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COME CI VEDONO DALL’ALDILÀ

 

 

Forse vi chiederete come mai ho scelto un titolo così allettante e presuntuoso: “Come ci vedono dall’aldilà; cronache di un vagabondo veggente”.
Vi aspetterete forse il solito rapporto pseudo-scientifico su presunte rivelazioni documentate e raccolte per un pubblico incuriosito e avido di misteriose conoscenze.

 

No, il contenuto del libro assume invece la forma di un racconto-saggio (ambientato nei nostri giorni) che vuol proporre una seria riflessione sull’ al di qua.

 

Nella mia attività di ricercatore nell’ambito della bioenergia ho avuto l’occasione di raccogliere le confidenze di centinaia di persone che sostenevano di aver avuto visioni di parenti ed amici trapassati con i quali spesso dialogavano sull’aldilà.

 

Ho preso diversi appunti sui messaggi più significativi il cui contenuto é celato nei numerosi dialoghi di Luca con defunti ed angeli.

 

Mi sono basato anche sulla rivelazione biblica che si riferisce alle cose dell’aldilà.

 

Inoltre ho letto e studiato numerosi opuscoli e libri concernenti rivelazioni private sull’aldilà, facendo bene attenzione alla loro conformità alla dottrina cattolica.

 

L’idea m’é venuta in un pellegrinaggio a Castelmonte (Santuario di Udine) intrapreso alcuni anni fa con mia moglie. Mi recavo e mi reco ancora spesso in quel santuario, ma non avevo mai notato bene un quadro appeso sulle pareti del corridoio di destra, dove ci sono i confessionali: rappresentava un uomo con tunica e scapolare. Sul petto aveva un crocifisso, al collo una corona, nelle mani un rosario.

 

Quell’uomo era “San Benedetto Giuseppe Labre, il “vagabondo di Dio” francese che, rifiutato da conventi e monasteri, usava pellegrinare nei vari santuari d’Europa, spinto dall’amore per Dio e per la preghiera. Quel quadro ricordava la sua venuta a Castelmonte (Santuario in Provincia di Udine).

 

Al ritorno andai a leggere subito la sua biografia che mi rimase molto impressa. Era sempre stato molto zelante nel voler servire Dio, talmente zelante che poteva dare l’impressione di scarso equilibrio psichico: per questo non fu accettato presso i monasteri e conventi a cui andava a bussare. Ero distaccato da tutto. Non chiedeva nulla a nessuno. Affrontava le intemperie, dormiva all’aperto, le sue carni erano piene di piaghe e di insetti che le corrodevano. Il suo unico compito era quello di contemplare e pregare Iddio continuamente. Ha visitato a piedi quasi tutti i santuari d’Italia. Alcuni passanti, nel vederlo, gli allungavano qualche pezzo di pane e a volte dell’elemosina. Il superfluo lo distribuiva ad altri poveri: ciò che riceveva doveva bastargli per lo stretto necessario. Lo trovarono svenuto in un angolo delle rovine del Colosseo, dove dormiva gli ultimi anni della sua breve vita. Poi morì nel retrobottega di un macellaio che lo accoglieva saltuariamente.

 

 

Perché non realizzare un racconto simile ambientato nei nostri giorni?

 

Sarebbe stata un’ottima occasione per raccogliere tutte le riflessioni che continuamente effettuavo pensando alle condizioni dell’uomo moderno, smarrito in un mondo che va perdendo gradualmente i suoi valori.

 

Luca Alberti, il protagonista di questo racconto, é un giovane inquieto in conflitto con le sue scelte, agitato da una parte da un terribile senso di colpa per un involontario omicidio causato ai danni di un adolescente che aveva investito con la macchina, dall’altra spinto da un profondo desiderio di operare per piacere a Dio in cui credeva grazie soprattutto all’educazione religiosa ricevuta dalle suore in collegio. Si rifugia in un monastero dove ha diverse crisi depressive e visioni dall’aldilà.

 

Il racconto, ad una superficiale lettura, potrebbe dare l’impressione di appartenere al genere “fanta-teologico”.

 

In realtà i contenuti esprimono l’essenzialità dell’essere umano: il fine per cui é stato creato, ciò che deve fare per raggiungere la sua pienezza, il suo rapporto con la vita, gli eventi che subisce e quelli di cui ne é l’interprete, la società con i suoi problemi, il bene e il male, i vizi e le virtù, le gioie e le passioni, la felicità, l’equilibrio personale.

 

Un microcosmo, insomma,che realmente costituisce una seria riflessione sull’ “al di qua”, visto che per descrivere l’aldilà non esistono parole o concetti adeguati. . Eppure tutti i personaggi che appaiono usano un linguaggio molto umano e conforme al periodo moderno in cui si svolge la vicenda per adeguare il loro livello comunicativo: inversamente sarebbero rimasti assolutamente incomprensibili alla povera mente di Luca, continuamente alla ricerca di una ragione di vita.

 

I personaggi che appaiono sono emblematici per la loro mentalità, ideologia, religione e classe sociale (Teresa di Lisieux,Leopardi, Bodhidarma, Enrico Drummond, Teilhard de Chardin, Padre Elia l’eremita)

 

Gli Angeli recano un nome che riassume la tematica del dialogo affrontato da ciascuno.

 

Il racconto é ambientato parte in Friuli e parte in Veneto. Cividale é una delle mete finali: prima di recarsi a Castelmonte, Luca dialoga con il diavolo in persona proprio sotto il “Ponte del diavolo”.

 

Il dramma di Luca appare anche nel diario che costituisce l’anello di congiunzione tra una riflessione e l’altra dei vari personaggi. Da essi emerge gradualmente la vera personalità dell’interprete caratterizzata da momenti di forte depressione e ingenuo ottimismo, da una volontà di seguire alla lettera i consigli evangelici alla constatazione del suo continuo fallimento.

 

Nel diario esprime osservazioni teologiche, filosofiche ed esistenziali.

Ansie, dubbi, stupore, critiche, pentimento,dolore, sofferenza,rammarico, gioia…ci sono tutti gli ingredienti della vita di un uomo che definisco nel sottotitolo “vagabondo” perché é senza una precisa meta, come lo é l’uomo moderno che al giorno d’oggi si ritrova sempre più solo in un mondo superficiale e consumistico, vuoto di valori e di ideali.

 

Pier Angelo Piai

 

 

“COME CI VEDONO DALL’ ALDILA’  (cronache di un vagabondo veggente)

(testo trascritto dalla presentazione a Udine del libro del dr. Mario Turello)

 

“Come ci vedono dall’aldilà”. Questa formulazione la ritroviamo espressa in forma interrogativa in quarta di copertina con tre grosse domande: “Come vivremo il grande trapasso della morte? Cosa ci aspetta nell’aldilà? Come vedono la nostra vita coloro che già vivono nella nuova dimensione immortale?
A qualcuno potrebbe questo primo approccio far pensare che ci si trovi di fronte all’ennesimo libro-inchiesta su certe esperienze limite, sulla scia di testi che sono diventati famosi come quello del prof.Moody “La vita oltre la vita” che ha avuto grande successo qualche anno fa .

Altri potrebbero subito pensare che ci si accosti in qualche modo a certi campi di ricerca un po’ equivoci come quelli della metafonia o della ricerca sul paranormale e così via.

Va subito detto che non é il caso di questo libro, anche se non mancano riferimenti a quel tipo di ricerche. Per esempio ci sono a più riprese varie descrizioni del momento del trapasso di alcuni personaggi, con la sequenza che ci è ormai familiare della visione extra-corporea del morente, della sensazione del passaggio attraverso un tunnel e la riemersione in una dimensione di luce e di beatitudine.

E oltrettutto si fa anche nel titolo riferimento a un aldilà che non ha poi connotazioni precise. Va detto, allora, che questo è piuttosto un libro in cui i fatti che vengono esposti rientrano nella fenomenologia delle visioni e delle apparizioni, e quindi siamo in un campo che è molto più rispondente a quella che è la formazione religiosa e anche dottrinale dell’autore. Siamo dunque in un’ottica religiosa e di fede.

Se c’è qualcosa di singolare in questa impostazione è il fatto che nella galleria dei personaggi che il protagonista Luca incontra, appaiono (o gli vengono incontro come nel Paradiso dantesco) non soltanto i santi, gli angeli , la Madonna stessa, Satana (opportunamente sul Ponte del Diavolo di Cividale), ma in modo del tutto inaspettato anche personaggi come Leopardi, come il santo buddista Bodhidharma, come il Drummond e Teilhard de Chardin che Piai colloca tutti ,in modo ecumenico ed irenico, alla stessa stregua di confessori di un’unica verità, nella gloria e nella beatitudine divina.

Anche il sottotitolo potrebbe prestarsi a qualche equivoco. “Cronache di un vagabondo veggente”.

Non ci si aspettino avventure, vagabondaggi o esperienze da visionario. Il vagabondaggio di cui si parla non è tanto una itineranza geografica (anche se in parte è presente), ma è soprattutto un pellegrinaggio che si innesta in un doppio movimento essenzialmente spirituale: il movimento scomposto ed erratico del protagonista che è in preda all’angoscia e a crisi di dubbio, e quello provvidenziale, ascensionale, che è poi esattamente speculare, direi anzi tutt’uno, con la grazia discendente degli incontri mistici che sono appunto l’oggetto di questo libro.

Il protagonista è piuttosto un “veggente” e non un “visionario”, anche in virtù del suo continuo cercare.
Queste visioni non sono improvvisate, non sono frutto di fantasia, ma sono il risultato e il prodotto di questa lunghissima, sofferta e attenta frequentazione dei testi dei personaggi che incontriamo. Quindi, non tanto degli atti gratuiti (anche se questo ci viene detto nella finzione della narrazione) ma “a monte” noi riconosciamo all’autore una preparazione, una conoscenza profondissima dei vari pensatori con i quali, poi, attraverso di lui, anche noi entriamo in dialogo.

La confidenza, la conoscenza profonda del pensiero di Teilhard de Chardin, per esempio, o di Teresa di Lisieux, o degli altri personaggi è tale che dà anche adito a delle interpretazioni molto libere, molto originali, da parte di Piai. E sono libere e proprie perché nascono da una visione estremamente fiduciosa e generosa che vince tutti i dubbi che pure sono continuamente ad insidiare l’animo del protagonista. Una visione fiduciosa della bontà universale e dell’armonia e della significanza di ogni esistente e di ogni esistenza.

Quanto alla definizione di “cronache di un vagabondo veggente” del sottotitolo,mi pare che questo termine si attagli piuttosto alla cornice narrativa e poi metaforicamente alle pagine diaristiche, perchè in questo libro ogni capitolo, tranne gli ultimi, si conclude con alcune pagine del diario del protagonista.

Io non ho voluto dialogare con l’autore, ho voluto ricavare tutto dalla mia lettura, ma penso di non congetturare male immaginando che queste siano pagine del suo diario, che non siano pagine scritte per l’occasione. Sono cronache di tipo intimo, di moti dell’animo, di momenti di autoanalisi, di contemplazione, di preghiera, di cedimenti e crisi che, pur essendo abbinate agli elementi narrativi di ogni capitolo, però non hanno un riscontro diretto con le esperienze di cui si narra nel capitolo stesso. E’ una cosa un po’ singolare e sorprendente a cui ho cercato di dare una interpretazione.

La copertina raffigura un giovane in atteggiamento meditativo di fronte a una tomba, in un camposanto fiorito, che non ha nulla di spaventoso o di preoccupante. Anche qui opportunamente c’è un richiamo alla vicenda: diffatti il protagonista, lo apprendiamo fin dalle prime pagine, durante le sue crisi depressive, con qualche intervallo di quell’iniziale momento di abiezione e di vizio, si reca al cimitero in cerca di pace, ed è proprio in cimitero che ha le sue prime visioni.

Insisto: non siamo di fronte ad una trattazione del tema “morte ” in chiave pseudo-scientifica o in chiave morbosa o morbosamente ossessiva. Siamo nell’ottica cristiana della morte-Risurrezione.

Dopo aver definito delle ambiguità di approccio a questo libro e dopo aver fatto giustizia di false attese che potrebbero essere indotte dai primi aspetti, possiamo inoltrarci nel testo.

Lo chiamo “libro” perchè non saprei inquadrarlo in nessun genere letterario. Non è un saggio, non è un romanzo, non è un diario, ma certo ha qualcosa di tutto questo. Comunque quello che senza dubbio mi sento di affermare è che non è questo che conta, anche perché si propone innanzittutto di trasmettere un messaggio: l’autore, quindi, guarda molto di più ai contenuti che alla forma.

Direi che questa è un’opera “edificante” nel miglior senso del termine, che veicola dei valori che sono essenzialmente extra-letterari.

Il protagonista è Luca Alberti. Lo conosciamo ad apertura di libro nella sua maturità in un momento critico della sua esistenza. Egli si sente profondamente e urgentemente chiamato, vocato, ma non sa decidere e discernere qual’è la reale natura della sua vocazione. Anzi, più concretamente, egli pur vivendo in una comunità religiosa, non sa risolversi a chiedere di entrare a farne parte definitivamente come confratello. E questo anche per un senso di ripulsa per un tipo di religiosità che vorrebbe nei suoi futuri confratelli più robusta, zelante e gioiosa. E questa polemica per una devozione piuttosto spenta, per una pratica stanca di una vita che riflette poco e male i valori evangelici proprio da parte dei religiosi, è un motivo ricorrente in queste pagine ed è la riprova di un desiderio di Assoluto intrasigente, idealistico e forse anche un po’ utopistico, una specie di incapacità di venire a patti con le miserie e i compromessi inevitabili della vita comunitaria.

Ma il protagonista è agitato da motivazioni più profonde. Dico “profonde” non a livello inconscio, perché anzi sono lucidamente richiamate, ma profonde in quanto sono potentemente radicate in condizionamenti e traumi psichici. Luca ha vissuto la tragedia da bambino per la morte dei genitori, è vissuto per dieci anni in orfanotrofio, risente di squilibri indotti da una formazione ossessivamente censoria da parte delle suore che l’hanno educato. E soprattutto non riesce ad assorbire l’incidente in cui, senza responsabilità da parte sua, ha provocato la morte di un ragazzo. Per quest’ultimo dramma il suo senso di colpa assume toni che sono esasperati, addirittura a me sembrano masochistici perchè sino alla fine egli si mostra sordo alle argomentazioni, a tutte le assoluzioni e a tutte le rivelazioni che dovrebbero sorbire questa sua morbosa auto-condanna.

La prima reazione è un momento di depravazione, di vizio. Poi l’incontro con un frate lo porta come postulante nel convento, dove i dubbi e il disincanto lo inducono, pur di trovare una risposta, a rivolgersi ad una veggente carismatica. Tramite suo riceve un messaggio che da alcuni indizi fanno credere che veramente gli sia stato inviato dalla Madonna, ma la cui interpretazione ancora una volta non è univoca. Questo messaggio lo esorta a seguire la sua vocazione, ma quale sia veramente la sua vocazione egli non sa ancora. Si chiede se debba restare per sempre in convento o fare altre scelte. E in questo lungo macerarsi nell’indecisione, scrive il suo diario e nel frattempo si susseguono una serie di incontri straordinari con l’aldilà.

Non scorgo un legame necessario fra i due momenti. Anzi mi pare di leggere due atteggiamenti diversi e addirittura due religiosità diverse, forse due fasi di evoluzione della religiosità del protagonista.

Dal diario sembra che echeggino quelle letture mistiche e ascetiche di cui si parla nel primo capitolo : Agostino, Tertulliano, Origene, S.Giovanni della Croce,Teresa d’Avila e teresa di Lisieux, Thomas Merton. Tutto il lavorìo interiore di Luca si mantiene, tutto sommato, nei binari di una devozione di tipo tradizionale, senza escludere smarrimenti o soprassalti dolorosi o delle reinterpretazioni e delle teorizzazioni originali (e qui tornano quei temi che Piai aveva trattato nella “Spirale della vita”).

Nel diario il confronto avviene soprattutto con la Sacra Scrittura e con un certo abbandono all’iniziativa divina, accolta o da accogliere dopo aver fatto un vuoto nel cuore. Ed è proprio su questa proposta di fare il “vuoto del cuore” che si chiudono le ultime righe del diario che poi non è più presente negli ultimi capitoli del libro.
L’altra parte, invece, quella che parla delle serie di apparizioni, non è più il luogo dell’autoanalisi, ma piuttosto quella dell’argomentazione, del confronto, dell’interpretazione ed è anche quella che offre gli aspetti più originali, forse i più recenti di una certa evoluzione e maturazione spirituale; è quella che forma quasi una seconda biblioteca, accanto a quella citata prima, che è fonte della religiosità di Piai. E qui troviamo non solo i motivi della teologia tradizionale, con una proposta di elementi desueti ormai liquidati da un certo progressismo teologico come l’angelologia o la demonologia. Qui ci sono anche aperture motivate da una carità e da una speranza di afflato universale, e secondo me (mi sono coniato un termine forse nuovo) Piai, in questo spirito veramente ecumenico di pietà verso l’uomo, passa da una teodicea (giustificazione di Dio) ad una antropodicea, una giustificazione dell’uomo. Tanto è vero che è capace di volgere in positivo anche il pessimismo di Leopardi e le apparenti deviazioni dall’ortodossia dell’evoluzionismo di Teilhard de Chardin.

E’ capace di collocare senza la minima esitazione un santo buddista nell’empireo cristiano, alla pari, con un’apertura che non è così pacifica e così frequente al giorno d’oggi.

Apro una parentesi: sono rimasto molto colpito dalla reinterpretazione di Leopardi in chiave addirittura mistica, perchè in realtà qui ci troviamo in perfetta sintonia con studi recentissimi che vanno scoprendo nella formazione di Leopardi e nella sua poetica, gli effetti di una certa cultura ebraica che fino ad oggi è rimasta un po’ nascosta. Molti resistono a questa revisione della lettura leopardiana. Gianfranco Ravasi, però, nella postfazione all’ultimo libro di Turoldo parla dell’Infinito come un’altissima poesia mistica. Uno spirito così conciliante, direi, che però non diventa un semplice sincretismo, una specie di indifferentismo dottrinario, ma piuttosto è la formazione, la convinzione di una finale insussistenza di tutte le divisioni ingenerate dalle categorie religiose e dalle categorie culturali e addirittura dalle teorie spazio-temporali di fronte al tempo presente del Dio Unico.

Abbiamo nominato Dio e qui direi inevitabilmente il dialogo diventa un monologo, il veggente non vede più molto bene e anche colui che si manifesta trova nel linguaggio umano un tramite insufficiente di comunicazione.

“Come ci vedono dall’aldilà”, dice il titolo, ma come ci vedono dall’aldilà è più una congettura, è più una proiezione, direi un atto di fede che una ostensione chiara.

Luca è rassicurato che tutto avviene per un ottimo fine, che anche quello che ai nostri occhi è male, cospira al piano benefico di Dio. Come questo avvenga è questione che solo escatologicamente verrà chiarito. Per questo, quando si parla di vita eterna inevitabilmente lo si fa come lo si è sempre fatto (l’unico modo sensato) in chiave di Teologia negativa.

Tutto questo grande travaglio di Luca, tutta questa sua frequentazione di grandi libri o di grandi maestri spirituali, resta senza una risposta definitiva, né potrebbe avere risposta definitiva, perché la fede chiede sempre umiltà intellettuale: non possiamo aver fede in ciò che è razionalmente dimostrabile. E Piai lo sa molto bene.

E infatti ad un certo punto Luca, per bocca dell’eremita Elia, si sente rivolgere un rimprovero chiarissimo, inequivocabile. Dice l’eremita: “sei tormentato dalla tua ossessionante introspezione, ti analizzi troppo e così facendo rischi di perdere la tua genuinità”.

Quindi non la superbia del raziocinio, non le vie della scienza, ma l’umiltà del cuore è quella che accosta veramente a Dio. Quell’umiltà di cui è modello Maria. Non a caso è Lei che accompagna Luca nel suo pellegrinaggio a Castelmonte, dopo un incontro rasserenante con una donna cividalese dalla fede esemplare e dopo la prova delle tentazioni sotto il ponte del diavolo.

Qui devo dire che la struttura narrativa si fa veramente suggestiva in modo felice e il simbolismo iniziatico si colloca con una consonanza molto riuscita nell’ambiente.

Ammiriamo questo passaggio sul Ponte del Diavolo, la prova-tentazione e poi l’ascesa al “dilettoso colle” di Castelmonte, per dirla con Dante. Sarei tentato di seguire anche le analogie dantesche che possiamo riconoscere in quest’opera (analogie strutturali, naturalmente).

Al Santuario di Castelmonte avviene l’ultimo incontro: a Luca appare San Benedetto Giuseppe Labre, ed è l’incontro con se stesso. Giuseppe Labre, il vagabondo di Dio, è colui che ha superato tutte le tentazioni, compresa quella di farsi monaco. Per Luca è la rivelazione definitiva: la sua vocazione “è stata” (uso un tempo passato – non “sarà”) quella di non aver vocazione. La sua, come quella del santo che lui incontra per ultimo, è stata la contemplazione della strada, il sacerdozio della quotidanità, l’imitazione di Cristo che non aveva dove posare il capo. E qui mi pare di captare una lettura profondissima, metaforica di questo “Figlio di uomo che non ha dove posare il capo”.
I due, il Santo e Luca, nella bisaccia portano gli stessi libri: è il simbolo della loro ultima e totale identificazione.

A questo punto Luca muore. Potrebbe sembrare un finale inaspettato.
Luca muore, però, a pensarci bene, non gli vien tolto nulla. Il suo Calvario è stato già l’itineraro della sua peculiare vocazione dolorosa e tormentata solo perchè compresa troppo tardi.

Che debbo fare?- chiede Luca al suo ultimo modello. “Abbandonati!” – gli viene risposto. L’abbandono. Quello che per uno è stato l’inizio per l’altro è il punto di arrivo.

A me pare che uno dei messaggi(senza pretendere di esaurire così il pensiero dell’autore) da cogliere in questo libro sia proprio questo: tutti noi che siamo spesso tanto smarriti, incerti, paurosi, dovremmo smettere d’interrogarci, fidarci, abbandonarci e chissà che alla fine non possiamo vederci come veramente ci vedono dall’aldilà e scoprire che cercando la strada, pensando anche di averla smarrita, abbiamo in realtà già fatto molto cammino nella giusta direzione.

 

dr. Mario Turello, critico letterario di Udine