fb 25 aprile 21

Gv 10,11-18

L’ulivo, nido della quercia (p. Ermes Ronchi)

Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante.

Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo, ma voi valete di più. Mi importano i gigli del campo, ma tu vali molto di più.

Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti nel cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, turbati per il suo silenzio.

Con la formula solenne delle rivelazioni, oggi Gesù afferma: Io sono il buon pastore, e per farcene capire il senso, per cinque volte ripete il verbo offrire.

Ciò che il pastore offre è la vita, e non so immaginare migliore avventura: io sono vaso che accoglie vita, sono anfora che vuole riceverne sempre più.

Sono il pastore ‘bello’, specifica il testo greco, e la bellezza, il fascino del pastore sta nella sua passione per il fiorire della vita in tutte le sue forme.

Io do la vita: non significa per prima cosa vado a morire, perché se il pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo vince, seminando disperazione e morte. Dare la vita qui è inteso nel senso che hanno ben compreso gli apostoli: della vite che dà linfa al tralcio (Giovanni); dell’ulivo innestato che trasmette potenza buona al ramo selvatico (Paolo); di uno che essendo l’autore della vita (Pietro) l’ha inventata e la scrive, sillaba per sillaba, sulle tavole di carne che siamo noi.

Io offro la mia vita significa: vi offro un’ energia di nascita dall’alto; offro germi di divinità, per farvi simili a me ( II lettura).

Un Dio compreso nel pastore che si impegna per le pecore; nella donna che offre il seno al piccolo; nell’acqua che dà vita alla steppa arida, del padre che si strugge nell’attesa del figlio lontano.  In un germoglio di quercia che miracolosamente trova casa nel grembo di un vecchio ulivo.

Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani, mani impigliate nel folto della vita, mani forti contro i lupi, mani che proteggono la fiammella smorta, mani sugli occhi del cieco, mani che scrivono nella polvere e non scagliano pietre, mai, mani trafitte offerte a Tommaso.

Da quelle mani di pastore nessuno mi rapirà mai.

Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora. Il Dio dei cristiani non sta bene nei cieli, discende e si compromette. Il cristiano non può star bene finché non sta bene suo fratello.

E tutti, a nostra volta pastori di un minimo gregge, ripetiamo le parole di Gesù, ma in silenzio e con coraggio: tu mi importi, tu incontro d’oggi o compagno di una vita, tu sei importante per me. Ciascuno di noi può essere pastore forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è affidato: la famiglia, gli amici, compagni di strada che contano su di noi e di noi si fidano.

Ho imparato che per stare bene l’uomo deve dare, perché così fa Dio. “Dare vita” significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicino. Significa trasmettere gesti e parole che ardono e fanno vivere, accensioni del cuore che rendono più bella la fede, più affettuosa la vita.

 

 

Avvenire IV di Pasqua

Io sono il buon Pastore!  Per sette volte Gesù si presenta: “io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende ‘buono’ nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l’autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello, l’unico, che mette sul piatto la sua vita.

Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell’aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro.

Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria vita.

Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono.

Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana),  del tronco d’olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata.

Il mercenario, il pecoraio, vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. Al pastore invece importano, io gli importo. Verbo bellissimo: essere importanti per qualcuno! E mi commuove immaginare la sua voce che mi assicura: io mi prenderò cura della tua felicità.

E qui la parabola, la similitudine del Pastore Bello si apre su di un piano non realistico, spiazzante, eccessivo: nessun pastore sulla terra è disposto a morire per le sue pecore; a battersi sì, ma a morire no; è più importante salvare la vita che il gregge; perdere la vita è qualcosa di irreparabile.

E qui entra in gioco il Dio di Gesù, il Dio capovolto, il nostro Dio differente, il pastore che per salvare me, perde se stesso.

L’immagine del pastore si apre su uno di quei dettagli che vanno oltre gli aspetti realistici della parabola (eccentrici li chiama Paul Ricoeur). Sono quelle feritoie che aprono sulla eccedenza di Dio, sul “di più” che viene da lui, sull’impensabile di un Dio più grande del nostro cuore.

Di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino e vorrei mettergli fra le mani tutti gli agnellini del mondo.

Ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Ogni epoca ha i suoi lupi…Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non più forti. Perché con gli agnelli lotta il pastore bello, il solo che per i cieli ci fa camminare.

Ermes Ronchi