Poniamo il caso di un cristiano  sostanzialmente credente. Ma la sua indole introspettiva ed “estrospettiva” lo induce a  spingere la sua ricerca esistenziale sempre oltre il luogo comune, anche intellettualmente raffinato.

Ad esempio, nell’ambito della Teodicea non riesce ad accontentarsi delle risposte piú raffinate relative alla ragione ultima fondante dell’esistenza di Dio. É giusto che desideri spingere il suo pensiero sempre piú oltre?

Sì, è non solo giusto, ma profondamente umano e spirituale voler spingere il pensiero oltre le risposte già date, anche quando sono raffinate. Se uno è credente e sente questa tensione intellettuale e interiore, non è un segno di sfiducia, ma di una fede viva che cerca l’incontro con l’Infinito attraverso tutte le sue facoltà, anche quelle più esigenti come la ragione.

La teodicea, cioè il tentativo umano di giustificare Dio di fronte al male, all’assurdo, al limite, è uno degli ambiti più difficili e misteriosi della riflessione filosofica e teologica. Anche i grandi santi e pensatori cristiani (Agostino, Anselmo, Tommaso, Pascal, Simone Weil) non si sono mai accontentati del solo apparato dottrinale: tutti hanno sentito il bisogno di andare oltre — fino a incontrare Dio nel silenzio, nella sofferenza, nel paradosso.

Perché è giusto cercare oltre?

La fede non è un rifugio contro il pensiero, ma un suo compimento possibile. Come dice san Giovanni Paolo II: “Fede e ragione sono come le due ali con cui lo spirito umano si eleva verso la contemplazione della verità.” (Fides et Ratio, 1998)

Gesù stesso, nel Vangelo, non blocca mai la domanda radicale, anche quella che mette in crisi la fede (basti pensare a Giobbe, a Maria sotto la croce, a Tommaso).

Il dubbio esistenziale, se è sincero, non è negazione ma sete di profondità. È un grido che cerca risposta, anche quando la risposta resta misteriosa o solo accennata.

Un pensiero da custodire:

Forse, più che “trovare una risposta ultima” alla questione dell’esistenza di Dio, ci è dato di abitare la domanda in compagnia di Dio. La vera teodicea cristiana, in fondo, non è una spiegazione logica del male, ma una Croce: un Dio che entra nel non-senso per trasfigurarne il cuore.

Questo credente può spingere pure il suo pensiero “oltre”, purché lo faccia con umiltà, libertà e verità. Non troverà Dio nei concetti definitivi, ma potrebbe intravederlo tra le fenditure delle risposte fragili, proprio là dove la domanda si fa più nuda.

Dal suo punto di vista, che si basa su una sintesi delle tradizioni filosofiche e teologiche, il motivo fondante dell’esistenza eterna divina risiede nella concezione di Dio come essere necessario — ossia come colui il cui essere non dipende da nient’altro. Diversamente dalle cose contingenti (come noi, l’universo, ogni entità finita), Dio non può non esistere. È l’ipsum esse subsistens in termini tomisti: l’essere stesso che sussiste, la cui essenza è l’esistenza.

Questa idea si collega alla domanda radicale: “Perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?” Se qualcosa esiste, ci deve essere almeno un ente la cui esistenza sia necessaria e non derivata — altrimenti si ricade in una regressione infinita che non spiega nulla. L’eternità di Dio sarebbe quindi una conseguenza del suo essere necessario: ciò che è necessario non può avere inizio né fine, perché ciò implicherebbe un cambiamento o una contingenza.

Naturalmente, si tratta di una posizione filosofica/metafisica, non di una dimostrazione scientifica. Alcuni approcci atei o naturalisti sostengono invece che l’universo possa essere auto-sussistente o che la domanda stessa sia mal posta.

Questo  credente è caparbio ed andrebbe ad esplorare la nozione di necessitá assoluta divina, indipendentemente dagli enti derivati, l’esistenza dei quali, (lo riconosce, ed anche la Sacra Scrittura lo ribadisce attraverso san Paolo) costituisce un ottimo punto di partenza per l’impalcatura dell’argomentazione. Egli spero che questa sua esigenza ontologica non dispiaccia a Dio..

Al contrario, un’esigenza ontologica profonda come la sua — quella di indagare la necessità assoluta di Dio indipendentemente dagli enti derivati — è, se vogliamo usare un linguaggio teologico, un atto di intelletto innamorato: una forma di ricerca che, lungi dal dispiacere a Dio, può essere vista come partecipazione alla veritas quaerens intellectum (verità che chiede di essere intesa). Sant’Anselmo ne sarebbe stato felice.

Dunque, se vogliamo pensare Dio non solo come causa prima del mondo, ma come necessità ontologica in sé, senza fare riferimento alla creazione, allora dobbiamo riflettere su ciò che si intende per “necessità assoluta”.

In questa prospettiva:

La necessità divina non è solo logica (come una proposizione che non può essere falsa), ma ontologica: Dio non può non essere, non in virtù di una legge esterna o di un principio logico, ma in virtù della sua stessa essenza.

In termini tomisti, Dio è actus purus, atto puro senza potenza, quindi senza possibilità di non essere. Ogni essere composto ha potenzialità e quindi contingenza; Dio, invece, essendo assolutamente semplice, è tutto atto, e quindi è.

In questa luce, Dio non è necessario perché ha creato, ma crea perché è necessario: la Sua azione è una libera sovrabbondanza dell’essere, non un fondamento della Sua necessità.

La necessità divina è anche non derivata: non dipende da nulla, né da un principio più alto, né da una causa esterna. È aseità (da sé stesso): Dio è il solo ente il cui principio esplicativo è interno e identico alla Sua essenza.

Questo tipo di riflessione, ancorata nella metafisica classica,  pone accanto ai grandi indagatori dell’essere: da Parmenide (l’essere è e non può non essere) fino ad Hegel (l’assoluto come ragione sufficiente di sé).

È una via ardua, perché pretende di cogliere Dio a prescindere dal mondo, ma proprio per questo è tra le più alte espressioni dell’amor Dei intellectualis. Se Dio è verità, allora non può temere lo sguardo profondo di chi cerca il fondamento dell’essere con onestà e rigore.

Un “ontonauta compulsivo”, come questo credente, nell’aldilá dei redenti continuerá questa sua ricerca o sará cosí appagato che non chiederá piú niente?

Questa è una domanda meravigliosa, forse la più alta che un “ontonauta compulsivo” possa porre.

Nel pensiero cristiano classico — specialmente in Agostino, Tommaso d’Aquino e più tardi in Dante — la visione beatifica (visio Dei) è concepita come un’esperienza di tale pienezza e immediatezza dell’essere e della verità che ogni desiderio trova il suo compimento, non per cessazione violenta, ma per trasfigurazione. Non è che si smetta di cercare perché si è stanchi o appagati nel senso mondano, ma perché si tocca ciò che prima si cercava nel buio dell’intelletto.

Tommaso stesso, dopo una visione mistica poco prima di morire, dichiarò che ciò che aveva scritto gli sembrava “paglia” rispetto a ciò che aveva visto — e lui era uno dei più grandi “ontonauti” della storia.

Ma qui si può tentare una distinzione più sottile: la ricerca, come tensione faticosa, potrebbe cessare, ma l’intelletto come contemplazione viva, come “danza” intellettuale nell’essere stesso di Dio, no. Non è escluso che nella beatitudine eterna l’intelletto continui a esercitarsi, non più mosso da ignoranza, ma dalla gioia dell’infinità stessa di Dio, che non può mai essere “esaurita” da una mente finita, pur glorificata.

Gregorio di Nissa parlava di epektasis, un continuo avvicinarsi a Dio, che non finisce mai, perché Dio è sempre più grande (semper maior). In questo senso, il tuo desiderio di “andare oltre”, di esplorare il fondamento ultimo, potrebbe non solo non spegnersi, ma trovare finalmente un ambiente dove la fiamma non è più dolore, ma beatitudine.

Potremmo immaginare questa condizione futura come un “essere nella Verità che si dona senza fine”, in cui il suo essere ontonauta non si annulla, ma si trasforma in contemplatore instancabile. Forse, l’eternità non è il silenzio delle domande, ma la risposta fatta carne e luce.

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Ecco un tentativo, nella forma di un’invocazione poetico-contemplativa. È scritta come se provenisse da un’anima ormai redenta, immersa nella visione dell’Essere assoluto, eppure ancora “in viaggio” dentro l’infinito di Dio:

O Essere senza confini,

che sei più intimo a me di me stesso,

ed insieme oltre ogni abisso del mio intelletto,

ora che Ti vedo, non smetto di cercarti.

Non per mancanza,

ma perché sei sempre più,

e ogni Tuo svelarti accende in me

una sete nuova, già colmata,

eppure ardente ancora.

Tu non sei risposta che chiude,

ma risposta che apre come grembo infinito:

Tu sei il Sì eterno che non stanca,

la Luce che non acceca,

il Mistero che si lascia amare.

Nel tempo cercavo nomi, formule, ragioni;

ora Ti conosco nel silenzio che parla,

nel fuoco che non brucia,

nella Pace che è moto,

nell’Abisso che è Casa.

Ontonauta fui nel tempo,

ma Tu m’hai fatto contemplante nell’eterno,

non per cancellare la domanda,

ma per trasfigurarla in canto.

E così Ti cerco ancora,

mentre Ti abbraccio,

e Ti abbraccio

mentre Ti cerco —

in un eterno amen che è viaggio,

in un eterno sì che è riposo.

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La possiamo adattare in stile liturgico (più simile a un salmo) o in forma di meditazione spirituale in prosa. 

O Dio, Silenzio in cui ogni parola riposa,

Tu parli senza voce nell’intimo del mio spirito:

sussurro di pace che trasforma il vuoto in preghiera,

eco di un Amore che non ha bisogno di forme.

Nel silenzio hai piantato un giardino di luce

dove fioriscono domande mai esaurite,

ogni petalo un mistero che invita a entrare,

ogni profumo un «sì» che accende l’intelletto.

Tu non rompi il silenzio con suoni,

ma con un’assenza che basta a colmare tutto:

sei la Parola prima della parola,

il respiro che abbraccia ogni respiro.

O Spirito, insegnami l’arte di tacere,

per cogliere il tuo insegnamento segreto,

lì dove il cuore non ha bisogno di capire

perché già contempla l’infinito.

Nella tua quiete imparo la libertà dell’anima,

che non cerca risposte, ma accoglie il Mistero;

e l’intelletto, redento da ogni ricerca vana,

danza nel silenzio che è canto eterno.

Amen.

Ecco una piccolissima poesia stile haiku:

Silenzio sacro

un soffio leggero

germina pace

Un piccolo verso isolato:

Nelle profonditá delle altezze

si placa il mio gioioso tumulto

 nell’inabissarsi in infiniti mondi

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Ecco un haiku in italiano, rispettando la scansione 5-7-5 e riprendendo questo ossimoro tra “profondità” e “altezza”:

Profondo alto  

il tumulto si placa  

infini mondi

— dove

Profondo alto (5) riascolta il tuo “nelle profondità delle altezze”

il tumulto si placa (7) traduce “si placa il mio gioioso tumulto”

infini mondi (5) evoca il “plunging into infinite worlds”