Queste considerazioni, che appaiono a prima vista inutili, arrecano in nuce delle conseguenze abbastanza notevoli per molti approcci mentali pregiudizievoli, che potrebbero coinvolgere il pensiero filosofico, scientifico e persino teologico.
Lo “spazio” dal punto di vista filosofico è meno argomentato del tempo.
Spesso si pensa che il concetto sia talmente ovvio che non valga la pena prenderlo come oggetto di disquisizioni.
La fisica lo definisce come un’estensione tridimensionale senza limiti in cui gli oggetti e gli eventi hanno direzioni e posizioni relative tra di loro.
Allora dobbiamo chiederci: cos’è realmente lo spazio?
Lo spazio è reale od è solo una nostra immaginazione?
Quando pensiamo che sia reale ci appelliamo alla nostra esperienza: noi collochiamo gli oggetti in un determinato spazio il quale può essere misurabile con altri frammenti spaziali.
Quando invece lo interpretiamo collocandolo solo nella nostra immaginazione, facciamo appello alle nostre capacità percettive: una qualsiasi estensione (lineare o volumetrica) occupa frammenti spaziali che immaginiamo esistenti solo nella nostra mente e ciò appare incontestabile, per cui sembra impossibile argomentare l’esistenza di uno spazio reale oltre la nostra percezione, anche se ci rendiamo conto che la nostra esperienza ne considera l’oggettività.
(Qui rispunta l’antica diatriba tra oggettività e soggettività, tanto amata dai filosofi del passato.)
Premettiamo che ogni “dimensione” è una relazione collocata in un contesto spaziale.
Alla luce delle attuali conoscenze, stiamo mutando il concetto di “infinito” ereditato dal passato.
Lo stesso termine “infinito” sta oggi assumendo diverse accezioni.
Dal punto di vista filosofico ogni forma di spazio è in qualche modo infinito, se per esso si intende “ciò che non ha fine”. Per esempio, un segmento “A” può essere percepito come finito in relazione al punto di vista dell’osservatore che ha come riferimento un altro segmento diverso “b”. Ma se l’osservatore iniziasse ad assumere come punto di riferimento un segmento infinitesimale “x”, il segmento “A” dovrebbe contenere infiniti segmenti “x”, per cui il termine “infinito” perderebbe la sua connotazione iniziale. Possiamo allora dedurre che tutto ciò che riteniamo “finito” è anche contemporaneamente “infinito”. Ecco perché oggi vengono presi in considerazione i microcosmi di ogni tipo.
Riferiamoci, ad esempio, alle dimensioni in sè, le quali, come ho già premesso, sono relazioni collocate in un contesto spaziale. Noi diciamo “grande” e “piccolo” perché la nostra mente applica le categorie relazionali alle varie dimensioni che percepiamo. Allora, rimanendo sul piano del concetto di spazialità, possiamo constatare che tutto è grande e contemporaneamente piccolo e che nulla è grande e nulla è piccolo.
Osserviamo il fenomeno evolutivo della vita: da un piccolo seme si forma un grande albero. Ciò significa che tutto l’albero era già nel seme. È semplicemente mutata la relazione dimensionale, perché ogni elemento dell’albero cerca un suo spazio finalizzato a mantenere in vita in modo armonico il tutto nell’omeostasi biologica. La vita è movimento, crescita, variazione, reazione, generazione ecc. L’albero, comunque, immaginando un’altra dimensione esistenziale, avrebbe potuto espletare le sue funzioni vitali in uno spazio molto più ridotto.
Anche l’uomo nasce da un seme che conteneva tutte le informazioni necessarie al suo sviluppo successivo. Evolvendosi dall’embrione, tutte le sue parti hanno assunto una dimensione in relazione alla persona completa che è divenuta, tenendo conto dell’omeostasi. Lo sviluppo di ogni persona considera diverse varianti endogene ed ambientali. Ma ciò che meraviglia è il fattore “complessità-coscienza”: il suo cervello più che crescere in dimensione, preferisce costruire strutture complesse, le quali si attivano in spazi ridotti, internamente asimmetrici e non puntano sulla quantità dimensionale, ma sulla concentrazione di microsistemi contenenti memorie, dinamiche ecc.
Il genere umano tende poi a realizzare ciò che il cervello osservante stesso gli suggerisce: strutture più complesse in spazi sempre più ridotti e crescente dematerializzazione. L’umanità, come un mega-cervello, sembra pronta ad un’ importante mutazione trans-umana, coinvolgendo la stessa natura e l’ambiente che manipola. È in una fase molto critica: probabilmente sta intravedendo ciò che lo stesso Teilhard del Chardin chiamava “punto omega”, una trans-ominizzazione che non punta solo sul fattore dimensionale e quantitativo, ma su quello qualitativo.
Questo comporta, oltre ai correlati pericoli di sopravvivenza, una profonda revisione del concetto di spazio-tempo ed allora potrà raggiungere l’obiettivo per cui tutto esiste: conoscere liberamente la Verità nella Trascendenza…
Pier Angelo Piai