Fb 23 gennaio ‘22 – III C
Si chiudono libri e si apre la vita (di Ermes Ronchi)
Luca ci racconta la scena delle origini, una scena da stampare nel cuore. Lo fa quasi al rallentatore, a sottolineare l’estrema importanza di questo momento. Gesù arrotola il volume, lo consegna, si siede. Tutti gli occhi sono fissi su di lui. Risuonano nella stanza le sue prime parole ufficiali: «oggi la parola di Isaia diventa carne».
Si chiudono i libri e si apre la vita. Dalla carta scritta al respiro vivo. Dall’antico profeta a un rabbi che non impone pesi, ma li toglie, che non porta precetti, ma libertà.
Non di un nuovo profeta si tratta, e neppure del più grande: Gesù realizza la Parola di Dio perché è lui la Parola. È lui l’uomo sognato da Isaia, libero come nessuno, dall’occhio luminoso e penetrante, povero e gioioso, e i suoi giorni sono grazia, puro bene e accoglienza. È lui il Dio che ha posto il proprio fine al di fuori di se stesso, nell’uomo; è lui il Dio la cui passione ultima e urgente siamo noi.
L’umanità è descritta con quattro aggettivi: povera, prigioniera, cieca, oppressa. E Dio diventa Adamo con quattro desideri: portare gioia, liberazione, occhi nuovi, respiro. E poi con un quinto spalanca il cielo, e rivela uno dei tratti più belli del suo volto: «proclamare l’anno di grazia del Signore», un anno, un secolo, mille anni, una storia intera di benevolenza, perché Dio non solo è buono, ma esclusivamente buono, incondizionatamente buono.
I primi destinatari sono i poveri, veri principi del Regno, e Dio sta alla loro ombra. È importante. Infatti, nel Vangelo ricorre di più la parola poveri, che la parola peccatori. La Buona Notizia non è una morale più esigente o più elastica, ma Dio che si china come madre sul figlio che soffre, ricominciando la sua creazione dai sotterranei della storia, da coloro che non ce la fanno. Si china perché nasca un Adamo nuovo, veggente e felice, perché la terra sia libera dai prigionieri e dagli oppressi. Solo la tenerezza combattiva di Dio ha questo potere.
Il regno di Dio è rivolto direttamente agli uomini, questo sta a cuore a Gesù. E’ un Dio che dimentica se stesso, che non di sé si ricorda, ma di noi. Per ogni povertà, per la fame di pane e quella di senso, perché l’uomo preferisce morire di fame, che morire di assurdo.
Dio che non offre libertà in cambio di ossequio, ma ama per primo, ama in perdita, non si volta per vedere se ne ha un contraccambio. Ama e guarda oltre.
La parola chiave del sogno di Gesù è quindi libertà, ripetuta due volte. Ma come mi libera? «Cristo è dentro me come energia implacabile, fintanto che il mio essere non diventa luminoso; dentro me come germe che va maturando. Come un sogno di pienezza, indomabile e attivo, come desiderio di libertà» (G. Vannucci).
Come lievito mite e possente egli trasforma il mio pianto in danza, il mio sacco logoro in veste di gioia.
Avvenire
III domenica C
Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Erano appena risuonata la voce di Isaia: parole così antiche e così amate, così pregate e così desiderate, così vicine e così lontane.
Gesù ha cercato con cura quel brano nel rotolo: conosce bene le Scritture, ci sono mille passi che parlano di Dio, ma lui sceglie questo, dove l’umanità è definita con quattro aggettivi: povera, prigioniera, cieca, oppressa. Allora chiude il libro e apre la vita. Ecco il suo programma: portare gioia, libertà, occhi guariti, liberazione. Un messia che non impone pesi, ma li toglie; che non porta precetti, ma orizzonti.
E sono parole di speranza per chi è stanco, è vittima, non ce la fa più. Dio riparte dagli ultimi della fila, raggiunge la verità dell’umano attraverso le sue radici ammalorate. Adamo è povero più che peccatore; è fragile prima che colpevole; siamo deboli ma non siamo cattivi, è che abbiamo le ali tarpate e ci sbagliamo facilmente. Nel vangelo mi sorprende e mi emoziona sempre scoprire che in quelle pagine accese si parla più di poveri che di peccatori; più di sofferenze che di colpe. Non è moralista il vangelo, è liberatore.
Dio ha sofferto vedendo Adamo diventare povero, cieco, oppresso, prigioniero, e un giorno non ha più potuto sopportarlo, ed è sceso, ha impugnato il seme di Adamo, ha intrecciato il suo respiro con il nostro respiro, i suoi sogni con i nostri. È venuto ed ha fatto risplendere la vita, ha messo canzoni nuove nel cuore, frantumi di stelle corrono nelle nostre vene. Perché Dio non ha come obiettivo se stesso, siamo noi lo scopo di Dio. Il catechismo sovversivo, stravolgente, rivoluzionario di Gesù: non è l’uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l’uomo. E considera ogni povero più importante di se stesso. Io sono quel povero. Fiero per fierezza d’amore: nessuno ha un Dio come il nostro.
E poi Gesù spalanca ancora di più il cielo, delinea uno dei tratti più belli del volto del Padre: “Sono venuto a predicare un anno di grazia del Signore”, un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell’umanità (R. Virgili); un anno, un secolo, mille anni, una storia intera fatta solo di benevolenza, a mostrare che Dio non solo è buono, ma è soltanto buono.
“Sei un Dio che vivi di noi” (Turoldo). E per noi: “Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano. Un divino cui non corrisponda la fioritura dell’umano non merita che ad esso ci dedichiamo.” (D. Bonhoffer).
Forse Dio è stanco di devoti solenni e austeri, di eroi dell’etica, di eremiti pii e pensosi, forse vuole dei giullari felici, alla san Francesco, felici di vivere. Occhi come stelle. E prigionieri usciti dalle segrete che danzano nel sole. (M. Delbrêl).