Fb 16 agosto XX
LA CONVERSIONE DI DIO
Pochi personaggi nel Vangelo sono simpatici come lei: non prega per sé, ha fantasia, non si arrende ai silenzi e al rifiuto, e intuisce sotto il no di Gesù tutta l’impazienza del sì.
La straniera delle briciole. Colei che sa con quale strumento si cambia la vita: l’incontro.
Lei spera che a Dio interessi la felicità dei suoi figli, e non la loro fedeltà. Che una ragazzina fenicia abbia la priorità sul culto e sulle leggi dei leviti, e su tutte le formule di fede. Spera che il diritto supremo davanti a Dio sia dato dal grido, e non dalla razza o dalla religione. Diritto che sia dei giudei come dei fenici, dei credenti e dei pagani, sotto il cielo di Tiro come quello di Nazaret.
Crede che gloria di Dio è l’uomo vivente.
Grandezza di una fede che supera. Che vola, fiera e dritta, ad altezza d’occhi.
Anche i discepoli intervengono: rispondile, così ci lascia in pace. Ma Gesù è netto, è brusco: sono stato mandato solo per quelli della mia terra!
La donna non molla. Aiutami! Gesù replica in modo ancora più ruvido: non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani; i pagani, dai giudei, erano chiamati “cani”.
Ed ecco il genio femminile che lo asseconda mentre lo cambia: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole cadute dalla tavola dei padroni.
Questa madre sembra dire, provocatoria: non puoi fare briciole di miracolo, briciole di segni, per questi “cani pagani”?
È la svolta del dialogo, è la frase che cambia tutto. Questa immagine illumina un attonito Gesù che cresce nella fede, che cambia e perfeziona la sua missione: nel regno di Dio, non ci sono figli e non, uomini e cani, ma solo fame da saziare, compresa quella di tutti i cuccioli del mondo.
Gesù impara Dio e l’uomo dall’intelligenza di una madre che non conosce Jahvè, che adora Baal e Astarte, che non ha il bagaglio di fede dei teologi, ma solo quello sacro del dolore.
Spiazzato, la dichiara donna di grande fede.
Oggi nel nostro presente di fame e festa, di vacanze e miseria, un fiume di donne cananee implora ancora aiuto per i propri cuccioli sfiniti.
Tante sulla terra le madri che, proprio adesso, a Tiro e Sidone, non sanno il credo ma sanno il cuore di Dio. Lo sanno da dentro. E chiedono briciole.
Immensa è allora la fede sul mondo, dentro e fuori la Chiesa.
E se il dolore impedirà di pregare, se sarà solo muta paura, Dio si farà vicino, pane per i figli, briciole per i cuccioli. Senza merito o demerito conterà le lacrime stanche di ognuno. Una ad una.
Da questo incontro fra stranieri di frontiera, brusco e rasserenante, emerge un sogno: il mondo come grande casa di pane, dove non ci sono noi e gli altri. Dove ognuno, come Gesù, impara da ognuno. E una corona di figli che di sotto la tavola saranno alzati sul candelabro, perché anch’essi siano luce della mensa comune.
Perchè tutti, tutti, sono noi.
dall’Avvenire
Matteo 18,21-35
«Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette», sempre: l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Gesù non alza l’asticella della morale, porta la bella notizia che l’amore di Dio non ha misura.
E lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore «allora, gettatosi a terra, lo supplicava…»
Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre.
Quando noi preghiamo: rimetti i nostri debiti, stiamo chiedendo: donaci la libertà, lasciaci per oggi e per domani tutta la libertà di volare, di amare, di generare.
Ma il servo perdonato «appena uscito»: non una settimana, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma «appena uscito», ancora stordito di gioia, appena liberato «preso per il collo il suo collega, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui condonato di milioni!
Nitida viene l’alternativa evangelica: non dovevi anche tu aver pietà ? Siamo posti davanti alla regola morale assoluta: anche tu come me, io come Dio… non orgoglio, ma massima responsabilità. Perché perdonare? Semplice: perché così fa Dio.
Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito. Quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché liberare dal debito, aggiungo una sbarra alla prigione. Penso di curare una ferita ferendo a mia volta. Come se il male potesse essere riparato, cicatrizzato mediante un altro male. Ma allora saranno non più una, ma due ferite a sanguinare. Il vangelo ci ricorda che noi siamo più grandi della storia che ci ha partorito e ferito, che possiamo avere un cuore di re, che siamo grandi quanto “il perdono che strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri il male subìto, rompe la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt).
Il tempo del perdono è il coraggio dell’anticipo: fallo senza aspettare che tutto si verifichi e sia a posto; è il coraggio degli inizi e delle ripartenze, perché il perdono non libera il passato, libera il futuro.
Poi l’esigenza finale: perdonare di cuore… San Francesco scrive a un guardiano che si lagnava dei suoi frati: farai vedere negli occhi il perdono. Non il perdono a stento, non quello a muso duro, ma quello che esce dagli occhi, dallo sguardo nuovo e buono, che ti cambia il modo di vedere la persona. E diventano occhi che ti custodiscono, dentro i quali ti senti a casa. Il perdonante ha gli occhi di Dio, colui che sa vedere primavere in boccio dentro i miei inverni.
p:Ermes Ronchi