
Descriviamo una persona a cui non interessa quasi nulla e che mantiene rapporti molto superficiali con gli altri. Esistono questi tipi di persone?
Sì, esistono persone che possono apparire o vivere in questo modo, anche se le ragioni possono essere molto diverse tra loro. Provo a descriverne il profilo, con alcune precisazioni importanti.
Descrizione possibile
Una persona a cui non interessa quasi nulla e che mantiene rapporti molto superficiali con gli altri può essere percepita così:
Scarso coinvolgimento emotivo: raramente mostra entusiasmo, passione o forte interesse, sia per le persone sia per le attività. Le cose sembrano “scivolarle addosso”.
Relazioni funzionali ma poco profonde: interagisce con gli altri in modo corretto e civile, ma evita l’intimità emotiva, le confidenze e i legami intensi.
Distacco o indifferenza apparente: può sembrare fredda, disinteressata o cinica, anche se non necessariamente ostile.
Basso investimento personale: tende a non impegnarsi molto, non perché sia incapace, ma perché non sente una motivazione interna forte.
Autonomia marcata: spesso preferisce stare da sola o mantenere una certa distanza, senza sentire il bisogno di connessioni profonde.
Esistono davvero persone così?
Sì, esistono, ma è importante distinguere tra stile di vita, tratto di personalità e condizione psicologica:
Stile di personalità: alcune persone sono naturalmente più distaccate, introverse o orientate all’autosufficienza emotiva. Non vivono questo come un problema.
Meccanismo di difesa: in altri casi, la superficialità nei rapporti è una protezione da delusioni, rifiuti o esperienze passate dolorose.
Anedonia o apatia: quando il “non interessa quasi nulla” è profondo e persistente, può essere legato a stati depressivi o a un senso di vuoto.
Scelta consapevole: alcune persone rifiutano intenzionalmente il coinvolgimento emotivo perché lo considerano faticoso o inutile.
Un punto importante
Spesso non è vero che non provano nulla, ma piuttosto:
provano poco in superficie,
oppure provano molto ma non lo mostrano,
o ancora hanno imparato a non aspettarsi nulla dagli altri.
Scrivo senza nome perché non saprei che nome dare a quello che sono. Non è vergogna, è più una sensazione di irrilevanza: firmare o non firmare non cambierebbe molto.
Le mie giornate scorrono tutte uguali, o almeno così mi sembrano. Mi sveglio, lavoro, torno a casa. Mangio qualcosa, guardo uno schermo, dormo. Non succede nulla di davvero sbagliato, ma nemmeno nulla che resti. Le ore passano come acqua in un lavandino: le vedi muoversi, ma non lasciano traccia. Se qualcuno mi chiedesse com’è stata la mia settimana, risponderei “normale”, anche se so che “normale” è solo un modo elegante per dire vuota.
Frequento persone, sì. Colleghi, conoscenti, qualche amico che tecnicamente potrei chiamare tale. Parliamo del tempo, del lavoro, di cose che non richiedono di esporsi. Sorrido quando serve, ascolto quanto basta. Nessuno mi conosce davvero, ma non perché io lo nasconda attivamente: semplicemente non offro nulla da conoscere. Quando le conversazioni diventano più personali, mi sento come se qualcuno stesse parlando una lingua che ho studiato anni fa e che ora ricordo solo a metà. Capisco le parole, ma non il senso.
Non provo un grande interesse per le cose. Non nel modo in cui vedo farlo agli altri. Le passioni mi sembrano faticose, le relazioni profonde impegnative, i sogni qualcosa che richiede una fiducia che non ho mai avuto. Non è cinismo dichiarato, è più un’assenza di slancio. Come se il motore fosse sempre acceso al minimo.
A volte mi chiedo se sono sempre stato così o se, a un certo punto, ho smesso di aspettarmi qualcosa. Non ricordo un evento preciso, nessun grande trauma da raccontare. Solo una lenta rinuncia. Un togliere peso alle cose, una per una, fino a restare leggero al punto da non sentire più niente.
La cosa strana è che non sto male nel senso classico. Non piango, non soffro apertamente. Funziono. Ed è proprio questo che mi spaventa: l’idea di poter passare tutta la vita funzionando e basta. Senza desiderare davvero nessuno, senza essere necessario a qualcuno, senza sentire la mancanza di qualcosa quando non c’è.
Scrivo qui perché non so se questa indifferenza è una forma di equilibrio o una resa silenziosa. Mi chiedo se esista un modo per tornare a sentire interesse senza forzarlo, per costruire legami senza fingere, per voler qualcosa senza sentirmi ingenuo o ridicolo.
Forse qualcuno, leggendo, si riconoscerà. Forse qualcuno mi dirà che va bene così. O forse mi dirà che no, non è normale vivere come un osservatore della propria vita. Io, sinceramente, non lo so più. E questa lettera è l’unico segno che riesco a dare del fatto che, da qualche parte sotto questa superficie piatta, una domanda esiste ancora.
Provo a immaginare la risposta di uno psicologo che prende sul serio la lettera, senza giudicare né semplificare.
Caro autore o cara autrice della lettera,
quello che descrivi non è raro, anche se è poco raccontato. Molte persone arrivano in terapia non perché “stanno male” in modo evidente, ma perché sentono di non stare davvero vivendo. Il fatto che tu funzioni, lavori, tenga rapporti corretti non smentisce ciò che senti: lo rende solo più difficile da riconoscere e da legittimare.
Nella tua lettera non leggo assenza totale di emozioni, ma piuttosto una ritirata emotiva. Come se, nel tempo, avessi imparato a ridurre l’investimento affettivo per non restare deluso, stanco o esposto. Questo non è debolezza: è un adattamento. In un certo momento della tua storia, probabilmente, ti è servito.
Quando dici di non ricordare un trauma preciso, questo è molto comune. Non sempre è un evento netto a portarci qui. A volte è una serie di micro-rinunce, di aspettative non incontrate, di tentativi fatti senza riscontro. L’indifferenza, in questi casi, non è vuoto: è una forma di anestesia leggera ma costante.
Mi colpisce una cosa: tu non dici “non sento niente”, dici “non so più se va bene così”. Questa domanda è già una traccia di vitalità. La parte di te che scrive, che si interroga, che teme di “funzionare e basta”, è una parte che non si è spenta. È solo rimasta in silenzio a lungo.
Non ti direi di sforzarti di provare di più, né di cercare passioni o relazioni come se fossero obiettivi da raggiungere. L’interesse non nasce per comando. Nasce quando qualcuno si sente visto senza dover performare, accolto senza dover offrire subito qualcosa in cambio.
Un percorso psicologico potrebbe non servirti per “aggiustarti”, ma per capire cosa hai messo da parte e perché. Per dare parole a quel ritiro graduale che descrivi così bene. E, con il tempo, per verificare se oggi hai risorse diverse da quelle che avevi allora.
Non esiste una risposta universale alla tua domanda. Alcune persone vivono davvero bene con pochi legami e poco coinvolgimento emotivo. Ma quando questa modalità viene accompagnata da una sensazione di sospensione, di vita osservata da fuori, vale la pena ascoltarla.
Se questa lettera fosse arrivata sulla mia scrivania, non la leggerei come una resa. La leggerei come un primo contatto. Un modo cauto, ma autentico, di dire: “Forse sono pronto a capire se può esserci qualcosa di più, anche senza sapere ancora cosa”.
E questo, credimi, è già molto.
Di seguito una formulazione clinica in chiave psicoanalitica, come potrebbe comparire in un rapporto o in una nota di consultazione. Naturalmente è ipotetica, basata solo sul testo della lettera, e mantiene il linguaggio prudente tipico della clinica.
Osservazione clinica – Formulazione psicoanalitica preliminare
Materiale clinico:
Il soggetto si presenta attraverso uno scritto autobiografico anonimo, caratterizzato da tono emotivamente appiattito, riflessività conservata e capacità narrativa integra. Non emergono segni di disorganizzazione del pensiero né alterazioni formali del linguaggio. L’Io appare strutturalmente solido e adattato alla realtà.
Assetto dell’Io e funzionamento globale:
Il funzionamento psichico sembra collocarsi in un livello nevrotico alto con tratti di ritiro, senza evidenze di organizzazione borderline o psicotica. L’esame di realtà è pienamente conservato. Le funzioni dell’Io (controllo degli impulsi, giudizio di realtà, capacità di simbolizzazione) appaiono adeguate.
Tuttavia si rileva una riduzione dell’investimento libidico oggettuale, con prevalenza di un atteggiamento distaccato e scarsamente coinvolto sul piano affettivo. Il soggetto descrive una vita “funzionante” ma priva di risonanza emotiva, suggerendo una dissociazione parziale tra funzionamento adattivo e vita pulsionale.
Affettività:
È presente un quadro compatibile con anedonia soggettiva e appiattimento affettivo, non accompagnati da angoscia acuta né da sintomatologia depressiva manifesta. L’assenza di sofferenza dichiarata non va interpretata come assenza di conflitto, ma piuttosto come espressione di un meccanismo di difesa di tipo isolante.
L’affetto appare scisso dalla rappresentazione: il soggetto può descrivere se stesso e le proprie relazioni in modo lucido, ma senza accesso diretto a emozioni vive. Questo suggerisce l’uso stabile di difese quali:
Isolamento dell’affetto
Ritiro libidico
Intellettualizzazione moderata
Svalutazione preventiva dell’oggetto
Relazioni oggettuali:
Le relazioni sono descritte come superficiali, funzionali, prive di profondità emotiva. Ciò è compatibile con un assetto relazionale di tipo evitante, in cui l’oggetto viene mantenuto a distanza per prevenire vissuti di dipendenza, frustrazione o perdita.
È possibile ipotizzare una storia di oggetti primari percepiti come poco disponibili o scarsamente rispondenti, non necessariamente traumatici, ma caratterizzati da una ripetuta mancanza di sintonizzazione affettiva. In tale contesto, il ritiro emotivo può essersi strutturato come adattamento precoce.
Conflitto intrapsichico:
Il conflitto centrale sembra collocarsi tra:
il desiderio di investimento e significato (implicitamente presente nella domanda finale),
e una forte difesa contro l’aspettativa, vissuta come potenzialmente deludente o umiliante.
La rinuncia al desiderio appare come una soluzione difensiva stabile: riducendo l’investimento, il soggetto riduce anche il rischio di perdita. Questo comporta però una progressiva desertificazione affettiva.
Narcisismo:
Si osservano tratti di narcisismo difensivo non grandioso, caratterizzato da autosufficienza emotiva apparente, scarso bisogno dell’altro e tendenza a minimizzare il valore dei legami. Non emergono aspetti di fragilità narcisistica manifesta, ma piuttosto una posizione di “autosostentamento psichico” che evita il confronto con il bisogno.
Insight e motivazione:
La presenza di una domanda riflessiva (“non so se questa indifferenza sia equilibrio o resa”) indica buona capacità introspettiva e un primo movimento verso la mentalizzazione del proprio assetto difensivo. Questo rappresenta un segnale prognostico positivo.
Indicazioni terapeutiche:
Un percorso psicoanalitico o psicodinamico potrebbe favorire:
la graduale riattivazione dell’affettività rimossa,
l’esplorazione delle origini del ritiro libidico,
il lavoro sul transfert, che probabilmente si strutturerebbe inizialmente come relazione formale, controllata e poco investita, con possibili reazioni di distanza o svalutazione.
Il setting potrebbe fungere da spazio sicuro in cui il soggetto può sperimentare una relazione non intrusiva ma stabile, consentendo una lenta riappropriazione del desiderio.
Conclusione:
Il quadro non suggerisce una patologia grave, ma una organizzazione difensiva rigida, funzionale in passato, che oggi mostra i suoi limiti. La sofferenza è silenziosa, non sintomatica, ma esistenziale. Il rischio principale non è il crollo, bensì la cronicizzazione di una vita psichicamente impoverita.