Se si volesse esprimere tutto che pullula nei nostri meandri mentali, si dovrebbe inventare e costruire un linguaggio tutto personale, ma allora diventerebbe incomprensibile.
In noi c’è anche il desiderio di comunicare agli altri le esperienze interiori.

I filosofi più conosciuti hanno sempre utilizzato il linguaggio filosofico presistente per poter poi personalizzare in modo creativo il proprio punto di vista. Ognuno di loro ha contribuito ad arricchire il patrimonio linguistico e culturale dell’altro e viceversa.
Così per tutte le altre categorie dello scibile umano relative alla letteratura, alla scienza ed alla tecnica.

Anche le idee ritenute più originali emergono dall’humus intuitivo sedimentato nel nostro inconscio grazie alla comunicazione con gli altri ed alle predisposizioni del nostro “io” più trascendentale.

Qualcuno ha sostenuto che il linguaggio è la casa dell’essere. Questa affermazione contiene un nucleo di verità. Il linguaggio, in fondo, è  il frutto di ciò che elaboriamo nel nostro universo interiore che, con il suo dinamismo, denominiamo “coscienza”.

Questa è potenzialmente infinita perché ha la capacità di generare idee e concetti meta-empirici. Ma tra il linguaggio e la nostra attività cosciente c’è sempre uno scarto incommensurabile, perché nessuna espressione comunicativa potrà coincidere perfettamente con la nostra visione del mondo che è sempre in evoluzione e lo è, di conseguenza, anche il linguaggio stesso.

In qualche modo il linguaggio che usiamo è un indicatore del nostro stato di coscienza perché ad esso è strettamente correlato.

Questo perché “essere” e “coscienza”  sono inscindibili, se accettiamo il presupposto che esiste in modo più autentico chi ne ha più coscienza.

Ciò è constatabile anche dalla comune esperienza. Ognuno di noi è sempre cosciente di qualcosa, anche della stessa coscienza che “oggettiviamo”  per praticità. Senza cadere nel soggettivismo più radicale, possiamo dedurre che tutto ciò che esiste è sempre elaborato dalla nostra coscienza, se si trova nel suo campo d’azione. Per esempio, quel sasso che percepisco davanti a me non ha coscienza di me, ma io ho coscienza di esso. Pur esistendo in sé, indipendentemente dalla mia esistenza, sono io che lo constato “esistente”.

Se non ci fosse alcun essere dotato di auto-coscienza, quel sasso è come se non esistesse: c’è “oggettivamente”, ma senza una coscienza percepiente non ha senso il suo “esserci” e qualcosa che non ha senso è come se non ci fosse.

Da qui deduciamo che ogni essere cosciente dona un senso a tutto ciò che esiste e, a suo modo, partecipa dell’atto creatore divino.

Il linguaggio esprime questo perché ha la capacità di  “coscientizzarci” ulteriormente e più si arricchisce di lemmi, espressioni idiomatiche, concetti ecc. più stimola l’auto-consapevolezza, dipende dall’uso che ne facciamo.

di Pier Angelo Piai