V di Pasqua, Gv 15,1-8

 

Omelia (di p. Ermes Ronchi)

Stupendo brano di Giovanni, dove Gesù fa piazza pulita di tanto cascame di fede stantia e di pesi caricatici sulle spalle.

E ci comunica Dio attraverso lo specchio delle creature più semplici… Cristo vite, io tralcio: io e lui la stessa cosa! Stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Lui in me e io in lui come figlio nella madre, madre nel figlio.

Indipendentemente da ciò che faccio o non faccio, dai miei sbagli e dalle mie virtù. Perché: Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato: siamo già puri per intervento solo suo, per la sua parola, che libera. Che ci fa liberi dalla sterilità e dal senso di colpa, resi ala leggera per poter volare al soffio dello Spirito.

 

E poi la meravigliosa metafora del Dio contadino, un vignaiolo profumato di sole che si prende cura, si affanna, suda intorno alla pianta della mia vita, che adopera tutta la sua intelligenza, per farmi fiorire e fruttificare.

 

La Bibbia è piena di viti e di vigne. Per capire ritorno alle mia casa contadina, nel Friuli sotto le colline. Fra tutti i campi, la vigna era il campo preferito di mio padre, quello in cui andava più volentieri, dove investiva più tempo e cura, quello da cui si aspettava il raccolto più importante. E credo sia così per tutti i contadini.

Narrare di vigne è narrare di un amore di preferenza da parte del nostro Dio contadino. Noi, io, tu sei il campo preferito di Dio.

 

Io sono la vite, quella vera”. E mentre nei profeti e nei Salmi dell’Antico Testamento, Dio appariva come il proprietario, il contadino sapiente e operoso, il vendemmiatore, tutt’altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di inedito: “Io sono la vite, voi siete i tralci”. Facciamo parte della stessa pianta, siamo come scintille di quel fuoco, come una goccia di quella sorgente.

Con l’incarnazione è accaduta una cosa straordinaria: il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore si è fatto seme, il vasaio si è fatto argilla, il Creatore si è fatto creatura.

Perché? Per passione di unirsi, per ansia di comunione.

Rimanete in me e io in voi. Non sono parole astratte, ma quelle che usa anche l’amore umano. Lo stare insieme dei due che si amano, nonostante tutte le distanze e gli inverni, e tutte le forze che ci trascinano via: tu in me, io in te.

 

Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.

Potare la vite non significa amputare, significa dare forza, qualsiasi contadino lo sa.

Inaccettabile leggere la potatura come le sofferenze portate dalla vita.

Potare è rinunciare al superfluo, per concentrarsi sull’essenziale.

Potare è togliere il vecchio perché nasca il nuovo.

Potare ci fa capire che “meno è di più”. Che si costruisce bene solo sull’essenziale, non sulla ridondanza o sull’accumulo.

Gesù è quasi sempre semplice nel suo parlare e non chiede interpretazioni complicate.

Mi chiede: vai in una vigna e guarda le viti. Io vado, e quando guardo per queste colline qualche vigna abbandonata, vedo un’immagine di sofferenza, questa sì!

La vite non potata soffre, si aggroviglia su se stessa, cade dal palo, si allunga in tralci sempre più esili e arruffati, si ammala, dà pochissimi acini minuscoli e aspri, persino le foglie sbiadiscono.

La vite potata invece è rigogliosa e bella, le foglie sono grandi e di un verde brillante, sostenuta sta eretta e riesce così a non perdersi neppure un raggio di sole, che convoglia nei suoi grandi grappoli dagli acini gonfi e pieni di succo dolcissimo. Esplode di vita, è tracimante di una gioia di vivere. Nessuna vite sofferente porta buon frutto.

Prima di tutto, devo essere sano io, gioioso io. La potatura è per gustare meglio la vita.

E lo dice nel versetto successivo: vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi (un Dio gioioso!). E la vostra gioia sia piena.

Tra il ceppo e i tralci della vite la comunione è data dalla linfa che sale. Questo è il tesoro che portiamo nei nostri vasi d’argilla. Un DNA divino scorre in noi.

Il Dio contadino dice a me, piccolo tralcio:

Ho bisogno di te per una vendemmia di sole e di miele”.

Non ho bisogno di sacrifici ma di grappoli saporosi;

non di penitenza io ho bisogno, ma che tu maturi;

non di mortificazione, ma di più gusto di vivere,

da donare a grappoli, per la pienezza dell’uomo e la pienezza di Dio.

 

C’è un amore che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Dobbiamo salvare il cromosoma di Dio in noi.

“Per portare frutto!” ripetuto tre volte.

A partire da me, ma non per me: la vite non produce grappoli per se stessa, nessun albero fa e consuma i propri frutti, essi sono per la creazione, per le creature tutte della terra e dell’aria.

Se una pianta vivesse per se stessa, con il solo scopo di riprodursi, basterebbe un frutto ogni dieci anni, ogni 20 anni, invece ad ogni estate è uno spreco, uno scialo, un eccesso, una gioia, per uomini e animali

Ma qual è il frutto che io devo portare?

Se la mia radice è Dio, io devo fare i frutti di Dio.

Allora mi immergo nella Bibbia e cerco le sue azioni,

mi immergo nel mondo e cerco le mani di Dio,

mi chino sulla Bibbia e scopro che Dio è il liberatore,

il costruttore di alleanze, il guaritore, la tenerezza.

Allora mi chinerò sul mondo e anch’io farò alleanza con tutto ciò che vive. Il mio frutto saranno relazioni solari e benedicenti con tutti!

Un’altra parola centrale: “Rimanete in me, rimanete nel mio amore”

E non è difficile!

Non è qualcosa che devo conquistare. Siamo già nel suo amore! Devo solo aprirmi. C’è un amore che scorre già in noi, che ci ha raggiunto, ci avvolge, bussa alla porta, penetra, e non verrà mai meno, una sorgente a cui possiamo sempre attingere. Il nostro compito è mantenere aperto e libero il canale.

Il nome nuovo, il nome vero della morale evangelica non è sacrificio ma fecondità, non rinuncia ma centuplo: una terra che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di lacrime. Ma che produca una vendemmia di giustizia e di pace, la rivoluzione della tenerezza, un vino di gioia.

 

 

Sento la tua voce che suona in mezzo all’anima,

voce che rende spazioso il cuore e che mi dice:

Ho bisogno di te, di te piccolo tralcio,

ho bisogno che tu mi accolga e che tu fiorisca,

ho bisogno anche di un grappolo solo

ma che sia pieno di sole e di bontà,

ho bisogno di te, piccolo tralcio,

piantato come un giardino amato

nel cuore della terra perché di un vino migliore

anche tu possa dissetare l’arsura del mondo e l’arsura di Dio. Amen.