Fb 18 luglio 21

Mc 6,30-34

Non un luogo ma un tempo  (di p. Ermes Ronchi)

Partiti due a due, i discepoli tornano carichi d’umanità toccata e guarita. E attorno a loro così tanta gente che non avevano più il tempo per mangiare, per vivere.

Tutto questo può essere esaltante, può sembrare la benedizione di Dio sulla missione. Invece Gesù vede più lontano. Il successo non lo esalta, l’insuccesso non lo deprime: queste cose sono solo la superficie mobile delle onde, e non la corrente profonda degli eventi.

E allora si preoccupa di riportare i suoi all’essenziale: venite in disparte! Riposatevi un po’. Parola bella come un miracolo, filo saldo che corre nel racconto: è in ansia per i suoi amici!

C’è tanto da annunciare, c’è tanto da guarire. Israele è pieno di vedove di Naim che piangono figli morti, e di pietre pronte a lapidare adultere prostrate. E Gesù, invece di lanciare i discepoli dentro il frullatore dell’apostolato, li porta via con sé, in disparte. Quasi a perdere tempo.

Ma nella bibbia, il deserto vuole sempre e solo parlare al cuore (Osea 2).

A Lui interessa ciò che sei, non ciò che fai. Non chiede ai dodici di pregare affinando il metodo per nuove missioni, ma di prendersi del tempo per essere.

È il gesto d’amore di chi ti ama e ti vuole felice.

C’è un tempo per agire e un tempo per ritrovare i motivi del fare. Se vuoi fare bene tutte le cose, ogni tanto smetti di farle (S. Ambrogio). E come loro anch’io ho il dovere di accogliere il mio bisogno di riposo e di attenzioni, quando si affaccia sulla mia fatica.

Stare “in disparte” è molto di più che riprendere fiato. È rivivere il giorno del Signore quando vide che tutto era bello, e si riposò. La vera terra promessa non è un luogo, ma un tempo, e questo tempo è il settimo giorno. Là Egli parlerà al cuore, lo attirerà a sé: sarà rivelazione e presenza.

Sbarcando tra la folla, si commosse per loro. Gesù è preso fra due compassioni in conflitto: la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. E sceglie di insegnare agli apostoli, e a noi, l’arte difficile del dimenticarsi.

Partiti per restare soli, i Dodici imparano ad essere a disposizione dell’uomo, sempre. Gesù dice: prenditi del tempo. E subito aggiunge: ma il tuo tempo non è per te, è per l’uomo! E cambia i suoi programmi, insegnando loro molte cose, e partendo dalla compassione per il dolore del mondo.

Il tesoro che i Dodici porteranno con sé dalla riva del lago è lo sguardo di Gesù che si commuove e non lo nasconde.

Stai con Gesù, lo guardi e impari a a guardare, prima ancora di agire. Come fa ogni  cucciolo osservando la madre vivere. Poi, solo dopo, le parole verranno e sapranno di cielo. Lo saranno quando saprai commuoverti, lasciando così il mondo innestarsi nella tua anima.

Gesù sa che ad annullare la speranza non è il dolore, ma l’essere senza conforto. Sa che l’arcobaleno della compassione è un ponte lanciato nel cielo.

 

Avvenire XVI B Marco 6,30-34

Venite in disparte e riposatevi un po’.

I suoi sono ritornati felici da quell’invio a due a due, da quella missione in cui li aveva lanciati, un pellegrinaggio di Parola e di povertà.

I Dodici hanno incontrato tanta gente, l’hanno fatto con l’arte appresa da Gesù: l’arte della prossimità e della carezza, della guarigione dai demoni del vivere. Ora è il tempo dell’incontro con se stessi, di riconnettersi con ciò che accade nel proprio spazio vitale. C’è un tempo per ogni cosa, dice il sapiente d’Israele, un tempo per agire e un tempo per interrogarsi sui motivi dell’agire. Un tempo per andare di casa in casa e un tempo per “fare casa” tra amici e con se stessi.

C’è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove di Nain, lacrime, eppure Gesù, invece di buttare i suoi discepoli dentro il vortice del dolore e della fame, li porta via con sé e insegna loro una sapienza del vivere.

Viviamo oggi in una cultura in cui il reddito che deve crescere e la produttività che deve sempre aumentare ci hanno convinti che sono gli impegni a dare valore alla vita. Gesù ci insegna che la vita vale indipendentemente dai nostri impegni (G. Piccolo).

La gente ha capito, e il flusso inarrestabile delle persone li raggiunge anche in quel luogo appartato. E Gesù anziché dare la priorità al suo programma, la dà alle persone. Il motivo è detto in due parole: prova compassione. Termine di una carica bellissima, infinita, termine che richiama le viscere, e indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro. La prima reazione di Gesù: prova dolore per il dolore del mondo.

E si mise a insegnare molte cose. Forse, diremmo noi, c’erano problemi più urgenti per la folla: guarire, sfamare, liberare; bisogni più immediati che non mettersi a insegnare. Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi che continuiamo a mortificare, ad affamare, a disidratare. A questa Gesù si rivolge, come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via.

Questo Gesù che si mette a disposizione, che non si risparmia, che lascia dettare agli altri l’agenda, generoso di sentimenti, consegna qualcosa di grande alla folla: “Si può dare il pane, è vero, ma chi riceve il pane può non averne bisogno estremo. Invece di un gesto d’affetto ha bisogno ogni cuore stanco. E ogni cuore è stanco” (Sorella Maria di Campello).

È il grande insegnamento ai Dodici: imparare uno sguardo che abbia commozione e tenerezza. Le parole nasceranno. E vale per ognuno di noi: quando impari la compassione, quando ritrovi la capacità di commuoverti, il mondo si innesta nella tua anima, e diventiamo un fiume solo.  Se ancora c’è chi sa, tra noi, commuoversi per l’uomo, questo mondo può ancora sperare.