Baldini mondiale
Era il titolo a tutta pagina della gazzetta dello sport.
Qualche anno fa, ho avuto l’opportunità di assistere alla finale del campionato del mondo di ciclismo su strada. Mi sono incollato alla TV appena ho sentito che Baldini era in fuga. Trenta secondi di vantaggio sugli inseguitori; poi quaranta, poi ero in sella con lui, la stessa fatica, la stessa voglia di vittoria.
Mancava ancora tanto, troppo, al traguardo; misuravo il ritmo dei pedali, la posizione in sella, la linearità della posizione sulla strada soprattutto mi colpiva la determinazione rivelata dai primi piani alla televisione.
Un volto teso, appassionato, di chi sta dando il massimo, ma ciò che mi rincuorava era osservare il leggerissimo, quasi impercettibile sorriso di chi, nello sforzo di ogni pedalata, accarezza la vittoria.
La sentiva nel ritmo delle gambe e del respiro, anche se il cuore tradiva la normale trepidazione di chi, per un possibile anche minimo cedimento meccanico o fisico, teme di non poter raggiungere il sogno.
Man mano che il vantaggio aumentava, la speranza della vittoria era sempre più certa. La speranza si stava concretizzando.
La speranza di Baldini si è fatta certa e concreta solo dopo aver tagliato il traguardo. La speranza del cristiano invece è sempre certa e sicura, senza trepidazioni e paure. È la speranza di chi, già da ora, corre con la vittoria in tasca, perché vive e respira in quel Gesù che, per me e per te, ha già tagliato il traguardo.
Box e Calcio- Il goleador
Nel periodo in cui ero preso dallo sport, la pagina della Gazzetta che maggiormente consultavo era quella che mi dava la classifica dei marcatori. Nella box tanto mi attirava l’arte dell’aggressione, quanto mi respingeva l’immoralità del pugno. Confesso che da giovane non mi sono perso i vari Benvenuti Griffith e i Cassius Frazier.
Strano, ma leggendo la pagina preferita mi pareva francamente stonata l’esaltazione esagerata del goleador. Ho cercato di guardarmi qualche partita e valutare in effetti le varie azioni da gol. Vedevo che i marcatori erano pochi e quasi sempre gli stessi. Del resto, sia per la qualità tecnica che per la posizione in campo, da loro ci si attende il gol. Ma non mi quadra il fatto che di loro e solo di loro si parli nei titoli sportivi.
Quanto lavoro, quali finezze di dribbling e di passaggi intelligenti da parte di giocatori degni di uguale e maggior valutazione. Insomma il gol è figlio di tutta la squadra che, con intrecci meravigliosi di tutti compreso il portiere, sospinge il pallone nella porta avversaria. Il gol di uno è di tutti.
Nella chiesa onoriamo opportunamente tanti santi che si sono segnalati per atti eroici riconosciuti. Ma sono certo che nessuno di loro ha fatto gol in cielo se non grazie alla comunione della grande squadra di uomini e donne che giocano al centro o ai margini del campo, nel silenzio d’una vita e d’un lavoro, nascosti nel servizio e nell’umiltà della famiglia.
La santità di uno manifesta la bontà di molti, di tutta la squadra.
Energie e tuffi
Campione mondiale di tuffi dal trampolino, Claus di Biasi mi confidava che per un atleta, al momento del salto, è sommamente importante vivere la totale e serena concentrazione nella esecuzione del tuffo; il pieno coinvolgimento, cioè, della mente e del cuore.
Per lui non deve avere nessuna importanza quanto di positivo o di negativo possa essere accaduto prima di quel momento o possa accadere dopo.
Ho imparato che la cosa più importante all’inizio di ogni mia giornata, in preparazione ai vari salti che la vita mi riserva, è concentrarmi nell’unica cosa da fare nell’attimo presente: vivere il comandamento dell’amore dove trovo l’anima e il valore di ogni mia azione.
Questo coinvolgimento nell’unica cosa necessaria alleggerisce la mia mente dal bagaglio ingombrante delle prevenzioni, mi libera dal peso dei giudizi contro il prossimo; mi spoglia totalmente dall’egoismo e mi scioglie le preoccupazioni che sono invitato a “gettare nel Padre”.
Con l’animo sereno e l’atteggiamento vittorioso del campione, mi tuffo in Lui e gli ripeto le parole d’una canzone: “Mi fido di te, so già che tu in me vincerai”.
Il pugile suonato
Scrivo volentieri del pugile suonato perché lo sport dei pugni e dei guantoni mi ha affascinato, coinvolto per vari anni della mia vita.
Direi che il tifo per questo o quel pugile riempiva sempre più la mia fantasia. Anche se solo tramite radio, mi appassionavo di Benvenuti, Griffith, del Madison Square Garden o di Cassius, Frazier non avevo orari neppure la notte.
Ma come un pugile suonato, mi sono arreso appena i pugni hanno perso ogni attrattiva: mi sono reso conto che io vivo se sono a favore e non per “abbattere” l’altro.
E’ proprio vero che sul ring quando non ci sono più energie per combattere contro un avversario, si getta la spugna. L’arbitro dichiara la fine quando s’accorge che un pugile “suonato” allo stremo delle sue forze, accorcia le distanze e per stare in piedi s’aggrappa fino ad abbracciare l’avversario.
Fa un effetto particolarevedere un picchiatore picchiato, un campione suonato, uno sfidante che per stare in piedi abbraccia senza più mollare lo sfidato. Sembra dirgli: prenditi il mio guadagno, ma lasciami la vita.
Ho imparato anch’io a non insistere, ma a saper perdere. Tutte le volte che non mi arrendo all’Onnipotente, quattro cazzotti dell’Innamorato, mi stendono letteralmente sul ring.
Appena perdi il tuo io, ti vince Dio che ti dichiara vincitore.
Abbracciare chi ti dà le botte: amare il nemico, avvinghiarsi per amore alla croce Allora ubriachi, suonati e vinti dalla irresistibile violenza dell’Amore, si comincia a vivere da vincitori.
Atleta-Solo m’importa d’amare
Sembra semplicistico, ma è efficacemente risolutivo il solo annaffiare la radice per riattivare tutte le risorse della pianta.
E’ proprio così anche della mia e della tua vita. Lo capisci se tutti i tuoi impegni li semplifichi nel “solo m’importa d’amare”.
La potenza dell’atleta è esplosiva se è raccolta nell’attimo presente.
Ho osservato e ammirato tante volte il comportamento dell’atleta che, nelle varie fasi che precedono l’esecuzione del salto, fa di tutto per chiamare a raccolta tutte le energie.
Preriscaldamento dei muscoli che devono essere duttili e pronti a sostenere gli sforzi richiesti per la prova.
Spogliazione di tutto ciò che non è strettamente necessario al salto. Alleggerimento quindi di ogni peso secondario.
Curata posizione di partenza, alla giusta distanza dall’ostacolo per una più efficace rincorsa.
Sguardo fisso all’asticella, soppesandone con la mente l’altezza.
Anticipo mentale di ogni passo.
Concentrazione di tutte le energie da scatenare con impeto nello spiccare il salto.
Sgombero totale della mente da qualsiasi pensiero che non sia somma attenzione a ciò che si sta facendo.
M
i confidava Claus di Biasi che per un atleta, al momento del salto, è sommamente importante vivere il momento presente: il pieno coinvolgimento, cioè, d
ella mente e del cuore nella esecuzione. Per lui non deve avere nessuna importanza quanto di positivo o di negativo possa accadere prima o dopo quel momento.
All’ inizio di ogni mia giornata, in preparazione ai vari salti che la vita mi presenta, la meditazione mi offre la provvidenziale occasione di fare tutto ciò.
Questo momento mi consente di guardare la bellezza dell’esercizio cristiano di fronte alle varie incombenze che il dovere mi chiede; mi domanda di alleggerire la mia mente dal bagaglio ingombrante delle prevenzioni, dei giudizi contro il prossimo; mi comanda la spogliazione totale dall’egoismo e dalle preoccupazioni che devo in continuazione “gettare nel Padre”. “Solo m’importa d’amare – dice una canzone – so già che tu in me vincerai”.
Mi aiuta a prendere atto che in ogni fase dell’esercizio, per quanto mi sembri difficile o addirittura impossibile, le energie da scatenare sono onnipotenti perché concentrate unicamente in Colui che mi dà forza.
La palestra di casa
Da vari mesi in casa ci si lamentava del cattivo stato dell’ascensore: funzionava, per così dire, a giorni alterni e ci si preoccupava perché, varie volte al giorno, si era costretti a salire le scale a piedi per andare nella propria stanza.
L’arresto dell’ascensore si rivelò provvidenziale per me: quei cinquanta gradini che facevo con riluttanza per salire al terzo piano divennero l’esercizio raccomandato dal fisioterapista: saltellare su e giù da un gradino, per una cinquantina di volte, allo scopo di sottoporre le mie ginocchia a controllati piegamenti.
Da vari giorni pioveva e ciò non favoriva la mezz’ora di marcia raccomandata dal medico a Gianni.
Ma è proprio vero che non ogni male viene per nuocere: Gianni, grazie alla pioggia, ha scoperto che in casa, questo esercizio lo poteva eseguire marciando anche su un tapis roulant della nostra palestra.
Fare le scale varie volte al giorno, marciare per mezz’ora al giorno sul nostro tapis roulant, corrispondeva esattamente all’esercizio necessario per la salute.
Abbiamo così scoperto che per gli esercizi consigliati la miglior palestra ce la offriva la struttura di casa.
Per curare in modo intensivo ed efficace la tua salute spirituale non c’è palestra migliore di quella di casa tua. L’esercizio fondamentale raccomandato da tutti gli atleti dello spirito è l’amore al prossimo. Li hai in casa i suggeritori della tua ginnastica: sono i “prossimi”, sono proprio i “più vicini”.
Gli attrezzi ginnici più immediati e più efficaci sono i piatti da lavare, la casa da spazzare con tutti gli altri servizi più concreti richiesti dal tuo prossimo.
Lasciarsi portare
Sono nato al mare, ma a me è sempre piaciuto andare in montagna. Non dico che la preferisco al mare; ma sta di fatto che quel salire per un sentiero in mezzo al bosco, quell’aria frizzantina, quelle vette che spuntano e rispuntano sempre nuove, facendo capolino tra i piniquei torrenti liberi e sonori, mi incantano e riempiono il cuore.
Al mare mi sembra di poltrire e m’annoio; in montagna, dato il mio rispettabile peso, ogni passo in salita mi impegna e mi rende fiero, lo sento e lo devo volere, sognando il balzo della gazzella.
Inutilmente ogni volta raccontavo a Carpo, l’amico del cuore, le mie avventure che, benché umili, per me erano sempre da raccontare. Lui volentieri ascolta per finire col ripetere: “mi piacerebbe, vorrei anch’io, magari avessi la tua grinta ma non sono per me” e si adagiava fino al seguente racconto delle mie “arrampicate”.
Lo feci parlare con Gino, la guida più esperta della zona. Lo persi di vista e, dopo quindici giorni, percorrendo il tratto dal rifugio Auronzo al Lavaredo, tra un gruppetto di scalatori, me lo vedo imbracato e fiero da autentico arrampicatore: scarponi da roccia, caschetto, corda e moschettoni.
“Carpo, che fai?” Commosso, mi racconta che è appena sceso dallo Spigolo giallo in cordata con Gino “Ho imparato alcune piccole mosse tecniche per superare le normali difficoltà. Nei passaggi per me impossibili, Gino mi gridava: lasciati portare! Era quella la mia più grande difficoltà che vincevo dando a Gino tutta la fiducia. Così imbracato, facevo la mossa vincente: lasciarmi portare”.
Poi aggiunge: “Vero, Gino, che insegnerai anche ad Andrea la mossa vincente di chi si lascia portare?”
Capisco meglio e condivido Teresa di Lisieux che ha scelto Gesù come suo ascensore.
Lezione di nuoto
Life is now
Eravamo appena usciti da una luminosa lezione sul come vivere il presente. Ci hanno detto che sa vivere chi ama nel presente; solo nell’attimo presente è possibile amare. Non vale il passato “ho amato”, perché non c’è più; non vale il futuro “amerò”, perchè non c’è ancora. Vale solo il presente “amo”, perché ho solo il presente.
C’è un esercizio da fare per liberarsi dal peso del passato e dalle preoccupazioni del futuro. Passato e futuro come minacce incombono e come piovre tendono a intaccare e disturbare la preziosità del presente. Ecco perché in ogni momento bisogna far l’esercizio di staccarsene, offrendoli, perdendoli.
Guarda come l’aquila vola: con continui colpi d’ala – destra e sinistra – si divincola contemporaneamente dal passato e dal futuro per possedere il cielo del presente. Il volo è proprio un liberarsi dal passato e dal futuro; il volo è il tuo presente pieno di forza, leggerezza e libertà.
Tornando a casa abbiamo assistito ad una lezione di nuoto. Guarda, mi diceva l’amico, come fa quel ragazzo per nuotare: una bracciata a destra e poi una a sinistra; con la sinistra sembra donare il passato e poi con la destra il futuro. Prova ripetere a Dio ad ogni bracciata: ti offro il passato, ti affido il futuro; ti offro il passato, ti affido il futuro: respirerai e nuoterai agilmente sul mare salato della vita.
A Dio offrendo il passato e affidando il futuro tu puoi respirare il presente. Con la forza del respiro presente dai sempre nuove bracciate: ti offro il passato, ti affido il futuro. E’ così che riesci a continuare la corsa. Vivendo così hai in ogni attimo presente la vita al massimo grado
Lo sport del Papa
Tutti sappiamo quanto il S. Padre ami sciare. È un esperto sciatore. Fin da giovane, poi da sacerdote, da vescovo, da Cardinale e anche da Papa, appena poteva una giornata sugli sci la passava volentieri. Certo per divertimento, per sport. Lo scopo principale è poter “far gambe” che gli consentissero di camminare per le vie del mondo, novello buon pastore alla ricerca della pecorella smarrita.
Com’è bello vedere o intravedere il “bianco Padre” confondersi col candore della neve, perdersi in quei campi luminosi e senza confini. Mi sembra un ottimo esercizio per chi ama senza confini.
Il Papa ama il nuoto. Certo per rinforzare quei muscoli anche delle braccia che in continuazione devono alzarsi a benedire, accarezzare, sollevare e salutare. Stare a galla è questione di fiducia dell’acqua. Pietro sa bene che camminare sulle acque limacciose di “questo mondo tutto nel maligno” è solo questione di fiducia in Dio. Come pure fare una pesca abbondante in un mare arido di pesci è solo qu
estione di fiducia nella parola di Gesù: “in verbo tuo”.
Ogni anno il Papa va in ferie in alta montagna. H
anno bisogno di essere abbondantemente ossigenati quei polmoni che devono dare la giusta spinta a quella voce che con forza proclama incessantemente la parola di Dio.
Il papa esercita, come mi dicono, tanti sport. Non ultima la ginnastica da camera per continuare a avere quella forza che gli permetta di andare oltre oceano, sopportare variazioni di clima. Robustezza di salute che consenta di percorrere e vivere sotto ogni latitudine e longitudine.
Tutti questi tipi di sport sono abbondantemente sorretti e accompagnati da ore ed ore di preghiera, ovunque, dove il Papa non è solo un uomo tra gli uomini, ma soprattutto un “uomo di Dio” che deve confermare e consolidare i fratelli. Insomma questa permanente unione con Dio fa di lui il “Santo Padre”, colui al quale Gesù ha chiesto e chiede di “amarlo più di tutti”.
Lassù a mani alzate
Molti di noi hanno provato un senso di sgomento alla notizia improvvisa e tragica, della morte di Pantani. Campione che con le sue gesta sportive è entrato nel cuore di tutti.
Qualcuno ha esclamato: la colpa è un po’ nostra se è morto disperato; se non gli siamo stati vicini nella sua depressione; se l’abbiamo lasciato solo e abbandonato; se… e tante altre espressioni di rammarico che comunque sono segno evidente d’un affetto donato e d’una solenne lezione che abbiamo tutti ricevuto da questo dramma umano prima che sportivo.
Mi sembra che questo modo tragico di andarsene abbia fatto arrivare a tutti l’urlo muto, e non per questo meno lacerante, di chi si chiede un perché e non ne ha avuto adeguata risposta.
Caro Pantani lo schermo della televisione, anche in questi giorni, ti ha riproposto nei tuoi momenti vittoriosi, giorni di gloria in bici tra due ali di folla che tripudiava al tuo passaggio, traguardi e arrivi con le mani alzate come vincitore e con quel sorriso che tradiva sforzo e dolore. Grazie. Hai donato, a chi ti attendeva in fuga solitaria, momenti di grande entusiasmo e di orgogliosa appartenenza alla tua Italia.
Volevi a tutti i costi essere primo, a tutti i costi volare più che pedalare, a tutti i costi far traboccare i tuoi tifosi di tripudio e di riconoscenza.
Ma quanto ti è costato accontentare la nostra avidità che ti voleva a tutti i costi come nostro campione. Lasciami dire che ti sei immolato più per noi che per te stesso. Abbiamo goduto e insieme tremato per gli eccessi a cui ti sei abbandonato per salire, salire, pedalare quasi danzando
Inebriato dalla folla volevi volare, ma ti sono mancate le ali. Volevi salire con la snellezza del capriolo, ma hai sentito il peso dei comuni mortali. Hai ascoltato più la nostra brama delle tue vittorie che la regola del saper perdere. Forse ti abbiamo perso perché ti abbiamo voluto troppo bene, egoisticamente bene.
Ma non ti abbiamo perso. Sono certo che sei entrato “a mani alzate” in quel cielo che, vero traguardo in salita, ti ha accolto vittorioso e festoso.
Sono certo che a mani alzate e riconoscenti sei andato incontro al quel Vincitore che prima di te e per te, ha conosciuto la tragedia d’un perché senza risposta, ha sofferto lo stritolamento dell’abbandono da tutti e perfino da Dio Padre al quale poi si è riaffidato.
Incontrandolo hai conosciuto chi ti ha “tirato la volata”. Lassù, lavato dal sangue dell’Agnello, hai indossato la “maglia bianca”, veste nuziale che s’addice ai vincitori nel Vincitore.
Portiere immobile
Palo di Totti e portiere immobile.
Ci fu un gran parlare; articoli in prima pagina sui giornali sportivi. Molti articoli delle pagine sportive avevano per titolo “Palo di Totti! Palo di Totti! Totti ha colpito il palo!”
Non capivo se era una grande prodezza o un errore madornale. Ecco il fatto: l’arbitro fischia una punizione in campo. Il pallone è a una ventina di metri dalla porta. Tiro di Totti. Il pallone colpisce il palo sinistro della porta, all’interno del palo stesso.
Ma la meraviglia è che il pallone ha fatto angolo retto schizzando verso il palo di destra; ha attraversato tutto lo specchio della porta, ne ha percorso esattamente il filo, e, sornione, è passato tra la linea e il portiere.
Ma non è ancora tutto. Ciò che è maggiormente degno di nota, e che ha suscitato i più curiosi commenti, è che il portiere in questo delicatissimo frangente è rimasto letteralmente immobile; non so se per scelta o per rassegnazione.
Commento d’un tifoso: se il portiere si fosse mosso per difendere la porta, facilmente avrebbe provocato un’autorete. Ribatte un altro: fortunata, indovinata e saggia immobilità. Il portiere ha risolto un caso problematico perchè non è intervenuto; ha lasciato il pallone carambolare fuori dalla rete.
Spesso il nostro miglior intervento, in certi momenti delicati e intricati della nostra vita, è proprio quello di non intervenire; fermi e fiduciosi in Dio mentre si compie la sua volontà.
Scalate dello Spirito
Alberto, dagli amici detto l’alpinista, tutti gli anni alla fine stagione estiva, tornava dalla montagna con le migliori foto scattate durante le sue arrampicate in luglio.
Lo ritraevano scoiattolo leggerissimo, con maglietta, calzoncini e scarpe, mentre scalava lo spigolo delle Lavaredo; pesantissimo invece, scarponi, giacca a vento, corda, piccozza, occhiali scuri, cappuccio tanto abbondante da mostrare solo naso e occhi, durante la spedizione sul K2.
Non occorsero tante parole per capire che vestiva leggerissimo per difendersi dal caldo, pesantissimo invece per difendersi dalle bassissime temperature. Conservare la temperatura ideale, aggiungeva, favorisce il migliore rendimento: difendersi quindi per attaccare.
Un amico, di quelli veri, con i quali si fanno le “scalate dello spirito”, un giorno mi confidò, per analogia, le stesse cose: noi, mi disse, siamo chiamati a vivere in prima linea nello scalare la montagna che spesso presenta spigoli di quinto, sesto grado; anche oltre i limiti del possibile.
Tu sai, continua, che spesso stampe, filmati, televisione, tentazioni tendono ad infiacchire, snervare, disorientare lo spirito, tanto che possono lasciarti ferito e senza fiato.
Noi non possiamo perdere tempo a curarci le ferite, ma, prudentemente riparati, è urgente vivere nella temperatura ideale, rimanere sempre all’attacco per essere utili anche a quelli che sono in difficoltà
Schumacher-La Ferrari e Dio
Conversando con qualche tifoso della formula uno, sentivo dire che a parità di potenza dei motori, vince quella macchina che ha il pilota più esperto nella guida, più avveduto nello sfruttare anche le più piccole capacità della sua vettura.
Schumacher è un pilota che aderisce così bene alla sua Ferrari, vi si perde con tale scaltrezza da farla esplodere in tutta la sua potenza e velocità. La conosce e la sollecita al massimo. Insomma permette alla Ferrari di essere la Ferrari.
Il pilota che guida la Ferrari non fa un passo, ma corre e vince quanto permette alla vettura di esprimersi al meglio. Non è lui, ma è la Ferrari che corre. Quindi, seduto nella Ferrari, è veloce come la Ferrari. Si può dire che tanto la Ferrari obbedisce al pilota quanto il pilota conosce e “obbedisce” alle potenzialità della vettura.
Il cristiano è il ris
ultato dello sposalizio tra la debolezza dell’uomo e l’onnipotenza di Dio; è la cecità illuminata dal sole; il
cristiano è l’uomo che permette a Dio di fare da Dio nella sua vita. L’uomo da solo non è capace di santità; ma quando lascia vivere in sè la parola di Dio. Dio, che in lui vive, può esprimere la sua santità. S. Paolo annunciava questa realtà quando metteva in pratica la Parola di Dio: “Non son più io che vivo, ma è Gesù che vive in me”.
La creatura che più di tutte le altre ha permesso a Dio di esprimersi in tutta la sua potenzialità, è stata Maria. Maria ha sposato così bene Dio, che Dio in lei si è letteralmente sbizzarrito esplodendo in tutte le sue meravigliose capacità.
Maria si è concessa completamente alla Parola: “Si compia in me la tua parola”.
La parola di Dio è entrata in Maria così profondamente da far nascere in lei Dio stesso; quel Dio che l’ha travolta nella sua velocità e l’ha rapita nelle sue vertiginose altezze per dotarla delle sue meraviglie. Ed Ella ha potuto cantare e farci cantare per sempre: “Grandi cose ha fatto in me colui che è potente”.
Show e giocate di Totti
Mentre sorseggiavo in un bar il “buon caffè” mattutino, presi in mano il corriere della sera. Avevo poco tempo e andai subito, come ogni lunedì a curiosare nelle pagine dello sport
Primeggiava la bella vittoria dell’Inter, la rapida risalita in classifica della Juve, l’amara sconfitta del Chievo. Ma ciò che subito mi sorprese, in fondo alla pagina, fu un brevissimo trafiletto, si direbbe un riempitivo, messo lì proprio per chi spulcia notizie fino all’ultima goccia, come io faccio con la tazzina di caffè.
Titolo in grassetto: “lo show e le giocate di Totti in campo nascono in famiglia”. Ho chiuso il giornale, l’ho lasciato sul tavolo del bar e me ne sono venuto al mio computer per scrivere queste righe.
Vivi la famiglia, creati intorno una famiglia e sarai il meglio per te e per gli altri. Totti ha superato alla grande la crisi che per un periodo ha annebbiato le sue prestazioni sportive; ha ripreso al massimo la sua genialità e fantasia di gioco innamorandosi di sua moglie.
Lei lo contraccambia puntualmente anche quando partecipa allo stadio orgogliosa di lui. Va letteralmente in delirio vedendo il suo Francesco che ad ogni goal corre per il campo col ciuccio in bocca per segnalare a tutto il mondo la sua gioia di essere papà.
Totti, magico in campo – commenta il giornale – perché sta vivendo un momento magico in famiglia, nella quale, fecondità dell’amore, presto il primo bebè avrà compagnia.
Ad Udine, dove abitava come attaccante dell’Udinese, lo stesso Virdis mi raccontava delle meravigliose piroette e delle fantasiose girate in porta. “Tutto in campo mi riesce bene e in maniera sorprendente nei periodi in cui c’è la massima serenità e stima reciproca con mia moglie e i miei figli.”
La famiglia rende bella e feconda anche la tua vita. Forse ancora non è o non senti famiglia l’ambiente in cui tu sei amato da qualcuno, ma è sicuramente famiglia là dove tu hai imparato ad amare per primo.
Dimmi se ami e ti dirò se sei in famiglia.
Lui tifa per te
Un calciatore, Virdis, mi confida: “quando so che sugli spalti dello stadio sono guardato da mia moglie, mi riescono piroette fantastiche e preziosismi tali da suscitare entusiasmo e applausi tra il pubblico”.
Basta una scritta, uno striscione; ne ricevi, con tutta la squadra, una tale carica da trascinare l’intera compagine alla vittoria. Sentire la presenza dei tifosi è come avere in campo “un giocatore in più”. Il massimo incentivo poi ti arriva se gli osanna della tua squadra continuano per tutto il tempo della partita e perfino dopo le tue gaffes.
Caro amico delinquente, assassino, peccatore incallito, buttato via da tutti e da te stesso, sappi che Gesù fa il tifo per te. Mentre ti giochi la vita, in una partita così strana e spesso nera della tua esistenza, fermati un attimo ad ascoltare il tifo irrefrenabile che Lui fa per te: “Non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori”.
Gesù spiazza, dribbla, mortifica la presunzione dei farisei, ai quali addita le prostitute come vincitrici della partita: al traguardo del regno dei cieli vi precederanno.
Felice colpa che hai meritato un così straordinario tifoso che, come “giocatore in più”, ti infonde una tale carica di riconoscenza da trascinarti necessariamente alla vittoria. Ecco perché lui, come allora, sceglie le case dei peccatori e pranza con loro.
Al ritmo del “capobanda”
Passando per una strada secondaria, mi sono trovato improvvisamente a diretto contatto con una dimostrazione cittadina. E’ un’immersione sempre piacevole che ti mette i brividi e ti chiama a partecipare almeno stando in rispettoso ascolto al lato della strada. Il tutto era condito da una lontana e piacevolissima musica cadenzata dal ritmo dei tamburi.
Cercavo di indovinare da che parte arrivasse quella musica che si faceva sempre più vicina. Scorgo una folla in fondo ad un viale a qualche centinaio di metri di distanza.
M’informo. Era la fanfara cittadina che con a seguito persone di tutte le categorie, processionalmente si dirigeva a festeggiare l’inaugurazione d’un monumento.
Mi fermo anch’io con gli altri al lato della strada a godermi quello spettacolo, quella lunga fila festosa di partecipanti, di autorità, sindaco in testa, che marciavano al ritmo cadenzato della fanfara.
Il ritmo dei passi dei suonatori era fiero e scattante; abbastanza convinto e preciso anche il passo delle autorità che seguivano immediatamente la cadenza dei tamburi. Man mano però che la fila si allungava e il suono ritmato della fanfara sbiadiva in lontananza, anche il passo degli ultimi partecipanti perdeva cadenza e convinzione. Al silenzio composto, direi quasi devoto, dei primi, subentrava il chiacchierare svogliato e comaresco degli ultimi.
Mi sono detto che l’acqua alla sorgente è nitida, bella, trasparente e ti invita a rinfrescarti; poi man mano si intorbida e perde affidabilità.
Il vangelo vissuto con grinta e radicalità fa saltare in piedi perfino gli storpi, gli zoppi; fa parlare i muti, fa vedere i ciechi. Ma, annacquato da commenti e fantasticherie pseudo teologiche, vanificato da parole saccenti e prive di vita, imbavagliato da cerimonie vuote e fine a se stesse, perde la sua incisività, la sua determinazione, la sua spinta.
Chi non lo vive gioiosamente perde la briosità della cadenza e la fa perdere anche agli altri.
Ecco perché Dio, in vari momenti della storia, affinchè la sua chiesa, riprenda la freschezza gioiosa del ritmo, manda santi, testimoni, maestri della fede, persone che vivono il suo vangelo bevendolo direttamente alla sorgente, marciano a stretto contatto con “il capobanda”, Gesù in noi e tra noi.
Alè e la bici del papà
Una famiglia numerosa appassionata della bicicletta. Il papà programmava frequenti gare.
Ognuno aveva la sua bici e quindi correva con le proprie gambe. Tranne il più piccolo, Alè, che aveva solo un anno. Lui voleva e aveva naturalmente solo la bici del papà; insomma correva con le gambe del papà.
Al termine d’ogni gara ciclistica in famiglia, il più felice era lui, Alè. Risultava sempre vittorioso
Perfino il pap
à si rallegrava davanti a tutti per le gioiose vittorie di Alè; anche se non era inferiore la sua gioi
a nel constatare la buona volontà e l’impegno e i risultati “vittoriosi” degli altri figli che immancabilmente davano il meglio di sé.
Anche in seguito, man mano che i figli crescevano, rievocava sempre la gioia delle gare vinte dal più piccolo.
Concludeva dicendo che, in ogni competizione, la vittoria è comunque di chi – perchè piccolo – vive, respira, agisce, combatte, gareggia abbandonadosi sempre nell’onnipotenza di Dio-papà.
Alti e bassi e velocità
Dice il pedale destro al sinistro: “Non vedi che io sono spesso giù e più basso di te?”
Risponde il pedale sinistro: “Ma è proprio grazie ai tuoi momenti bassi che io sono spesso in alto. Se stai attento anch’io mi trovo spesso più in basso di te, ma me ne rallegro perché è proprio in quel momento che tu stai su.”
“Però – ribadisce il destro – noi due andiamo continuamente su e giù, e stiamo sempre attaccati alla bicicletta. Non vedo proprio nessun cambiamento in questo nostro continuo, monotono su e giù.”
Con il tono di chi la sa lunga, il sinistro rincuora il destro: “Ma tu vedi che il nostro monotono “su e giù”, dona velocità alla bicicletta. Ci conviene scattare con sprint affidando alla bici i nostri continui “alti e bassi”, perchè immediatamente essa ci rallegra offrendoci, oltre alla velocità, panoramiche sempre nuove.
Taci allora e pedala”.
Aquila o straccio
Con il naso all’in su osservavamo librarsi in aria uno strano oggetto. Ci sbigottiva il vederlo salire sempre più in alto con un volo circolare e ascensionale.
-“E’ un’aquila” – azzarda qualcuno, presumendo di vederlo muovere le ali.
-“Non può essere un’aquila, vola roteando su se stesso – sbotta un altro -per me è uno straccio.
-“Uno straccio non può salire sempre più in alto” – replica Toni.
– “Secondo me è uno straccio portato in alto dal vento” – insiste Bepi.
Ci siamo talmente incuriositi di questa stranezza e divisi in pareri tanto diversi, da indurre Claudio ad impugnare il suo potente binocolo:
“Vedo uno straccio nero in balia del vento. E’ un sacco a perdere che sale girando su se stesso. Vola e si alza sempre più perché in balia d’una potente corrente ascensionale. Perfino i gabbiani e le aquile ad ali aperte e immobili volano sempre più in alto affidandosi e infilandosi in queste potenti correnti ascensionali.
Abbiamo continuato a guardarlo, sia con il binocolo che ad occhio nudo, finchè è diventato un piccolissimo puntino nero, salito talmente in alto da sparire al nostro sguardo e perdersi tra le nubi bianche che sostavano in cielo.
Commentando l’accaduto, dico tra me: “Che strano! Uno straccio sulla pista delle aquile. Per volare tanto in alto, per raggiungere il cielo non è necessario, allora, osare di essere un’aquila; per arrivare a Dio è unicamente chiesto di essere “stracci” che – ecco la loro fortuna – si lasciano fiduciosi portare in cielo, affidandosi in balia della “Potente Corrente Ascensionale”.
Anche Teresa di Lisieux, cosciente del proprio “nulla”, metteva il suo “straccio” in balia di quel “Soffio” che lei chiamava il suo “Ascensore divino”.
Atleta in gara
Bepo, dopo anni di vuoto tradizionalismo, conobbe un modo più vitale di vivere il cristianesimo: mettere in pratica il vangelo, stando nella misericordia di Dio.
Come occorreva mangiare tre o quattro volte al giorno, come era indispensabile respirare ventiquattrore su ventiquattro, bisognava amare sempre, ogni momento; pena l’asfissia dello spirito.
Come un atleta in gara, anche Bepo si trovò a consumare tante energie nello stadio di Dio; per cui era urgenza vitale nutrirsi e cibarsi di Gesù Eucarestia il più spesso possibile.
Correndo nello stadio, gli succedeva anche di cadere, farsi del male. Era quindi più frequente il ricorrere alla misericordia di Dio per sentire l’abbraccio incoraggiante del Padre e poter dar a Dio la gioiosa occasione di perdonare: “C’è più gioia in cielo per uno che si pente”.
E’ inconcepibile per un pesce buttarsi in mare solo di tanto in tanto, ma è necessario che ci viva dentro sempre.
Attenti a quei due!
In un gioco tra due squadre, nella prima, più numerosa, vi erano giocatori che portavano un fiammifero, e, separati, altri che portavano in mano una candela. Una seconda squadra doveva impedire l’accensione della luce e faceva di tutto perché nessuna candela venisse in contatto con qualsiasi fiammifero.
La seconda squadra, chiamata squadra “divisione, giunse ad individuare tra i giocatori della prima, due che erano particolarmente veloci, scaltri e soprattutto in evidente intesa fra loro. Su quei due furono allora concentrate tutte le attenzioni e i sospetti con la parola d’ordine: “attenti a quei due”.
Il gioco ebbe inizio e la squadra “divisione” cominciò una lotta serrata per tenere lontani i giocatori delle candele da quelli dei fiammiferi.
Ma ad un certo momento, benché tallonati, i due furbi e veloci sfuggirono al controllo e riuscirono ad avvicinarsi l’uno all’altro per pochi secondi; tanto bastò perchè il fiammifero fosse azionato per la candela che, appena accesa, segnò la sconfitta della squadra “divisione”. Tra i vinti sorsero litigi e malumori e gli uni rimproveravano gli altri ricordando: “Ve l’avevamo detto: attenti a quei due.”
Alla legione “divisione” capitanata da Lucifero, non preoccupano le persone che, divise le une dalle altre, compiono imprese belle e devote; la loro presenza non recherà fastidio alla operosità diabolica dei figli delle tenebre.
Ma se c’è qualcuno che dà particolare preoccupazione al demonio e lo porta alla immancabile sconfitta, sono coloro che, con l’astuzia insegnata da Gesù, sanno accendere di nascosto e furbescamente la luce che unicamente le tenebre temono.
Quella luce è Gesù che, a coloro che si uniscono nel suo amore, ha garantito la sua presenza luminosa di fronte alla quale scappano tutti i demoni fautori di divisione, e verso la quale accorreranno e vi si ritroveranno uniti tutti i figli della luce.
Balletto Ischitano
E’ logico scegliere strade larghe, protette da transenne, ordinate da linee di mezzeria semplici o doppie e con lo spartitraffico che ti rassicura da pericoli di vetture sbadate e contromano.
Sono sbarcato a Ischia. Strade strettissime, prive ovviamente della linea di mezzeria, percorse da mini bus, mini taxi e perfino da “microtaxi”, cioè l’ape a tre ruote, allestita per sette persone sedute.
Qua e là, le strade sono a senso unico alternato; spesso sei costretto a rallentare, risicare il passaggio radente; molte volte viene in aiuto una cunetta di fortuna dove sostare o retrocedere per lasciar passare chi ti viene di fronte. L’automobilista non può non accorgersi dell’altro, né ignorare il diritto di precedenza che gli altri hanno e giustamente chiedono.
In questo “balletto ischitano” ho goduto cenni di mani festose al ritmo d’un tocco di clacson che non ammonisce, ma segnala e rassicura con un sorriso. Anche lo spazio stradale angusto offre a chi ama il prossimo, l’occasione d&rsquo
;un saluto, d’uno scambio fugace, ma prezioso.
Così ho vi
sto, così sogno Ischia.
Così sogno il convento, la famiglia: persone che privilegiano l’opportunità di camminare fra le stesse mura. Tutto il giorno e tutti i giorni, scelgono la ristrettezza del coabitare per incontrarsi, per amarsi. Il frequente incrociarsi dona e rinnova la felice opportunità di vivere uno per l’altro.
La vita diventa un grazioso e invitante balletto ischitano.
Che salto
Quando mi accade di camminare coi piedi per terra, ma con la mente in cielo, avverti dei suggerimenti validi per la vita, anche dalle cose più banali della giornata.
Passando attraverso un parco, dove di solito sostano mamme e bambini per qualche momento di tranquillità, ho visto un bambino che giocava attorno a un tronco d’albero. La mamma, poco lontana, leggeva il giornale. Il bambino saliva sul tronco per poter spiccare un salto di pochi centimetri, ma per lui eccezionale; però, prima di saltare, urlava: “mamma, mamma! guarda, guarda che salto faccio io!” Se la mamma guardava, saltava giù, pieno di gioia; se la mamma non lo guardava, non saltava, non faceva cioè quella prodezza.
Quel bambino mi suggerisce di invitare il Cielo a guardare i “salti” che ogni momento sono chiamato a fare. Se è vero, come è vero, che nulla possiamo fare senza di Lui, è conseguente invitare lo sguardo di Maria, la mamma. Lei ci applaude ogni volta soprattutto perché li facciamo sorretti dal cielo.
Con il cappello in mano
Fin da piccolo osservavo che il mio papà, fuori di casa, portava abitualmente il cappello. Ripensando ai momenti in cui lo teneva in mano li definirei gesti di delicatezza, devozione, ossequio, deferenza, supplica, sottomissione, dipendenza, sudditanza.
Erano momenti, circostanze, persone luoghi particolari in cui, con lo sguardo fisso a qualcuno o a qualcosa, con un volto ora attento e rispettoso, ora preoccupato e supplichevole, lo vedevo rivolgere la parola ad una o ad un’altra persona.
Ma il momento particolare che mi scuoteva era quando, entrando in chiesa, lo vedevo non solo levarsi il cappello, ma, con lo sguardo fisso e rasserenato verso l’altare, piegare le ginocchia. Era la genuflessione, la prostrazione.
Vedendo il papà con il cappello in mano, capivo non solo il suo profondo rispetto, ma avvertivo, ammiravo la grandezza di Colui che sta sull’altare, nel tabernacolo, degno di adorazione non solo da parte degli uomini, ma anche degli angeli.
Il cappello in mano esprimeva così preghiera rivolta a Chi può tutto in tuo favore, ma anche meraviglia e riconoscenza per le grandi cose da Lui fatte per amore tuo. E’ il sentimento che ti afferra quando a 3000 metri d’altezza, di fronte alla magnificenza d’un panorama mozzafiato, ti vedi immerso in una realtà che ti supera e ti fa corona.
Hai la netta percezione di essere incoronato e insignito di una grandezza che non solo ti supera, ma di fronte alla quale perfino il tuo Creatore sembra onorarti con il cappello in mano.
Coppi e Bartali
Hanno riempito per lungo tempo i giornali. Bartali, Coppi: due nomi che destano subito un elevato interesse, perché grandi campioni della bicicletta, rinomati in Italia e all’estero per la loro eterna rivalità.
L’occasione che mi induce a scrivere di loro è stato il giornale che scorrevo ieri sera attendendo il mio turno dal barbiere. Una bella foto in prima pagina ha attirato la mia attenzione: i due campioni sotto sforzo e in salita, nella risaputa posizione di uno davanti all’altro, mentre si scambiano la borraccia. Sotto la foto, l’eterna domanda: chi dei due offre all’altro la borraccia?
A pagina trentatre l’articolo che tenta di sciogliere l’enigma. Sembra che il problema l’abbia risolto proprio chi ha ascoltato il fatto dallo stesso Bartali, versione avvallata da Ormezzano, credibile giornalista, definito biblioteca sportiva.
Sembra che sia stato Bartali a fare il bel gesto di generosità verso Coppi. Ma rimango dell’avviso che la vera notizia sia un’altra: il permanere del dubbio e della diversità di opinioni, mi spinge a decretare la stessa grandezza al rapporto tra i due campioni. Pur sapendoli rivali, si esalta il coraggio dell’uno e l’umiltà dell’altro nel darsi una mano verso il traguardo.
Ora la mia fantasia mi catapulta ad assegnare la maglia rosa al rapporto cristiano di due altri campioni: Basilio e Gregorio. Vivevano nella rivalità non di chi vuole arrivare prima dell’altro, ma di chi gode che l’altro arrivi primo.
Fare il morto
Io sono uno di quelli che quando va al mare si assicura che la spiaggia sia estesa tanto da poter fare belle e lunghe passeggiate. Se decido di fare il bagno mi accerto che ci si possa tuffare là dove “si tocca”.
Varie volte, sospinto dagli amici, ho tentato di nuotare dove “non si tocca”, ma la paura mi ha sempre giocato brutti scherzi. Ho perfino arrischiato di annegare nonostante avessi tra le mani un remo che dalla barca gli amici mi avevano gettato; volevo “toccare”, volevo appoggiare i piedi sul fondo, nient’altro mi poteva rassicurare. Ad ogni tentativo, finiva sempre che immediatamente, al primo pericolo, tornassi alla riva. Forse per questo non mi sono mai impegnato a imparare a nuotare.
Raccontavo un giorno ad amici questo mio strano rapporto col mare. Subito mi subissarono di consigli ed esortazioni perché imparassi finalmente a nuotare. Uno di loro, per convincermi, mi confessò che anche lui aveva avuto sempre paura dell’acqua e al mare si comportava allo stesso modo. Ma i compagni tanto avevano fatto da indurlo a prender lezioni di nuoto.
Si era affidato ad un bagnino che, portandolo al largo, dove non si tocca, gli aveva raccomandato: se vuoi imparare a nuotare e rimanere a galla devi prendere confidenza col mare; nuotare è una questione di “fiducia”; prima di tutto “devi imparare a fare il morto”.
Accogliemmo questa espressione con una fragorosa risata e divertiti ci ripetevamo l’un l’altro, come per apprendere una lezione: “fa’ il morto”.
Di tanto in tanto, tra amici, siamo soliti confidarci il positivo, ma anche il negativo, le paure della vita, spronandoci a vicenda per superarle: “fa il morto”.
Nella vita ci sono periodi più o meno burrascosi, che si tende a gestire con la propria ragione, a controllare con le proprie forze Insomma si vuole stare al sicuro “dove si tocca”.
Ma si attraversano momenti, e spesso molto lunghi, in cui tu non puoi più nulla, non capisci nessun perché, non tocchi nessuna certezza, non vedi nessuna luce, anzi sei addirittura nella disperazione. Proprio in questi momenti ti è chiesto di fidarti “ciecamente” di Dio, di buttarti “a peso morto” fra le sue braccia. Finalmente coglierai, sperimenterai quanto sono fluttuanti le certezze umane e quanto invece tu sei “casa fondata sulla roccia” navigando fra le braccia di Dio.
Due ruote e un telaio
Spesso telefonavo a Stino, mio amico carissimo, per sollecitarlo ad attuare quanto insieme ci eravamo proposti con entusiasmo. Ma lo sentivo privo di ogni slancio, demoralizzato al punto che ripeteva: “Non vedo soluzione ai problemi che si presentano. Sarebbe bello, ma io non posso, non me la sento; dal mio punto di vista è tutto as
surdo”.
Come sempre, non perdevo tempo a discutere al tele
fono; lo invitavo semplicemente a mangiare una pizza. Gli era facile stare insieme a tavola per una mezz’ora; anzi quei benedetti momenti di comunione diventavano la soluzione del problema, luce per ogni oscurità, ebbrezza per ogni proposito. Ecco perché il demonio è vincente appena inietta il veleno della disunità.
Approfittai per raccontargli la storia d’una bici che sapevo gloriosa di imprese. Un giorno le due ruote per un violento incidente si erano separate una dall’altra e già erano demoralizzate ai bordi opposti della strada. Ancora intatte ed efficienti; ma sole. Da una spirava disperazione e dall’altra il triste rammarico di non poter più godere i gloriosi traguardi su strada.
Non perdetti tempo a ragionare con le due “separate”. Le presi e le portai dal meccanico che le ha applicate e unite al loro stesso telaio. Non era ancora ultimata l’operazione di aggancio che avevano già ripreso con slancio a programmare imprese che da sole era ovviamente assurdo anche solo pensare.
Se due ruote separate sono disperate, unite nella bici cantano vittoria.
Essere famiglia
Tutti sappiamo che “i più tirano i meno”. E’ così ovvio che le parole dette ti fanno pensare all’inutilità di simili asserzioni. Ma non è così scontata la vittoria del maggior numero sui meno, se “nei più non c’è senno e virtù”. Allora si concluderà che non è il numero a fare la differenza, ma è l’unità che fa la forza.
Alcuni anni fa vi era una squadra che aveva i giocatori più bravi e più famosi sul mercato calcistico, tutti campioni, ma non faceva che perdere. I “campioni” non erano uniti; ciascuno voleva emergere a scapito degli altri. La squadra non era una famiglia.
Emergeva alla grande, invece, una squadra di provincia. Aveva giocatori di media bravura, ma conseguiva risultati inaspettati e sbalorditivi, perché era unita, era una famiglia. L’allenatore, a chi gli chiedeva il segreto di tante vittorie, ripeteva che tutta la squadra è “campione” perché è “famiglia”.
Fermacarte numero uno
Un ricco signore, viveva in un grande palazzo, dai lunghi corridoi e dalle grandi sale. Durante il giorno, in certe ore della giornata, per rallegrare chiunque andasse a visitarlo faceva sfrecciare lungo i corridoi e le grandi sale, macchinine – modellini appartenenti alle diverse case della formula uno; tutte funzionanti, scattanti e obbedienti ai pulsanti che lui manovrava. Era una meraviglia vedere quei modelli scorrazzare con il tipico rombo delle macchine vere.
Alla sera le allineava nel salone più grande, le guardava, le lucidava una ad una, fiero di loro; ma anche queste macchinine sembravano fiere di correre per la gioia del loro proprietario.
Ma un giorno, proprio quella che sembrava la più apprezzata, si ruppe, si fermò di traverso in mezzo al corridoio, creando scompiglio e sconcerto tra le altre. Tutte si fermarono a commiserarla: ormai un relitto, sarebbe stata gettata via; una disgrazia nella disgrazia.
Invece accadde un fatto inaspettato che destò meraviglia e sollievo in tutte: il padrone la prese in mano, la lucidò, la portò nel suo studio, la pose sul suo tavolo.
Scartata dalla prestigiosa velocità della “formula uno”, si realizzò per lei il sogno di diventare la numero “uno”; ferma sul tavolo, ma sotto gli occhi del suo padrone.
E’ il sogno del tuo Creatore che, per averti collaboratore intimo, ti promuove a prezioso “fermacarte”. Rallegrati, sei sempre in pista se stai nelle mani di Dio.
Giocatori in campo
Ciò che avvince ed esalta in una partita di calcio è la precisione dei passaggi, la sorpresa del tunnel, la rapina beffeggiante del dribbling, la morbida scioltezza dello stoppare la palla e lo scatto nel rinviarla in campo. Una vera squadra è unita e compatta se ossequiente all’impostazione e alle direttive dell’allenatore, efficace se animata e determinata a giocarsi in tutto e per tutto per l’unico scopo: andare a rete.
La strategia del gioco si snoda in vari modi di stare in campo: c’è l’ala che corre e deve correre, c’è chi deve sbrigarsela in pochi metri come difensore o come regista del gioco, c’è chi spende le sue energie con la massima tensione, immobile e rassicurante tra i pali.
Nascosto, seduto, ma ben presente alla squadra e ai singoli, l’allenatore che, prima della partita, in allenamento, ha infervorato e convinto con forti motivazioni le prestazioni dell’intera compagine.
Valido e apprezzato l’allenatore nella misura in cui sa infondere alla squadra coesione e spirito di famiglia: tutti per uno, uno per tutti. Del resto, i gol sono definiti di ottima e spettacolare fattura quando, più che da un exploit di uno show personale, sono il risultato d’un dialogante e pregevole fraseggio.
Si sa che lo spirito di famiglia, anima di ogni squadra, di ogni società, fa spendere al meglio le energie di ciascun giocatore, come anche la generosa prestazione del singolo sprona e sollecita alla coesione tutta la compagine.
Giro d’Italia
Ho seguito alla televisione l’arrivo di una delle ultime tappe del giro d’Italia. All’ultima curva, come spesso accade, una paurosa caduta ha coinvolto e travolto una decina di corridori. Si rialzano con una velocità sorprendente, degno suggerimento per ogni caduta morale.
In piedi sulla strada un corridore con una ruota della bici in mano. Tenta e ritenta di agganciarla al telaio ma, spazientito, prende il telaio e la ruota e li scaraventa oltre la strada. Ruote non ricomponibili annullano il servizio della bici.
Mi ha fatto ricordare un sogno nel quale ho visto un gruppo di corridori che, alla partenza, entrano in un capannone a prendersi la propria bici. Per un dispetto di chissà chi, trovano non le bici, ma un cumulo di ruote sovrapposte alla rinfusa.
Superata l’indignazione, ciascuno, “accordando” le due ruote, ricompone la propria bici che cavalca subito per la gara.
Due ruote possono partire se sono d’accordo; la bici può essere inforcata e guidata dal campione solo se c’è la giusta armonia di tutte le sue parti.
Accordarsi, concordare è un linguaggio di cuori in armonia. Anche nella realtà umano-cristiana, per vivere, urge la riconciliazione.
Nel continuo perdono reciproco si compone e ricompone quella comunione che Gesù può animare e guidare.
I clown cristiani
Qualche giorno fa, a proposito di meraviglie al circo, ho ass
istito, divertito, a prestazioni sportive a dir poco esaltanti. Una che maggiormente mi è rimasta impressa e che mi ha dato spinta e spunto a scrivere queste righe è quella intitolata: “Salto in alto; record non omologabile.”
Si sono avvicendati i migliori saltatori del momento, i più prestigiosi; applausi a non finire quando si è esibito il campione mondiale.
L’attrazione ha raggiunto il massimo sbigottimento generale quando si presenta in pedana un signore, malvestito, in lui nemmeno l’ombra dello sportivo. Non scarpe da ginnastica, ma addirittura ciabatte; non maglietta e pantaloncini da atleta, ma pantaloni abbondanti e maglione invernale.
Davanti all’asticella innalzata a ben cinque metri d’altezza il nostro atleta, non posizione di concentrazione, ma braccia conserte, sorrisi a destra e a manca.
Al fischio di partenza, non rincorsa, ma dopo un passo sulla pedana, lo vediamo guizzare in alto abbondantemente oltre i cinque metri e atterrare in piedi sul comodo materasso con una normalità mozzafiato.
Bis, bis!!! E il tutto fu meravigliosamente ripetuto. Segreto? Lo catapultava una invisibile molla potente, sprigionata dal passo sulla pedana.
Ho pensato subito alla scioltezza, alla meraviglia ai limiti dell’incredibilità suscitate dall’esibizione del cristiano, vero atleta dello Spirito, chiamato a vivere nella fede l’impossibile vangelo, a fare di ogni atto d’amore un affascinante spettacolo di fronte a Dio, agli angeli e agli uomini.
Segreto? Non è lui che vive, ma è Cristo che vive in lui per far della sua vita una continua meraviglia.
Il campione
Era solito guardare diritto in faccia alla mamma ogni volta che attorno a lui o tramite lui qualcosa si muovesse e rompesse la quiete o il silenzio.
Questo era Tino, un bambino di due anni. Attento, sensibile e dagli occhi svegli e pronti a percorrere velocemente l’ambiente da un angolo all’altro.
Questa vitalità divertita e divertente la esprimeva al massimo quando era certo di essere guardato dalla mamma che voleva comunque rallegrare con le sue spericolate avventure. Diversamente, era annoiato, “smarrito”, inquieto e preoccupato.
Per attirare l’attenzione della mamma, immersa in altri impegni, ricorreva a mosse, maldestre, spesso arrischiando di farsi del male.
Lo sguardo compiaciuto della mamma era la molla che animava ogni sua mossa, anche spericolata. Un giorno, gridando: “mamma, ecco il campione!”, fece un salto giù dal seggiolone per vederla contenta e ricevere da lei il solito riconoscimento: “bravo, sei un campione!”.
Ma un bernoccolo alla fronte rivelò il suo fallimento. La mamma lo raccolse in braccio e, ripulendolo, gli canticchiava: “Ecco il mio campioncino che, grazie a un salto sbagliato, ha indovinato il più bel rimbalzo della sua vita: in braccio alla mamma.”
Il mio barbiere scalatore
Mentre sforbiciava sulla mia testa, mi racconta che in montagna da solo voleva raggiungere un rifugio oltre i tre mila metri. Si accorgeva però che man mano le forze venivano meno con l’impressione che la baita non arrivasse mai. Fermarsi non poteva; doveva in serata arrivare assolutamente al rifugio nonostante le scarsissime energie.
Con l’aria di chi ha imparato un segreto della vita, mi racconta di aver escogitato uno stratagemma che lo fece arrivare in cima con meno fatica di quanto potesse immaginare. Non volle più pensare alla distanza del rifugio, né alla stanchezza delle sue gambe, ma, camminando sul sentiero segnato, fissava un sasso a cinquanta metri davanti a lui e lo raggiungeva.
Si concedeva una piccola sosta per riprendere fiato, poi fissava un altro sasso o un albero a una cinquantina di metri e così riusciva ad arrivare a ogni singola meta. Tratto dopo tratto, passo dopo passo, sosta dopo sosta, tenendo ferma e calma la fantasia, si trovò al rifugio meno affaticato del previsto.
Da allora ha imparato a non pensare, né a preoccuparsi del futuro; né appesantire l’oggi con le fatiche di ieri. Ha scoperto che le forze che Dio gli dà sono da spendere man mano, “fermo”, attento in ciò che sta facendo.
Il mulo di Cappadocia
Per dare una serie di conferenze, mi trovavo in un paese della provincia dell’Aquila e precisamente a Cappadocia. Avevo un’ora di tempo fra un intervento e l’altro. Ne approfittai per un saluto al parroco, proveniente dal Ruanda, padre Ildefonso.
Mentre mi congedavo da lui, salutandolo nella piazza del paese, la mia attenzione fu catturata da un monumento particolare, eretto proprio davanti alla sua chiesa; monumento al mulo, “fedele compagno di lavoro per molti abitanti di questa terra”.
Una magnifica opera d’arte per un grazie ai molti servizi del mulo, preziosa bestia da soma; un “taci e tira”-“taci e porta”- “taci e sopporta”, direbbe Hippy, l’amico alpino.
Sul dorso vedi, in evidenza, assestati sul basto, tutti i pesi che di solito l’alpino o il boscaiolo gli addossano e che il mulo è chiamato a portare: fasci di legna, lo zaino dei viveri, armi e munizioni. Liberi e alleggeriti da ogni peso ingombrante, gli uomini possono agevolmente con scioltezza scalare la montagna.
“Tu, Andrea, – mi domanda a bruciapelo l’amico ruandese – tu, che stai dettando un corso di spiritualità alle religiose di Petrella, ricavi qualche insegnamento da questo mulo?”
Eh, sì! Il mulo è la bestia che nasce e vive per portare i pesi degli altri e per donare scioltezza a chi deve salire la montagna. I pesi degli altri, il mulo li sa portare in silenzio.
Colgo nella Bibbia un comando: “portate gli uni i pesi degli altri”; ma soprattutto mi sento dire da Gesù: “Ogni tua preoccupazione, ogni tuo peso, ogni tuo peccato gettalo su di me, carica tutto sulle mie spalle e sarai libero di amare.
Io sono colui che prende su di sé i peccati del mondo. Vi sciolgo da questi pesi perché, come il mulo, siate disponibili e liberi di alleggerire il peso di chi vi sta accanto”.
Il più veloce
Ho conosciuto tre personaggi dello sport, tre primatisti di velocità nelle specialità rispettive.
Vittorio, recordman dei cento metri piani, venne a trovarmi e mi disse che stava facendo ogni sacrificio per migliorare ulteriormente il suo record.
“Quando ti siederai – gli replico – sarai senz’altro più veloce, anzi raggiungerai la massima velocità mai sognata.” Accolse la mia battuta con una risata.
Venne a visitarmi Conrad, sorreggendosi su due stampelle. Era stato specialista dei mille metri piani e ne deteneva ancora il primato. Ma ormai, con le stampelle, era tramontato per lui ogni sogno di velocità. “E’ già tanto – sorrise con un po’ d’amarezza – se riesco a fare cento metri in un ora.”
Anche a lui lanciai il messaggio:” Se saprai sederti, raggiungerai la velocità record di tutti i tempi”.
Neanche lui colse il significato profondo della battuta e sorridendo cordialmente ci salutammo.
Capitò poi da me Renzo, in carrozzella. D
a un anno, in un grave incidente stradale, aveva perso l’uso di tutte e due le gambe, ma
in passato era stato medaglia d’oro dei diecimila metri siepe.
“Ora non posso che star seduto – sospirò- Solo la mia medaglia mi ricorda sempre la soddisfazione della corsa e del sapersi il più veloce del mondo”.
A lui non potevo suggerire di sedersi, ma:” sai, Renzo, – dissi – che se impari a star seduto, raggiungerai una velocità mai raggiunta?”. Un sorriso triste accompagnò le mie parole e il mio saluto.
Non so se per caso o per pura coincidenza o disegno provvidenziale di Dio, questi tre nostri amici, si trovarono seduti uno accanto all’altro, lo stesso giorno, sullo stesso aereo in viaggio da Roma a Milano.
“Siamo a quota seimila – annunciò ad un certo punto lo speaker al microfono – la temperatura esterna è di quaranta sotto zero e stiamo correndo alla velocità di 800 Km all’ora.”
Ottocento chilometri all’ora! Una velocità mai raggiunta in pista!
Una velocità esaltante, che inebria come non mai i nostri tre “velocisti”. Una velocità che li mette alla pari e insieme li esalta. Strano; nessuna invidia, nessuna animosità o strana competizione. S. Paolo ci ricorda che nello stadio degli uomini tutti corrono; ma uno solo risulta vincitore; ma coloro che corrono nello stadio di Dio risultano tutti vincitori. Si dice di due grandi santi, Gregorio e Basilio, che la loro santità non era quella di chi vuole arrivare primo, ma di chi permette all’altro di esserlo.
“ Concedersi” a Dio “sedersi” in Dio, è appunto la mia, la tua velocità; la mia, la tua, la nostra santità. Così, non solo non invidierai quella degli altri; ma ti adopererai perchè tutti la raggiungano. Siamo tutti chiamati a farci santi insieme.
Insieme è possibile
Ho incontrato amici che lavorano in un istituto, eretto per una convenzione regionale che salvaguarda i diritti delle persone “disabili”.
Mi hanno parlato dell’opportunità, anzi dell’urgenza che si istituiscano società, scuole, famiglie dove ogni disabile possa usufruire di agevolazioni e, in un insieme comunitario, riesca a vivere la normalità come tutti gli “abili”.
Alle porte dell’istituto leggo in grande: together is possible.
Insieme è possibile. Allora, per ogni disabile, non è possibile una vita normale se non insieme. E’ handicappata un’aquila con un’ala ferita. “Insieme a te mi è possibile il tour de France”, affermò una ruota della bici all’altra.
Ho riflettuto: Anch’io sto vivendo insieme ad altri. In una comunità. Un luogo dove convergono persone protese verso lo stesso Ideale. Together is possible.
Perché viviamo insieme, anche se nessuno è ritenuto disabile? Per superare l’handicap dell’individualismo, è la comunione tra noi che ci abilita alla vita trinitaria. L’aereo con un’ala sola si rivela disabile, incapace di levarsi dalla pista; due ali insieme lo abilitano al volo e a goderne altezza e velocità.
Tu ed io condividendo i nostri limiti, meritiamo di correre veloci nella via della vita cristiana. Insieme ci è possibile il volo nel cielo del soprannaturale dove godere la straordinaria normalità del Vangelo.
Solo m’importa d’amare
Sembra semplicistico, ma è efficacemente risolutivo il solo annaffiare la radice per riattivare tutte le risorse della pianta.
E’ proprio così anche della mia e della tua vita. Lo capisci se tutti i tuoi impegni li semplifichi nel “solo m’importa d’amare”.
La potenza dell’atleta è esplosiva se è raccolta nell’attimo presente.
Ho osservato e ammirato tante volte il comportamento dell’atleta che, nelle varie fasi che precedono l’esecuzione del salto, fa di tutto per chiamare a raccolta tutte le energie.
Preriscaldamento dei muscoli che devono essere duttili e pronti a sostenere gli sforzi richiesti per la prova.
Spogliazione di tutto ciò che non è strettamente necessario al salto. Alleggerimento quindi di ogni peso secondario.
Curata posizione di partenza, alla giusta distanza dall’ostacolo per una più efficace rincorsa.
Sguardo fisso all’asticella, soppesandone con la mente l’altezza.
Anticipo mentale di ogni passo.
Concentrazione di tutte le energie da scatenare con impeto nello spiccare il salto.
Sgombero totale della mente da qualsiasi pensiero che non sia somma attenzione a ciò che si sta facendo.
Mi confidava Claus di Biasi che per un atleta, al momento del salto, è sommamente importante vivere il momento presente: il pieno coinvolgimento, cioè, della mente e del cuore nella esecuzione. Per lui non deve avere nessuna importanza quanto di positivo o di negativo possa accadere prima o dopo quel momento.
All’ inizio di ogni mia giornata, in preparazione ai vari salti che la vita mi presenta, la meditazione mi offre la provvidenziale occasione di fare tutto ciò.
Questo momento mi consente di guardare la bellezza dell’esercizio cristiano di fronte alle varie incombenze che il dovere mi chiede; mi domanda di alleggerire la mia mente dal bagaglio ingombrante delle prevenzioni, dei giudizi contro il prossimo; mi comanda la spogliazione totale dall’egoismo e dalle preoccupazioni che devo in continuazione “gettare nel Padre”. “Solo m’importa d’amare – dice una canzone – so già che tu in me vincerai”.
Mi aiuta a prendere atto che in ogni fase dell’esercizio, per quanto mi sembri difficile o addirittura impossibile, le energie da scatenare sono onnipotenti perché concentrate unicamente in Colui che mi dà forza.
L’Inseguitore
Questo me lo confidava uno dei miei migliori amici: Ho sempre pregato di essere santo, perfetto, di buon esempio in famiglia e ho chiesto mille cose belle per la mia vita e quella degli altri.
Ma mi trovo sempre a terra, sorpreso dalle mie debolezze e umiliato da incoerenze che mai mi sarei aspettato da me. Perché?
Allora, come si fa tra amici che si confidano il profondo, gli ricordo che la vita è una corsa verso la “ldquo;nostra” santità. Il perfezionismo è però una corsa che, a nostra insaputa, tende a portarci fuori strada.
La buona volontà “nostra” si rivela una corsa ricca di presunzione; si trasforma in una ricerca dell’io che si rivela una fuga da Dio. Ma Lui, per nostra fortuna, ci insegue e non demorde.
Nella fuga spesso percorriamo una strada irta di insidie, ostacoli e trabocchetti seminati da Dio stesso. Finchè arriva la provvidenziale caduta. Grazie a quel trabocchetto, ci troviamo fermi, disarmati e feriti nell’orgoglio.
Disarcionati dalla presunzione, costatiamo chi siamo. Si curva su di noi l’Amore-Samaritano che ci dice: “T’aspettavo al varco della tua fragilità”. Poi anche si congratula: “Finalmente ti sei fermato; finalmente ti vedo disarmato; finalmente ti lasci dire ciò che da tempo volevo rivelarti.
E’ vero da sempre che ti voglio bene – Ti amo così come sei – Smettila di voler essere diverso e migliore – Ora, liberato dal tuo io, vinto dal mio amore, correrai con me. Mi lascerai vivere in te e correre con te.”.
La bicicletta ferma
<
br /> Ama e capirai; pedala e vedrai. Una bicicletta ferma, di notte, rimane al buio, e no
n ha luce per illuminare la strada. Per vedere la strada bisogna prima pedalare. Pedala e vedrai.
La prima pedalata bisogna, quindi, darla al buio. Ama e capirai e non viceversa. Più ami, più luce hai; più pedali, più luce fai; e più luce hai, più puoi pedalare.
Ogni atto d’amore esige prima un atto di fede in Gesù presente nel fratello. Amalo e vedrai e capirai perché. Chi ama il fratello viene alla luce.
Non circolava buon sangue tra una tartaruga e un aereo. La tartaruga era stanca di sentirselo passare sopra così chiassoso, assordante. E poi volando a quella velocità, passando sopra paesi e città, campagne e giardini, saettando sopra mari e montagne, vede tutto, dice lui; il megalomane; ma secondo me – pensava la tartaruga – non vede niente. Può soltanto avere delle panoramiche superficiali; non ha né tempo, nè possibilità di approfondire qualcosa di ciò che sorvola.
Ogni volta che sentiva il rumore dell’aereo la tartaruga si indispettiva e, quasi a rinforzare e provare il proprio giudizio negativo nei suoi confronti, lo paragonava al re travicello che, gettato nell’acqua, governa il suo regno stando sempre in superficie. Con un certo gusto letterario e una sofferta ironia si ripeteva i versi del Giusti:
“Là, là, per la reggia
dal vento portato,
tentenna, galleggia
e mai dello Stato
non pesca nel fondo.
Che scienza di mondo!
Che re di cervello
È un re travicello!”
Finchè un giorno la tartaruga arrivò nell’hangar dove sostava l’aereo. Dapprima lo guardò inosservata, ne ammirò la grandezza e constatò l’enorme servizio prestato all’uomo. In breve stemperò il proprio giudizio negativo. Si mise davanti al muso della fusoliera e i due rivali con crescente stima reciproca intrecciarono un meraviglioso dialogo.
Lei gli confidò che avrebbe desiderato vedere tutte le cose belle che si contemplano dall’alto dei diecimila metriE l’aereo gliele descrisse, lasciandola a bocca aperta.
Ma anche l’aereo, al termine del suo racconto, confidò alla tartaruga il suo rammarico di non poter, come lei, contemplare le cose da vicino.
Alla tartaruga non pareva vera la curiosità dell’aereo. Senza farsi ripetere la domanda gli raccontò, quasi senza riprendere fiato, le meraviglie del bosco, del sottobosco, la vita che ferve nei giardini, sotto ogni foglia, il profumo e il colore che si gode passando accanto ad ogni fiore e annusando ogni petalo di rosa. E i rapporti che intercorrono tra le formiche, le talpe, le marmotte. Era tanto l’interesse nell’ascolto che essa non avrebbe mai finito di parlare.
L’aereo non si lasciò sfuggire l’occasione di ringraziarla di essere tartaruga per lui e la tartaruga – a sua volta – lo ringraziò di essere aereo per lei, d’aver trovato qualcuno a cui interessava la sua vita.
Dopo questo colloquio, non solo divennero amici, ma capirono che dovevano continuare a fare bene ciò per cui erano creati. Così, incontrandosi, avrebbero potuto raccontarsi le meraviglie vissute e contemplate dai rispettivi punti di vista.
Le scarpe di Gesù
Un amico mi telefona per ringraziarmi del bell’incontro che noi due abbiamo fatto il giorno precedente. Siamo stati molto bene insieme e insieme abbiamo risolto tanti problemi, per noi e per gli altri. Insomma un’amicizia, la nostra, veramente preziosa perché ci fa sentire importanti e ci dona il senso della vita.
Due in unità, si è portati da Gesù e si fanno grandi cose, due in discordia, no. Due scarpe sotto il letto, o attaccate al chiodo o buttate dentro un cassonetto, non dicono nulla a nessuno.
Se le indossa un campione, ti dirò quanto valgono
Quel grazie che l’amico mi ha rivolto, mi ha fatto capire che anch’io dovevo ringraziare lui perché se è stata rilevante la mia prestazione, lo è stata grazie alla sua collaborazione; necessaria la mia parte, ma non meno preziosa la sua.
“Allora – gli dissi – grazie anche a te: una scarpa deve ringraziare l’altra perché, andando d’accordo, insieme hanno fatto ciò che da sole non potevano neppure immaginare: hanno permesso a qualcuno di camminare con loro, ricevendone importanza, la stessa di chi le portava.
Quando due vanno d’accordo e si amano come Gesù vuole, se pure “singolarmente sono insignificanti”, grazie a questa armonia, permettono a Gesù di camminare con loro. Non sono le scarpe a camminare, ma è Gesù che le porta. Da sole valgono una scarpa, insieme valgono Gesù.”
Ora alla sera, andando a letto, lascio le scarpe appaiate, perché al mattino mi diano subito il suggerimento di “vivere in comunione” con l’altra scarpa: il mio prossimo.
Lo scricciolo e l’aquila
Un giorno tutti gli animali, piccoli e grandi, furono invitati a partecipare ad una gara di corsa. Partecipò anche lo scricciolo, ma tutti lo deridevano per la sua piccolezza, la sua fragilità. “Che presuntuoso!” Lo tacciavano di presunzione perché, così piccolo e insignificante, ardiva partecipare a una gara così importante; ma lui, sorridente e spensierato, lasciava dire, lasciava ridere e deridere.
Un attimo prima dello sparo di partenza, si infilò inosservato tra le penne delle ali del più veloce di tutti gli uccelli: l’aquila.
Attese tutti al traguardo. Al traguardo tutti udirono la notizia: “primo lo scricciolo, primo lo scricciolo!”
Lo stadio dell’umiltà
Ad un amico che mi confida il suo sconforto per le quotidiane cadute, ricordo che nello stadio un atleta di salto in alto preoccupava il suo allenatore perché, ammalato di autosufficienza, disertava spesso gli allenamenti.
Per spingerlo a dare il massimo, l’allenatore lo sottoponeva a esercizi quasi intollerabili. L’asticella gliela metteva sempre più alta, al di sopra delle sue possibilità.
Mentre l’asticella gli cadeva addosso, l’atleta sempre più umiliato e rammaricato, guardava l’allenatore che, tutto sorridente, lo invitava a perseverare nel salto, fidandosi di lui. Del resto è normale attribuire alla bravura dell’allenatore i risultati dell’allievo.
Per l’allenatore, quella fase fallimentare era per l’atleta un necessario esercizio di umiltà piuttosto che di salto in alto. L’umiltà, lo ribadisce ogni commissario tecnico, è alla base di ogni riuscita e di ogni vittoria sportiva.
La consapevolezza dei propri limiti infonde fiducia nella strategia dell’ allenatore e invita lo sportivo a ricominciare sempre per dare ad ogni tentativo il meglio di sé..
Anche Dio ci tratta così per allenarci nella corsa alla santità. I santi sono tutti d’accordo nel ricordarci che Dio manifesta il suo particolare amore anche permettendo le nostre ripetute cadute.
Paolo afferma che “tutto concorre al bene per coloro che amano”; Agostino rincalza: “tutto, anche i peccati” perché depositano dentro di te il dono dell’umiltà. E l’umiltà è quel vuoto di te che è subito riempito da Dio.
Lui ti ha vinto
Checo racconta il periodo più burrascoso della sua vita.
Periodo di gioie e disperazioni, di lotte e sconfitte. Ma dopo giornate più o meno fortunate, non poteva fare a meno di fissare il s
orriso della mamma. Lo trovava sempre affascinante e affascinato. Sotto la foto la mamma aveva scritto le paro
le del poeta: “nel sen che mai non cangia avrai riposo”.
Ma ciò che decisamente sconvolse e insieme raddrizzò la sua vita fu proprio il periodo più nero e trasgressivo. Ogni sera di quel periodo buio aveva a suo faro solo quel quadro: il sorriso inossidabile della mamma.
Nel confronto e il terribile contrasto fra i tradimenti del figlio e l’inalterabile volto della mamma, vinse quest’ultimo. Checo non resse più e si lasciò vincere dall’amore di quel “sen che mai non cangia”.
Dimagrito, rattoppato, immiserito e sconvolto tornò a casa. Ad attenderlo sulla porta c’era il sorriso di lei, orgogliosa di lui; quel volto del perdono, puntuale e vincente. Dopo un lungo abbraccio, Checo alzò la mano destra della mamma come si fa nello sport per dichiarare il vincitore.
Tu sei fiero ogni volta che ti lasci da Dio perdonare; ma Dio perdonadoti è più fiero di te. Il vincitore è lui; lui ti ha vinto e ti ringrazia di esserti preso la parte di misericordia che ti spettava.
Mai così alto
Seduti al tavolo d’una pizzeria, guardavamo con la tipica curiosità alcune foto di quando, bambini, avevamo meno d’un anno.
Mostrandomi, tutto divertito, una delle sue foto, Palmino esclama: mai sono stato così in alto. Era una foto che lo ritraeva in famiglia, ritto in piedi sulle spalle del papà orgoglioso di poter toccare il soffitto con un dito … Questa meraviglia – commenta – accadeva solo quand’ero tanto piccolo da non riuscire ancora a camminare.
Ero fiero di stare in braccio a papà alto due metri
Allora avevo la fortuna di toccare il soffitto con un dito e, in piedi sulle sue spalle, ero più “grande” di papà.
Ora che sono diventato grande, addirittura un atleta, ora che so stare bene in piedi, ho perso quell’altezza, non arrivo al soffitto perché ho “perso” il papà. Ma ho capito bene che per riguadagnarmi il papà devo “diventare” come i bambini.
Non posso rammaricarmi L’altezza di papà è una grandezza che mi spetta, che posso avere in ogni momento: basta andare dal papà che sta aspettando ch’io mi converta, ch’io diventi “piccolo”, che mi lasci prendere in braccio. “Chi si fa piccolo sarà il più grande”.
Solo allora posso stare sulle spalle del papà. Anzi è quello il mio posto; anzi non posso avere un altro trono; anzi, mi spetta solo quella posizione; solo così mi riconosco.
Mai così in alto, mai così forte, mai così sicuro, mai così fiducioso come da quando sono ritornato suo figlio; ritornato ad essere tanto “grande” da toccare il cielo anzi, da abitare nel più alto dei cieli.
Maria e la velocità di Dio
La creatura che più di tutte le altre ha permesso a Dio di esprimersi in tutta la sua potenzialità, è stata Maria. Maria ha sposato così bene Dio, che Dio in lei si è letteralmente sbizzarrito esplodendo in tutte le sue meravigliose capacità.
Conversando con qualche tifoso della formula uno, sentivo dire che a parità di potenza dei motori, vince quella macchina che ha il pilota più esperto nella guida, più avveduto nello sfruttare anche le più piccole capacità della sua vettura.
Schumacher è un pilota che aderisce così bene alla sua Ferrari, vi si perde con tale scaltrezza da farla esplodere in tutta la sua potenza e velocità. La conosce e la sollecita al massimo. Insomma permette alla Ferrari di essere la Ferrari.
Il pilota che guida la Ferrari non fa un passo, ma corre e vince quanto permette alla vettura di esprimersi al meglio. Non è lui, ma è la Ferrari che corre. Quindi, seduto nella Ferrari, è veloce come la Ferrari. Si può dire che tanto la Ferrari obbedisce al pilota quanto il pilota conosce e “obbedisce” alle potenzialità della vettura.
Il cristiano è il risultato dello sposalizio tra la debolezza dell’uomo e l’onnipotenza di Dio; è la cecità illuminata dal sole; il cristiano è l’uomo che permette a Dio di fare da Dio nella sua vita.
L’uomo da solo non è capace di santità; ma quando lascia vivere in sè la parola di Dio. Dio, che in lui vive, può esprimere la sua santità. S.Paolo annunciava questa realtà quando metteva in pratica la Parola di Dio: “Non son più io che vivo, ma è Gesù che vive in me”.
Maria si è concessa completamente alla Parola: “Si compia in me la tua parola”.
La parola di Dio è entrata in Maria così profondamente da far nascere in lei Dio stesso; quel Dio che l’ha travolta nella sua velocità e l’ha rapita nelle sue vertiginose altezze per dotarla delle sue meraviglie. Ed Ella ha potuto cantare e farci cantare per sempre: “Grandi cose ha fatto in me colui che è potente”.
Voglia di vivere
Moser, in salita, ad ogni pedalata, soffriva; ma ogni pedalata, grazie a quella fatica, gli permetteva di arrivare al traguardo. Quanto più amava il traguardo, tanto meno avvertiva lo sforzo o lamentava la fatica.
La forza al corridore non viene tanto dalla paura di perdere o dal pericolo di tornare indietro: gli arriva invece dalla voglia di vincere, dall’amore al traguardo.
Il cristianesimo è voglia e gioia di vivere, non paura di morire.
Non vale la durata ma l’intensità
Mennea è stato campione del mondo per aver corso da campione venti secondi; Saronni è stato campione del mondo per aver corso da campione sette ore; Hinault ha vinto il giro d’Italia per aver corso da campione ventiquattro giorni.
Questi sono tutti campioni con tempo diverso impiegato nell’esercizio del loro sport; ma sono campioni perché in quell’arco di tempo hanno reso il massimo.
Davanti a Dio non vale tanto la lunghezza, il tempo impiegato, ma l’intensità d’amore espressa nell’attimo presente.
Nuova evangelizzazione
“Frate Masseo, vieni con me. Andiamo per i paesi vicini a fare la predica” – disse frate Francesco al suo confratello.
E Frate Masseo disse subito sì, anche se preoccupato della improvvisa chiamata a predicare, sia pure accanto a Francesco. Forse frugava nella mente in cerca di qualche bel pensiero da esporre, da “predicare”.
Escono insieme dal convento e tutt’e due, sempre insieme, camminano attraverso i paesi vicini, conversando affabilmente, parlando semplicemente del più e del meno. Finita la “passeggiata”, tornano al convento con somma meraviglia di frate Masseo che, nel mettere piede in casa, non si trattiene dal chiedere a Francesco: “E la predica?”.
S. Agostino commenta: Gesù li mandò a due, a due perché potessero vivere e testimoniare la carità fraterna. L’aveva detto: “Da questo tutti conosceranno che siete miei, se vi amerete gli uni gli altri”. “Padre, che tutti siano Uno perché il mondo veda e creda”.
Mia nonna mi ripeteva spesso “Gran fuoco dipinto non cuoce minestra”. Mille candele spente non fanno quanto un cerino acceso. Mille cristiani disuniti non valgono quanto la fiammella ac
cesa dalla concordia di due o tre persone.
Da questo cerino infiammato può in ogni m
omento divampare l’incendio della nuova evangelizzazione che illumina il mondo.
Questa è la Parola che il mondo aspetta.
Per immagazzinare energia
Allo stadio di atletica leggera, osservo il campione del salto in alto prima di compiere il suo esercizio. Si concentra, addirittura indietreggia per prendere la giusta distanza dall’asticella, immagazzina psicologicamente l’energia necessaria al massimo sforzo; quando decide di saltare, lo fa perché, dentro se stesso, già possiede il salto.
All’inizio della giornata, la meditazione. Si rivela la sosta nel soprannaturale per immagazzinare tanto Dio quanto è richiesto per tutti i salti della giornata: amare tutti, amare il prossimo, amare i nemici, amare per primi, saltando oltre tutti gli ostacoli dell’uomo vecchio.
Il salto richiesto al Cristiano è un salto mortale: disponibilità cioè a donare la vita in ogni atto d’amore. Se non si ha dentro la forza di Dio non si può saltare. “Senza di me non potete far nulla.”
Portiere immobile
Palo di Totti e portiere immobile.
Ci fu un gran parlare; articoli in prima pagina sui giornali sportivi. Molti articoli delle pagine sportive avevano per titolo “Palo di Totti! Palo di Totti! Totti ha colpito il palo!”
Non capivo se era una grande prodezza o un errore madornale. Ecco il fatto: l’arbitro fischia una punizione in campo. Il pallone è a una ventina di metri dalla porta. Tiro di Totti. Il pallone colpisce il palo sinistro della porta, all’interno del palo stesso.
Fin qui, nulla di più banale e normale. Ma la meraviglia sta nel fatto che Totti ha calciato con tale beffarda precisione da fare invidia ai più grandi giocatori di biliardo: il pallone, colpendo la porta all’interno del palo, ha fatto angolo retto schizzando verso il palo di destra; ha attraversato tutto lo specchio della porta, ne ha percorso esattamente il filo, e, sornione, è passato tra la linea e il portiere.
Ma non è ancora tutto. Ciò che è ancor più degno di nota, e che ha suscitato i più curiosi commenti, è che il portiere in questo delicatissimo frangente è rimasto letteralmente immobile; non so se per scelta o per rassegnazione.
Commento d’un tifoso: se il portiere si fosse mosso per difendere la porta, facilmente avrebbe provocato un’autorete. Ribatte un altro: fortunata, indovinata e saggia immobilità. Il portiere ha risolto un caso problematico perchè non è intervenuto; ha lasciato il pallone carambolare fuori dalla rete.
Spesso il nostro miglior intervento, in certi momenti delicati e intricati della nostra vita, è proprio quello di non intervenire; fermi e fiduciosi in Dio mentre si compie la sua volontà.
Scalare senza fatica
Stanco e sudato, dopo una faticosa arrampicata in montagna, sedetti per riposare e ammirare il panorama. Incuriosito, quasi incredulo, vedo un bambino, a 2.500 metri! un bimbo di due o tre anni che, tranquillo e beato, raccoglieva i fiori del prato e senza alcun segno di stanchezza!… Come poteva esserci arrivato?
Vedo poco più in là una giovane signora, la mamma. Le faccio i complimenti per il suo bambino, un così bravo scalatore, capace di arrivare tanto in alto e … chissà con quanta fatica!
La signora mi spiega che la più grande fatica, la vera impresa del suo bambino è stata quella di lasciarsi finalmente portare dalla mamma. Varie volte ? mi confida ? aveva cercato di portarlo fin lassù, ma non le era mai riuscito perché il piccolo, capriccioso, voleva camminare da solo, e, fatti pochi passi, si fermava per mancanza di forze. Insomma voleva salire senz’ali.
Ma oggi è stato molto bravo perché si è lasciato portare… ha fatto la più grande impresa che possa fare un bambino.
Farsi portare per un bambino non è passività, è l’unico comportamento che gli consente di fare ciò che fa la mamma.
Il bambino che si fida della mamma, che crede all’amore, tanto fa quanto lascia fare, e dal canto suo la mamma tanto può fare per il suo piccolo quanto lui la lascia fare.
Maria ha cantato alla cugina Elisabetta: “Ha fatto in me grandi cose Colui che è potente… Ha deposto i potenti e ha innalzato gli umili”.
Invitai la signora a mettersi sulle spalle il piccolo, seduto sul suo seggiolino. Di profilo le feci una foto con lo sfondo delle cime attorno alla Marmolada. Incuriosita mi domanda il perché della foto. Le risposi subito: “Signora, oggi è il 15 agosto, la festa dell’Assunta. Il suo bambino ha fatto la sua più bella impresa, è arrivato alto quanto la mamma perché da lei si è lasciato portare. L’Assunta è arrivata all’altezza di Dio, nel cielo di Dio, perché da Dio si è lasciata portare”.
Ma come il bambino non poteva salire senza le ali della mamma, anch’io, anche tu avremo la grazia di salire nel cielo di Dio solo se ci lasciamo portare dalla mamma: Maria. È il poeta Dante che ce lo ricorda: “Donna sei tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disianza vuol volar senz’ali”.
Scalate dello Spirito
Alberto, dagli amici detto l’alpinista, tutti gli anni alla fine stagione estiva, tornava dalla montagna con le migliori foto scattate durante le sue arrampicate in luglio.
Lo ritraevano scoiattolo leggerissimo, con maglietta, calzoncini e scarpe, mentre scalava lo spigolo delle Lavaredo; pesantissimo invece, scarponi, giacca a vento, corda, piccozza, occhiali scuri, cappuccio tanto abbondante da mostrare solo naso e occhi, durante la spedizione sul K2.
Non occorsero tante parole per capire che vestiva leggerissimo per difendersi dal caldo, pesantissimo invece per difendersi dalle bassissime temperature. Conservare la temperatura ideale, aggiungeva, favorisce il migliore rendimento: difendersi quindi per attaccare.
Un amico, di quelli veri, con i quali si fanno le “scalate dello spirito”, un giorno mi confidò, per analogia, le stesse cose: noi, mi disse, siamo chiamati a vivere in prima linea nello scalare la montagna che spesso presenta spigoli di quinto, sesto grado; anche oltre i limiti del possibile.
&nnbsp; Tu sai, continua, che spesso stampe, filmati, televisione ecc. tendono ad infiacchire, snervare, disorientare lo spirito, tanto da lasciarti ferito e senza fiato. Noi non possiamo perdere tempo a curarci le ferite, ma, prudentemente riparati, è urgente vivere nella temperatura ideale, rimanere sempre all’attacco per essere utili anche a quelli che sono in difficoltà.
Scuola di arrampicata
Andando in montagna con l’amico Daniele, ho potuto dall’alto godere panorami mozzafiato, catene di cime a schiera, pinete, abetaie con un verde che parte dal pallido fino all’intenso e scuro.
All’ora indicata mi ha portato a spiare, da un angolo della forcella del Pomagagnon, il passaggio dei camosci. Alle Tre cime di Lavaredo mi ha mostrato, al binocolo, le mosse lente e pericolose degli scalatori.
Ma poi mi ha confidato che lui è un esperto di Free Climbing; una disciplina sportiva che insegna ad arrampicare. Mi spiegò che esistono, qua e là, dei centri chiamati appunto “scuole di arrampicata”; per esempio in val Falesia.
Sotto una di queste pareti che la natura offre agli appassionati mi
mostra come avvengono queste scalate in libera. Vedo che uno arrampica affiggendo la corda a
i chiodi, l’altro da terra lo tiene in sicura; pronto ad intervenire e proteggerlo in caso di caduta.
Incuriosito, gli dissi che mi sembra relativamente facile salire e scendere per chi trova i chiodi già piantati e ai quali assicurare la corda. Ma, gli chiesi, come ha fatto a salire il primo che ha piantato i chiodi.
Sorridendo mi rispose che l’operazione è stata fatta da un superesperto che, scendendo in sicura dall’alto della cima, ha avuto modo di piantare i chiodi che agevolano la salita degli allievi sportivi.
E’ Gesù il superesperto che è sceso dall’Alto; Lui ci ha messo tutti in sicura piantando quei “chiodi” che danno piena sicurezza e gioioso brivido all’arrampicata di chiunque sia appassionato dei panorami del Cielo.
Scuola di ripetizione
Ho un amico che mi parla spesso della sua vita cristiana e del suo quotidiano impegno per vivere con perfezione e perseveranza tutti i comandamenti di Dio.
“Ma arrivato a sera – mi confessa – l’esame di coscienza mi butta a terra. Quanti propositi al mattino, ma quanti spropositi mi ritrovo al termine della giornata. Mi sembra allora logico desistere dal fare propositi. La constatazione di tante cadute mi porta a dubitare che Dio non mi ami e soprattutto convincermi che “io non amo Lui”.
Più lo ascolto, più lo trovo affranto. Ma, appena mi lascia parlare, gli ricordo che nello stadio un atleta di salto in alto preoccupava il suo allenatore perché, ammalato di autosufficienza disertava spesso gli allenamenti.
Per spingerlo a dare il massimo, l’allenatore lo sottoponeva a esercizi quasi intollerabili. L’asticella gliela metteva sempre più alta, al di sopra delle sue possibilità, così portandolo a moltiplicare gli errori. Mentre l’asticella gli cadeva addosso, l’atleta sempre più umiliato e rammaricato, guardava l’allenatore che, sorridente, lo invitava a perseverare nel salto, fidandosi di lui. Del resto è normale attribuire alla bravura dell’allenatore qualsiasi risultato dell’allievo.
Per l’allenatore, quella fase fallimentare per lo sportivo, era un esercizio necessario di umiltà piuttosto che di salto in alto. L’umiltà, lo ribadisce ogni commissario tecnico, è alla base di ogni riuscita e di ogni vittoria sportiva. La consapevolezza dei propri limiti infonde fiducia nella strategia dell’ allenatore.
Anche Dio ci tratta così per allenarci nella corsa alla santità. I santi sono tutti d’accordo nel ricordarci che Dio manifesta il suo particolare amore anche permettendo le nostre ripetute cadute. Paolo afferma che “tutto concorre al bene per coloro che amano”; Agostino rincalza: “tutto anche i peccati” perché depositano dentro di te il dono dell’umiltà. E l’umiltà è quel vuoto di te che è subito riempito da Dio.
Il ripetersi delle cadute ci manda “a ripetizione”: Dio ci rioffre una opportunità singolare; ci dona ulteriore, nuova coscienza della nostra debolezza, della nostra fragilità, della nostra miseria. Ce l’ha pur detto Gesù: “Senza di me non potete far nulla”.
Appena riconosceremo quello che siamo: “miseria”, allora conosceremo Dio: “misericordia”. E allora capiremo S. Paolo: “Tutto posso in Colui che mi dà forza.”
Agostino ci ricorda che conosceremo la misericordia di Dio alla scuola della nostra miseria. Teresa d’Avila ci rassicura e ci conferma che ci stanchiamo prima noi a cadere che Dio a perdonarci. E conclude esortandoci: non stanchiamoci di rialzarci, non stanchiamoci di lasciarci perdonare; da questa “scuola di ripetizione” impariamo finalmente che siamo figli della misericordia; che la nostra santità è tutto amore misericordioso di Dio; che ogni volta che ci pentiamo diamo tanta più gioia in Cielo.
Storditi, ubriacati da tanto amore, faremo della nostra vita un “canto nuovo” di riconoscenza.
Sei importante per me
Ricordo il ritornello d’una vecchia canzone dal titolo “amore ritorna”. Parlava di una innamorata da cui si era allontanato il fidanzato: era andato lontano per diventare qualcuno; era andato a cercare motivo di maggior considerazione dagli amici e conoscenti; sperava tanto, ma non gli riuscì.
Rimase talmente deluso che non aveva più il coraggio di tornare a casa, né pensava di aver ragioni sufficienti per presentarsi dignitosamente dalla fidanzata.
Con una lettera scrisse che non se la sentiva di tornare perché aveva tradito le aspettative di tutti e non voleva sottoporsi ad ulteriori umiliazioni nel dover raccontare il suo fallimento.
Ma da lontano l’innamorata gli fece arrivare questo messaggio: “Amore ritorna…non importa, non fa niente” se non sei riuscito a diventare quello che sognavi…Non fa niente se non sei diventato importante di fronte ai tuoi amici; non importa se con tutto il tuo studio non sei riuscito a fare carriera; non importa se hai fallito su tutta la linea…
Amore ritorna! Sappi che ciò che unicamente vale, è che sei importante per me; sei tutto per me.” Mi sembra di poter dire che Dio, per me e per te, figli suoi, usa le stesse parole.
Show e giocate di Totti
Mentre sorseggiavo in un bar il “buon caffè” mattutino, presi in mano il corriere della sera. Avevo poco tempo e andai subito, come ogni lunedì a curiosare nelle pagine dello sport
Primeggiava la bella vittoria dell’Inter, la rapida risalita in classifica della Juve, l’amara sconfitta del ChievoMa ciò che subito mi sorprese, in fondo alla pagina, fu un brevissimo trafiletto, si direbbe un riempitivo, messo lì proprio per chi spulcia notizie fino all’ultima goccia, come io faccio con la tazzina di caffè.
Titolo in grassetto: “lo show e le giocate di Totti in campo nascono in famiglia”. Ho chiuso il giornale, l’ho lasciato sul tavolo del bar e me ne sono venuto al mio computer per scrivere queste righe.
Vivi la famiglia, creati intorno una famiglia e sarai il meglio per te e per gli altri. Totti ha superato alla grande la crisi che per un periodo ha annebbiato le sue prestazioni sportive; ha ripreso al massimo la sua genialità e fantasia di gioco innamorandosi di sua moglie.
Lei lo contraccambia puntualmente anche quando partecipa allo stadio orgogliosa di lui. Va letteralmente in delirio vedendo il suo Francesco che ad ogni goal corre per il campo col ciuccio in bocca per segnalare a tutto il mondo la sua gioia di essere papà.
Totti, magico in campo – commenta il giornale – perché sta vivendo un momento magico in famiglia, nella quale, fecondità dell’amore, presto il primo bebè avrà compagnia.
Ad Udine, dove abitava come attaccante dell’Udinese, lo stesso Virdis mi raccontava delle meravigliose piroette e delle fantasiose girate in porta. “Tutto in campo mi riesce bene e in maniera sorprendente nei periodi in cui c’è la massima serenità e stima reciproca con mia moglie e i miei figli.”
La famiglia rende bella e feconda anche la tua vita. Forse ancora non è o non senti famiglia l’ambiente in cui tu sei amato da qualcuno, ma è sicuramente famiglia là dove tu hai imparato ad amare per primo.
&n
bsp; Dimmi se ami e ti dirò se sei in famiglia.
Spiega la vela
Carissima Milinterjuve siamo qui a far tifo per te; siamo qui in campo a urlare, ad incitarti, ad applaudirti, ad agitare striscioni e percuotere tamburi, ma oltre a ciò non possiamo far niente; non possiamo giocare al posto dei tuoi giocatori: cari atleti, dovete correre, correre voi.
Caro campione di ciclismo, noi siamo venuti sulla cima Coppi e lungo i pendii della salita per incoraggiarti, ma non possiamo correre per te, non possiamo salire in bici al tuo posto vorremmo perfino darti una spinta, ma ce l’hanno severamente proibito. La spinta sui pedali la devi dare tu.
Carissima barca a vela – dice il vento – senza di me non puoi fare un metro di strada. Io soffio quanto vuoi, anche in varie direzioni; però non posso correre al tuo posto. Tu spiega la vela. Allora potrò dirti: “La tua vela ti ha fatto vincere”.
Carissimi sposi, stiamo assistendo in chiesa al vostro matrimonio. Abbiamo pregato intensamente per voi. Vi facciamo mille congratulazioni, vi porgiamo gli auguri più fervidi, vi vogliamo un mondo di bene; ma adesso, nella buona e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia. Siete voi due che vi dovete amare
Carissimo Andrea- dice Gesù a me e a te – ti offro tutto me stesso. Ma “Colui che ha creato te senza di te, non può salvare te senza di te”. Dimmi il tuo “si” e ti ripeterò: la tua fede ti ha salvato.
La collaborazione che ti chiedo, non è tanto di fare, quanto di lasciarmi fare. Esponiti al mio vento e avrai la mia potenza e la mia velocità.
Tour de France
La competizione ciclistica del trofeo Baracchi si svolge tra corridori che gareggiano in coppia. Per la coppia Matteo e Raildo la partenza è fissata alle ore dieci in punto.
Proprio qualche minuto prima della partenza fissata, Raildo al telefono chiede venia: un imprevisto lo tiene lontano dall’impegno programmato. Finisce la sua telefonata di scuse dicendo: delego l’altro mio amico a fare intanto la sua parte; io farò la mia in un secondo momento.
Gli fu risposto che a un campione iscritto al tour de France è mancata alla partenza la contemporaneità delle due ruote della bici. La ruota posteriore mandava a dire che la ruota anteriore poteva intanto partire liberamente; mentre essa sarebbe intervenuta per agganciarsi più tardi a gara iniziata.
O contemporaneità o annullare l’incontro; o contemporaneità o rimandare il tour de France; o riconciliarsi o annullare la pasqua. O santi insieme O sposi insieme
Velocità di Dio
Solitamente a Natale arrivano regali piccoli, grandi, significativi o menoma comunque sempre sempre segno d’affetto da parte del donatore.
A Rudy è arrivato un regalo strano per due motivi: a Natale un sofisticato modellino di locomotiva e proprio a lui che vive in carrozzella.
Che significato dare? – mi domanda il poliomelitico.
Il giorno dopo mi ripetevo: a Natale una locomotiva; a Rudy, a chi vive immobile; un simbolo di velocità e potenza. Ma, assieme al mio amico, ho pensato e riflettuto. E mi sembra d’aver intravisto il senso dell’augurio.
La locomotiva è segno di forza, potenza, velocità. Significa l’inarrestabilità d’una corsa che trascina con sé innumerevoli carrozze. Perché a te? Tu non solo non corri; ma sei addirittura bloccato in carrozzella.
Insieme abbiamo colto che nessuno di noi è – né mai possiamo presumere di esserlo – il forte, il veloce, l’inarrestabile; ma è Gesù che a Natale viene a nascere e a vivere in me, in te.
Con Lui in me, non sono più io, ma è Gesù che vive in me. Allora tutto posso in colui che mi dà forza. Metti Gesù nel motore della tua vita e sarai travolgente.
Ormai non puoi, né devi portare la tua debolezza, la tua miseria come scusa o argomento per fermarti e impigrire, anzi le riporterai come motivi rassicuranti e incoraggianti: Lui è nato proprio per sposare la debolezza dell’uomo.
Mi glorierò, allora, della mia debolezza affinché si scateni in me l’onnipotenza di Dio. Beate quelle carrozze che si agganciano alla locomotiva divina perché vi troveranno la velocità di Dio.
Vento contrario
Lungo la spiaggia del mio paese me la godevo un mondo a far volare l’aquilone, a trattenerlo perché la violenza del vento contrario non me lo strappasse addirittura di mano.
Di tanto in tanto il vento si calmava ed era la sconfitta per l’aquilone che perdeva quota fino a picchiare e a sbattere sulla spiaggia.
Per fargli nuovamente riprendere il volo era necessario l’arrivo di nuovo vento da offrire all’aquilone in direzione contraria.
Ora, a chi mi confida le sue pene, ricordo che l’aquilone, grazie al provvidenziale vento contrario, può riprendere il volo e penetrare il cielo.
Vi precederanno
Anni fa ho partecipato ad un congresso nazionale per la pastorale secondo la nuova evangelizzazione promossa dal concilio ecumenico vaticano secondo.
Si alternavano conferenze, dibattiti, tavole rotonde e gruppi di studio. Ma, secondo me, i momenti più interessanti erano quelli in cui venivano invitate a salire sul palco del congresso persone di varia estrazione sociale, di varia cultura o anche senza cultura particolare.
Venivano invitate a parlare non tanto di ciò che avevano imparato sui libri o negli eventuali studi di specializzazione, ma a donare ai presenti quanto avevano scoperto e capito nel vivere semplicemente il vangelo nei momenti ordinari della giornata e nei rapporti con le persone che componevano la loro famiglia o con i colleghi di lavoro.
Salirono sul palco, un giorno, alcune signore; nell’abito nulla che le distinguesse…; ma appartenevano ad una congregazione religiosa fondata di recente. Dal racconto della loro vita si poteva desumere che prima di entrare in convento erano state prostitute. Avevano fatto la scelta di Dio non solo lasciando quel “mestiere”, ma anche proponendosi di vivere insieme la radicalità dell’amore portato da Gesù sulla terra e di testimoniare che l’amore puramente terreno è sempre intriso di egoismo e rende schiavi; mentre l’amore insegnato dal vangelo è piena libertà, massima realizzazione della persona.
Una di loro, Margherita, superiora generale della congregazione, racconta la storia d’una consorella, Filomena, che, dopo aver lasciato il marciapiede da alcuni mesi, vi è nuovamente ritornata. Ed era la terza volta. La regola della nostra associazione, continua Margherita, permette alle recidive pentite di rientrare in monastero fino a tre volte. Allora con le quattro consigliere mi consultai sul da farsi; andai a cercare la pecorella smarrita e la trovai nel solito appartamento. Dialogando con lei, credetti al suo pentimento e la riportai in monastero per la terza volta, avvertendola che sarebbe stata l’ultima secondo la prescrizione della regola pur benevola e indulgente. Ma Filomena per la quarta volta tornò sulla strada perdendo, quindi, ogni possibilità di rientrare in monastero”.
Dopo un certo tempo arrivarono al consiglio generale della congregazione pianti, pentimenti, promesse e propositi da parte della plurifedifraga. Tutte le consigliere in coro espressero la loro opinione: è vero, si avverte che è pentita, ma, secondo la discrezione della regola nostra, non &egra
ve; più possibile permetterle di rientrare.
Una illuminazione
quella mattina. Tutte insieme fecero meditazione sul vangelo dell’adultera condannata dalla legge, ma perdonata da Gesù e liberata dai sassi dei farisei con la nota frase: “Chi è senza peccato, scagli per primo la pietra”; e si ricordarono altre parole di Gesù: “molto ama colui al quale molto è stato perdonato” e “non ti dico di perdonare sette volte, ma settanta volte sette”.
Tornarono a casa; ritoccarono la regola dandole questo divino respiro e Filomena potè rientrare in monastero ancora una volta. Per l’ennesima volta valeva la pena ricordare a tutti che il perdono di Dio non è “normale” ma “scandaloso” e ti rinnova “settanta volte sette”.
Viaggio da Roma a Venezia
Un mio amico fa parte di una squadra ciclistica. Spesso con i compagni inforca la bici per raggiungere Venezia: impiega nel percorso quasi quindici ore. Qualche volta, se il tempo è inclemente, è costretto a prendere il treno: arriva in quattro ore e mezza. Un giorno con lui, veneziano come me, compimmo in aereo lo stesso tragitto – Roma-Venezia – in meno di quarantacinque minuti.
È evidente; secondo il mezzo di trasporto variano la velocità e la rapidità del viaggio, come pure la fatica richiesta.
Se si sceglie il volo, tutta la fatica consiste nel salire sull’aereo, sedersi e allacciare la cintura: fidarsi, stare, aderire. Durante il viaggio puoi leggere, studiare, parlare con chi ti sta accanto, perfino dormire: l’importante non è quello che fai tu, bensì quello che fa per te l’aereo. E dopo solo pochi minuti potrai raccontare agli amici il piacere e le meraviglie del viaggio: l’altitudine, la velocità raggiunta, il passare tra le nuvole, la straordinaria bellezza e grandiosità dei paesaggi, tutto grazie alla fiducia riposta nell’aereo.
Così, scegliendo la volontà di Dio, ? e ogni momento della vita mi offre l’occasione di questa scelta ? acquisto la capacità di fare ciò che a me è impossibile, di correre cioè alla velocità di Dio.
In aereo tu devi attendere il tempo richiesto per portare a termine il viaggio e l’atterraggio: se vivi nella volontà di Dio, se dici di sì a Lui in ogni momento, già possiedi ciò che speravi.
Fare la volontà di Dio è possedere Dio.
Aderire alla sua volontà è godere della sua stessa sorte: la felicità.
Voce dell’allenatore
Seduto ai bordi del campo sportivo, guardavo la squadra di calcio allenarsi. Ma, prima della partita, l’allenatore con i giocatori attorno, suggeriva le tecniche, l’organigramma della partita, le varie strategie che lui, volta per volta, avrebbe suggerite dai bordi del campo.
E’ seguita subito la partita che li vedeva sfidare la squadra del paese.
Dalla panchina partivano perentori suggerimenti, severi richiami, esortazioni verso i giocatori già coinvolti nel fervore del gioco.
Mi meravigliavo che perfino un tono di voce contenuto arrivasse ai giocatori. Solo il centromediano sembrava scorribandare con troppa scioltezza e anarchia. Sembrava non obbedire, non sentire e non badare alla voce proveniente dal bordo campo.
Richiamato all’ordine si scusò dicendo che la passione, la concitazione del gioco e il chiasso d’attorno lo avevano distolto, travolto tanto da non saper distinguere, tra le tante, la voce del suo allenatore.
Con maggior attenzione e impegno ha cercato anche lui a prestare il massimo ascolto a chi aveva in mano il gioco e la strategia della partita, memorizzando così il particolare timbro di voce che lo doveva guidare in campo e armonizzare con la squadra anche la sua prestazione.
Siamo chiamati a giocare nello stadio di Dio, chiamati al massimo rendimento, fino a giocarci la vita. E’ Gesù il dirigente della partita.
La vittoria è assicurata a chi, affinando l’udito, sa distinguere il timbro della sua voce, pur nella concitazione delle passioni, e sa ascoltare le direttive vincenti anche tra il vociare delle cose e delle persone all’intorno.
Volo in verticale
Entro nella torre del campanile della mia chiesa; un vano stretto, quadrato, tre metri per lato
Appena apro la porta, vedo un colombo, chiuso dentro, che stava piluccando qualcosa a terra. Spaventato dalla mia presenza improvvisa, sbatte fragorosamente le ali e disorientato comincia a svolazzare da tutte le parti cercando di uscire dalle finestre laterali che di solito gli consentivano di entrare e di uscire a piacimento.
Ma questa volta le trova tutte chiuse. Vista l’impossibilità di uscire in libertà attraverso vie laterali l’uccello spicca il volo in verticale fino alla cima del campanile dove era l’unica apertura rimasta.
Era, il mio, un periodo di importanti e numerosissime attività. La mia tensione era grande e scomposta; velata anche di pretesa verso qualche mio collaboratore.
Improvvisamente e inaspettatamente mi arriva l’epatite virale. Mi portano subito, dritto all’ospedale. Mi ritrovo in una camera da solo e con la proibizione assoluta di avere contatti con chiunque non fossero medici e infermieri. Mi ingiunsero, come medicina, l’inattività, il riposo assoluto. E ciò per un mese
Mi sembrava che Dio mi chiudesse tutte le porte ai lati. M’era preclusa la possibilità di continuare ogni rapporto con il mondo esterno.
Mi ricordai del colombo e del campanile con le finestre chiuse.
Marta, Marta, ti preoccupi per troppe cose. Spicca il volo in verticale per reimparare il modo di attendere al prossimo.
Due pedali immobili
Sono passato a visitare un celebre santuario. Tra i tanti “ex-voto”, una bici appesa al chiodo. “Quella è la bici che ha vinto il record dell’ora”.
Tutti ad ammirare quelle ruote, quella forcella. Strano, quei pedali, famosi perché su loro s’era scatenata la potenza d’un campione, erano immobili; quindi immobile, inerte anche la bici che col passare del tempo sarebbe diventata solo un ricordo del passato, ferro vecchio e ingombrante.
Ho provato anch’ io quella bici, ma sembrava che mi dicesse: “Io non posso darti nulla se tu non mi trasmetti la tua potenza. Io sono debole perché debole è la tua pedalata, lento il mio andare perché fiacca la tua spinta. Io valgo quanto vale chi siede sulla mia sella. Esprimo la potenza o l’inesperienza di chi mi inforca. Fammi cavalcare da un campione e ancora sarò famosa.
Prendi coscienza che tu vali e sei veloce e potente quando, in totale disponibilità, permetti a Dio che ti abita, , di scatenare in te la sua onnipotenza
Il goleador
Nel periodo in cui ero preso dallo sport, la pagina della Gazzetta che maggiormente consultavo era quella che mi dava la classifica dei marcatori. Nella box tanto mi attirava l’arte dell’aggressione, quanto mi respingeva l’immoralità del pugno. Confesso che da giovane non mi sono perso i vari Benvenuti Griffith e i Cassius Frazier.
Strano; ma leggendo la pagina preferita mi pareva francamente stonata l’esaltazione esagerata del goleador. Ho cercato di guardarmi qualche partita e valutare in effetti le varie azioni da gol. Vedevo che i marcatori erano pochi e quasi sempre gli stessi. Del resto, sia per la qualità tecnica che per la posizione in campo, da loro ci si attende il gol.
Ma non mi quadra il fatto che di loro e solo di loro si parli nei titoli sportivi.
Quanto la
voro, quali finezze di dribbling e di passaggi intelligenti da parte di giocatori degni di uguale e maggior valutazione. Insomma il gol è figlio di tutta la squadra che, con intrecci meravigliosi di tutti compreso il portiere, sospinge il pallone nella porta avversaria. Il gol di uno è di tutti.
Nella chiesa onoriamo opportunamente tanti santi che si sono segnalati per atti eroici riconosciuti. Ma sono certo che nessuno di loro ha fatto gol in cielo se non grazie alla comunione della grande squadra di uomini e donne che giocano al centro o ai margini del campo, nel silenzio d’una vita e d’un lavoro, nascosti nel servizio e nell’umiltà della famiglia.
La santità di uno manifesta la bontà di molti, di tutta la squadra.
L’atleta è solo
Ai bordi della pista assisto allo svolgimento di gare di vario genere e discipline.
Ho una certa preferenza per la gara di salto in alto. Osservo la concentrazione con cui si muove l’atleta.
Si avvicina alla pista. Con calma scambia qualche parola col proprio allenatore che, a quanto posso pensare, lo tiene “desto”, ne solleva la fiducia coltivando, se ce ne fosse bisogno, l’attrazione della vittoria.
Indossa unicamente il minimo indispensabile consentito dalla decenza socio sportiva. E’ soppesato perfino il grammo in più o in meno di quanto veste.
Da mesi, se non da anni, è sotto stretta vigilanza il peso del corpo portato al minimo possibile e che consenta il massimo della potenza nell’esecuzione del salto Perfino di notte l’atleta in sogno rinnova quel salto. Sogna tanta leggerezza da sfiorare l’assenza di peso pur necessario per “ritornare” a terra.
L’allenatore è indispensabile per spronarlo a mettercela tutta perché il salto riesca. Ma l’atleta davanti all’asticella, nello spiccare il salto, è solo. Solo con le sue capacità, solo con le sue forze. Mentre salta anche il suo allenatore sta a guardare.
Anche tu ed io siamo chiamati a spiccare mille salti nello stadio della nostra vita cristiana. Ogni volta avvertiamo che nessun salto ci è possibile, che l’asticella è immensamente più alta delle nostre capacità.
Ma la vertiginosa altezza raggiunta ad ogni nostro salto è solo frutto dell’intervento del divino Allenatore che chiamiamo in causa con la nostra fiducia
O con le scarpe o senza
“I miei alpini li voglio qua”, si canta nella canzone de “ Il capitan della compagnia”. Comando senza indugi: i suoi alpini li vuole necessariamente vedere.
Perentoria quanto indilazionabile è la decisione del capitano, “senza se e senza ma”. Non so se per eccesso di affetto o se per urgenza bellica, comunque è una necessità che non ammette deroghe.
Antonio, ciclista appassionato, ha promesso a papà di andarlo a trovare a Parigi, ma in bici. Serie difficoltà alla bici, sembravano compromettere il viaggio di Antonio.
“A me non interessa la tua bici, gli scrive il papà; mi interessi tu. Quindi “o con la bici o senza bici” il mio Toni lo voglio qua.
Col battesimo, abbiamo promesso di andare in Cielo dove, costi quello che costi, ci vuole Papà. Certamente i modi di andare a Dio sono tanti: la via “purgativa, proficiente, unitiva”; la “via del nulla”, la “via dell’infanzia spirituale”.
Mille difficoltà si frappongono anche nel percorso verso il Padre: montagne invalicabili, sensibilità, tentazioni, emergono a tal punto da compromettere la vita eterna.
Può essere relativo per Toni raggiungere suo padre a Parigi, come per gli alpini andare dal capitano, ma non è per nulla immaginabile qualsiasi obiezione al nostro ritorno a Dio.
Ma la capacità di incontrare Dio non viene chiesta a te o a me. Chiamato proprio dalla tua nullità, è sceso dal Cielo e abita in te quel Gesù che si è fatto tua Via di ritorno e certezza di arrivo.
Ruota del passeggino
E’ sempre stato intraprendente in ogni difficoltà, il nostro Lando. Ma proprio non avrei mai pensato che potesse fare la gara ciclistica del paese. E’ stata per lui una grande impresa l’aver partecipato alla kermesse paesana, ma è addirittura straordinario averla anche vinta con una bici tanto strana.
Si è presentato al via con una bici fatta da una ruota normale, ma la seconda era la ruota del passeggino del nipotino. Ruota che è diventata la favola sulla bocca di tutti. Non si parlava della vittoria di Lando, ma del trionfo del nipotino, orgoglioso d’aver prestato la sua ruotina.
A tutti costi voleva partecipare, a tutti i costi voleva vincere, il nostro Lando. Ma a conti fatti, anche se il premio della vittoria è andato all’eccentrico ciclista, il vero monumento è stato fatto alla piccola ruota del passeggino.
Perché tanta attenzione a ciò che non vale o valeva poco? Il motivo è semplice: quella miniruota si è lasciata agganciare in maniera inseparabile alla ruota del potente ciclista.
Mi pare che questa posizione onorata nelle competizioni cristiane spetti a me e a te: “in lui risultiamo sempre e comunque più che vincitori”.
Qualcuno sottolinea la vittoria ribadendo il “nonostante” la nostra incapacità; ma noi osiamo affermare che il “Campione” sceglie proprio le cose deboli e senza valore per confondere i forti.
Specchietto delle allodole
Vicino a casa mia si stendeva una campagna paludosa e i cacciatori di allodole facevano galleggiare, attorno al loro capanno, un finto stormo di allodole di legno.
Dalla barca, registrato, lasciavano partire il verso delle allodole. Gli stormi che passavano in volo, vedevano dall’alto quel gruppo di loro simili e planavano incautamente, attirati dal canto sonoro e allegro. Non era difficile per il cacciatore farne preda.
Dio per attirarci ha bisogno d’uno “specchietto”, d’uno spettacolo che attiri nella sua rete, nel suo capanno, tutti coloro che lo cercano con cuore sincero, tutti coloro che hanno fame di lui. Lo specchietto di Dio, il verso che attira irresistibilmente alla vita vera, alla Chiesa di Gesù, è l’amore, un amore così vero e concreto da suscitare ammirazione: “Guardate, guardate come si amano”- “Da questo vi riconosceranno miei” Erano le esclamazioni dei pagani che rimanevano incantati di fronte ai cristiani sempre pronti ad amarsi fino a dare la vita l’uno per l’altro.
Opportunamente un canto della liturgia così si esprime: “Nella chiesa del Signore, tutti gli uomini verranno, se bussando alla sua porta, solo amore troveranno”.
Per le allodole, abbagliate dall’inganno, è in agguato la loro morte per la vita del cacciatore; per me, per te e per chiunque si lasci attirare nella rete di Gesù è riservata la felice sorpresa dell’incontro con un Cacciatore che ha dato la vita per la tua vita.
Tandem-Geac
Sai, Andrea. Ho fatto un sogno e te lo racconto prima che scada la festa dei quarantacinque anni di vita della nostra Amicizia.
Mi hanno proposto di partecipare a un grande convegno del Geac. E’ una festa meravigliosa, che gli ex allievi carmelitani c
elebrano ogni anno per alimentare la loro amicizia nata al Carmelo.
La notte precedente mi conseg
nano un trofeo. Riconoscenza spontanea e sincera per il lavoro che finora ho svolto in tutta Italia nel “parcheggiare” biciclette a favore degli amanti dei pedali.
Sai quale grande trofeo?! Un mega “tandem-Geac” che potesse dare posto e allegria a più di cinquecento geachini che dovevo incontrare. “Pedalando in tandem” possono così manifestare a tutti quella comunione necessaria alla vita di tutti i giorni.
Ma, scusami Alberto, come svoltare a destra e a sinistra nelle frequenti curve della strada?
Grazie della domanda, peraltro molto pertinente, che mi offre lo spunto per rivelare la meraviglia di questo strano e prodigioso mezzo di locomozione.
Tutti gli ex allievi partecipanti a questa amicizia hanno il proprio pedale per collaborare ciascuno secondo le sue capacità e – cosa rara – la strada che percorrono è senza curve, perché il “tandem-Geac” senza freni punta dritto in cielo.
All’arrivo tutti e ciascuno s’accorgono di ricevere e godere il trofeo della vittoria. All’ultimo, come al primo dell’intera compagine, è riservata la massima ricompensa: “Entra nell’Amicizia del Tuo Signore”.
Un balzo splendido
Di tanto in tanto mi attraversa la mente, come in un lampo, tutta la mia vita e per di più sotto l’aspetto negativo.
Mi pervade, per pochi istanti, un senso di sgomento, una percezione di fallimento totale, tanto da sentirmi smarrire. Per fortuna, o meglio per grazia di Dio, non mi sento disperare, né intimorire.
Anzi, appena vedo e tocco il fondo della mia nullità e per di più leggo la mia vita così misera, subito riemergo con uno sguardo nuovo al Papà, in cui mi tuffo con una fiducia perdutamente filiale, tanto che non mi attardo su di me, ma addirittura ne colgo un segnale, un dono che mi prepara a gustare la sollecitudine del suo amore.
Ciò mi inonda di tale pace profonda e mi fa fremere di tale riconoscenza da commuovermi. Avverto tutto come un gioco dell’Innamorato.
E’ lui che immette la stupenda consapevolezza del tuo niente per poterti inabitare con la sua onnipotente paternità; ti rivela che la tua miseria è preziosa perchè sola capace di ricevere la ricchezza del suo perdono; ti senti figlio perché rinato nella misericordia.
Con Agostino, sono libero di guardare la mia miseria appena conosco la misericordia.
Con Chiara, stimo il più bel giorno della vita quello in cui, dal profondo negativo, ricevo la forza dello splendido balzo tra le braccia di papà: “Padre, nelle tue mani”.
Con Teresa, se avessi nella coscienza i più grandi crimini dell’umanità, non esiterei un istante a inabissarmi nel mare della divina misericordia.