21 Fb II di Pasqua Gv 20, 19-31

NON OSTACOLI MA OPPORTUNITA’ (di p. Ermes Ronchi)

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei Giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene.
Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto. E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il vangelo: ‘in mezzo a loro’. E dice: Pace a voi. Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, ora, qui. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sulle delusioni patite, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso.
Gesù e Tommaso, loro due cercano. Si cercano.
Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di rimproverarli, si mette a disposizione delle loro mani.
Tommaso non si era accontentato delle parole degli altri dieci; non di un racconto aveva bisogno, ma di un incontro con il suo Signore. Che viene una prima volta ma poi ritorna, che invece di imporsi, si propone; invece di ritrarsi, si espone alle mani di Tommaso: Metti qui il tuo dito; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.
La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto dell’amore, e allora resteranno eternamente aperte. Su quella carne l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come l’amore stesso.
Il vangelo non dice che Tommaso abbia davvero toccato e messo il dito nel foro. A lui è bastato quel Gesù che si propone, ancora una volta, un’ennesima volta, con questa umiltà, con questa fiducia, con questa libertà, che non si stanca di venire incontro, che non molla i suoi, neppure se loro l’hanno abbandonato.
È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare: mio Signore e mio Dio.
Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine per noi che non vediamo, che cerchiamo a tentoni e facciamo fatica, e che finalmente sento mia, alla mia portata.
Grande educatore, Gesù: forma i suoi alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, alla ricerca personale più che alla docilità e all’obbedienza.
Beati i credenti! La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici, portando come Tommaso le nostre debolezze, non più ostacoli ma opportunità per l’incontro.

 

Avvenire II di Pasqua Gv 20, 19,31

Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei ma anche di se stessi, della propria viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento. Sembra che manchi l’aria.
Eppure Gesù viene, nonostante il loro e il mio cuore inaffidabile: e stette in mezzo a loro. Mi conforta pensare che se trova chiuso lui non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì.  Shalom, ha detto, saluto biblico che significa molto più della pace come semplice fine delle violenze, indica la forza dei miti e dei nonviolenti dentro la logica del più armato, la luce dei puri di cuore dentro la nebbia delle astuzie, la serenità dei giusti nelle ingiustizie, la perseveranza degli onesti fra le disonestà.
Soffiò e disse: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, il vento sottile dell’Oreb su Elia profeta, quello che scuoterà le porte chiuse del cenacolo: ecco io vi mando!
“Se non vedo e non tocco, non crederò”. Povero, caro Tommaso, diventato addirittura proverbiale! Vuole delle garanzie, e ha ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne uscirà rovesciata.
Gesù si avvicina alla nostra lentezza del credere con pochi, semplici verbi: guarda, metti, tocca. Tommaso comprende da quei fori il motivo per cui Cristo è risorto: per un amore scritto con ferite ormai incancellabili, da cui non sgorga più sangue ma luce.
Tommaso si arrende non ai suoi occhi o al suo toccare, ma a questa esperienza di pace offerta da Gesù per ben tre volte. E la sua pace scende ancora sulle nostre sconfitte, sulle nostre chiusure, sulle nostre paure.
Alla fine Tommaso passa dall’incredulità all’estasi. Se poi abbia toccato o no il corpo del Risorto, non è importante.
“Mio Signore e mio Dio”. Tommaso ripete quel piccolo “mio” che cambia tutto, che non indica possesso geloso, ma appartenenza, eco del Cantico dei Cantici: il mio amato è mio e io sono sua!
Mio Signore , che mi fai vivere, che sei la parte migliore di me. “Mio”, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. “Mio”, come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.
Beati quelli che senza aver visto crederanno. Beatitudine consolante che finalmente sento mia. Gesù mi dice beato! Beato chi fa fatica, chi cerca a tentoni, chi non vede ancora eppure cammina avanti, “siamo pellegrini senza strada, ma tenacemente in cammino” (Giovanni della Croce).
La fede è il rischio di essere beati, cioè felici. Di vivere una vita non certo più facile, ma più piena e appassionata. Ferita sì, talvolta, ma luminosa comunque e perfino guaritrice. Così termina il Vangelo, così inizia la mia sequela: col rischio di essere felice.

 

Fb II di Pasqua Gv 20, 19-31

NON OSTACOLI MA OPPORTUNITA’

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei Giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene.
Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto. E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il vangelo: ‘in mezzo a loro’. E dice: Pace a voi. Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, ora, qui. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sulle delusioni patite, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso.
Gesù e Tommaso, loro due cercano. Si cercano.
Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di rimproverarli, si mette a disposizione delle loro mani.
Tommaso non si era accontentato delle parole degli altri dieci; non di un racconto aveva bisogno, ma di un incontro con il suo Signore. Che viene una prima volta ma poi ritorna, che invece di imporsi, si propone; invece di ritrarsi, si espone alle mani di Tommaso: Metti qui il tuo dito; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.
La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto dell’amore, e allora resteranno eternamente aperte. Su quella carne l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come l’amore stesso.
Il vangelo non dice che Tommaso abbia davvero toccato e messo il dito nel foro. A lui è bastato quel Gesù che si propone, ancora una volta, un’ennesima volta, con questa umiltà, con questa fiducia, con questa libertà, che non si stanca di venire incontro, che non molla i suoi, neppure se loro l’hanno abbandonato.
È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare: mio Signore e mio Dio.
Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine per noi che non vediamo, che cerchiamo a tentoni e facciamo fatica, e che finalmente sento mia, alla mia portata.
Grande educatore, Gesù: forma i suoi alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, alla ricerca personale più che alla docilità e all’obbedienza.
Beati i credenti! La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici, portando come Tommaso le nostre debolezze, non più ostacoli ma opportunità per l’incontro.