V di Avvento C

Gv 3,23-32

 

 Benvenuti, sorelle e fratelli, alla cena del Signore, dove sono
preparate per noi le tre cose che contano, tre “P”: Perdono, Parola e Pane.

Giovanni il Battezzatore
ancora indica come lasciare spazio in noi al venire di Dio: guardare oltre noi
stessi, oltre il narcisismo, guardare bene: ci sono anche nel nostro tempo voci
intense e luminose, angeli annunciatori e profeti, da vedere e ascoltare.

Vieni in silenzio. Noi non sappiamo più cosa dirci e dunque
vieni sempre Signore, a riempire i nostri silenzi, a renderli grembo di
parole buone…

Vieni in solitudine. Ma ognuno di noi è sempre più solo, e dunque
vieni sempre Signore, ad abitare i cuori e le case, ad aprire le vite
chiuse…

Vieni tu che ci ami. Nessuno è in comunione col fratello se prima
non lo è con te, Signore, e dunque vieni sempre, a ricucire i legami
strappati, a rianimare le relazioni stanche…

Omelia

Alcuni discepoli vengono da
Giovanni, allarmati e irritati perché c’è un problema: un rivale. Ecco, tu
l’hai favorito, quel tuo cugino! G
li
hai mandato dietro la gente, e ora quello
ti fa, ci fa, concorrenza sleale!

Le gelosie, le meschinità di
sempre: non si chiedono se quelli che vanno da Gesù si avvicinano o no a Dio;
loro si preoccupano della loro cordata; se ‘quello’
fa più discepoli di Giovanni, se ha più consensi. Idolatria del capo, autoreferenzialità
del gruppo, idolatria del numero.

Giovanni offre una grande
lezione, valida per tutti, movimenti, parrocchie, gruppi: che cosa ci
interessa? L’indice di ascolto o il contenuto? che appaia la nostra istituzione
o che appaia Gesù? 

La bellezza di chi si fa da
parte, la bellezza di una chiesa che non occupa spazi davanti agli occhi della
gente, ma apre visioni, insegna respiri. Ed è felice quando a qualcuno, non
importa di dove o di quale gruppo sia, si apre un sussulto nel cuore, nella
mente, nello spirito, una breccia verso il cielo.

Il Battista l’ha capito bene
e abbandona le immagini, a lui così care, di fuoco, di pula spazzata dal vento,
di radici tagliate con la scure con cui scuoteva le coscienze, e parla di Gesù
come dello sposo: l’amico dello sposo esulta di gioia alla voce dello
sposo.
Il roccioso asceta del deserto sa parlare d’amore, sa gustarne la
dolcezza, le sfumature felici: La mia
gioia adesso è piena.

Giovanni fa qui una
professione di fede di una profondità grandiosa, con parole di tutti i giorni,
quelle dell’amicizia, della gioia, di sposo e sposa. Fede, scandalosa e
gioiosa: perché nella Bibbia il nome di sposo è sempre attribuito a Dio
soltanto.

Isaia proclama: Il tuo
sposo sarà il tuo Creatore,
e Osea: Ti farò mia sposa per sempre, nella
giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore!

Un
Dio che non si arrende ai miei tradimenti, un Dio capace di amare l’inamabile.
Di amare me! Io, desiderio di Dio!

Il
Profeta del deserto e delle acque mi dice: tu sei il desiderio di Dio.

Dio
ti desidera, come amante della tua vita.

Giovanni,
voce possente come il gran sole di Palestina, che si nutre e si veste di quel
niente che il deserto lascia; Giovanni, l’asceta irsuto, si intenerisce e vede
un Dio innamorato della sua creatura: poesia e mistica.

Lui,
il più grande fra i nati da donna, ha la visione più grande sulla nostra
vicenda: l’uomo di Dio, la donna di Dio non sono chiamati ad una esistenza
penitenziale ma sponsale. Ad un rapporto d’amore.

Il
vangelo non vuole una relazione piagnucolosa con Dio, sempre a battersi il
petto (sono un peccatore, pietà delle mie
miserie, perdono, per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa…) ma una
relazione festosa, sponsale, con tutto il piacere di credere. È venuto perché
fossimo felici.

E come gode uno sposo l’amata, così di
te avrà gioia il tuo Dio
(Isaia).
Questo profeta acceso, sensuale, scandaloso. Che parla di un Dio da godere! E
che gode di te! Ci hanno reso diffidenti davanti a questa parola “godere”, ci
fa un po’ paura, è poco etica. Ma rileggiamo i mistici, interroghiamo i
credenti veri, e tutti diranno che Dio è un piacere più grande di tutti i
piaceri che puoi provare. Con notti oscure, certo; con deserti, spesso. Ma un
santo lo capisci al volo perché ha il volto gioioso, per quel lampeggiare di
gioia che gli ha procurato l’abbraccio dello Sposo, e che gli si è impigliato
nel volto.

Tutto
l’arco della storia biblica si regge sull’immagine nuziale dello sposo e della
sposa: dal momento che ti mette in vita, Dio ti invita alle nozze con lui. Ognuno
a suo modo sposo. E la storia finirà, dice l’Apocalisse, con l’Agnello pronto alle nozze e pronta è la sua sposa, bella per
l’incontro d’amore.

Passare
dal concetto penitenziale della vita spirituale, ad un concetto sponsale; da un
rapporto con Dio basato su doveri e dolori, su accuse e contrizioni, ad un
rapporto veramente evangelico sotto il segno di un legame dolce e potente,
luminoso e fecondante.

Passare
da Dio come dovere a Dio come desiderio.
È la vera conversione: da Dio che dà la legge, a Dio che dà fecondità, e fa
fiorire l’umano. La rivoluzione della
tenerezza, di papa Francesco.

Oggi,
per il Giubileo della Misericordia, si spalancano le porte sante. Noi abbiamo
immiserito la parola misericordia, ridotta a un mucchietto triste di colpe e perdonanza,
a un moralismo spento, una spruzzata d’acqua santa sulla testa china del
penitente. Ma non è questo.

La
misericordia nella bibbia si dice rahamim,
ed è lo stesso termine che indica il grembo della madre, l’utero che da la
vita, viscere di tenerezza. Il simbolo della misericordia è l’abbraccio, da Dio
a te, da te agli altri; tenerezza di sposo, di padre, di madre, d’amico: e non
il degnarsi di un sovrano che, come un satrapo orientale avido di onori nella
sua sede celeste, si degna e si abbassa benevolo, per le tue suppliche.

 No, ma il rapporto alla pari dello sposo
e della sposa, un abbraccio alla pari, una tenerezza alla pari, ricchi di potenza
generativa e creativa. Che diventano storia, un’arte, una pedagogia concreta, opere
e gesti in case, carceri, ospedali, mense dei poveri. È inutile passare la
Porta della cattedrale e non passare la porta di un povero, non entrare in
comunicazione vera con lui. Può essere perfino falsa religione, quella contro
cui si sono scagliati con parole di fuoco i profeti di sempre.

Giovanni termina con una
frase folgorante e poco ricordata: lui
deve crescere e io diminuire. Penso alla bellezza di questa chiesa che non
accende i riflettori su di sé, ma su di un Altro, come ha fatto Giovanni al
Giordano; su di un Altro e sugli altri, i poveri, gli invisibili, la carne
piagata di Cristo.

La
grande novità entrata nella storia il Signore che si presenta non come
conduttore di eserciti, ma come sposo. Come Lui siamo forse chiamati a
conquistare il mondo? no, siamo chiamati ad amarlo, a sposarlo! L’amato fa
vivere chi lo ama. La sposa è vita per lo Sposo.

Allora
diciamolo, un po’ tremando, un po’ osando: anche noi siamo vita per Dio. Tu sei la mia vita, molte volte
l’abbiamo detto, l’abbiamo cantato. È la nostra dichiarazione di fede.

Ma
dentro, se ascolti bene, dentro quelle parole vibra come un sussurro che mi
raggiunge e mi fa tremare il cuore. È la dichiarazione di Dio, a me, a te, a
ciascuno, ad ogni sua sposa: tu sei la
mia vita.

 È questo amore impossibile che rimette
in moto la vita che si era fermata.

È questo amore immeritato che fa danzare i secoli, la
terra, il cuore.

 

 

PREGHIERA ALLA COMUNIONE

Sei in me, Signore,

lieve come un’ala,

forte come un abbraccio.

Sei in me, caduto sulla mia
terra

come un bacio.

Venuto non a sistemare le
vicende umane

ma ad amarle.

Venuto a proporre, non
ad imporre,

 a risvegliare, non a condannare.

Tu che ami l’innocenza e
la ridoni,

che fai vergine la vita.

vieni con la tua
tenerezza combattiva.

Io preferivo, ma per gli
altri,

un giudice potente

e Tu vieni come uno
sposo innamorato;

io preferivo uno che
mettesse a posto i delinquenti

e Tu vieni come un
abbraccio.

Ti prego, donami un po’
della fede

di Giovanni, l’amico,

di Giovanni la voce,

solo  un granello di quella fede

perché mi senta chiamato
non a salvare il mondo

ma ad amarlo, anch’io
sposo

di tutto ciò che vive.
Amen.

 

 

p.Ermes Ronchi