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di p. Ermes Rochi

IV di Pasqua Gv 10,1-10

 

Il buon pastore, immagine di un tempo andato e che non torna. Ne incontri ancora qualcuno, di pastori, ma quelli che vediamo, nelle transumanze che ancora passano di qua, sono per lo più dei ragazzi abbastanza disperati, vengono dal profondo est, pagati poco, vivono all’addiaccio o in furgoni scalcinati, fanno una vita che nessuno vuol più fare.

Invece in un mondo lontano, in Mongolia, popolo delle tende, ancora nomade, ho visto pastori fieri del loro gregge, orgogliosi dei loro cavalli e delle loro mandrie. Se penso a un buon pastore oggi, lo vedo laggiù, nelle steppe.

Seguiamo nel vangelo di oggi le caratteristiche del pastore vero.

1 Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome. Chi ti chiama per nome ti conosce, non ti confonde con nessun altro. Sei tu. Se mi chiama per nome, vuol dire innanzitutto che lui parla con me, non solo di me.

Dice: voglio te, parlare con te. Io e te, relazione che mi avvolge.

Mi chiama con il mio nudo nome, cioè senza nessun ruolo o attività o funzione o laurea, davanti a lui non sono il prete o il frate, semplicemente uomo, nella mia umanità profonda. Così come sono, per quello che sono. Senza aggettivi, senza clausole. A immagine di Dio.

E nell’ultimo giorno non mi domanderà perché non sei stato come padre Pio o madre Teresa o papa Francesco. Ma: perché non sei stato Ermes, perché non sei stato te stesso?

2 La seconda caratteristica: Egli le conduce fuori. Il nostro non è un Dio dei recinti ma degli spazi aperti, è pastore di libertà e non di paure, che ha fiducia in ciò che è fuori: ha fiducia nella gente, fiducia nei suoi discepoli, fiducia nel mondo e nei poveri, nella steppa. Fiducia è la prima condizione perché vita ci sia. Io vivo perché mi fido.

Ci chiama a non scegliere mai, nella vita, in nome della paura, che può avere mille motivi, ma se l’ascolto, resto paralizzato dentro il mio recinto, e alzo palizzate, e più è piccolo quel buco dove sto più mi sembra sicuro. Esci fuori, fiducioso nelle persone e nel futuro: anche la steppa ha un gomitolo di sentieri, un ventaglio di strade, tra cui c’è la tua.

3 La terza caratteristica del pastore autentico è quella di camminare davanti alle pecore (v.4). Non abbiamo un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade. Non un pastore alle spalle, che grida o minaccia per farsi seguire, ma uno che è davanti, precede e convince, con il suo andare sicuro, davanti a tutti, a prendere in faccia il sole e il vento, che mi assicura: tu fai parte di un sistema aperto e creativo, non di un vecchio recinto dove tutto si ripete uguale. Strade nuove. E se io mi fermo ed ho paura ad un passaggio difficile, Lui ha già fatto quella strada e sa come venirmi in aiuto.

 

E poi: “Le pecore ascoltano la sua voce”. Non è facile ascoltarlo. Si tratta di abituare l’orecchio. Di allenarlo. A noi sembra, ai ragazzi, che in chiesa si dicono più o meno sempre le stesse cose. È vero. Ma il vangelo non è così. Il prete comincia a parlare e sai già dove va a finire. Ma il vangelo non è così, ti spiazza e ti sorprende. Addestrare l’orecchio.

La parola assurdo ha la stessa radice di sordo, entra nell’assurdo chi è sordo, chi non sa ascoltare, esce dall’assurdo chi ascolta la voce.

E, badate bene, la voce viene prima ancora di ogni parola, dice con la sua sola vibrazione che c’è un rapporto, una relazione amorosa tra lui e me, un combaciare tra noi come nel Cantico dei Cantici: la tua voce fammi sentire…mi basta un particolare. Ci si innamora dei particolari, di un tono, di una inflessione, di un modo di ridere…

4 Io sono la porta, non un muro chiuso, non uno steccato che divide. Cristo è passaggio, apertura, breccia di luce, luogo attraverso cui vita entra e vita esce. Va e viene, non chiude mai.

Entrerà, uscirà, troverà pascolo, tutti verbi al futuro, nella speranza, nella fiducia.

Cosa significa varcare quella porta? Semplice. Essere come Cristo. Diventare porta. L’alternativa che vediamo nel mondo: alzare muri o aprire porte. Blindarsi o spalancare. Tu come Cristo non sei muro, sei porta!

Tu come Cristo sei pastore! Pastore del tuo fosse anche minimo gregge, di casa tua, o degli amici, tu sei porta aperta, attraversata da molte vite e non steccato chiuso, sei pane e pascolo per molti, per alcuni, anche per uno soltanto.

 

E poi l’ultima parola: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Per me, una delle frasi più solari di tutto il vangelo. Anzi, è la frase della mia fede, quella che mi seduce e mi rigenera ogni volta che l’ascolto: sono qui per la vita piena, abbondante, potente. Non solo quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita che rompe gli argini e tracima e feconda; uno spreco che profuma di amore, di libertà e di coraggio. Di accoglienza, gioia, energia. E speranza…

Così è nella Bibbia: manna non per un giorno ma per quarant’anni nel deserto, pane per cinquemila persone, carezza per i bambini, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli per chi ha lasciato la casa, vaso di nardo prezioso versato sui piedi del grande Viandante delle nostre vite.

Dio non intende rispondere ai tuoi bisogni essenziali, questo lo farà la politica, la tecnica, l’intelligenza, Egli è il Dio del centuplo, dei talenti da moltiplicare, del seme che dà il 30, il 60, il 100 per uno, del perdono 70 volte 7.

Che ha immesso nei solchi della storia un seme che tenacemente, implacabilmente salirà a spezzare la crosta arida della nostra e di tutte le epoche per riportarvi primavera.

Giornata delle vocazioni. Vorrei cambiare il titolo: giornata della vocazione, quella evangelica, di tutti, comune a tutti. E qual è?

Unica, una sola per tutti: avere la vita in pienezza. Per questo Cristo è venuto, e ogni scelta concreta che uno fa, ogni vocazione specifica, quella del frate o dello sposato, quella della suora o della moglie, non è che una strada diversa, ma quella adatta a me, per l’unica meta: avere la vita in pienezza.

Che non significa una vita più facile, ma più piena e appassionata, ferita e luminosa, piagata e guaritrice.

Credere fa bene, credetemi (credete a Tommaso, a Giovanni, a Maddalena, a quanti l’hanno incontrato). Credete all’ultima riga del vangelo di Giovanni: tutto questo è stato scritto, perché crediate e, credendo, abbiate in voi la vita (Gv 20,31).

 

Vivere è camminare per un futuro di pienezza: lo prepara e lo tiene aperto lui, il pastore innamorato.

Innamorato di ognuno, “il solo pastore che per i cieli ci fa camminare” (D. M. Turoldo).