(su p.Davide Maria Turoldo…)
Nel rapporto con il Friuli
«La mia anima è la terra in tutti i sensi, la
grande Terra, e quella piccola, il minuscolo acro bastante appena a tener viva
la mia fame. La mia anima è la creazione, questo corpo di Dio, o meglio suo
giardino, sua vigna, e Lui l’amato e severo agricoltore: la Terra, la passione
di Dio e dell’uomo, dal cui fango siamo formati per ritornare dispersa cenere,
in una commistione di vita e di morte senza fine; on tutta la Terra».
Così si esprime Turoldo negli ultimi intensi e
sofferenti momenti della sua vita, quando vuole scavare nel rapporto con la
realtà originaria da cui si sente generato.
Il suo sentire è universale ed è esperienza di ogni
uomo e di ogni donna qualunque sia l’appartenenza concreta in cui si trovino
inseriti. Ma ogni frammento di Terra si fa in qualche modo storia. Quando
Turoldo rimembra il Friuli in cui ha vissuto in cui ha vissuto la sua infanzia
si abbandona ad accenti appassionati: «sì, la mia anima è la natura di un
friulano, di questa terra di frontiera, orgogliosi figli di una piccola patria,
ricca soprattutto, allora, di villotte struggenti e delicate: quasi canti da
dolce stil novo, canti di trovadori, dove sono narrate le infinite vicende
dolorose e tristi di un popolo nobile, tanto povero quanto dignitoso».
È naturalmente la visione di un poeta che
trasfigura il vissuto di un popolo che ama e che vuole in qualche modo
soggetto/oggetto d’una storia “perdonata”.
Alcuni friulani, oggi, stentano a riconoscersi in
questo Friuli consegnato alla poesia, oggetto di contemplazione e d’incanto,
lontano dal loro impegno e dalla loro passione per un suo riscatto culturale,
civile, economico, politico. Il Friuli di Turoldo, essi affermano, è, sì, bello
per la memoria di un poeta, ma resta inevitabilmente il “suo” Friuli, non
quello delle difficili battaglie per una vera autentica rinascita.
Il Friuli della nostalgia, si dice, anche cantato
nel migliore dei modi, acquieta, conforta, lenisce, ma non contribuisce a
trasformare il Friuli della contemporaneità. Per il Friuli contemporaneo
Turoldo ha parole dure, severe, forse senza speranza.
Probabilmente lo stesso
film Gli ultimi apparso nel 1962 rivela in controluce la denuncia di un
eventuale abbandono delle radici: e queste per Turoldo si concentravano in un
vissuto dove “povertà” significava essenzialità; capacità quindi di un rapporto
libero con i beni, non costrittivo, dipendente, falsamente saziante; un
rapporto che permettesse l’esercizio della comunione solidale, che impedisse un
uso rapinatore della terra voluto e perseguito per arricchire, che desse spazio
e sviluppo a un sentire cristiano aperto alla percezione di sé e della vita
come un mistero da custodire e non come potenziale pulsionale da consumare.
Si può convenire che Turoldo legge con difficoltà
la storia del Friuli e che il giudizio sulla contemporaneità è decisamente
parziale: questo ha reso sempre difficile il suo rapporto con gli uomini e le
istituzioni che contavano. Si può affermare però che la sua visione poetica non
esclude i portati della storia e che l’ansia di una sostanza etica non
dimentica e non impoverisce le istanze di oggi.
Il momento del terremoto del 1976 è stato
chiarificatore del suo atteggiamento. Pronto come sempre con la sua presenza e
soprattutto con la sua parola, si è calato con lucidità sui problemi del
presente divenendo ancora interlocutore efficace:
«Senza cultura, senza una propria autonoma cultura,
non si costruisce niente. E guai a perdere questa battaglia, guai a non
portarla fino in fondo! Allora sì che vorrebbe dire un Friuli sempre schivo, un
Friuli ‘colonia di chi sa chi!’ cioè di qualunque padrone! () Si continui a
studiare e si riprenda a conoscere il proprio passato. Solo conoscendo il proprio
passato, in tutta la gamma delle tradizioni civili e religiose, si può sperare
in un futuro. () Alla nostra lingua bisogna che teniamo, se vogliamo salva la
nostra identità. La lingua è sempre testimonianza di libertà; libertà contro
l’invasione e contro il padrone. () Tu puoi privare un uomo della sua casa,
egli sarà ancora libero; puoi togliergli il cibo, il lavoro, la moglie, egli
sarà ancora libero; ma se gli strappi la lingua non sarà più libero, perché
allora la pianta è schiantata alle radici».
Qualcuno ha definito tarde e imparaticce queste
affermazioni, suggerite da un momento carico di emotività, peraltro in sintonia
con il temperamento di Turoldo.
È indubbiamente vero che egli si sente come
imprigionato dal documento d’archivio, essendogli più consentaneo l’orizzonte
della denuncia critica.
Un futuro più documentato ci potrà chiarire con
oggettività il rapporto con il Friuli. È certo che Turoldo si è sentito figlio
autentico di questa nostra terra, che ha amato la sua gente invitandola con
crudezza a una libertà custode di un’identità cosciente della sua storia e del
suo mistero.
Nel suo impegno per la resistenza
C’è uno spartiacque che segna un prima e un dopo
nell’esistenza di Turoldo. «Circostanze particolari permisero che mi inserissi
subito nella vita della città» (si tratta ovviamente della Milano degli
anni quaranta). Definisce Turoldo il suo primo sacerdozio a Milano “sacerdozio
di guerra”.
«Mi sono trovato nel centro di Milano già nel 1941
quando la guerra finalmente cominciava a farsi sentire: nonostante la nostra
abituale incoscienza di italiani. Ero appena uscito dall’isolamento più che decennale
del seminario: dire solo isolamento per quei tempi è troppo poco! Mi sembrava
di navigare in un mare di nebbia, con urti improvvisi contro scogli non
immaginati Avevo appena venticinque anni fin d’allora non c’era altro modo di
salvarci se non di agire, di buttarci, di osare e nel nostro campo bisognava
inventare tutto, pensare molte volte esattamente il contrario di quanto ci
avevano insegnato; e liberarci con le nostre stesse forze, da soli.
Naturalmente –continua- non potevo non buttarmi nella
Resistenza. La causa principale che mi ha spinto a decidermi per la Resistenza
è stata la scelta dell’umano contro il disumano: da una parte l’avvilimento e
la distruzione dell’uomo (e pensare che non si sapeva nulla dei campi di
concentramento, dei forni crematori!) da una parte, dicevo, il degrado e
l’annientamento dell’uomo, dall’altra il bisogno di riaffermare l’uomo
come unica possibilità di sopravvivenza e di continuità della storia. Da qui
nasce la decisione di scendere in campo, di organizzarci a resistere. Con tutto
il gruppo d’allora pensammo di definirci addirittura movimento spirituale
per l’unità d’Italia, e decidemmo di fondare il nostro giornale
clandestino, intitolandolo appunto L’uomo: era l’ideale che ci
riassumeva e ci caricava. Voglio dire quanto l’uomo, sia prima che dopo, era e
sarà sempre al centro della mia fede, al centro di ogni impegno, sia religioso,
sia civile
Non mi sono mai ravveduto e meno ancora ricreduto
circa il concetto di resistenza, che da allora per me è diventato un valore
essenzialmente teologale, una categoria dello spirito: una nota necessaria per
definirci cristiani. Da allora sono convinto che il cristiano o è un resistente
o non è cristiano. Anzi ho capito che essere cristiani non vuol dire essere più
uomo o meno uomo di un altro, ma essere semplicemente segno di come l’uomo è
presentato nella Scrittura. Cioè in sé e per sé, non sarebbe che la rivelazione
di ciò che è un uomo secondo l’antropologia biblica, secondo quanto e come è
pensato da Dio. Perciò Cristo è l’uomo perfetto, pienezza d’umanità, è rivelazione
di Dio, immagine sostanziale dell’invisibile Iddio. Perché Dio non lo vede
nessuno: se vuoi vedere Dio, devi guardare in faccia un uomo».
Sulle radici della sua antropologia
«Due cose soprattutto mi sono e mi furono
essenziali per la mia scelta e per le mie lotte: una, che Cristo è segno di
contraddizione e di rovina per molti in Israele, che vuol dire: Cristo quale
contraddizione e oppositore al sistema, Cristo come scandalo e irriducibilità
al sistema E la seconda ragione: che il crocifisso non mi rappresenta soltanto
il mistero di una salvezza eterna; non è solo l’immagine di un Dio rifiutato;
ma prima di tutto mi rappresenta l’idea di un uomo che il mondo non riesce ad
accettare e che perciò emargina e crocefigge. Il crocefisso è, prima di tutto,
la bandiera dell’uomo maledetto e scartato, bandiera innalzata sul mondo,
lassù; è l’uomo nella sua pienezza che viene torturato e ucciso. Perciò là dove
appena appena ricompare questa immagine di umanità, ecco che lì si ripete la
sua agonia e crocifissione. Come del resto la Risurrezione del Cristo non
sarebbe altro se non la causa dell’uomo che continua (E. Bloch).
A questo punto devo dire che la tematica più
insistente di tutta la mia predicazione è precisamente quella antropologia
biblica di cui prima accennavo secondo la linea della Genesi: l’uomo sintesi
cosciente della creazione, si avvera nella sua espansione verso l’altro, è
comunione, è lì la sua pienezza, la sua perfezione, la sua conseguente
responsabilità comunitaria. È somiglianza, immagine di Dio quando, e se, sarà
coscienza della terra e realizzazione dell’amore: qui la sua dimensione divina.
Quindi una realtà in divenire, infinita inquietudine, infinita (la sua) storia,
infinita possibilità verso una pienezza».
L’orizzonte della pace per Turoldo è l’uomo biblico
in comunione con Dio, radice della comunione con i suoi simili in una radicale
armonia con il creato.
Ricorda i bassorilievi di Chartes: il primo vede
Dio assiso, mentre l’uomo ha il capo reclinato sul seno di Dio e Dio che gli
accarezza dolcemente i capelli, e sorride appena; il secondo contempla Dio e l’uomo,
tutti e due a piedi, tutti e due uguali, stessi volti, stessa statura e capelli
e portamenti. Solo Dio che è un po’ avanti e l’uomo leggermente indietro.
Una poesia è rivelatrice:
Salmodia di Zagorsk
Meglio che la terra ritorni
La pace è l’uomo
e quest’uomo è mio fratello
il più povero di tutti i fratelli.
La libertà è l’uomo
e quest’uomo è mio fratello
il più schiavo di tutti i fratelli.
La giustizia è l’uomo
e quest’uomo è mio fratello:
per un’idea non posso uccidere!
Per un sistema non posso uccidere
per nessuno nessuno
fra tutti i sistemi!
L’uomo è più grande del mondo
«e il più piccolo fra voi
sarà ancora più grande nel Regno».
Io devo solo lottare,
sempre, insieme, o da solo, lottare
e farmi anche uccidere.
La pace è lotta per l’uomo,
uno bisogna che redima
anche la morte!
Neppur per la fede posso uccidere,
l’uomo è l’icone di Dio,
Dio che geme nell’uomo.
E se la chiesa non è per l’uomo
non è degna di fede
non può essere chiesa.
E se le politiche non sono per l’uomo
vadano alla malora
tutte queste politiche.
Maledetto l’uomo
che non è per l’uomo,
maledetta ogni idea ogni fede:
ogni madre non generi più,
il maschio sia morso dal serpe
quando vuol concepire.
Siano distrutte queste città
quando ogni ventre di donna
è un cimitero:
civiltà «cristiana»
che porta la morte
nel proprio ventre!
L’uomo non conta più nulla:
o stirpe di rapaci,
il dio della morte ci domina.
L’uomo è fucilato a Santiago
abbrutito nelle gabbie di Saigon
torturato a Belo Horizonte
schiacciato come un verme a Mozambico
il feddayn è sepolto
nella tomba di sabbia
il negro è chiuso bestiame
nella «locations» a Johannesburg,
oppure urla a milioni di sete
nello squallido Volta.
Ma il rame vale più dell’uomo
il petrolio vale più dell’uomo
il prestigio la potenza il sistema
valgono più dell’uomo.
Meglio che la terra ritorni
deserta, meglio
che i fiumi scorrano
liberi nel verde
intatto del mondo,
e Dio si abbia la lode
dai volatili della foresta!
Ma che sia l’aria
come al mattino del mondo
e caste siano ancora le acque
e al cielo non salga più
una voce d’uomo
né la terra più oda
questo frastuono di parole
quando la ragione è della forza
e a reggere il mondo
sono solo le armi.
L’uomo ha fallito
l’uomo è sempre ucciso
crocefisso da sempre.
Cristo, o ragione
di questo esistere,
folle bellezza
Nella lettura degli eventi vissuti nel contesto della
liturgia comunitaria della domenica
Lo sguardo di Turoldo sull’uomo si fa concreto: non
è separabile dalla riflessione sull’uomo un’attenta e appassionante, a volte
angosciante, percezione della storia, perché l’uomo vive in una storia
concreta, è nella storia che gli uomini diventano stranieri, nemici. Nella
storia molti, i più, sono sfruttati e privati della loro dignità originaria;
nella storia ancora una minoranza detiene la quasi totalità delle risorse e
continenti interi sono confinati in una situazione di minorità, in un bisogno
endemico dove libertà e democrazia restano aneliti soffocati, privi di
riscatto.
L’uomo quindi a cui si rivolge Turoldo in
quest’accezione concreta è il popolo dei diseredati, degli oppressi, è storia
in cui si consuma il dramma di dignità soffocate, di libertà senza riscatto, di
violenze inenarrabili.
A Fontanella l’incontro della domenica si sostanzia
(parlo delle prediche che faceva durante la messa della domenica) fino a
diventare coscienza critica della storia dove si sanno leggere e giudicare i
fatti, gli eventi, coscienza di popolo con una percezione del cumulo,
dell’abisso di sofferenza che i popoli portano con sé. Coscienza necessaria come
premessa e fondamento di ogni liberazione e di ogni salvezza.
Voglio ancora accennare al giudizio sulla nostra
civiltà . Il giudizio si precisa in una diagnosi elementare ma spietata. Il 6
agosto 1989 diceva: «La nostra civiltà consiste nell’essere ricchi, più ricchi
degli altri, rapaci perché poi sono tutte ricchezze che provengono da un terzo,
da un quarto, da un quinto mondo che diventa sempre più povero. Quando
esploderà la sua collera sarà inaudita (lo diceva anche Paolo VI). Essere
poveri è una dignità, essere poveri è una fortuna. Io non lascerò mai, io non
lavorerò mai perché l’uomo diventi ricco, mai, che Dio mi tolga la vita. La
ricchezza è spessisimo, se non sempre, sinonimo di oppressione, di
sfruttamento, non auguro a nessuno di diventare ricco. Ma essere oppressi è
diverso. Io lavorerò perché l’uomo non sia oppresso e sfruttato, è per questo
che ho fatto certe scelte e non me ne pento e finché ho fiato continueremo a
batterci, soprattutto quando un determinato mercato ci convince che l’uomo non
vale più nulla, quello che vale è il catrame, quello che vale è il petrolio».
Per Turoldo quindi il primo compito della libertà è
servire la giustizia, opporsi con tutte le forze alle oppressioni per acquisire
uno stato di libertà è un dovere, un impegno civile di ogni uomo di buona volontà.
Libertà a servizio della giustizia, giustizia come premessa fondamentale alla
convivenza fra i popoli.
Valorizzazione di tutti i fermenti positivi che
persone ed eventi riescono a proporre. Basterà ricordare l’amicizia con Ernesto
Cardenal di cui tradurrà anche le poesie e la scoperta e la proposta a tutto il
mondo della drammatica testimonianza di Rigoberta Menchù. L’accusa precisa
dell’insufficienza delle istituzioni che dovrebbe essere avanguardia credibile
di un servizio nuovo.
Nel rapporto con le istituzioni servite dalla
profezia in un cammino di pace
“Fedeli e liberi” è il motto che egli consegna.
Quindi fedeltà è libertà, rispetto delle
istituzioni e nella Chiesa “esserci sempre in dialettica, starci in permanenza
con spirito critico, amorosamente critico, critico per passione, critico per
fede. “Io credo, perciò sono libero”. Lo stesso dogma, di volta in volta punto
di arrivo ma, nel contempo, punto di partenza per via della fede, che è perenne
novità dello spirito.
Anche nella Chiesa l’istituzione è un mezzo non un
fine, un mezzo per quanto necessario, ma mai un assoluto: lo stesso magistero
soggiace alla verità. La stessa libertà è a servizio della verità: “perché
verità sia libera”. Quindi la Chiesa per l’uomo, non viceversa; così il papato.
Qui è la radice della obbedienza: tutti in perenne ascolto della Parola e a
servizio di essa. La responsabilità conseguente del credente, di ogni credente
è irrinunciabile. “Non si può fare a meno della Chiesa. Nessun dubbio che la
Chiesa è inevitabile. Chiunque fa Chiesa o bene o male; o per il bene o per il
male”.
E Turoldo spesso adempie a
questo rischioso servizio della verità che riconduce alla Magna Charta
evangelica l’istituzione ecclesiale e chi la presiede in nome di Cristo nella
carità, a servizio cioè dell’uomo, di ogni uomo.
Fa’ di me un fiume
Fa’ di me, Signore, un fiume
un fiume ampio, disteso,
che dal Monte si snodi flessuoso:
e poi si allarghi sulla pianura
e sfoci e ritorni a perdersi
dolcemente nel tuo mare.
Un fiume che raccolga tutte le acque
della tua divina Ispirazione,
le impetuose acque cui si dissetarono
i profeti, le calme
amate acque della Vergine e dei santi:
l’acqua della fonte zampillante
E sia un unico fiume: il fiume
irrorato dal fiotto
ininterrotto di sangue e acqua
che scorre dalla ferita
sempre rossa del tuo costato.
E raccolga l’infinito sangue
che scende dagl’innumeri patiboli,
il pianto muto delle madri
dietro gli stendardi dei figli uccisi
– nuove icone sul mondo -,
in processione da capitale a capitale.
Sia così, Signore!
In memoria del vescovo Romero
«In nome di Dio vi prego, vi scongiuro,
vi ordino: non uccidete!
Soldati, gettate le armi»
Chi ti ricorda ancora,
fratello Romero?
Ucciso infinite volte
dal loro piombo e dal nostro silenzio.
Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.
Ucciso perché fatto popolo:
ucciso perché facevi
«cascare le braccia
ai poveri armati»,
più poveri degli stessi uccisi:
per questo ancora e sempre ucciso.
Romero, tu sarai sempre ucciso,
e mai ci sarà un Etiope
che supplichi qualcuno
ad avere pietà.
Non ci sarà un potente, mai,
che abbia pietà
di queste turbe, Signore?
nessuno che non venga ucciso?
Sarà sempre così, Signore?
Il richiamo alla profezia è connaturale all’essere
della Chiesa e nel contempo la Chiesa e irriducibile all’assimilazione storica
anche la più progressista.
Profezia non è l’annuncio del futuro, ma la
denuncia del presente lontano o contraddittorio alla Parola: «E’ la parola il
futuro del mondo e della storia». E’ una dimensione della Pace irriducibile
alle Paci degli uomini e delle loro ideologie. È vero che «la Chiesa non potrà
mai ridursi a democrazia e nemmeno potrà configurarsi in una monarchia, e meno
ancora, ovviamente, in una dittatura. La Chiesa deve essere molto di più delle
istituzioni che conosciamo, dovrebbe essere il vero paese della libertà, il più
garantito paese dell’uomo perché istituzione fondata a guidata dallo Spirito
sempre libero e imprevedibile».
Altrettanto si deve dire del rapporto con le
istituzioni civili-laiche. Non si tratta di essere contro l’autorità, ma quando
l’autorità si identifica con il potere-forza, Turoldo precisa: «Il fondamento
dell’autorità non è la forza, non è il diritto, meno che meno la ricchezza. Non
tanto più sono ricco tanto più faccio le leggi. No, non è la forza, non è
neanche il diritto il fondamento dell’autorità. Il fondamento dell’autorità è
l’amore. Il fondamento del potere è la forza, nessuno nega l’autorità e non mi troverete
mai che abbia rinnegato l’autorità. Io ho sempre rinnegato il potere, sempre,
in tutta la mia vita. Anche l’amore è potere, ma è potere di vita, non di
morte. Io non sono per il disordine, ma per la ricerca di un ordine più
profondo: perché può darsi che l’ordine che mi viene imposto sia disordine» (9
aprile, Fontanella).
Manda, Signore, ancora profeti,
uomini certi di Dio,
uomini dal cuore in fiamme.
E tu a parlare dai loro roveti
sulle macerie delle nostre parole,
dentro il deserto dei templi:
a dire ai poveri
di sperare ancora.
Che siano appena tua voce,
voce di Dio dentro la folgore,
voce di Dio che schianta la pietra.
E finalmente Papa Giovanni, sintesi e vissuto d’una
riconciliazione con tutto se stesso, con gli uomini d’ogni cultura e storia, e tutti
insieme con Dio. A questo proposito Turoldo dichiara che la vera e positiva
rivoluzione, riforma di una Chiesa-comunità nasce partendo da un altare (lo fa
presente anche ai laici). Un popolo di Dio o nasce dalla liturgia o non nasce
in nessun modo e in nessun luogo. La ragione della assoluta novità spirituale
ed umana anche del motore primo della Pacem in Terris e del Concilio che
è stato Giovanni XXIII è un’interiorità che viene dalla comunione con Dio in
Gesù Cristo nella creatività dello Spirito. Qui maturano la forza interiore, il
senso della storia, la carità trasformante. È bene ricordarlo ad ogni uomo e ad
ogni donna che amano l’umanità e la sua storia.
Salmodia alla pace
La pace è l’Eden che deve inverarsi,
il sogno reale e necessario
che attraversa l’intera creazione.
Creature tutte all’opera:
che deve venire la Pace
che deve farsi la Pace,
Francesco, riprendi a cantare
per frate sole e sora luna
«et per aere et nubilio sereno»
perfino la morte diciamo: sorella!
Ma siano tutte le creature a cantare.
Uomini, tornate fanciulli,
rompete le spade e nessuno
continui a trafiggere il cuore alle cose
come han trafitto il costato di Cristo.
Questo è l’irreparabile Male
il Male che non ha nome:
l’incubo non della morte,
dell’«Oltre –morte»,
il Grande Nulla che incombe.
Abbiamo violato il Sacrario
Profanato il Santo dei santi:
messe le mani sul’atomo,
rotta la diga sull’abisso,
ci siamo creduti Despoti.
Abbiamo perduta l’Amicizia delle cose,
la Grande comunione:
tornare indietro
sarà ancora possibile?
Questo è l’Eden che deve inverarsi
il Giardino dell’Alleanza,
il Sogno dell’Universo.
Canta il sogno del mondo
Ama
saluta la gente
dona
perdona
ama ancora e saluta
(nessuno saluta
del condominio,
ma neppure per via).
Dai la mano
aiuta
comprendi
dimentica
e ricorda solo il bene.
E del bene degli altri
godi e fai
godere.
Godi del nulla che hai
del poco che basta
giorno dopo giorno:
e pure quel poco
– se necessario –
dividi.
E vai,
vai leggero
dietro il vento
e il sole
e canta.
Vai di paese in paese
e saluta
saluta tutti
il nero, l’olivastro
e perfino il bianco.
Canta il sogno del mondo:
che tutti i paesi
si contendano
d’averti generato.
Brani
da
David M. Turoldo. Una voce
del Friuli.
Ideazione, riflessioni e scelta dei testi a cura di Nicolino Borgo, Basaldella
2006 [pubblicazione per il centenario della banca di credito cooperativo del
Friuli centrale, 1906-2006]