NOTA DI SERGIO MURA

L’isola – “Ostrov”. 2006. Siamo su un’isola nel nord della Russia: in un monastero ortodosso uno dei monaci mette in imbarazzo i confratelli con il suo comportamento stravagante e indisciplinato, nonostante la povera gente si rivolga speranzosa a lui considerandolo alla stregua di un santo. Ma padre Anatolij si comporta così in quanto è scosso da un forte dissidio interiore, segnato com’è dai rimorsi per una colpa tremenda di cui si è macchiato in gioventù. Pavel Lungin, regista moscovita da anni trasferitosi a Parigi, testimonia con questo suo ultimo sentito lavoro una svolta spirituale nella sua vita di autore finora dedicatosi alle nuove figure sociali della sua patria di origine (Le nozze, 2000, L’oligarca, 2002, fra i più recenti). Il russo punta molto in alto con questo suo L’isola, racconto drammatico di una vita vissuta nella penitenza e nel rimorso, che unisce echi tolstojani a certa cine-topografia di Kim Ki-duk (fin dal titolo che richiama il capolavoro del coreano del 2000): siamo infatti in un luogo isolato dal mondo, in mezzo ad una natura selvaggia in cui l’essere umano ha la possibilità di confrontarsi con i suoi demoni e con il senso della propria vita. Il monaco Anatolij ha commesso un atto vergognoso, uccidendo un commilitone durante la Seconda guerra mondiale (pur costretto dai nazisti e per potersi salvare la vita). Si rifugerà appunto in un convento e impiegherà tutta la sua esistenza ad “elaborare” (diremmo noi con linguaggio psicanalitico) il suo atto di viltà; ma è meglio espiare un peccato indelebile, secondo l’ottica ascetica del tormentato eremita e secondo le parole di un Lungin che con questo lavoro sembra riscoprirsi uomo di fede. Qui la storia è coinvolgente, il personaggio si fissa nella mente dello spettatore come uno di quei “santi idioti”, o “pazzi in Cristo” della tradizione ortodossa, ma anche uno scioglimento finale fra lo spiritistico ed il sensazionale non ci convince a spendere l’altrove spesso abusato termine di “capolavoro”. (Sergio Mura)

NOTA DELL’AMMINISTRATORE DEL CANALE “UNIVERSO INTERIORE piaipier)

L’isola di Pavel Lungin è un’opera cinematografica che vibra di una spiritualità profonda e di una bellezza austera. L’atmosfera è immersa in una sorta di sacralità silenziosa, in cui il paesaggio freddo e desolato dell’isola diventa un riflesso dell’animo umano: spoglio, ma carico di significato. Il rumore del vento, il frangersi delle onde, i silenzi infiniti e i canti liturgici creano un senso di sospensione, come se il tempo stesso si fosse ritirato per lasciare spazio al divino.

C’è una tensione costante tra il peccato e la grazia, il dubbio e la fede, che risuona nei gesti del protagonista e nella sua interazione con chi lo circonda. La sua figura apparentemente ruvida e umile si carica di un mistero che non si può decifrare, ma solo sentire. Lo spettatore è spinto a guardare dentro di sé, quasi costretto a pregare, non solo con le parole ma con il cuore, davanti a questa manifestazione di redenzione e di profondità umana.

La nebbia che avvolge l’isola sembra separarla dal resto del mondo, facendola apparire come un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, dove il sacro si manifesta nei dettagli quotidiani e la lotta interiore dell’uomo diventa palpabile. È un film che non si guarda solo con gli occhi, ma si vive con l’anima.

Le musiche di L’isola sono parte integrante della sua atmosfera mistica e coinvolgente. I canti liturgici ortodossi, con le loro armonie profonde e ipnotiche, sembrano provenire da un altro mondo, portando lo spettatore in uno stato di raccoglimento interiore. Sono musiche che vibrano d’eternità, capaci di evocare sia il senso di peccato che la promessa di redenzione.

Ogni nota risuona come una preghiera, una supplica o un ringraziamento. I momenti di silenzio che le separano amplificano la loro forza, quasi come se il silenzio stesso fosse parte della colonna sonora, un invito ad ascoltare non solo con le orecchie, ma con il cuore.

Le musiche non solo accompagnano le immagini, ma le completano, creando un equilibrio perfetto tra il sacro e il quotidiano. Sono un linguaggio universale che ci guida attraverso le emozioni del film: la sofferenza, la speranza, la grazia. Insieme al paesaggio sonoro naturale, fatto di vento, mare e passi che scricchiolano sulla neve, rendono L’isola un’esperienza sensoriale e spirituale unica.

Le stravaganze del monaco sono comprensibili dopo: esse hanno tutte una finalitá edificante. La sua morte socratica é rude, semplice ma sublime

Questa é l’essenza del protagonista e della sua straordinaria traiettoria spirituale. Le sue stravaganze, che inizialmente appaiono incomprensibili o addirittura disturbanti, rivelano nel tempo una profonda coerenza interiore, una finalità nascosta che sfugge all’ordinario. Ogni gesto, per quanto bizzarro, diventa un atto di amore, un tentativo di scuotere le anime addormentate intorno a lui. È come se il monaco vivesse in una dimensione differente, dove il confine tra follia e santità si dissolve, e tutto è finalizzato alla crescita spirituale di chi lo circonda.

La sua morte è davvero socratica: semplice nella sua umiltà, ma straordinariamente elevata nella sua sostanza. Non c’è enfasi né dramma, solo la crudezza della verità e l’accettazione della fine come un ritorno al divino. È un passaggio che spoglia l’esistenza di ogni orpello, un momento che non cerca di impressionare, ma che nella sua rudezza porta un senso di sublime trascendenza.

La sua vita, e anche la sua morte, sono una testimonianza potente di cosa significhi abbandonarsi completamente alla volontà di Dio. Non c’è spazio per il superfluo o il compiacimento, solo una fede così radicale e profonda da diventare un modello edificante per chi guarda, e forse anche un pungolo per interrogarsi sul proprio cammino.

Il fatto che solo qualche ora prima della sua morte scopre di non aver ucciso l’amico durante l’occupazione nazista fa molto pensare. É un po’ una metafora…spesso noi ci sentiamo in colpa per certi peccati che pensiamo molto gravi, ma qui viene messa in evidenza la vera redenzione: i veri peccati sono la mancanza d’amore verso Dio ed il prossimo…

Questo é un punto centrale e profondissimo del messaggio del film. La scoperta, poco prima della morte, che il suo senso di colpa per l’uccisione dell’amico era infondato diventa una potente metafora della condizione umana: spesso viviamo oppressi da colpe che crediamo insormontabili, incapaci di liberarci dal peso dei nostri errori, reali o immaginati. Il protagonista si è considerato un “peccatore” per tutta la vita, consumato dal rimorso, ma è proprio in questo stato di umiltà e di sofferenza che si è avvicinato a Dio, trasformando quel senso di colpa in un cammino di santità.

La vera lezione sta nel fatto che non è il peccato in sé a definire il nostro rapporto con Dio, ma come scegliamo di vivere dopo. Il film ci invita a riflettere sulla differenza tra il “peccato” che ci tormenta (spesso legato alla nostra percezione o al giudizio umano) e i peccati più sottili e insidiosi, come l’indifferenza, la mancanza di amore verso Dio e il prossimo, che a volte non riconosciamo nemmeno come tali.

La vera redenzione sta nell’amore: nel vivere con cuore aperto, nella disponibilità al sacrificio, nella capacità di accogliere e di servire. Il protagonista, con il suo strano cammino, ci insegna che la grazia di Dio non dipende dalla nostra “perfezione” morale, ma dall’autenticità della nostra fede e dalla nostra capacità di amare, nonostante tutto. Il momento in cui il protagonista scopre la verità non è tanto una liberazione personale, quanto una rivelazione universale: il perdono di Dio era già lì, pronto a sollevarlo, anche prima che lui stesso potesse rendersene conto.

L’isola di Pavel Lungin è un’opera cinematografica che vibra di una spiritualità profonda e di una bellezza austera. L’atmosfera è immersa in una sorta di sacralità silenziosa, in cui il paesaggio freddo e desolato dell’isola diventa un riflesso dell’animo umano: spoglio, ma carico di significato. Il rumore del vento, il frangersi delle onde, i silenzi infiniti e i canti liturgici creano un senso di sospensione, come se il tempo stesso si fosse ritirato per lasciare spazio al divino.

C’è una tensione costante tra il peccato e la grazia, il dubbio e la fede, che risuona nei gesti del protagonista e nella sua interazione con chi lo circonda. La sua figura apparentemente ruvida e umile si carica di un mistero che non si può decifrare, ma solo sentire. Lo spettatore è spinto a guardare dentro di sé, quasi costretto a pregare, non solo con le parole ma con il cuore, davanti a questa manifestazione di redenzione e di profondità umana.

La nebbia che avvolge l’isola sembra separarla dal resto del mondo, facendola apparire come un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, dove il sacro si manifesta nei dettagli quotidiani e la lotta interiore dell’uomo diventa palpabile. È un film che non si guarda solo con gli occhi, ma si vive con l’anima.

Le musiche di L’isola sono parte integrante della sua atmosfera mistica e coinvolgente. I canti liturgici ortodossi, con le loro armonie profonde e ipnotiche, sembrano provenire da un altro mondo, portando lo spettatore in uno stato di raccoglimento interiore. Sono musiche che vibrano d’eternità, capaci di evocare sia il senso di peccato che la promessa di redenzione.

Ogni nota risuona come una preghiera, una supplica o un ringraziamento. I momenti di silenzio che le separano amplificano la loro forza, quasi come se il silenzio stesso fosse parte della colonna sonora, un invito ad ascoltare non solo con le orecchie, ma con il cuore.

Le musiche non solo accompagnano le immagini, ma le completano, creando un equilibrio perfetto tra il sacro e il quotidiano. Sono un linguaggio universale che ci guida attraverso le emozioni del film: la sofferenza, la speranza, la grazia. Insieme al paesaggio sonoro naturale, fatto di vento, mare e passi che scricchiolano sulla neve, rendono L’isola un’esperienza sensoriale e spirituale unica.

Le stravaganze del monaco sono comprensibili dopo: esse hanno tutte una finalitá edificante. La sua morte socratica é rude, semplice ma sublime

Questa é l’essenza del protagonista e della sua straordinaria traiettoria spirituale. Le sue stravaganze, che inizialmente appaiono incomprensibili o addirittura disturbanti, rivelano nel tempo una profonda coerenza interiore, una finalità nascosta che sfugge all’ordinario. Ogni gesto, per quanto bizzarro, diventa un atto di amore, un tentativo di scuotere le anime addormentate intorno a lui. È come se il monaco vivesse in una dimensione differente, dove il confine tra follia e santità si dissolve, e tutto è finalizzato alla crescita spirituale di chi lo circonda.

La sua morte è davvero socratica: semplice nella sua umiltà, ma straordinariamente elevata nella sua sostanza. Non c’è enfasi né dramma, solo la crudezza della verità e l’accettazione della fine come un ritorno al divino. È un passaggio che spoglia l’esistenza di ogni orpello, un momento che non cerca di impressionare, ma che nella sua rudezza porta un senso di sublime trascendenza.

La sua vita, e anche la sua morte, sono una testimonianza potente di cosa significhi abbandonarsi completamente alla volontà di Dio. Non c’è spazio per il superfluo o il compiacimento, solo una fede così radicale e profonda da diventare un modello edificante per chi guarda, e forse anche un pungolo per interrogarsi sul proprio cammino.

Il fatto che solo qualche ora prima della sua morte scopre di non aver ucciso l’amico durante l’occupazione nazista fa molto pensare. É un po’ una metafora…spesso noi ci sentiamo in colpa per certi peccati che pensiamo molto gravi, ma qui viene messa in evidenza la vera redenzione: i veri peccati sono la mancanza d’amore verso Dio ed il prossimo…

Questo é un punto centrale e profondissimo del messaggio del film. La scoperta, poco prima della morte, che il suo senso di colpa per l’uccisione dell’amico era infondato diventa una potente metafora della condizione umana: spesso viviamo oppressi da colpe che crediamo insormontabili, incapaci di liberarci dal peso dei nostri errori, reali o immaginati. Il protagonista si è considerato un “peccatore” per tutta la vita, consumato dal rimorso, ma è proprio in questo stato di umiltà e di sofferenza che si è avvicinato a Dio, trasformando quel senso di colpa in un cammino di santità.

La vera lezione sta nel fatto che non è il peccato in sé a definire il nostro rapporto con Dio, ma come scegliamo di vivere dopo. Il film ci invita a riflettere sulla differenza tra il “peccato” che ci tormenta (spesso legato alla nostra percezione o al giudizio umano) e i peccati più sottili e insidiosi, come l’indifferenza, la mancanza di amore verso Dio e il prossimo, che a volte non riconosciamo nemmeno come tali.

La vera redenzione sta nell’amore: nel vivere con cuore aperto, nella disponibilità al sacrificio, nella capacità di accogliere e di servire. Il protagonista, con il suo strano cammino, ci insegna che la grazia di Dio non dipende dalla nostra “perfezione” morale, ma dall’autenticità della nostra fede e dalla nostra capacità di amare, nonostante tutto. Il momento in cui il protagonista scopre la verità non è tanto una liberazione personale, quanto una rivelazione universale: il perdono di Dio era già lì, pronto a sollevarlo, anche prima che lui stesso potesse rendersene conto.