca lasciò l’Istituto per proseguire il suo cammino, Mons. Fabbro non lo abbandonò mai. Lo seguì a distanza, offrendo sostegno e amicizia in ogni momento cruciale. Quell’amicizia si è radicata così profondamente nel cuore di Luca che, oggi, Mons. Fabbro non è solo un ricordo, ma un modello vivente che guida ogni suo gesto, ogni parola nel suo ruolo di educatore. È come se, in qualche modo, Mons. Fabbro continuasse a camminare al suo fianco, silenzioso e presente, come lo è sempre stato.

 

 

La Naja: Esperienze di Luca Alberti

Nell’ottobre di quell’anno, Luca Alberti fu inviato al CAR di Trapani, un momento che segnò l’inizio del suo servizio militare. Il viaggio fu lungo e faticoso: dopo due giorni di treno, arrivò alla stazione dove un camion militare lo attendeva per condurlo in caserma. Appena arrivato, gli rasarono i capelli a zero e gli assegnarono un plotone. A causa di un errore, ricevette due punture al petto, pratica comune all’epoca, e questo lo costrinse a letto con febbre alta per due giorni. Fu un inizio duro e inaspettato.

Luca si trovava catapultato in una realtà surreale: una caserma alla periferia di Trapani, gremita da quasi 4.000 reclute. Mai avrebbe immaginato un’esperienza simile: dormitori immensi con 300 letti a castello, una cronica scarsità d’acqua, notti insonni disturbate dall’odore persistente di fumo e sudore, e pasti poco abbondanti. Ogni mattina, la sveglia suonava presto, e la prima attività del giorno era la sistemazione del “cubo”, ovvero il proprio spazio personale, prima di indossare la tuta mimetica e lo zaino per unirsi agli altri in una strana ginnastica collettiva chiamata “reazione”. Questa consisteva nel correre e muoversi seguendo gli ordini che provenivano da altoparlanti disseminati ovunque, facendo sentire Luca come se fosse in un lager. Qualsiasi caporale, con tono autoritario, gridava ordini a squarciagola, facendo sembrare le giornate infinite e noiose.

Nonostante tutto, Luca trovò un po’ di conforto nelle amicizie che fece con due commilitoni meridionali, con i quali trascorreva il tempo libero durante le uscite a Trapani. Ogni tanto, le reclute venivano portate al poligono di Mont’Erice per esercitazioni di tiro con il Garand o per fare la guardia. In quei momenti, nel silenzio che avvolgeva il poligono, Luca trovava una sorta di pace ammirando il mare azzurro che si estendeva all’orizzonte.

A dicembre, Luca fu trasferito in Friuli, presso il 52° Fanteria d’Arresto, nelle caserme di Attimis, Ipplis e Grupignano di Cividale, dove frequentò un corso per cannonieri. L’inverno friulano si rivelò particolarmente rigido: in quelle piccole caserme non c’era riscaldamento, e Luca soffrì molto il freddo, soprattutto durante i turni di guardia notturna. Ogni tanto, veniva mandato insieme ad altri commilitoni alla “Casa Matta”, un edificio isolato nei pressi di Prepotto, dove si alternavano turni di guardia incessanti, intervallati da poche ore di riposo, e la pulizia delle postazioni interrate dei cannoni e delle munizioni. Il Friuli, con le sue numerose servitù militari, era un territorio che esigeva vigilanza continua.

In seguito, Luca fu trasferito a Udine, presso il Comando Divisione Mantova, dove lavorò nell’ufficio ufficiali sotto la guida del colonnello Bianco. Qui, il suo compito era trascrivere gli ordini di trasferimento degli ufficiali, le promozioni e altri documenti strategici. Spesso, doveva recarsi dal generale della Divisione per far firmare rapporti di una certa importanza. Il lavoro in via Savorgnana era impegnativo, ma lo occupava solo durante il giorno; per il vitto e l’alloggio, invece, doveva rientrare nella caserma vicina alla “Spaccamela”. Questo ambiente, tuttavia, non lo soddisfaceva: era troppo affollato, con letti a castello che riducevano lo spazio vitale al minimo. Una volta, gli capitò di dormire sotto un commilitone che soffriva di enuresi notturna, e al mattino Luca si ritrovava con il telaio del letto bagnato e maleodorante proprio sopra il viso. Non disse nulla per non mettere in imbarazzo il suo compagno, che lo supplicava di mantenere il segreto, poiché in quegli anni sarebbe stato motivo di grande vergogna essere dimessi dal servizio militare per quel motivo. Alla fine, decisero insieme di scambiarsi i posti letto, risolvendo così il problema con discrezione.

Questi episodi, seppur difficili, contribuirono a formare il carattere di Luca. La “naja” lo espose a situazioni di disagio e sacrificio, ma anche a momenti di riflessione e cameratismo che lo accompagnarono per tutta la vita.

Dopo la Naja: Il Ritorno di Luca Alberti

Dopo 15 lunghi mesi di servizio militare, Luca Alberti fu finalmente congedato. Tornò a casa di sua madre, ma il peso dell’esperienza vissuta lo aveva profondamente segnato. Lo stress accumulato durante la naja lo aveva indebolito a tal punto che si ammalò gravemente, con febbri ricorrenti che lo costrinsero a un ricovero prolungato all’ospedale di Udine. Anche dopo la dimissione, la sua salute rimaneva fragile, tanto che decise di trasferirsi dalla zia Elena a Corno di Rosazzo, sperando che l’ambiente tranquillo e familiare lo aiutasse a recuperare. Tuttavia, il malessere persisteva, e Luca non riusciva a liberarsi del senso di spossatezza e inquietudine che lo accompagnava.

Per trovare un po’ di pace, Luca iniziò a trascorrere molto tempo da solo, camminando lungo i sentieri sterrati che costeggiavano il fiume Corno, dirigendosi verso Badia. Questi momenti di solitudine, immerso nella natura, erano per lui un tentativo di ritrovare un equilibrio interiore, un modo per cercare di riconnettersi con sé stesso.

Nonostante le difficoltà fisiche, Luca decise di tornare al Collegio Tomadini di Udine, ora situato in via Leonardo da Vinci. Mons. Primo Fabbro, sempre attento e premuroso, gli offrì un incarico come istitutore presso un corso di ragazzi delle scuole medie. Questo nuovo ruolo gli permise di riavvicinarsi alla vita comunitaria, e la presenza di Aldino Tosolini, con cui collaborava strettamente, gli offrì un prezioso sostegno morale. Tosolini, con la sua creatività e il suo entusiasmo, stimolava in Luca un rinnovato interesse per l’organizzazione di eventi per i ragazzi, rafforzando ulteriormente il loro legame di amicizia e stima reciproca.

Tuttavia, le febbri continuavano a tormentarlo, costringendolo più volte a ricorrere alle cure dell’infermeria del collegio, dove trovava conforto nelle cure di suor Vittoria, la stessa suora che aveva conosciuto da bambino. La presenza di suor Vittoria, una figura familiare e rassicurante, contribuiva ad alleviare le sue sofferenze fisiche ed emotive, anche se i medici non riuscivano a identificare chiaramente la causa del suo malessere.

Con il pensionamento di mons. Primo Fabbro, il nuovo direttore del Tomadini, don Carlo Polonia, prese a cuore la situazione di Luca. Originario della Carnia, don Carlo, con il suo spirito pratico e la sua sensibilità, cercò di aiutarlo a trovare una nuova strada. Grazie alla rete di contatti del sacerdote, tra cui Enzo Cainero, presidente degli industriali di Udine, Luca fu inserito presso la sede della Democrazia Cristiana di Udine, situata in piazzetta Gorgo. Qui, sotto la guida dell’avvocato Claudio Beorchia, che in seguito sarebbe diventato senatore, Luca iniziò a lavorare fianco a fianco con Giancarlo Cruder, futuro presidente della Regione Friuli Venezia Giulia.

La vita alla sede della DC era dinamica e coinvolgente. Luca si occupava di varie mansioni in ufficio, dall’organizzazione della propaganda politica alla preparazione di eventi e incontri. Fu qui che ebbe modo di conoscere molte delle figure più influenti della politica e dell’imprenditoria friulana, tra cui il sindaco di Udine, Angelo Candolini, l’onorevole Giorgio Santuz e Adriano Biasutti. Un giorno, ricevette l’incarico di accompagnare Amintore Fanfani dall’aeroporto di Ronchi, ma per motivi di sicurezza, l’incontro fu spostato alla sede della DC, dove Fanfani fu accolto con entusiasmo da diverse personalità. Fanfani, apprezzando il lavoro svolto, consegnò a Luca 50.000 lire per la sezione, un gesto che Luca ricambiò con sincera gratitudine.

In questo periodo, Renzo Basaldella introdusse Luca a Beppino Lodolo, il più celebre cantante friulano dell’epoca. Lodolo, colpito dalle capacità di Luca come imitatore, gli propose di unirsi alla sua compagnia. Questo segnò l’inizio di una nuova avventura per Luca, che iniziò a esibirsi nei fine settimana in piazze e sagre locali, affiancato da artisti come Gigi Mestroni (conosciuto come Tittiliti), Dario Zampa, il Fariseo, Ferruccio Ceschia, un prestigiatore, e molti altri. Grazie a Lodolo, che era anche impresario teatrale, Luca ebbe l’opportunità di incontrare personaggi famosi come il mago Silvan e il cantante Toto Cutugno.

Questa nuova esperienza artistica non solo permise a Luca di ritrovare una certa leggerezza e gioia di vivere, ma lo aiutò anche a costruire nuove amicizie e a esplorare ulteriormente il suo talento creativo. Nonostante le sfide fisiche e psicologiche, Luca Alberti dimostrava una straordinaria capacità di adattarsi e di trovare nuove vie per esprimere sé stesso, trasformando le difficoltà in opportunità di crescita personale e professionale.

La Banca di Torre di Pordenone: Un Teso Capitolo della Vita di Luca Alberti

Luca Alberti stava attraversando un periodo particolarmente difficile della sua vita, con la salute che sembrava non volerlo lasciare in pace. Era stato ricoverato nuovamente all’ospedale di Udine, tormentato da febbri che lo debilitavano costantemente e minacciavano di spezzare il suo spirito. Fu durante uno di questi giorni cupi che ricevette una visita inattesa, ma significativa: don Carlo Polonia, il nuovo direttore del Collegio Tomadini, si presentò al suo capezzale. Con un tono di voce calmo ma determinato, don Carlo lo esortò a guardare avanti e a dimettersi dall’ospedale, offrendogli un’opportunità che sperava potesse dare una svolta alla sua vita: un impiego presso una banca di Pordenone.

Luca, seppur indebolito, accolse la proposta con una combinazione di speranza e preoccupazione. Sentiva il peso della malattia su di sé, ma la possibilità di iniziare un nuovo lavoro rappresentava anche un’occasione di riscatto. Si dimise dall’ospedale e, con un misto di ansia e determinazione, si recò a Torre di Pordenone, dove iniziò a lavorare presso la Banca Popolare.

Il lavoro in banca, però, non si rivelò come Luca lo aveva immaginato. La realtà quotidiana si rivelò dura, fatta di lunghe ore trascorse a trascrivere assegni e documenti con la macchina da scrivere. Il ticchettio incessante dei tasti diventava presto un rumore di sottofondo monotono, che accompagnava il suo crescente senso di insoddisfazione. Ogni giorno si confrontava con pile di documenti che sembravano non finire mai, e l’attività ripetitiva lo faceva sentire come ingabbiato in un ciclo senza fine. Questo lavoro, che all’inizio sembrava un’ancora di salvezza, stava lentamente logorando il suo entusiasmo e minando ulteriormente la sua salute.

Per evitare il pendolarismo tra Udine e Pordenone, Luca decise di trasferirsi temporaneamente a Torre di Pordenone. Affittò una stanza presso un’anziana signora del posto, una donna gentile che però viveva in una casa vecchia e fredda, lontana dall’ambiente familiare che Luca tanto desiderava. Le notti erano solitarie e fredde, e i giorni passavano lenti, scanditi dal lavoro in banca e dalla triste routine della vita quotidiana.

Dopo appena tre mesi di questa nuova vita, il corpo di Luca, già provato da mesi di febbri e malesseri, cedette ancora una volta. Le febbri ritornarono con una virulenza tale da costringerlo a un nuovo ricovero all’ospedale di Udine per ulteriori accertamenti. Ogni volta che si trovava in ospedale, Luca sentiva crescere dentro di sé un senso di frustrazione e di fallimento. Si chiedeva se mai sarebbe riuscito a trovare una stabilità, sia fisica che emotiva. I giorni in ospedale erano lunghi, ma anche pieni di un’incertezza che lo logorava.

Mentre si trovava in convalescenza, una notizia inaspettata giunse dalla banca: una lettera di licenziamento. Luca non era riuscito a superare il periodo di prova, e la direzione, di fronte alle sue continue assenze per malattia, aveva deciso di interrompere il contratto. Questa notizia fu un duro colpo per Luca, che già si sentiva fragile e demoralizzato. Si ritrovò così a dover lasciare il suo lavoro e la vita che aveva cercato di costruirsi a Torre di Pordenone.

RITORNO AL TOMADINI

Con il cuore pesante e la mente confusa, Luca fece ritorno al Collegio Tomadini, che negli anni era diventato per lui una sorta di rifugio sicuro. Don Carlo Polonia, che gli aveva dato una possibilità quando ne aveva più bisogno, lo accolse con comprensione. Il direttore, riconoscendo la delicatezza della situazione, gli affidò un nuovo incarico: coordinare le attività collegiali, soprattutto nelle ore serali, quando i responsabili di reparto erano assenti. Questo ruolo, sebbene meno impegnativo del precedente lavoro in banca, offriva a Luca una nuova opportunità di mettersi al servizio degli altri, sfruttando le sue capacità organizzative e il suo spirito di adattamento.

Nonostante le difficoltà, questo nuovo incarico al Tomadini permise a Luca di ritrovare un certo equilibrio. Sebbene la sua salute continuasse a vacillare, il ritorno al collegio lo aiutò a riscoprire un senso di appartenenza e di utilità, elementi fondamentali per il suo benessere emotivo. Il collegio, con i suoi ritmi e la sua comunità, era un ambiente familiare, dove Luca poteva sentirsi accolto e sostenuto.

Il ritorno al Tomadini segnò anche una nuova fase della vita di Luca, una fase in cui la resilienza e la capacità di adattamento si rivelarono più importanti che mai. Anche se il lavoro in banca non aveva funzionato, Luca riuscì a trovare un modo per rimanere attivo e per continuare a contribuire alla vita della comunità. Sebbene le sfide non fossero ancora finite, Luca Alberti dimostrava una determinazione e una forza d’animo che gli permettevano di affrontare ogni nuova prova con coraggio, continuando a cercare il suo posto nel mondo, nonostante tutte le avversità.

Durante il suo soggiorno al Tomadini, Luca Alberti trovò un nuovo equilibrio tra il lavoro, le relazioni personali e la sua ricerca interiore. Aveva il privilegio di avere un piccolo studio personale presso la cappella dell’Istituto, uno spazio che in passato era stato occupato dal vivace e simpatico cappellano don Romano Michelotti. Questo studio divenne per Luca un rifugio di pace e riflessione, un luogo dove poteva ritirarsi per raccogliere i pensieri e rigenerarsi.

Fu proprio in questo periodo che Luca fece la conoscenza di Arrigo Poz, un artista incaricato di realizzare il mosaico che ancora oggi adorna l’ex-chiesa, ora adibita a uditorio. Questa amicizia si rivelò significativa per Luca, poiché gli permise di approfondire il suo interesse per l’arte e la spiritualità, condividendo con Poz momenti di dialogo e ispirazione creativa. Il lavoro di Poz con il mosaico divenne per Luca non solo un’opera da ammirare, ma anche un simbolo di bellezza e resistenza, qualcosa che, come lui, stava cercando di costruire nonostante le difficoltà.

Le giornate di Luca al Tomadini erano ben strutturate. La mattina era il suo momento di libertà, un’opportunità per dedicarsi alle sue letture e riflessioni personali. Nel pomeriggio, invece, si dedicava con impegno a seguire i ragazzi che avevano difficoltà nell’apprendimento di alcune materie scolastiche. La sua dedizione e pazienza nel guidarli facevano di lui una figura amata e rispettata tra gli studenti. La sera, il suo compito era di girare per i corridoi dell’Istituto, assicurandosi che tutto fosse in ordine prima di ritirarsi per la notte. Intorno alle undici, spesso si fermava a chiacchierare con gli altri assistenti che si radunavano per condividere momenti di convivialità. Luca, con il suo spirito affabile e il suo senso dell’umorismo, era sempre al centro delle conversazioni, scherzando e creando un’atmosfera di calore e amicizia. Tuttavia, sapeva anche quando era il momento di farli andare a dormire, raccomandando loro di riposare per essere pronti ad affrontare le attività del giorno successivo.

Nonostante le frequenti crisi febbrili che continuavano a tormentarlo, Luca non perse mai il suo spirito giocoso. Amava scherzare con tutti, dai ragazzi agli assistenti, e alcuni dei suoi scherzi divennero leggendari all’interno dell’Istituto. Questi episodi, così memorabili, furono persino descritti nel giornalino dell’Istituto da Aldino Tosolini, a testimonianza di quanto fossero apprezzati. Franco Odorico e Fabrizio Di Bernardo, suoi vecchi amici e complici di sempre, erano spesso al suo fianco in queste divertenti imprese.

Uno degli scherzi più noti fu organizzato durante il carnevale. Con la complicità del direttore, Luca sparse la voce che l’Arcivescovo mons. Zaffonato avrebbe fatto una visita pastorale al collegio. L’annuncio creò un’agitazione generale: le suore mobilitarono le inservienti per le pulizie straordinarie, e nella grande mensa tutti attendevano con ansia l’arrivo dell’illustre ospite. Ma quando finalmente arrivò il “vescovo”, si scoprì che era Luca, travestito, accompagnato dai suoi due amici vestiti da preti. La scena provocò un’esplosione di risate tra i presenti, mentre Luca imitava la voce dell’Arcivescovo con tale abilità che tutti erano divertiti, sebbene le suore cercassero di nascondere il loro imbarazzo tra occhiate severi e sorrisi trattenuti a stento.

Un altro scherzo degno di nota coinvolse Luca che, alla presenza di alcuni amici, telefonò a una famiglia fingendosi Mike Buongiorno, celebre conduttore televisivo. Con la sua voce inconfondibile, Luca informò la famiglia che aveva vinto dei gettoni d’oro e promise loro una visita per la consegna del premio. La famiglia, entusiasta, diffuse subito la notizia, aspettando con ansia l’arrivo del presentatore. Quando si rese conto che tutto era stato solo uno scherzo, la delusione fu palpabile, ma l’episodio restò comunque uno dei più divertenti nella memoria di Luca e dei suoi complici.

Non mancarono nemmeno gli scherzi orchestrati con la collaborazione del direttore don Carlo Polonia. In un’occasione, Luca telefonò dall’esterno del collegio all’amministratore Gianni Lavaroni, fingendosi l’Arcivescovo e promettendo un aiuto finanziario per risolvere le difficoltà economiche dell’Istituto. Lavaroni, entusiasta, si precipitò dal direttore per condividere la buona notizia, ma il direttore lo informò subito che si trattava solo di uno scherzo di Luca. Sebbene inizialmente l’amministratore non la prese con filosofia, col tempo la cosa si sgonfiò, diventando un altro aneddoto da raccontare.

Oltre a questi momenti di leggerezza, Luca trovava tempo per dedicarsi alla lettura e alla meditazione nel suo studio privato. Le sue giornate iniziavano spesso con la musica di grandi compositori come César Franck, Sibelius, Wagner e Mozart, che facevano da sottofondo alle sue riflessioni. Luca si immergeva nei pensieri profondi di autori come Teilhard de Chardin, Teresa d’Avila, Leon Bloy, Bertrand Russell, Henri Bergson, Kierkegaard, Sartre e Gabriel Marcel. Questi filosofi e mistici lo accompagnavano in un viaggio interiore, aiutandolo a esplorare le varie dimensioni dell’esistenza e a cercare risposte alle domande fondamentali sull’anima immortale e sul senso della vita.

In definitiva, quel periodo al Tomadini fu per Luca un mix di doveri quotidiani, scherzi memorabili e profonde riflessioni spirituali. Nonostante le sue fragilità fisiche, riuscì a creare un ambiente di calore e umanità attorno a sé, influenzando positivamente la vita delle persone che lo circondavano. I suoi scherzi erano solo un aspetto di una personalità complessa e ricca, capace di trovare il giusto equilibrio tra il serio e il faceto, tra la leggerezza della vita e la profondità del pensiero.

L’Amicizia con Beppino Lodolo: Un Capitolo Speciale nella Vita di Luca

Luca Alberti ebbe la fortuna di incontrare Beppino Lodolo, un artista di grande talento che avrebbe avuto un’influenza profonda e duratura nella sua vita. Questo incontro avvenne grazie a Renzo Basaldella, un comune amico di entrambi, che era non solo il direttore del coro CAI di Cividale ma anche sindaco di Moimacco, una figura molto stimata nella comunità. Quando Luca e Beppino si incontrarono per la prima volta, fu subito evidente che tra loro c’era una connessione speciale. Un’intesa spontanea che non solo diede vita a un’amicizia profonda, ma anche a una collaborazione artistica che avrebbe arricchito la vita di entrambi.

Beppino Lodolo era un personaggio eclettico, conosciuto in tutta la regione per il suo talento come cantante e per la sua capacità di coinvolgere il pubblico in ogni spettacolo. Grazie alla sua personalità carismatica, Beppino era un punto di riferimento nel panorama artistico friulano. Quando invitò Luca a partecipare agli eventi che organizzava, aprì per lui le porte di un mondo nuovo, fatto di musica, spettacolo e, soprattutto, di persone che condividevano la passione per l’arte in tutte le sue forme.

Per Luca, queste serate e sagre popolari erano più di un semplice divertimento: rappresentavano una nuova dimensione in cui poteva esprimere liberamente la sua creatività e il suo talento naturale per l’imitazione. Sin da piccolo, Luca aveva coltivato l’abilità di imitare sia animali che persone, un talento che lo aveva reso popolare tra i suoi amici. Beppino, riconoscendo questo dono in Luca, lo incoraggiò a perfezionare e a esibire queste abilità durante i suoi spettacoli, rendendolo una parte integrante della sua compagnia.

In questo nuovo contesto, Luca conobbe altri artisti che sarebbero diventati, con il tempo, figure di spicco nel mondo dello spettacolo locale. Tra questi, Gigi Mestroni, noto come “Tittiliti”, Dario Zampa, un cantautore e presentatore con una spiccata vena poetica, e Ferruccio Ceschia, un prestigiatore che incantava il pubblico con i suoi trucchi e illusioni. Questi artisti non erano solo colleghi, ma anche compagni di avventura con cui Luca condivise innumerevoli serate di risate, divertimento e lavoro. La loro amicizia si basava su una profonda stima reciproca e sulla comune passione per l’intrattenimento.

Luca ebbe l’opportunità di esibirsi accanto a personaggi di fama nazionale e internazionale, come il celebre mago Silvan e il cantante Toto Cotugno. Questi incontri non fecero che accrescere la sua passione per il mondo dello spettacolo, facendolo sentire parte di una grande famiglia artistica. Sebbene queste esperienze fossero occasionali, lasciarono un’impronta indelebile nella sua memoria, arricchendolo sia professionalmente che umanamente.

L’amicizia tra Luca e Beppino non si esaurì con il passare del tempo. Al contrario, si consolidò ulteriormente, evolvendo in una collaborazione che andava oltre i semplici spettacoli. Luca, che nel frattempo aveva sviluppato un interesse per la documentazione e la memoria storica, decise di dedicare a Beppino Lodolo diversi video e pagine web, un tributo alla carriera di un uomo che aveva dato tanto al mondo dello spettacolo friulano e che continuava a ispirare chi aveva avuto la fortuna di lavorare con lui.

Questi video e le pagine web non erano solo un omaggio, ma anche un mezzo per preservare e diffondere la memoria di Beppino, assicurandosi che le nuove generazioni conoscessero l’importanza del suo contributo artistico. Luca partecipò anche ad alcune rievocazioni e celebrazioni della carriera di Beppino, dove ebbe l’occasione di raccontare aneddoti e ricordi personali, mantenendo vivo il legame con il passato e condividendo la sua gratitudine per tutto ciò che quell’amicizia aveva significato per lui.

La loro amicizia è un esempio di come l’arte possa creare legami profondi e duraturi tra le persone, unendo individui attraverso esperienze condivise e passioni comuni. Per Luca, Beppino Lodolo fu molto più di un semplice collega o amico: fu un mentore, un compagno di viaggio in un percorso di crescita personale e artistica. E, soprattutto, fu una delle figure chiave che contribuirono a plasmare la persona e l’artista che Luca è diventato, un uomo capace di vedere la bellezza e il valore dell’arte non solo come spettacolo, ma come espressione autentica dell’animo umano.

Il Terremoto del Friuli del 1976: Un Ricordo Indelebile nella Vita di Luca

Luca Alberti ricorda con estrema chiarezza il periodo che precedette il devastante terremoto del Friuli nel 1976, un evento che avrebbe lasciato un segno indelebile non solo sulla regione, ma anche sulla sua vita. All’epoca, Luca lavorava come coordinatore presso l’Istituto Tomadini di Udine, un incarico che svolgeva con grande dedizione. Da qualche mese, però, aveva cominciato a sentire dentro di sé una strana inquietudine, una sensazione persistente e oscura che non riusciva a scrollarsi di dosso. Era come se il suo subconscio percepisse l’avvicinarsi di qualcosa di terribile, qualcosa che avrebbe sconvolto la tranquillità del Friuli.

Questa inquietudine non era solo un vago presentimento, ma si manifestava in immagini vivide che affollavano la sua mente. Luca si ritrovava spesso a immaginare paesaggi devastati, con case ridotte in macerie e montagne della Carnia e del Cividalese spazzate via da una forza implacabile. Queste visioni lo tormentavano, diventando così insistenti che si sentì costretto a parlarne con qualcuno. Confidò i suoi pensieri più cupi al suo amico Maurizio Basso, che abitava a Udine in via Tolmezzo. Maurizio, pur rispettando le preoccupazioni di Luca, cercava di rassicurarlo, interpretando quei pensieri come frutto della sua fervida immaginazione.

Tuttavia, l’inquietudine di Luca non si placava. Durante un periodo di ricovero all’ospedale di Udine, dove si trovava per indagare l’origine di alcune febbri ricorrenti, decise di dare sfogo al suo stato d’animo in un modo piuttosto insolito. Per passare il tempo e, forse, per esorcizzare le sue paure, Luca registrò un messaggio su un nastro, simulando l’annuncio di un catastrofico terremoto che avrebbe colpito il Friuli, dalla Carnia al Cividalese. Lo fece con un tono scherzoso, senza immaginare che quel “scherzo” si sarebbe trasformato in una tragica realtà di lì a poco. Questo nastro, che Luca conserva ancora oggi, è diventato un inquietante reperto di quei giorni. Sebbene non ricordi esattamente la data della registrazione, è certo che fu fatta prima del fatidico 6 maggio 1976. Un dettaglio che gli studiosi potrebbero verificare, dato che il nastro contiene anche frammenti di programmi radio registrati nei giorni precedenti.

Il 6 maggio 1976 era una giornata strana fin dall’inizio. Luca avvertiva una tensione nell’aria, qualcosa di indefinibile ma palpabile. Durante la giornata, si confidò con Aldino Tosolini, allora caporeparto dell’Istituto, esprimendo la sua sensazione che qualcosa di terribile stava per accadere. Il cielo era cupo, l’aria densa e umida, quasi soffocante. Gli uccelli si muovevano inquieti tra i rami, emettendo cinguettii striduli, e persino dai tombini emanava un odore strano e sgradevole, come se la terra stessa stesse avvertendo un malessere imminente. Luca era certo che qualcosa stesse per succedere, e lo disse ad Aldino con una sicurezza che lo lasciò senza parole: “Lo sento, oggi arriverà!”

Quella sera, poco prima delle 21, mentre Luca stava facendo la sua consueta ispezione serale nei reparti dell’Istituto, accadde l’impensabile. Improvvisamente, udì un boato sordo, come il ruggito di un mostro che si svegliava dalle viscere della terra. Istintivamente, cominciò a correre cercando una via d’uscita, ma subito dopo fu colpito dalla seconda scossa, ancora più violenta della prima. Il pavimento ondeggiava sotto i suoi piedi come una nave in mezzo a una tempesta, i muri tremavano, i vetri vibravano con una tale intensità che sembrava dovessero esplodere da un momento all’altro. I ragazzi, presi dal panico, si riversarono nei corridoi e scesero le scale come un fiume in piena, cercando disperatamente una via di fuga. Alcuni, trovando la porta sbarrata, non esitarono a rompere i vetri con calci e pugni pur di uscire all’esterno.

In quei momenti di caos totale, cinque ragazzi si avvicinarono a Luca, gridando per il dolore e la paura. Erano feriti, con le braccia, il volto e le mani sanguinanti a causa dei vetri infranti. Luca, senza perdere un attimo, li caricò sulla sua Fiat 128 rossa e li portò al pronto soccorso del vicino ospedale di Udine. Arrivato lì, vide un via vai incessante di ambulanze che arrivavano e partivano a sirene spiegate, trasportando i primi feriti dalle zone più colpite. L’ospedale era in uno stato di emergenza totale, e l’atmosfera era carica di una tensione che sembrava tangibile.

La scossa fu un trauma per tutti. L’intera regione era in ginocchio, e nessuno voleva rientrare nelle proprie case, per paura di nuove scosse. Per diversi giorni, gli abitanti dell’Istituto Tomadini si rifugiarono nei cortili, dove furono allestite delle tende per dare un minimo di riparo. Ogni nuovo tremore faceva balzare il cuore in gola, e la gente viveva in uno stato di allerta costante, con la paura che la terra potesse tremare di nuovo con la stessa violenza.

Nei giorni e nelle settimane seguenti, Luca, come tanti altri friulani, cercò di adattarsi alla nuova realtà. Le scosse di assestamento erano frequenti, e ogni volta riportavano alla mente il terrore di quella notte. Ma la comunità, nonostante tutto, iniziò a reagire, cercando di ricostruire non solo le case distrutte, ma anche il proprio spirito, profondamente scosso da quell’esperienza. Per Luca, il terremoto del 1976 non fu solo un evento naturale devastante, ma un momento che segnò profondamente la sua vita, confermando quelle sensazioni che per mesi avevano tormentato la sua mente e il suo cuore.

Isola Vicentina: Un Capitolo Fondamentale della Vita di Luca Alberti

Nel settembre del 1976, Luca Alberti intraprese un viaggio che avrebbe avuto un impatto significativo sulla sua vita. Dopo aver ricevuto il consiglio di Padre Federico Caldogneto, un frate Servo di Maria della B.V. delle Grazie di Udine con il quale Luca aveva intrattenuto conversazioni profonde sui suoi dubbi esistenziali, decise di recarsi a Isola Vicentina. Il consiglio di p. Federico era chiaro: fare un’esperienza di vita contemplativa presso il monastero del Santuario di Santa Maria del Cengio, immerso nella serenità delle colline vicentine.

Luca si mise in viaggio con la sua fidata Fiat 128 rossa, attraversando le strade che lo avrebbero condotto verso una nuova avventura. Giunto a Isola Vicentina, fu accolto calorosamente dalla giovane comunità che si era recentemente formata nel convento. L’intento di questa comunità era quello di sperimentare una vita più contemplativa e riflessiva, senza però trascurare il servizio ai numerosi fedeli che accorrevano al Santuario di Santa Maria del Cengio.

Nel convento, Luca trovò una nuova famiglia di confratelli con i quali condividere la vita quotidiana e le esperienze spirituali. Tra questi, spiccava il priore p. Ilario Marchesan, un uomo di grande saggezza e umiltà. Al suo fianco c’erano altri membri della comunità, tra cui p. Davide Montagna, storico dell’Ordine e poeta di fama, e p. Ermenegildo Zordan. In tutto, la comunità contava una decina di frati che lavoravano insieme per mantenere il convento e servire i fedeli.

Il compito di Luca era vario e coinvolgente: si occupava della sistemazione delle camere per gli ospiti, aiutava la cuoca nella preparazione dei pasti, mantenendo in ordine la mensa e contribuendo alle pulizie del piccolo chiostro e delle stanze adiacenti. Inoltre, con la sua auto, accompagnava i frati a celebrare la messa nei paesi limitrofi. Questo lavoro pratico e operativo lo immerse nella vita del convento e gli permise di integrarsi rapidamente nella comunità.

Durante il suo soggiorno, p. Davide Montagna gli chiese spesso di accompagnarlo a conferenze e di preparare la “lectio divina” che si teneva ogni sabato. Questo impegno lo portò a una conoscenza più approfondita della Sacra Scrittura e a una comprensione del metodo esegetico ed ermeneutico, che gli consentì di spiegare i brani biblici tenendo conto del contesto storico e culturale in cui erano stati scritti. Per Luca, questa era una continua riscoperta delle ricchezze e delle sfide della Sacra Scrittura.

Luca partecipava regolarmente all’ufficio liturgico del convento, che includeva le lodi, l’ora terza, sesta, nona e vespri, oltre alla messa quotidiana. L’atmosfera contemplativa che si respirava in quel luogo era molto diversa dalla vita frenetica a cui era abituato, e Luca si trovava a suo agio in questo ambiente tranquillo e meditativo. Spesso, si recava all’eremo sulla collina sovrastante, un luogo che rappresentava la casa natale di p. Federico Caldogneto. Un episodio curioso accadde durante una passeggiata con un giovane ospite. Mentre conversavano di teologia e spiritualità, il giovane, tenendo in mano le chiavi della macchina, le trovò piegate a 90 gradi al termine della passeggiata. Questo fenomeno inusuale colpì molto Luca, che cominciò a riflettere sul mistero intrinseco in ogni persona e sulle potenzialità nascoste che spesso non si conoscono.

Il convento di Isola Vicentina era anche un punto di incontro per molti confratelli dell’Ordine provenienti da diverse parti del mondo. Tra questi, Luca ebbe il privilegio di conoscere p. Davide Turoldo, un importante religioso e intellettuale. Turoldo, dopo aver appreso del racconto autobiografico di Luca, “Il Microcosmo di Luca”, lo invitò a collaborare alla redazione di una sceneggiatura per un film che avrebbe seguito “Gli ultimi”. Purtroppo, il progetto non andò avanti a causa della malattia di p. Turoldo, che iniziò a compromettere la sua salute.

Nel corso degli anni ’80, p. Davide Turoldo, dopo aver letto “La Spirale della Vita”, il libro di Luca, manifestò il desiderio di presentarlo a Udine. Tuttavia, la sua condizione di salute peggiorò, impedendogli di realizzare questo progetto.

Durante il suo soggiorno al convento, Luca conobbe anche il pittore p. Fiorenzo Gobbo e il teologo p. Ermes Ronchi. Quest’ultimo pubblicò alcune delle poesie di Luca insieme a quelle di p. Turoldo e p. Albino Candido, oltre ad altri scritti. La sua amicizia con p. Ermes Ronchi si consolidò, e Luca trovò in lui un importante punto di riferimento nel campo della teologia e della scrittura.

Un giorno, Luca incontrò Ananda, un giovane di Marostica che si era fatto monaco in una comunità indiana e che era giunto in bicicletta dal suo paese natale. Ananda suscitò la curiosità e l’ammirazione dei frati per la sua dedizione alla preghiera e alla meditazione. In quel periodo, Ananda ospitò anche il guru Ramachandra, un monaco ottantenne noto per la sua saggezza e umiltà, che passò alcuni giorni presso la comunità.

Inoltre, durante la sua esperienza a Isola Vicentina, Luca strinse una profonda amicizia con Michele, un giovane pugliese affabile e sempre sorridente, che era entrato nella comunità come “postulante”. Michele e Luca divennero inseparabili, condividendo discussioni sulla spiritualità e affrontando insieme le gioie e le difficoltà quotidiane. Più tardi, si unirono a loro Aligi, una persona molto disponibile e cortese, e Paolo Sbrissa, un giovane pittore con un carattere particolare, che spesso si ispirava ai discorsi filosofici di Luca. P. Davide Montagna si prese cura delle pubblicazioni dei lavori di Luca, contribuendo alla diffusione dei suoi scritti.

Un episodio significativo riguardava la salute di Luca, che fu attentamente monitorata da p. Ermenegildo Zordan. Dopo averlo fatto ricoverare all’ospedale di Padova, sotto la cura del dott. Abrahmson, un medico ebreo, Luca fu finalmente guarito dalle febbri persistenti, grazie a una diagnosi accurata.

Durante il secondo anno a Isola Vicentina, p. Ermenegildo iscrisse Luca all’Istituto Teologico San Massimo di Padova, dove partecipò a corsi di filosofia, psicologia, sociologia e teologia. Tra i docenti, Luca apprezzava particolarmente Dario Antisseri, che teneva lezioni stimolanti su vari argomenti filosofici.

In quel periodo, Luca ebbe l’opportunità di partecipare all’ordinazione sacerdotale dell’amico p. Francesco Polotto a Mestre. La cerimonia fu celebrata dall’allora Cardinale Albino Luciani, che divenne poi papa Giovanni Paolo I. Luca ricorda con affetto l’omelia di Luciani, apprezzandone la semplicità e l’umiltà, e pensò tra sé che una persona così umile non sarebbe mai diventata papa. Con grande sorpresa, pochi mesi dopo, Luciani fu eletto papa Giovanni Paolo I.

Al termine del periodo formativo, Luca fu inviato a Monte Senario per il noviziato, insieme a Michele, con il quale aveva condiviso molte esperienze e riflessioni.

Riflettendo su Isola Vicentina, Luca scrisse:

“Anche i luoghi che abbiamo frequentato e che oggi frequentiamo hanno un significato importante per la nostra stessa esistenza. Nel 1976 mi trasferii a Isola Vicentina, presso il convento del Santuario mariano di Santa Maria del Cengio, situato su un colle sopra il paese. Rimasi lì per due anni. A distanza di molti anni, ora prendo maggiore consapevolezza che questo luogo è stato per me un periodo di incubazione per la mia vita spirituale successiva. È un luogo mariano, innanzitutto. Infatti, Maria Santissima è Colei che considero Madre e protettrice.

Dalla finestra della mia celletta, grazie alla vista panoramica fino alle colline di Torreselle, intravedevo la villa di Romano Guardini, un grande teologo di fama mondiale e ispiratore di papa Benedetto (Ratzinger). Questo lo interpreto come un segno del mio attuale interesse per la teologia, la filosofia e l’escatologia. In quel convento, molto sobrio, il patriarca Albino Luciani, futuro papa, veniva spesso a trovarci, un segno della mia fedeltà alla Chiesa Cattolica. Qui conobbi p. Davide Turoldo, con il quale conversavo spesso anche riguardo alla realizzazione di un possibile film. Potevo apprezzare l’architettura dei suoi discorsi e la musicalità dei salmi da lui tradotti. In seguito, dopo aver letto il mio libro “La spirale della vita”, desiderò presentarlo a Udine, ma molti spunti furono maturati proprio a Isola.

È lì che conobbi p. Davide Montagna, poeta e storico dell’Ordine dei Servi di Maria, con cui diventai molto amico. Mi insegnò molte cose e mi trasmise l’amore per Cristo e Maria. Lui valorizzò le mie poesie e i miei scritti, che furono pubblicati sul Bollettino di Monte Berico. Sempre nel convento di Isola, p. Ermes Ronchi, teologo di fama nazionale, divenne mio amico. È un grande scrittore e teologo, e la sua influenza è presente anche nei miei siti.

Una particolare coincidenza: Isola Vicentina era il paese di Federico Faggin, inventore di un microchip fondamentale per lo sviluppo dell’informatica… Attualmente uso molto il computer per l’evangelizzazione.”

In sintesi, Isola Vicentina rappresentò un capitolo cruciale nella vita di Luca Alberti, un luogo di crescita spirituale e intellettuale che plasmò il suo percorso futuro e influenzò profondamente la sua vita”.

 

Monte Senario (1978): Un’Anima in Ascesa

Era il 1978 quando Luca Alberti, giovane pellegrino dello spirito, fu inviato al noviziato di Monte Senario, uno dei luoghi più incantevoli e sacri della Toscana, incastonato sulle colline a nord di Firenze, nel comune di Vaglia. Per Luca, che già si era abituato ai cambiamenti di domicilio, Monte Senario non fu solo una nuova tappa, ma un’esperienza di vita che lo avrebbe plasmato per sempre, un periodo di ineguagliabile serenità e pace interiore.

Accompagnato dall’amico inseparabile Michele Capurso, un giovane pugliese dall’animo contemplativo, Luca trovò in quel luogo un rifugio per l’anima, un luogo dove la spiritualità non era solo vissuta, ma respirata, immersa nel silenzio sacro delle foreste e delle antiche mura del convento. Michele, con il suo spirito contemplativo e il cuore aperto al mistero della vita, era spesso oggetto di bonarie prese in giro da parte degli altri novizi. Eppure, era proprio il suo sorriso disarmante e la sua abilità con la chitarra a sciogliere ogni tensione, trasformando quelle burle in una dolce melodia di amicizia.

Il maestro dei novizi, padre Ferdinando Perri, era ben conosciuto a Udine per il suo passato di parroco al Santuario della Madonna delle Grazie. Con la sua allegria contagiosa, era stato soprannominato affettuosamente “fra…nando” dai suoi allievi. Insieme, seguivano i ritmi sacri della comunità, scanditi dalle lodi, dalla Santa Eucaristia, dall’ora sesta e dai vespri, come un coro di anime che si elevava al cielo in un’unica preghiera. Luca si occupava anche di mansioni pratiche, come preparare le camere per gli ospiti, spazzare il cortile e distribuire i panini “alla finocchiona” e la Gemma d’Abeto, un liquore dolce e balsamico, che sapeva di tradizione e di montagne.

Quando aveva del tempo libero, Luca si ritirava nel bosco vicino con la Bibbia in mano. Seduto sotto un albero, leggeva e meditava la Sacra Scrittura, lasciando che lo sguardo si perdesse sul Mugello. In quei momenti, il silenzio era surreale, quasi palpabile, un manto di pace che lo avvolgeva, facendogli intuire perché i Sette Santi Fondatori avessero scelto proprio quell’eremo come dimora di preghiera. Era come se la natura stessa lo abbracciasse: le donnole e gli scoiattoli gli si avvicinavano senza timore, e persino i cuculi, un giorno, si posarono su un ramo vicino, attirati dalla sua imitazione del loro verso.

Padre Ferdinando non si limitava a guidare i novizi attraverso le preghiere quotidiane; organizzava anche incontri che arricchivano l’anima. Spesso invitava padre Andrea Cecchin, un famoso servita di Vicenza, conosciuto per la sua profonda spiritualità, e padre Reginald Gregoire, un monaco benedettino belga esperto di agiologia, che condivideva con i giovani novizi le ricchezze della Sacra Scrittura. Erano incontri che lasciavano una traccia indelebile nei loro cuori, creando legami di amicizia che andavano oltre il tempo e lo spazio.

Non mancavano, però, i momenti di allegria. Luca, con le sue imitazioni e i suoi sketch, sapeva tenere alto il morale dei compagni di noviziato e dei frati della comunità, tanto che veniva spesso chiamato a intrattenere gli ospiti, tra i quali vi erano figure illustri come padre Giovanni Vannucci, padre Davide Turoldo, padre Aristide Serra e padre Fiorenzo Gobbo. In queste occasioni, Luca rivelava un talento naturale per l’intrattenimento, ma sempre con un sorriso sincero, che rifletteva la luce della sua anima.

Ogni settimana, Luca e i suoi compagni di noviziato si recavano all’ospizio dei “Cento Vecchi” di Firenze per offrire volontariato. Lì, Luca fu particolarmente colpito da un anziano signore quasi centenario, cieco e in carrozzella, che ogni volta lo ringraziava con profonda gratitudine, lodando il Signore per quella visita. Era un’esperienza che rafforzava la sua fede, facendogli comprendere la bellezza del servizio agli altri.

Padre Ferdinando voleva che i novizi conoscessero bene l’Ordine dei Servi di Maria, e così organizzava viaggi per visitare vari conventi in Italia. A Roma, presso il collegio di Sant’Alessio, Luca e gli altri novizi trascorsero due settimane, incontrando persino papa Giovanni Paolo II nella sala Nervi durante un’udienza del mercoledì. A Torino, a Genova, a Forlì e a Bologna, e ancora all’Eremo delle Stinche nella Val del Chianti, Luca scopriva nuove dimensioni della spiritualità, approfondendo la sua conoscenza dell’Ordine e incontrando persone di straordinaria santità, come padre Giovanni Vannucci, le cui parole risuonavano come musica nell’anima di Luca, inducendolo a una continua meraviglia per l’esistenza.

L’ufficio liturgico a Monte Senario era particolare: oltre alla salmodia tradizionale, venivano letti testi appartenenti ad altre culture e religioni, come quella buddista, induista, ebraica e musulmana. Era un segno di apertura e rispetto per la diversità, che Luca apprezzava profondamente. Persino un cane si adagiava ai suoi piedi durante queste celebrazioni, quasi a condividere la sacralità di quei momenti.

Gli ultimi quindici giorni di noviziato furono trascorsi in ritiro a Poschiavo, in Svizzera italiana, sotto la guida del saggio padre Reginald Gregoire. Fu un tempo di intensa spiritualità, culminato nel giorno del pronunciamento del voto annuale, alla presenza dei suoi amici più cari: Fabrizio Di Bernardo, Walter Themel e Aldino Tosolini, accompagnato dal padre.

Monte Senario è rimasto per sempre nel cuore di Luca Alberti come un’oasi di pace interiore e serenità, un luogo dove la sua anima ha trovato riposo e ispirazione. Quel periodo gli ha dato la forza e la saggezza necessarie per affrontare le sfide future, come una quercia di Mamre, radicata in una fede profonda e in una spiritualità che continua a illuminare il suo cammino.

 

 

Monteberico: Un Capitolo di Ricerca e Riflessione per Luca

Nel 1979, Luca Alberti trovò un nuovo capitolo della sua vita presso l’Istituto Missioni di Vicenza, a due passi dal maestoso Santuario di Monteberico. Qui, insieme al suo inseparabile amico Michele Capurso (oggi parroco in Svizzera), Luca iniziò un periodo di intensa riflessione e crescita personale. Le giornate si aprivano con la liturgia della comunità, un momento che infondeva in Luca un senso di pace e appartenenza, prima che salisse sulla sua fidata vespa per raggiungere il seminario arcivescovile. Quelle corse mattutine erano cariche di aspettative, non solo per le lezioni, ma anche per la promessa di un pomeriggio dedicato allo studio e alle commissioni con fra Germano, un frate dalla mente brillante con cui collaborava spesso.

Il priore dell’Istituto, Padre Stanislao Cogo, aveva un modo di fare paterno, anche se a tratti discretamente invadente. Nonostante ciò, Luca trovava conforto nel rifugiarsi nella sua cella, accanto a quella di Padre Albino Candido. Questo incontro fu per Luca una rivelazione: finalmente aveva trovato un’anima affine, con cui dialogare a lungo e in profondità. Padre Albino, originario di Rigolato in Carnia, era non solo un grande poeta e mistico, ma anche un uomo di rara intelligenza e umiltà. Nei loro colloqui, Luca scopriva un mondo nuovo, fatto di racconti sull’infanzia di Padre Albino e Padre Turoldo, trascorsa tra esuberanza e povertà, ma sempre guidata da una sobria essenzialità.

Luca rimase affascinato dal modo in cui Padre Albino parlava del Creatore, della continua ricerca del mistero divino, e della grandezza che ogni destino umano racchiude. Spesso, Padre Albino gli permetteva di leggere le pagine del suo diario, un tesoro di ricchezza spirituale che lasciava Luca senza parole. Era come se, attraverso quelle righe, Padre Albino riuscisse a trasmettere un amore per il Creatore che andava oltre le parole, penetrando direttamente nell’anima.

Anche il rapporto con Padre Andrea Cecchin, al quale Luca si confessava nel vicino Santuario di Monteberico, era profondo e significativo. Luca ricorda spesso la saggezza e la pazienza di questo sacerdote, oggi al centro di una causa di beatificazione, e come quei momenti di confessione fossero per lui un’opportunità di crescita spirituale e di chiarificazione interiore.

Il fine settimana vedeva Luca impegnato nella Cancelleria del Santuario, un servizio che svolgeva con dedizione. Seguiva spesso l’anziano fra Domenico nelle sue missioni di questua, un’esperienza che gli permetteva di conoscere da vicino molte famiglie del vicentino, osservando da una prospettiva unica la vita quotidiana di quella comunità.

Tuttavia, nonostante l’apparente serenità, Luca sentiva dentro di sé un’inquietudine, un “tarlo” come lo aveva definito anni prima Padre Davide Montagna. Un’inquietudine che non riusciva a definire con precisione, ma che lo tormentava. Fu durante una conversazione con Padre Albino Candido che la verità venne a galla: secondo Padre Albino, Luca non aveva una vera vocazione religiosa e avrebbe dovuto considerare l’idea di lasciare i Servi di Maria. Quelle parole furono per Luca un duro colpo, gettandolo in una profonda crisi interiore.

Padre Albino andò oltre, sostenendo che la vocazione non era di Luca, ma piuttosto di sua madre, che lo aveva spinto verso quella strada. Con il cuore pesante, Luca decise di consultare altri sacerdoti di fiducia, tra cui Padre Andrea Cecchin, Padre Nando Perri, e Padre Aldo Lazzarin. Tutti gli consigliarono di prendersi una pausa di almeno un anno. Seguendo il loro consiglio, Luca tornò a Isola Vicentina, cercando rifugio presso Padre Ilario Marchesan, e da lì partì alla volta di Buttrio, in provincia di Udine, dove accettò un incarico come assistente in una scuola media, nel collegio della sua adolescenza.

A Buttrio, sotto la guida di Don Paolo Gervasutti, Luca si dedicò ai ragazzi con la stessa passione che aveva messo in ogni suo precedente impegno. Li seguiva nei compiti, organizzava momenti di intrattenimento e giochi, cercando di offrire loro un’esperienza educativa completa. Tuttavia, la notizia che il collegio avrebbe chiuso entro l’anno scolastico lo colse di sorpresa. Don Paolo, riconoscendo la buona volontà di Luca, lo indirizzò all’EFA di Udine, suggerendogli di candidarsi per una posizione di coordinatore al CFP di Cividale. Luca seguì il consiglio, presentò la domanda, e dopo un colloquio con il direttore Giovanni Cesca e il suo collaboratore Don Tita del Negro, tornò a Isola Vicentina, aspettando con ansia la risposta che, fortunatamente, arrivò poche settimane dopo.

Quel periodo a Monteberico, tra riflessione e ricerca, tra dialoghi profondi e crisi personali, rappresentò per Luca un tempo di grande trasformazione. Un tempo in cui, nonostante l’incertezza, riuscì a scoprire parti di sé che ancora non conosceva, portandolo sempre più vicino a comprendere il suo vero cammino nella vita.

 

PADRE ALBINO CANDIDO

Padre Albino Candido, Servo di Maria nato in Carnia e morto a Udine nel 1992, fu un uomo di straordinaria profondità spirituale, un monaco poeta e mistico che ha lasciato un’impronta indelebile in coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo. Amico d’infanzia di Padre Turoldo, con cui condivise una giovinezza di fervore religioso e intellettuale, Padre Albino si distinse non solo per la sua vita di preghiera, ma anche per la sua capacità di trasformare le esperienze quotidiane in riflessioni profonde sulla vita, sulla Creazione, e su Dio. Queste riflessioni trovavano espressione nel suo diario, un’opera che non era solo un resoconto personale, ma una vera e propria meditazione poetica sull’esistenza e il divino.

Padre Albino diventò nel corso degli anni un punto di riferimento spirituale per molti, tra cui Luca Alberti, che trovò in lui non solo un amico sincero ma anche un consigliere spirituale di inestimabile valore. La loro amicizia era radicata in una profonda condivisione di valori spirituali e in una comune ricerca di significato nelle vicende della vita. Luca, affascinato dalla profondità d’animo di Padre Albino, ebbe un giorno l’audacia di chiedergli di poter leggere il suo diario, sapendo che lo scriveva con frequenza. Quella lettura lo toccò nel profondo: il diario si rivelò essere una fusione di spiritualità elevata, poesia sublime e umanità sincera, una testimonianza di un’anima completamente immersa nella contemplazione del mistero divino.

Per Luca, fu evidente fin da subito che si trovava alla presenza di un uomo di Dio, un vero santo. Quell’impressione si rafforzò leggendo il diario, tanto che sentì l’impulso di chiedere a Padre Albino di permettere la sua pubblicazione, convinto che il testo avrebbe potuto guidare molte altre anime sulla via spirituale. Tuttavia, la profonda umiltà di Padre Albino lo portò inizialmente a rifiutare. Nonostante le insistenze di Luca, egli esitava, imbarazzato dall’idea di esporre la propria intimità spirituale al pubblico.

Fu solo dopo un lungo periodo di riflessione e grazie alla persuasione di Luca, che gli fece notare l’importanza che quel diario avrebbe avuto per altre anime in cerca di luce, che Padre Albino cedette. Nel 1990, con un misto di riluttanza e accettazione, acconsentì alla pubblicazione del suo diario, che intitolò “Diario di un pellegrino carnico”. L’opera, composta da 400 pagine di pensieri, preghiere e meditazioni, divenne rapidamente una fonte di ispirazione per molti. Padre Albino, in un gesto di riconoscenza, dedicò il libro a Luca, ringraziandolo per il suo incoraggiamento e per aver vinto le sue riserve. Anche la fotografia di copertina fu opera di Luca, un ulteriore segno del loro legame.

Poco dopo la pubblicazione del diario, Padre Albino morì. La sua scomparsa lasciò un vuoto profondo nel cuore di Luca, che pianse la perdita del suo amico e maestro spirituale. Tuttavia, la pubblicazione del diario sembrò a Luca un atto voluto dalla Provvidenza: aveva sempre avuto il presentimento che Padre Albino sarebbe stato chiamato presto da Dio e desiderava che rimanesse una traccia tangibile della sua santità.

L’intima connessione tra i due non si interruppe con la morte di Padre Albino. Una notte, Luca sognò il suo amico, che gli chiese di far celebrare dieci messe in suo suffragio. Luca esaudì volentieri la richiesta, convinto che quel sogno fosse un segno del legame spirituale che ancora li univa. Da allora, Luca ha spesso avvertito la presenza silenziosa di Padre Albino accanto a sé, specialmente quando si trovava a consultare il diario. In quei momenti di dubbio o ricerca, apriva il diario a caso e trovava sempre parole di conforto o di illuminazione, come se Padre Albino continuasse a parlargli attraverso quelle pagine.

La testimonianza di vita di Padre Albino, la sua profonda carità verso i confratelli e il prossimo, la sua capacità di trascendere il proprio temperamento carnico grazie alla continua meditazione sulla grandezza di Dio e del mistero della Creazione, tutto ciò ha lasciato un’impronta indelebile non solo su Luca, ma anche su coloro che lo conobbero. I suoi discorsi erano spesso improntati su temi spirituali; il resto, le banalità della vita quotidiana, lo annoiavano.

Padre Albino è diventato un amico di famiglia, una presenza che ha insegnato a tutti loro a credere nell’infinita misericordia di Dio. Luca è convinto che la Chiesa, un giorno, riconoscerà ufficialmente la santità di questo uomo di Dio, che ha vissuto e amato con una fede così pura e profonda.

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