(legge l’attore Gianni Mistri)
Quando osservo dal suo Castello
la città che mi donò i natali,
mi è raro un momento più bello
perché lo spirito apre le ali,
per poi sui luoghi d’infanzia volare
sopra allo storico Giardin Grande,
che solevo per anni frequentare,
nelle mie infantili scorribande,
ai bei giorni di Santa Caterina
allorché di giostre si animava,
e cresceva in me l’adrenalina
con le novità che esso recava.
Da quel magico piazzale poi vola
l’animo mio nel dolce rimembrare
antichi luoghi come in moviola
con le loro piante a me sì care.
Nella scuola dedicata al Nievo
la leggenda amavo ascoltare
di chi costruì questo rilievo
che la piana voleva dominare.
Fu proprio Attila degli Unni re
che la grande Aquileia devastò:
fu tra i barbari il pieno di sé,
la romana civiltà egli annientò.
Ora si sa che il morenico colle
sin dai romani fu preso di mira
e che un console latino volle
mura i cui resti si ammira.
Lo sguardo tutta la città abbraccia
che da qui si sviluppa a spirale,
e poi penso quante sudate braccia
han travagliato per renderla tale.
Ma mille anni dopo Cividale
“Udene” divenne il suo nome:
fu Ottone che al “re” patriarcale
la donò, non si sa perché e come.
Bertoldo di Andechs la preferiva
alla ducale città più potente,
ed è qui che ormai stabiliva
il gran potere su tutta la gente.
Poi sotto i nobili del gastaldo
assunse il diritto di mercato,
diventando di fatto un araldo
del gran friulano patriarcato.
Quei periodi furon oscuri,
da Gorizia e Venezia contesa
gli interessi non furono puri
allo straniero s’era poi arresa.
La Patria del Friuli fu scossa
dalla vicina potente Venezia,
che con pretesti ed abile mossa
liberò le vie per la sua spezia.
Udene, che da tempo primeggiava,
poiché da’ patriarchi preferita,
Cividal ed Aquileia snobbava
ma poi fu nel più profondo ferita
dalla nota veneziana bramosia
che con cavalieri bene armati
cacciò i patriarchini difensor via
lasciando suoi nobili coi soldati.
Tra questi i conti di Savorgnano
da Aquileia furon discendenti
e Federico, nobil veneziano
divenne, ma dopo molti eventi.
Udene, centinaia d’anni dopo
ebbe i Savorgnan come signori,
li divideva come era d’uopo
poderi, case, preziosi ed ori.
Il casato Torre da una parte,
dall’altra i Savorgnano del Monte,
patrizi veneti poi sulle carte
non contenti del titolo di conte.
Fu l’imperatore Massimiliano
che, per estendere i suoi domini,
volle il dominator veneziano
ben sottomettere ai suoi confini,
poi scatenando atroci conflitti
nella povera patria friulana.
Calpestarono umani diritti
l’arma austriaca e veneziana.
In quegli anni piuttosto oscuri
il venezian Savorgnano Antonio
si trovava coi suoi uomini duri
a difendere il gran patrimonio
che la Serenissima deteneva
a Cividale ormai decadente.
Al ramo del Torre apparteneva
al servizio del gran Luogotenente.
Al suo nobil fianco combatteva
il bel nipote Luigi Da Porto,
il quale un incarico aveva
pur tra scritti e poemi assorto.
A più cavalleggeri comandava
come valido d’armi capitano,
la fiducia dello zio meritava
per sue doti e perché umano.
Nel palazzo Savorgnan invitato
per il suo prestigio conosciuto,
durante un gran ballo mascherato
ei rimase per un po’ come muto:
la fanciulla che avanti mirava
era veramente la più graziosa.
Lasciò allor chi lo accompagnava
e passò con lei l’ora preziosa.
Lucina era il suo bel nome,
una Savorgnan del ramo del Monte.
Luigi s’invaghì non sapendo come
e continuava a starle di fronte.
Da lei l’amor fu poi ricambiato
ma furon contrari grandi eventi:
la Zobbia Grassa aveva mutato
le sorti dei ben lontani parenti.
Monte e Del Torre antagonisti
a causa del tradimento d’Antonio
diviser i due protagonisti
che non potevano far matrimonio.
Il destino accanì con crudeltà:
Luigi fu poi ferito e accasciò.
Si erano promessi la fedeltà,
ma Lucina un Del Torre sposò.
Pensò d’esser da Lucina tradito,
Luigi ridotto come un rottame.
Scrisse la novella e fu ardito
nell’ambientarla in altro reame.
È già noto che il Genio inglese
conobbe codesta storia tradotta:
la trama in grande forma riprese
ed il dramma cambiò la sua rotta.
Or dall’ampio piazzale del castello
rivedo la impronta veneziana.
Piazze, vie e tutto ciò ch’è bello
l’antico splendore l’aria risana.
Vedo l’antica piazza Contarena
cinta da bei palazzi veneziani,
il colto visitator qui s’arena
a mirare le opere immani.
La gran Loggia dell’orafo Lionello
con le sue pietre bianche e rose
è per Udine un vero gioiello,
si distingue tra tante belle cose
che la nobile piazza adornano
ai piedi del gran colle castellano,
color che la vedono ritornano
e sempre di più Udine amano.
È sì noto per ogni udinese:
d’Ercole e Caco i monumenti
furon del Torriani, che si arrese
dopo delitti e molti tormenti.
C’è il porticato di San Giovanni
dalle colonne alla vista snelle.
Venezia fu causa di molti danni
ma donò a Udine cose belle.
Giovanni da Udine poi progettò
dell’Orologio l’amabile torre
che simbolo della città diventò
per indicar quanto il tempo scorre.
Fu poi sormontata dai due Mori
che da poco furono restaurati.
Batton le or unendosi ai cori
dei bronzi ovunque disseminati.
Sono di nuovo sull’ampio piazzale
che io frequentavo sin da bambino.
Le gran creste delle carniche Alpi
con le Giulie appaion più vicino.
Interrompe l’amabile visuale
l’abitato della Contadinanza,
poi lascio alle spalle il piazzale
per mirare tutto ciò che avanza.
vedo Santa Maria di Castello,
poi riscendo in piazza primo maggio:
tutto pare alla vista più bello
per me Udine è un gran omaggio.
Scorgo la Basilica mariana
che io frequentavo sin da infante.
Rapito da una musica strana
dell’organo mi fece un amante.
Osservo il Palazzo più avanti
che gli stupendi affreschi contiene:
del Tiepolo gli angeli e santi
e tante da lui istoriate scene.
Quando poi entro nel gotico Duomo
rimango silente a rimembrare:
or da anziano e fragile uomo
rivedo me infante a cantare.
Con Pigani, il musico maestro,
voci bianche nell’aere solenne
risonavano con aulico estro,
il ricordo resta in me perenne.
L’antica Udine oggi rifatta
non mi stanco più di rivisitare,
perché in me sempre si ricompatta
ciò che mai non potrò dimenticare.
Pier Angelo Piai
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