Come viene sottolineato nell’
“Enciclopedia Monografica del Friuli Venezia-Giulia”, tra gli strumenti
linguistici più notevoli di Marcello De Stefano, sono da considerare “il
rispetto per l’inquadratura, considerata come fatto plastico figurativo
in stretto equilibrio col contenuto, il fattore cromatico, mai usato in
senso estetizzante, l’importanza del commento musicale”.
Cercherò
ora, partendo da questa affermazione di analizzare in modo specifico
questi tre aspetti di fondamentale importanza per comprendere ed
apprezzare con maggiore proprietà l’opera cinematografica del cineasta
friulano.
1. L’inquadratura ovvero la friulanità nel fotogramma
Come
ho già avuto modo di ricordare nei capitoli precedenti Marcello De
Stefano proviene dall’attività artistico-figurativa (in particolare
pittura e grafica). Quando decide di passare all’arte cinematografica,
egli trasporta in quest’ultima, al fine di costruire un soggetto,
elementi che erano propri del suo dipingere, tenendo ben presente al
contempo che, andando al dato cinema, tali elementi dovevano essere
adeguati al nuovo mezzo espressivo.
Secondo le intenzioni del regista
i fotogrammi dovevano innanzitutto contenere al loro interno la realtà
friulana, o meglio dovevano riuscire a suggerire agli occhi dello
spettatore, attraverso la loro impostazione e struttura
formale, l’idea di essere espressione completa dell’essenza profonda,
dei caratteri propri e quindi dell’identità del popolo friulano.
Dunque
egli si ritrova, prima di tutto, a fare delle considerazioni attente e
profonde a proposito della lingua e dei rapporti che intercorrono tra
essa e la gente che la parla. Secondo l’artista e uomo di cultura
friulano la lingua prima di essere suono è pensiero, e, precisamente, il
pensiero di una comunità, il modo in cui questa comunità vede il mondo.
È quindi un discorso che scava in profondità e non vuole essere
puramente illustrativo; il suo obbiettivo, come detto, è quello di
restituire una presenza concreta e reale dell’etnia friulana all’interno
del fotogramma, ma la domanda più importante che si pone e a cui deve
cercare di trovare una risposta al fine di raggiungere il suo scopo è:
«Come la realtà friulana può essere fissata nel fotogramma?».
Bisogna
fare una premessa importantissima, prima di affrontare il discorso sul
modo in cui la mentalità e l’identità di un popolo può essere data
attraverso l’immagine cinematografica. È necessario, infatti, chiarire
quali siano le caratteristiche peculiari della lingua friulana e
sottolineare quali aspetti la differenzino dalla lingua italiana.
Infatti,
al contrario della lingua italiana – la quale tende a dipanare il
pensiero – la lingua friulana presenta una tendenza innegabile a
concentrare tale pensiero; in poche parole, la prima è una lingua che si
esprime per estroversione, mentre la seconda per introversione.
Un
esempio di ciò mi viene offerto dallo stesso De Stefano, che mi ha
riferito un piccolo episodio al quale gli è capitato di assistere in
prima persona. Un giorno si trovava in compagnia di due amici friulani, e
ad un certo punto un’altra persona, vedendo le conseguenze del
terremoto del ’76, si rivolse loro dicendo: «Che razza di schifezza ha
causato il terremoto qui!». A questo punto, uno dei due friulani replicò
dando ragione a quanto affermato in lingua italiana, esclamando: «Dut
’na puarcarie!».
Da questo esempio appare chiaro come la
lingua friulana presenta, rispetto a quella italiana, una certa tendenza
a concentrare tutti gli elementi della frase in modo da ridurli al
minimo numero possibile di fonemi; nel confronto tra la frase in lingua
italiana e quella in lingua friulana, cioè, si può rilevare con facilità
l’ «introversione» della lingua friulana, la quale è specchio fedele
della introversione tipica della gens friulana, che si riscontra in una
conversazione anche nella scarsa gestualità di quest’ultima.
A questo
proposito voglio citare una serie di esempi, riportati da Mario
Quargnolo nel suo saggio “Marcello De Stefano: il cinema scritto (nel
fotogramma: n.d.r.) in friulano” (175), che serviranno a confermare quanto
detto finora, a spiegare meglio cosa si intende con l’espressione
«lingua introversa», e soprattutto a mettere in luce altre importanti
peculiarità di tale lingua. In un passo del suddetto saggio, l’illustre
critico sottolinea come nelle modalità di ripresa di Marcello De Stefano
ogni elemento sia “valorizzato quasi a fronte di quel senso
dell’individualità che la lingua friulana tanto bene esprime nei suoi
soggetti ripetuti, nei suoi pronomi personali dati due volte: “jo ’o
sai”, “tù tu sâs”, “a mi no mi à ’zovât”, nel portare al femminile anche
il cognome Plain, Plaine; Braidot, Braidote; Ferui, Feruje” (176).
Di
seguito Quargnolo fa notare, a proposito dell’elemento del disegno – più
volte utilizzato da De Stefano nei suoi film-saggio -, come esso
permetta di “avvicinarci a quella contenuta gestualità, che alle volte è
anche sua vera e propria assenza, tipica del friulano. Il grafico
costituisce, pertanto, un ulteriore elemento di coerenza stilistica data
anche dal riporto “visivo” del predominante “introverso” modo di essere
di una gente” (177).
E detto questo passa ad analizzare la sintassi della
periodizzazione friulana, citandone numerosi esempi – come ho anticipato
sopra – che rivelano il senso del “concreto”
tipico del popolo che abita in Friuli.
Facendo un parallelo con
l’italiano, infatti, “le congiunzioni friulane evidenziano quel bisogno
di unione con l’oggetto, del referente con quello che lo indica –
manifestazione di necessità di concretezza – che fa sì, ad esempio, che
il pronome relativo friulano possa in ogni caso essere sempre “che”:
“l’uomo di cui ti parlavo”, “l’omp che ti fevelavi”; “l’uomo con cui mi
hai visto”, “l’omp che tù tu mi às viodût cun lui”.
E sempre nel
confronto con l’italiano si può concludere nei termini di un’esigenza di
concretezza con le altre proposizioni dipendenti considerando la
particolare strutturazione delle locuzioni prepositive: “gli domandò
qualcosa affinché egli parlasse”, “j domandà alc cun chê ch’al favelas”;
“era abbastanza bello da piacere alla fidanzata”, “al jere tant biel
avonde di plasej a la morose”; “c’era tanta confusione che”, “’e jere
tante di chê confusion che”.
Coerentemente a sua volta Marcello De
Stefano fa evolvere sintatticamente e quindi narrativamente il racconto
con un ritorno degli stessi oggetti, diversamente angolati dalla
macchina da presa, che costituiscono immediato richiamo dell’immagine
trascorsa legandovisi con quel concreto senso di appartenenza che è
constatabile nelle congiunzioni e locuzioni prepositive friulane
sopraddette” (178).
Per cui, quando De Stefano riprende, ha sì un senso
figurativo proprio del gusto di comporre di uno che proviene dal mondo
dell’arte figurativa, ma in questo suo riprendere concorrono anche gli
elementi visivi essenziali a portare avanti il tipo di poetica e
linguaggio appena descritti.
La dimostrazione più chiara l’abbiamo con
Par condicio (un spetacul furlan di vué) – Controlettura anni Novanta,
dove viene sì messo in scena uno spettacolo, ma in queste immagini non
vi è alcun compiacimento a fronte della grandiosità e della quantità,
tipiche dello spettacolare in quanto tale. Infatti, lo spettacolo viene
allestito all’interno di un Caffè udinese, quindi in uno spazio alquanto
ristretto, e per di più tutti gli artisti si esibiscono su un piccolo
palco-pedana di pochi metri quadri, senza alcuna dimostrazione di
sfarzo.
Ciò che poi viene detto dai vari personaggi intervenuti è legato
ad arte e cultura particolari che, sulla falsariga introduttiva e
ripetente della lingua friulana, con i loro vari dialetti d’Italia si
articolano quale espressivo omaggio valorizzatore dell’anima delle varie
genti che abitano la terra italiana. Non si tratta perciò di uno
spettacolo inteso come gioco fine a se stesso, bensì di un inno ad una
realtà italiana di natura “federalista” e, in quanto tale, gli elementi
che lo compongono concorrono ad una concentrazione e profondità
d’analisi, in contrapposizione alla superficialità evasiva, tipica dello
spettacolare.
Sempre al fine di rendere attraverso il fotogramma
l’essenza della friulanità, il regista, riflettendo sui mezzi
linguistici tipici del cinema arriva a concludere che una cinematografia
marcatamente friulana doveva per forza arrivare ad una negazione
dell’uso della dissolvenza, poiché questa fa parte di quei mezzi visivi
“dolcificatori” o “ammorbidenti”, così come anche il “mascherino”, che
in un tale cinema di essenzialità ed introversione di base non
dovrebbero entrare.
Tanto è vero che in Grafiz ’tun orizont, quando
muore padre Carlo, fratello di Padre Luigi Scrosoppi, e ne prende il
posto quest’ultimo, si passa da un volto all’altro lavorando con la
stessa macchina da presa sul fotogramma durante le riprese. Per cui il
passaggio è ottenuto con una sfocatura che lavora sul supporto della
pellicola, cioè su qualcosa di tattile, di consistente, che si adegua
alla forma mentis di una gente che non vede per astrazioni ma attraverso
rapporti concreti con le cose.
Questa analisi è stata portata avanti
anche da noti linguisti friulani, come Giovanni Frau – docente
dell’Università di Udine – e Gianni Nazzi – lessicologo -, che
hanno collaborato con Mario Quargnolo circa il suo saggio citato a
proposito della illustrata corrispondenza (179).
Conseguente a quanto
detto finora è anche l’uso dell’illuminazione, del tutto lontana da
qualsiasi forma di lindura estetizzante ed in opposizione decisa ad un
suo pittorico barocchismo.
Tanto che, per quanto riguarda le luci, De
Stefano arriva anche ad usare una vera e propria sgrammaticatura, ossia
contravviene a quella regola che, dal punto di vista teorico, vuole che
l’illuminazione di una scena venga effettuata sempre nello stesso
rapporto di luce / ombra nelle varie parti della sua sequenza.
In Par
condicio, un buon esempio è dato dall’episodio riguardante il vino
Puglia, nel quale viene sottolineato il legame tra tale regione e quella
friulana. La voce recitante puntualizza che il nettare degli dei di
origine pugliese è stato bevuto a lungo ed apprezzato in Friuli per
molti decenni e in questo episodio la luce è adoperata in funzione
dell’importanza delle parole, in funzione, precisamente, del dire,
fraseggiare in memoria, ignorando volutamente quanto codificato dalla
grammatica lumino-tecnica.
Ciò perché, in Par condicio, vera
protagonista è proprio la parola, rivendicata come elemento di identità e
la luce accompagna la sua semantica che così se ne sostanzia.
Altro
esempio che rende idea del fatto che sono le parole a creare la
struttura della scena, lo abbiamo quando lo speaker pronuncia la
seguente frase: «Per chiudere il cerchio la par condicio deve negare
ogni limite e andare oltre ogni oltre, aprirsi». Alla parola «aprirsi»,
la macchina da presa effettua uno zoom su una parete del Caffè
Contarena, sede dello spettacolo “in ripresa”, concretizzando una
materializzazione della parola e del suo concetto di “aprirsi”.
Tutto
ciò in funzione sempre di un’antispettacolarità, come tematica di base,
intesa come opposizione ad una copertura all’instaurazione di un costume
che mira a non far pensare. Lo
speaker prosegue dicendo: «aprirsi vuol dire non soltanto superare i
confini regionali e nazionali ma anche barriere razziali ed etniche»;
durante la lettura di questo brano viene inquadrato il volto di un
giovane africano, ma mentre da principio questo volto è sfocato, quando
risuonano le parole «razziali ed etniche» abbiamo la messa fuoco, ed i
contorni della faccia del giovane diventano nitidi e definiti.
Altro
esempio che ci fa capire, come sia la parola, e quindi il pensiero, il
primo principio e il fine di questo film-saggio e, possiamo dire, di
tutto questo tipo di cinema, considerando l’intera produzione del
regista friulano.
Tornando all’illuminazione ed al suo uso in
funzione della parola, vorrei citare un esempio tratto dal film-saggio
In verità, in verità vi dico, nel quale i cappellani militari, a seconda
delle parole dello speaker, che ne mostra caratteristiche positive e
quelle – molte – negative, camminano o sono in ascolto ora nella luce
ora nel buio alternati tra loro: e a tal fine (precisazione tecnica) la
macchina da presa di De Stefano opera volontariamente una ripetuta
chiusura / apertura del diaframma.
Inoltre la luce che filtra
attraverso la mano del sacerdote, alzata nell’aria in segno di saluto,
sempre nella stessa pellicola, vuole significare comunque che ci
troviamo, in ossequio ad una cifra di fede, davanti ad una mano che
consacra; e quando si commemorano i morti in guerra, abbiamo un
irradiante effetto luminoso come allusione a defunti che non sono più
cappellani militari né uomini, ma tutti entità superiori, di altro
ordine.
In Uomo, macchina, uomo, invece, quando la voce fuori campo
affronta l’argomento del lavoro in nero, inframmezzato ad una sequenza
di luce equilibrata, viene ripreso un ragazzo al lavoro in un ambiente
buio, a significarne la clandestinità.
A proposito del montaggio che
lega le varie inquadrature, c’è da evidenziare anche il ritorno degli
oggetti in riprese effettuate da nuove angolazioni, che portano avanti
il racconto – l’angolo cambiato indica cioè
il procedere del
racconto -; è come un invito da parte dell’oggetto ad essere
approfondito, e nel frattempo si pone in analogia alla tipica
congiunzione secca, rinvenibile nella lingua friulana, nel periodare
delle subordinate.
Cosa che è stata già messa in luce nella citazione
del brano di Quargnolo.
Passando ora alla recitazione, iniziamo
subito col dire che anch’essa è adeguata al fatto di dover esprimere
l’introversa identità friulana. È una recitazione che, più che
un’interpretazione, è un dire senza grande partecipazione emotiva, in
tempi contenuti. Essa è parola realizzata in modo da valorizzare anche
il fatto plastico e, di conseguenza, deve porsi in equilibrio con le
cose; gli oggetti, infatti, assurgono, nel cinema di De Stefano, allo
stesso grado di importanza delle persone recitanti e tra questi due
elementi si crea un rapporto dialettico.
Pur essendo protagoniste
perciò, le persone, non devono annullare la presenza degli oggetti, che
allo stesso modo degli attori sono in grado di portare avanti il
discorso e di creare pensiero. E, qualora le persone recitanti siano in
posizione quasi di “a solo”, i tempi recitativi, per coerenza con
l’introversione tipica del friulano, devono risultare alquanto
circoscritti.
La recitazione “destefaniana”, quindi, non è una
recitazione che possiede le caratteristiche alle quali siamo abituati
normalmente quando guardiamo un film, poiché, come detto, non è
interpretativa. Ma non lo è eminentemente, poiché non è inespressiva ma
realizzata in una enunciazione in cui la parte concettuale è corpo che
la sostiene in equilibrio con la compresenza degli oggetti, molto spesso
complementari alla parola recitata. Donde consequenziale è che tutto
ciò possa essere effettuato con la preminenza di uno speaker.
In Par
condicio, la ragazza presentatrice, nei momenti in cui parla della
letteratura friulana, quando si riferisce al passato, è ripresa di
profilo e guarda a sinistra, mentre, quando la letteratura evolve e ci
si avvicina al presente, la macchina da presa passa ad un primo piano
frontale. Questo per sottolineare come anche la recitazione
degli attori, così come abbiamo detto a proposito dell’utilizzo
dell’illuminazione, venga a sottostare all’elemento principe della
parola, e quindi del pensiero.
In Grafiz ’tun orizont la staticità
delle figure rappresentate in un disegno sono da considerarsi sempre
come un fatto di recitazione contenuta, soprattutto se si pensa che vi
sono parecchie scene spettacolari a far progredire il racconto.
Ma il
disegno, in quanto “castigatore” dell’esplosiva forza della
spettacolarità propria di una ricostruzione con attori, elimina tutto
ciò che è segno di ridondanza propria della spettacolarità, e porta a
riscontrare nel castigato, nel moderatamente espresso, l’elemento
friulanità.
Passiamo ora, nel paragrafo seguente, ad analizzare il
secondo elemento formale di questo cinema messo in luce nella frase
tratta dall’ “Enciclopedia” e riportata ad inizio capitolo, e cioè il
colore.
2. Il colore
Come sappiamo ci sono film che nascono in
bianco e nero e film che nascono a colori, per ragioni non casuali, ma
per profonde necessità espressive, dovute al fatto di riuscire a
coniugarsi con quello che è il contenuto della pellicola.
I due film
Incontro con un’infanzia rifiutata ed In verità, in verità vi dico
nascono in bianco e nero poiché il loro contenuto non ammette
distrazioni, dati i temi che in essi vengono affrontati. In entrambi i
casi viene puntato il dito, con severità d’analisi e serietà d’intenti,
sui fatti raccontati e non sono concesse divagazioni allo spettatore, a
cui è richiesto un ascolto partecipato a ciò che illustra l’immagine.
Il
colore, in un film, infatti, a volte è usato con funzione di
abbellimento o nella cifra di elemento di evocazione, e quindi permette
una certa distensione rasserenante all’attenzione di chi
guarda; inoltre implica anche possibile una visione fiduciosa della
tematica relativa allo svolgersi dei fatti narrati, come ad esempio
avviene in Controlettura, nel quale l’auspicato risveglio
dell’autocoscienza di un popolo, nel caso specifico “friulano”, nella
metafora: qualsiasi altro in posizione di subordine o dipendenza, è
visto non solo come possibile, ma anche come prossimo a realizzarsi
–sempre a certe condizioni-.
Ciò non può accadere per i due film citati,
la cui tematica cruda, rude non ammette nessun tipo di abbellimento, in
modo che la denuncia arrivi ancora più diretta e feroce verso i
responsabili dei fenomeni di emarginazione ivi riportati. Da parte del
regista poi non si riscontra qui quell’ottimismo che si può rilevare in
altri suoi film, ma vi fa solo capolino, ciò perché il contenutismo di
De Stefano è frutto di una profonda meditazione / approfondimento, e non
si pone nella cifra di una proposta mitica.
Sempre facendo il
confronto con Controlettura, dove il colore è riporto di verità
friulanamente cromatica, che pertanto avvolge e racchiude, nel rispetto
dei suoi toni, la bellezza delle cose, si può notare che, mentre nel
richiamato film-saggio l’esistente momento propositivo si pone come una
forma di canto lirico sottolineato da un colore che contribuisce a
lanciarlo liricamente verso l’alto (180), in Incontro con un’infanzia
rifiutata il momento propositivo è più una specie di rabbia urlante che
una proposta – anche se questa c’è, nei limiti -, e non c’è molta
speranza in un futuro diverso, benché in fondo il film-saggio lo
auspichi, donde il legittimo conseguente bianco e nero.
Per
quanto riguarda la simbologia dei colori nel cinema di Marcello De
Stefano, se ne possono individuare alcuni che racchiudono in sé
significati molto chiari e profondi.
Innanzitutto, il bianco; il
bianco, ad esempio, della cascata d’acqua in Eucaristia e segno implica –
come si può facilmente congetturare – la purezza ed è segno della
grazia cristianamente intesa.
Il bianco del ciliegio in fiore, che
abbiamo modo di vedere nel dosatamente colorato film Eucaristia e segno
allo schiudersi delle porte della chiesa, può sì essere visto come un
simbolo di speranza e di rinascita, in conseguenza alle aperture date
dalle enunciate conclusioni del Concilio Vaticano II, ma alquanto
precario. Infatti, ci si chiede quanto potrà durare questo momento
felice, dato che basterebbe una piccola tempesta per devastare l’albero e
far cadere i fiori, che quindi non potranno trasformarsi in frutti (181).
Per
ciò che concerne, invece, il verde usato per i paesaggi, si può
senz’altro convenire sul fatto che esso, come anche lo stilema
dell’albero frondoso, sia “l’esteriorizzazione di un’avvenuta presa di
coscienza, di una riscoperta propria «identità» (Controlettura – parte
prima): stilemi che in Controlettura parte terza () diventano invece
richiamo ad un producente presente (il florido verde) o ad un lontano
passato, ad un tempo storico che fu (i rami stecchiti”182 i quali hanno
un colore grigio-marroncino).
“Per cui () si constata l’allusione ad una
storica dimensione privata nella prima parte
della trilogia Cuintrileture, pubblica nella terza”183. Il grigio
dell’albero stecchito, per contro, costituisce “un dato scenografico che
materializza all’esterno l’interiorità vuota dell’animo friulano “non
coscientizzato” del suo essere minoranza linguistica” (184).
Nei film di
De Stefano che riguardano da vicino la realtà friulana si può notare
come anche i colori siano usati in modo da rappresentare al meglio
l’essenza di tale etnia, e quindi di aderire ad essa. Il Friuli, per le
caratteristiche che contraddistinguono la sua gente, necessita di essere
reso sullo schermo attraverso colori «chiusi» – cioè non portati a
suggerirci distese aure di luce -, potremmo dire anche dotati di una
certa solennità, ma che facciano avvertire una componente di
castigatezza pur nel sonoro gioco delle tinte.
A questo proposito
D’Annunzio disse che l’animo friulano tende ad essere melanconico pur
nei suoi canti gioiosi.
Come De Stefano aveva scritto nel progetto
per la sceneggiatura di “Idea per un film musicale sul Friuli”, che poi,
come abbiamo già ricordato in apertura al Capitolo II riportando
l’articolo di Iacovissi, non verrà mai realizzato, i colori che vogliano
rispecchiare al meglio quella che è l’intima essenza della gens
friulana al giudizio del regista friulano non possono che essere
“timbrici” – un rosso, un viola, un giallo ecc. – e non tonali – un
rosso che si stempera in un rosa, o viceversa, un verde che si modula in
un verde chiaro, o viceversa, ecc. -, devono suggerire allo sguardo un
deciso senso di contenuta solidità.
Colori che trovano come loro
equivalente le parole che sempre D’Annunzio pronunciava a proposito
della villotta friulana: «gettata al destino avverso da una voce
maschia, misurata dai colpi di martello sull’incudine» (185).
Dopo
questi brevi cenni dedicati al colore nel cinema di De Stefano,
passiamo ora ad analizzare il terzo elemento richiamato nella citazione
di inizio capitolo, la musica, notando come anch’essa sia utilizzata dal
regista in modo da ottenere fini analoghi a quelli riguardanti le
caratteristiche dell’inquadratura e del colore.
3. La musica
Anche
nella scelta del commento musicale si constata un taglio che intende
rispondere ad esigenze profonde di coerenza espressiva.
All’inizio il
regista opta per un’essenzialità di strumenti (con l’uso della sola
chitarra e canti) in modo da dare alla musica un’importanza che dia quel
tanto che basta al soggetto, ma che non trasbordi dai contorni di
rigore, essenzialità ed asciuttezza che sono caratteristiche insite
nello stile dei suoi film-saggio.
Si vedano, ad esempio, la musica e
le canzoni dei bambini minorati reinterpretate da Rodolfo de Chmielewski
in Incontro con un’infanzia rifiutata, oppure i canti del coro della
parrocchia di San Cristoforo di Udine accompagnati dalla chitarra in
Eucaristia e segno.
A proposito della colonna sonora di quest’ultimo
film, c’è da precisare che i canti del coro di San Cristoforo sono canti
moderni, e questo fatto si concilia con la linea di rinnovamento
ecumenico della realtà ecclesiale che è la struttura portante della
pellicola; per cui la musica si adegua appropriatamente ai contenuti
socialmente caritativi illustrati e proposti dal racconto, in funzione
di un più attento e profondo impegno umano da vivere.
Il film mette
anche in evidenza il fatto, da riscoprirsi, del valore della comunità e
della necessità di solidarietà fra le persone, che sola è in grado di
mettere in atto un processo di cambiamento e di miglioramento dell’intera
società; ed il commento musicale, essendo concretizzato da un coro – e
quindi da un insieme di più persone -, ha proprio la funzione di
ricordare allo spettatore che ci si deve sentire parte comunque di una
pluralità comunitaria anche nell’azione caritativa più “singola”.
Inoltre
si può notare un peculiare senso del taglio, operato contro ogni
delicatezza, che si può accostare al procedimento dello stacco nel
passaggio da un’inquadratura all’altra, per quanto riguarda il
montaggio; senso del taglio che si ha quando il commento musicale viene
bruscamente interrotto – tagliato, come se ci fosse un intervento di
forbici – in coincidenza dei momenti di alta espressività o di denuncia
più diretta e decisa: così in Incontro con un’infanzia rifiutata.
Ed
il fatto per il quale è come se De Stefano avesse preso nelle sue mani
il nastro “musicato” e lo avesse tagliato con un paio di forbici,
rievoca quell’intervento sull’oggetto concreto, già notato nei paragrafi
precedenti, che vuole richiamare e dare forma, in corrispondenza, a
quel modo già descritto di vedere le cose appartenente alla forma mentis
della gens friulana, quella sua necessità di un rapporto diretto con la
realtà e con il mondo che la circonda, e che si può riscontrare anche
nella sua lingua.
In In verità, in verità vi dico abbiamo una
chitarra che accompagna e che completa il senso melanconico, di
tristezza commemorativa, contenuto nelle scene riguardanti il raduno dei
cappellani militari a Redipuglia – quante medaglie in ricordo di guerra
e quindi quanto poco Vangelo! -. Il fatto dell’incontro offre lo spunto
per una serie di riflessioni, che si trovano ben espresse dalla voce
fuori campo dello speaker, cui il commento musicale, anche qui piuttosto
contenuto, aggiunge una sottolineatura di non secondaria importanza.
Per
quanto riguarda gli ultimi film, si può notare come, nella quasi
totalità dei casi, la musica determini nei titoli di testa – ma solo in
essi – il cambio della scena anche se il tempo di lettura si è ben
esaurito. Siamo di fronte al rovesciamento di quello che è il
normale rapporto che intercorre tra il commento musicale ed il
montaggio: di consueto, infatti, è il fraseggio musicale che si muove in
funzione del ritmo del montaggio, invece qui avviene l’esatto
contrario, essendo la musica che detta il tempo di passaggio da
un’inquadratura all’altra dei titoli di testa.
Per il film-saggio
Controlettura espressivamente significativa è la musica per orchestra
composta da Plenizio (noto pure per aver collaborato anche con Federico
Fellini)186. Il commento musicale – discusso prima e dopo della sua
realizzazione da De Stefano con il compositore Gianfranco Plenizio –
accompagna in maniera esemplare le immagini della pellicola, fondendosi
anch’esso con lo spirito del contenuto da esse propugnato.
Infatti,
la musica dapprima ha una circolarità che potremmo definire alla
Maderno, ovvero il fraseggio si ripete sempre senza mai alcun sviluppo e
tanto meno conclusione, e questo al fine di rappresentare la mancata
presa di coscienza della propria identità culturale da parte delle tre
ragazze protagoniste.
Quando tale presa di coscienza ha luogo,
intervengono altri strumenti ad arricchire l’esecuzione musicale e la
composizione conosce più varianti al suo interno, e vi è allora dialogo
tra gli strumenti, contrastando in questo modo con quella stantia
ripetitività musicale che caratterizza la prima parte. Tutto ciò a
simboleggiare l’avvenuto arricchimento culturale, e spirituale, delle
tre turiste.
Inoltre nel finale della pellicola, che vede lo scorrere
del fiume Tagliamento, vi è un’ottima trovata musicale: al posto del
fruscio dello scorrere dell’acqua abbiamo la presenza, in un
accavallamento, degli stilemi musicali di alcune villotte friulane.
Per
La prima pietra e Uomo, macchina, uomo, per Uno, duee Udine poi e per
Grafiz ’tun orizont, Bruno Rossi assembla con lettura in profondità dell’immagine
ed acuta sensibilità musicale, in collaborazione con De Stefano, brani
vari di musica classica indiscutibilmente espressivi e correttamente
mirati.
In Il prossimo – ieri, oggi, domani (emigrazione vecchia e
nuova) abbiamo invece una musica composta con all’interno di sé anche
sonori effetti speciali; per quanto riguarda, invece, Il mistero
Medjugorje in punti quattro possiamo notare come base l’utilizzo del
canto specifico di Medjugorje, arrangianto da Rodolfo de Chmielewski con
parole anche di pretesa origine mediugorianamente celeste, e da lui
cantate – «sono venuta a dire al mondo (la Madonna: n.d.r.) che Dio c’é»
-, e poi di nuovo arrangiate, ma orchestralmente, da Raul Lovisoni.
Per
Par condicio, infine, De Stefano ha raccolto quanto di musicale si
innalzava dallo spettacolo stesso.
Questa rapida trattazione degli
stilemi – visivi e auditivi – del cinema di De Stefano mette in luce
comunque il fatto di un loro uso nella cifra di una essenziale
funzionalità, per cui Marcello De Stefano si dimostra tutt’uno con le
sole sue necessità di espressione e pertanto, coerentemente al ruolo da
lui scelto di interprete cinematografico della realtà friulana, si
configura quale “autore asciutto, severo, lontano dalle sollecitudini di
carattere mercantile, un autore che, per il suo rigorismo, può
ricordare il grande regista francese Robert Bresson” (187); giudizio da
definire appropriatamente più che lusinghiero, questo coniato dal
critico Quargnolo, che ribadisce quanto già precisato in un’altra
recensione con queste parole: “De Stefano è un autore di solido impegno
che si è messo al servizio di un cinema rigoroso di pura friulanità.
In
un certo senso potrebbe essere il nostro Robert Bresson” (188).
NOTE
175 Mario Quargnolo, Marcello De
Stefano: il cinema scritto in friulano in “Il cinema friulano di
Marcello De Stefano”, A. S. Macor Editori, 1993.
176 Op. cit., pag. 40.
177 Ibidem.
178 Op. cit., pagg. 41-42.
179 Vedi op. cit., pag. 34.
180 In questo
senso anche Domenico Zannier in Controlettura di Marcello De Stefano –
recensione su «Friuli d’oggi», Anno XII, n. 7 / 8, aprile 1977: “il
colore gioca un ruolo di gradazione psicologica che non è fine a se
stesso. Viene infatti mantenuto dimesso senza contrasto per esprimere il
dubbio e la ricerca delle tre turiste; viene lanciato nella sua
esplosione naturale quando la verità approda al loro animo,
trasformandole da turiste di evasione a coscienti protagoniste”.
181 Scrive, a tal proposito,
Mario Quargnolo in Rimeditando l’intervista in “Il cinema friulano di
Marcello De Stefano”, pag. 89: “Molto bella è () la situazione visiva in
cui si apre la porta della Chiesa – simbolo di apertura della realtà
post-conciliare- e appare un grande albero – un ciliegio per la
precisione- in fiore, che a sua volta si pone come simbolo di una «nuova
vita» umano-religiosa fiorita con il post-concilio. Stilema ricco di
significato () perché è vero che l’albero è nella sua piena “suggestiva”
fioritura (metaforicamente, i frutti derivanti dall’apertura
post-conciliare) ma è anche vero che i fiori non sono in realtà frutti, e
che basta un’improvvisa pioggia temporalesca perché tutta quella vasta
campitura di bianco candido – la fioritura – in un attimo sparisca
(sempre stando alla metafora, la debolezza di un entusiasmo che voglia
porsi subito come storica continuità: c’è di mezzo il tempo con la
storia dell’uomo!”).
182 Mario Quargnolo, Rimeditando l’intervista, pag. 89.
183 Ibidem.
184 Ibidem.
185 Gabriele D’Annunzio, Piccola patria, Udine, 1928.
186 Si tratta di E la nave va (1983) di Federico Fellini.
187
Mario Quargnolo, Il cinema su “Enciclopedia monografica del
Friuli-Venezia Giulia, 3, La Storia e la cultura” (1981), pagg. 2245 –
2248.
188 Mario Quargnolo, Un cinema di pura friulanità su
«Messaggero Veneto», 15 maggio 1978; riportate anche da Roberto
Iacovissi, “Dalla liberazione dell’uomo alla liberazione dei popoli”,
Sergio Cragnolini Editore, 1990. cit. pag. 103.