QOELET (1,1-16) Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia. Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto. Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito.
Io, Qoèlet, sono stato re d’Israele in Gerusalemme. Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. È questa una occupazione penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino. Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento. Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare. Pensavo e dicevo fra me: «Ecco, io ho avuto una sapienza superiore e più vasta di quella che ebbero quanti regnarono prima di me in Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza». Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento, perché molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere, aumenta il dolore.
PRECISAZIONE
La parola “vanità” nel Qoelet (o Ecclesiaste) proviene dalla parola ebraica “hevel”, che letteralmente significa “soffio”, “vapore” o “alito”. Questo termine non si riferisce alla “vanità” intesa come superbia o vanagloria, ma piuttosto alla fugacità e alla transitorietà della vita e delle esperienze umane. Nel contesto del Qoelet, “hevel” esprime l’idea che molte cose nella vita siano temporanee, effimere, e difficili da afferrare. Spesso, nel libro, si legge l’espressione “vanità delle vanità, tutto è vanità”, che sottolinea come il Qoelet consideri molte delle attività e degli sforzi umani privi di significato duraturo. Il termine riflette una visione della vita in cui la maggior parte delle cose che gli esseri umani perseguono — il lavoro, la ricchezza, il piacere, la sapienza — alla fine si rivelano insoddisfacenti o prive di sostanza se viste nella prospettiva dell’eternità. Per questo, il messaggio centrale del Qoelet è che l’essere umano non può afferrare il senso ultimo dell’esistenza con le sole forze umane: la vita è imprevedibile e spesso al di là del nostro controllo. In sintesi, “vanità” nel Qoelet non significa “superbia”, ma piuttosto indica l’**inconsistenza e la transitorietà** delle cose terrene.