Sul vecchio divano del salotto, il tempo sembrava essersi fermato. Io sedevo con un libro figurato tra le mani, le pagine aperte a rivelare mondi incantati, colori vivi e storie piene di avventure. Accanto a me, mia figlia Anna, con i suoi capelli biondi che catturavano la luce fioca del pomeriggio, aveva appoggiato la testa sulla mia spalla, come spesso accadeva. Aveva sette, forse otto anni, e guardava attentamente le illustrazioni mentre le parole che leggevo scivolavano dolcemente nell’aria, creando un ponte tra fantasia e realtà.

Quei momenti erano un nostro rituale, un piccolo angolo di tempo dedicato esclusivamente a noi due. Il libro non era solo un insieme di pagine, ma un pretesto per condividere, sognare, crescere insieme. Io le leggevo, ma in fondo era lei a insegnarmi: a fermarmi, a dare valore ai dettagli, a vivere con pienezza ogni singolo istante.

Ricordo la tranquillità che emanava stando accanto a me, il modo in cui seguiva con lo sguardo le immagini, la fiducia assoluta che esprimeva nel lasciare che le mie parole la guidassero in terre sconosciute. Non servivano gesti eclatanti o promesse solenni: era in questi semplici momenti che si costruiva un affetto eterno, un legame fatto di piccole attenzioni e di tempo condiviso.

Ora, guardando indietro, capisco che quei pomeriggi non erano solo un regalo per lei, ma anche per me. Mi ricordano il valore delle cose semplici, di quanto sia prezioso dedicarsi a qualcuno con cuore e pazienza. È un’immagine che porto sempre con me: un papà che, con un libro tra le mani e una bambina accanto, trovava il modo più bello di dire “ti voglio bene”.