Fb 2 maggio ’21 – V di Pasqua

Gv 15,1-8

L’un l’altro  (di p. Ermes Ronchi)

Vangelo che ruota attorno ad una immagine concreta e ad un’azione: la vite, i tralci e il verbo «rimanere». Rimanete in me. Alla sola condizione, non condizionamento ma base dell’esistenza, di nutrirvi della mia linfa.

Non sono parole astratte, sono quelle dette anche dall’amore umano. Rimanere insieme, nonostante tutte le distanze, i lunghi inverni, le forze che ci trascinano via.

La bibbia è un libro pieno di viti e di uomini di cui Dio si prende cura, e dai quali riceve un vino di gioia. Per ogni contadino la vigna è il preferito tra i campi: noi siamo la piantagione prediletta di Dio. Ma mentre nell’Antico Testamento Dio era il padrone della vigna, custode buono e operoso, ma altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù introduce una grande novità: io sono la vite, voi i tralci.

Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come la goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria, come i colori che si tuffano l’uno nell’altro e amandosi si fondono, senza gerarchie. Con l’Incarnazione di Gesù, il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio argilla, il Creatore creatura.

Dio è in me, non come padrone, ma come linfa; Dio è in me, non come voce da fuori, ma come segreto della vita. Dio è in me, per meglio prendersi cura di me.

Questa è la stagione in cui profumano i fiori della vite; ieri il vignaiolo attendeva che la linfa, salita misteriosamente lungo il ceppo, si affacciasse alla ferita del tralcio potato, come una lacrima. Allora mio padre contadino diceva: è la vite che va in amore. C’è un amore che sale dalla radice del mondo, ad un misterioso segnale di terra, di sole, di vento, e in alto apre la corteccia che sembrava secca e morta, e la incide di fiori e di foglie.

Quella linfa, goccia d’amore che trema sulla punta del tralcio, è il visibile parlare di Dio. Così l’amore percorre il mondo, sale lungo i ceppi delle vigne, risale la mia vita, lo sento: la mia linfa viene da prima di me e va oltre me; viene da Dio e va in frutti d’amore; e dice a me, piccolo tralcio: ho bisogno di te, per una vendemmia di sole e di miele. Per la dolcezza dell’uomo e di Dio.

Il Dio contadino è mio padre, si dà da fare attorno a me, per stagioni e stagioni; non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.

Non posso avere paura di un Dio così, che lavora la mia terra con tutto il suo impegno, che mi sta addosso, mi cura, mi nutre, mi pota perché io possa fiorire sotto il suo sole e produrre un frutto di bontà e di festa, sola perfezione dell’uomo secondo il vangelo.

Non puoi temere un Dio così, puoi solo sorridergli.

 

 

Avvenire V di Pasqua Gv 15,1-8  di p. Ermes Ronchi

Gesù ci comunica Dio attraverso lo specchio delle creature più semplici: Cristo vite, io tralcio, io e lui la stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa.

E poi la meravigliosa metafora del Dio contadino, un vignaiolo profumato di sole e di terra, che si prende cura di me e adopera tutta la sua intelligenza perché io porti molto frutto; che non impugna lo scettro dall’alto del trono ma la vanga e guarda il mondo piegato su di me, ad altezza di gemma, di tralcio, di grappolo, con occhi belli di speranza.

Fra tutti i campi, la vigna era il campo preferito di mio padre, quello in cui investiva più tempo e passione, perfino poesia. E credo sia così per tutti i contadini. Narrare di vigne è allora svelare un amore di preferenza da parte del nostro Dio contadino. Tu, io, noi siamo il campo preferito di Dio.

La metafora della vite cresce verso un vertice già anticipato nelle parole: io sono la vite, voi i tralci (v.5). Siamo davanti ad una affermazione inedita, mai udita prima nelle Scritture: le creature (i tralci) sono parte del Creatore (la vite). Cosa è venuto a portare Gesù nel mondo? Forse una morale più nobile oppure il perdono dei peccati? Troppo poco; è venuto a portare molto di più, a portare se stesso, la sua vita in noi, il cromosoma divino dentro il nostro DNA. Il grande vasaio che plasmava Adamo con la polvere del suolo si è fatto argilla di questo suolo, linfa di questo grappolo.

E se il tralcio per vivere deve rimanere innestato alla vite, succede che anche la vite vive dei propri tralci, senza di essi non c’è frutto, né scopo, né storia. Senza i suoi figli, Dio sarebbe padre di nessuno.

La metafora del lavoro attorno alla vite ha il suo senso ultimo nel “portare frutto”. Il filo d’oro che attraversa e cuce insieme tutto il brano, la parola ripetuta sei volte e che illumina tutte le altre parole di Gesù è “frutto”: in questo è glorificato il Padre mio che portiate molto frutto. Il peso dell’immagine contadina del vangelo approda alle mani colme della vendemmia, molto più che non alle mani pulite, magari, ma vuote, di chi non si è voluto sporcare con la materia incandescente e macchiante della vita.

La morale evangelica consiste nella fecondità e non nell’osservanza di norme, porta con sé liete canzoni di vendemmia. Al tramonto della vita terrena, la domanda ultima, a dire la verità ultima dell’esistenza, non riguarderà comandamenti o divieti, sacrifici e rinunce, ma punterà tutta la sua luce dolcissima sul frutto: dopo che tu sei passato nel mondo, nella famiglia, nel lavoro, nella chiesa, dalla tua vite sono maturati grappoli di bontà o una vendemmia di lacrime? Dietro di te è rimasta più vita o meno vita?

ci il sogno del mio Dio contadino è più grande. ha innestati in Dio in cui siamo innestatiIl perdono ha molti modi, non serv

a sorgente.

Omelia

Stupendo brano di Giovanni, dove Gesù fa piazza pulita di tanto cascame di fede stantia e di pesi caricatici sulle spalle.

Indipendentemente da ciò che faccio o non faccio, dai miei sbagli e dalle mie virtù. Perché: Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato: siamo già puri per intervento solo suo, per la sua parola, che libera. Che ci fa liberi dalla sterilità e dal senso di colpa, resi ala leggera per poter volare al soffio dello Spirito.

La Bibbia è piena di viti e di vigne. Per capire ritorno alle mia casa contadina, nel Friuli sotto le colline. quello da cui si aspettava il raccolto più importante. E credo sia così per tutti i contadini.

Io sono la vite, quella vera”. E mentre nei profeti e nei Salmi dell’Antico Testamento, Dio appariva come il proprietario, il contadino sapiente e operoso, il vendemmiatore, tutt’altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di inedito: “Io sono la vite, voi siete i tralci”.

Con l’incarnazione è accaduta una cosa straordinaria:

Perché?  Per passione di unirsi, per ansia di comunione.

Rimanete in me e io in voi. Non sono parole astratte, ma quelle che usa anche l’amore umano. Lo stare insieme dei due che si amano, nonostante tutte le distanze e gli inverni, e tutte le forze che ci trascinano via: tu in me, io in te.

Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.

Potare la vite non significa amputare, significa dare forza, qualsiasi contadino lo sa.

Inaccettabile leggere la potatura come le sofferenze portate dalla vita.

Potare è abbandonare il superfluo, per concentrarsi sull’essenziale.

Potare è togliere il vecchio perché nasca il nuovo.

Potare ci fa capire che “meno è di più”. Che si costruisce bene solo sull’essenziale, non sulla ridondanza o sull’accumulo.

Gesù è quasi sempre semplice nel suo parlare e non chiede interpretazioni complicate.

Mi chiede: vai in una vigna e guarda le viti. Io vado, e quando guardo per queste colline qualche vigna abbandonata, vedo un’immagine di sofferenza, questa sì!

La vite non potata soffre, si aggroviglia su se stessa, cade dal palo, si allunga in tralci sempre più esili e arruffati, si ammala, dà pochissimi acini minuscoli e aspri, persino le foglie sbiadiscono.

La vite potata invece è rigogliosa e bella, le foglie sono grandi e di un verde brillante, sostenuta sta eretta e riesce così a non perdersi neppure un raggio di sole, che convoglia nei suoi grandi grappoli dagli acini gonfi e pieni di succo dolcissimo. Esplode di vita, è tracimante di una gioia di vivere. Nessuna vite sofferente porta buon frutto.

Prima di tutto, devo essere sano io, gioioso io. La potatura è per gustare meglio la vita.

E lo dice nel versetto successivo: vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi (un Dio gioioso!). E la vostra gioia sia piena.

Tra il ceppo e i tralci della vite la comunione è data dalla linfa che sale. Questo è il tesoro che portiamo nei nostri vasi d’argilla. Un DNA divino scorre in noi.

Il Dio contadino dice a me, piccolo tralcio:

Ho bisogno di te per una vendemmia di sole e di miele”.

Non ho bisogno di sacrifici ma di grappoli saporosi;

non di penitenza io ho bisogno, ma che tu maturi;

non di mortificazione, ma di più gusto di vivere,

da donare a grappoli, per la pienezza dell’uomo e la pienezza di Dio.

C’è un amore che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Dobbiamo salvare il cromosoma di Dio in noi.

“Per portare frutto!” ripetuto tre volte.

A partire da me, ma non per me: la vite non produce grappoli per se stessa, nessun albero fa e consuma i propri frutti, essi sono per la creazione, per le creature tutte della terra e dell’aria.

Se una pianta vivesse per se stessa, con il solo scopo di riprodursi, basterebbe un frutto ogni dieci anni, ogni 20 anni, invece ad ogni estate è uno spreco, uno scialo, un eccesso, una gioia, per uomini e animali

Ma qual è il frutto che io devo portare?

Se la mia radice è Dio, io devo fare i frutti di Dio.

Allora mi immergo nella Bibbia e cerco le sue azioni,

mi immergo nel mondo e cerco le mani di Dio,

mi chino sulla Bibbia e scopro che Dio è il liberatore,

il costruttore di alleanze, il guaritore, la tenerezza

, il lume acceso sul mio sentiero

Allora mi chinerò sul mondo e anch’io farò alleanza con tutto ciò che vive. Il mio frutto saranno relazioni solari e benedicenti con tutti!

Un’altra parola centrale: “Rimanete in me, rimanete nel mio amore”

E non è difficile!

Non è qualcosa che devo conquistare. Siamo già nel suo amore! Devo solo aprirmi. C’è un amore che scorre già in noi, che ci ha raggiunto, ci avvolge, bussa alla porta, penetra, e non verrà mai meno, una sorgente a cui possiamo sempre attingere. Il nostro compito è mantenere aperto e libero il canale.

Sento la tua voce che suona in mezzo all’anima,

voce che rende spazioso il cuore e che mi dice:

Ho bisogno di te, di te piccolo tralcio,

ho bisogno che tu mi accolga e che tu fiorisca,

ho bisogno anche di un grappolo solo

ma che sia pieno di sole e di bontà,

ho bisogno di te, piccolo tralcio,

piantato come un giardino amato

nel cuore della terra perché di un vino migliore

anche tu possa dissetare l’arsura del mondo e l’arsura di Dio. Amen.

Avvenire V di Pasqua

Una vite e un vignaiolo: cosa c’è di più semplice e familiare? Una pianta con i tralci carichi di grappoli; un contadino che la cura con le mani che conoscono la terra e la corteccia: mi incanta questo ritratto che Gesù fa di sé, di noi e del Padre. Dice Dio con le semplici parole della vita e del lavoro, parole profumate di sole e di sudore.

Non posso avere paura di un Dio così, che mi lavora con tutto il suo impegno, perché io mi gonfi di frutti succosi, frutti di festa e di gioia. Un Dio che mi sta addosso, mi tocca, mi conduce, mi pota. Un Dio che mi vuole lussureggiante. Non puoi avere paura di un Dio così, ma solo sorrisi.

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio. Io e lui, la stessa cosa, stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Novità appassionata. Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io la vite, voi i tralci. Siamo prolungamento di quel ceppo, siamo composti della stessa materia, come scintille di un braciere, come gocce dell’oceano, come il respiro nell’aria. Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso l’ultimo mio tralcio, verso l’ultima gemma, che io dorma o vegli, e non dipende da me, dipende da lui. E io succhio da lui vita dolcissima e forte.

Dio che mi scorri dentro, che mi vuoi più vivo e più fecondo. Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte?

E il mio padre è il vignaiolo: un Dio contadino, che si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. A contemplarmi. Con occhi belli di speranza.

Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza; ha lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo. Qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Così il mio Dio contadino mi lavora, con un solo obiettivo: la fioritura di tutto ciò che di più bello e promettente pulsa in me.

Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima punta dell’ultima foglia. C’è un amore che sale nel mondo, che circola lungo i ceppi di tutte le vigne, nei filari di tutte le esistenze, un amore che si arrampica e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.

“Siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto” (G. Vannucci). In una sorgente inesauribile, a cui puoi sempre attingere, e che non verrà mai meno.