Fb 9 ottobre
Affrettiamoci ad amare (di p.Ermes Ronchi)
Lc 17,11-19

Dieci lebbrosi «fermi a distanza»; mani lontane, cui non è più lecito neppure accarezzare un figlio. Solo occhi, solo voce: “Gesù, abbi pietà!” E appena lui li vede, subito, perché troppo a lungo hanno sofferto malattia e umiliazioni, li manda dai sacerdoti.
Davanti al dolore a Gesù scatta un’urgenza, un’ansia di bene: non devono soffrire neanche un secondo di più. E mi ricorda un verso bellissimo di Ian Twardowski: affrettiamoci ad amare, le persone se ne vanno così presto! L’amore vero ha sempre fretta.
“Andate, siete già guariti, anche se ancora non lo sapete. Il futuro è entrato in voi con il primo passo, come un seme, come una profezia”.
E mentre andavano furono guariti.
Partono per un viaggio che era loro vietato: la lebbra è ancora evidente, ma più evidente è la speranza, più forte di piaghe e di paure.
Si mettono in cammino tutti e dieci, tutti hanno fede nella parola di Gesù, partono e il vento sulla pelle è già guarigione, la strada, già una promessa.
Ma uno solo passa da semplice guarito a salvato, l’unico che ritorna, cui Gesù dice: «la tua fede ti ha salvato». Il Vangelo è pieno di guariti, un corteo gioioso che accompagna l’annuncio di Gesù. Eppure quanti di questi guariti sono anche salvati? A quanti il rifiorire della carne fa fiorire relazioni nuove con Dio, con gli uomini, con se stessi?
Ancora una volta il Vangelo propone un samaritano, uno straniero, un eretico come modello di fede, fede che salva.
Dell’unico guarito che torna non è tanto importante il gesto, a Dio non interessa il nostro grazie; il lebbroso di Samaria non è salvo perché paga il pedaggio della gratitudine, ma perché entra in comunione. La sua pienezza consiste nell’entrare in contatto stretto con il Donatore, che gli dona se stesso. Nulla di meno, vita nella vita.
Ai nove che non tornano è invece sufficiente la guarigione. Non tornano, forse perché smarriti nel vortice della felicità, negli abbracci ritrovati. E Dio prova gioia per la loro legittima gioia, come prima aveva provato dolore per il loro dolore. Non tornano forse perché sentono la salute come qualcosa di dovuto, non come un dono; come un diritto, non come un miracolo quotidiano.
Non tornano perché ubbidiscono a Gesù: andate dai sacerdoti. Ma Gesù non voleva essere obbedito, perché alle volte l’obbedienza formale è un tradimento più profondo. «Talvolta bisogna andare contro la legge, per esserle fedeli in profondità» (Bonhoeffer).
I nove che non tornano dicono che la fede è la libera risposta dell’uomo al corteggiamento di Dio, che ama a prescindere.
Domattina farò anch’io come quello straniero, tornerò a Dio con tutto il mio cuore, senza formule vane. Gli donerò solo una parola di lode, un grazie dal profondo. E lo stesso farò con quelli di casa. In silenzio, ma con il sorriso dentro di me.

 

Avvenire XXVIII Luca 17,11-19

E mentre andavano furono guariti. Il Vangelo è pieno di guariti, sono come il corteo gioioso che accompagna l’annuncio di Gesù: Dio è qui, è con noi, coinvolto prima nelle piaghe dei dieci lebbrosi, e poi nello stupore dell’unico che torna cantando.
Mentre vanno sono guariti… i dieci lebbrosi si sono messi in cammino ancora malati, ed è il viaggio ad essere guaritore, il primo passo, la terra di mezzo dove la speranza diventa più potente della lebbra, spalanca orizzonti e porta via dalla vita immobile.
Il verbo all’imperfetto (mentre andavano) narra di una azione continuativa, lenta, progressiva; passo dopo passo, un piede dietro l’altro, a poco a poco. Guarigione paziente come la strada.
Al samaritano che ritorna Gesù dice: La tua fede ti ha salvato! Anche gli altri nove hanno avuto fede nella parole di Gesù, si sono messi in strada per un anticipo di fiducia. Dove sta la differenza?
Il lebbroso di Samaria non va dai sacerdoti perché ha capito che la salvezza non deriva da norme e leggi, ma dal rapporto personale con lui, Gesù di Nazaret. È salvo perché torna alla sorgente, trova la fonte e vi si immerge come in un lago.
Non gli basta la guarigione, lui ha bisogno di salvezza, che è più della salute, più della felicità. Altro è essere guariti, altro essere salvati: nella guarigione si chiudono le piaghe, nella salvezza si apre la sorgente, entri in Dio e Dio entra in te, raggiungi il cuore profondo dell’essere, l’unità di ogni tua parte. Ed è come unificare i frammenti, raggiungere non i doni, ma il Donatore, il suo oceano di luce.
L’unico lebbroso ‘salvato’ rifà a ritroso la strada guaritrice, ed è come se guarisse due volte, e alla fine trova lo stupore di un Dio che ha i piedi anche lui nella polvere delle nostre strade, e gli occhi sulle nostre piaghe.
Gesù si lascia sfuggire una parola di sorpresa: Non si è trovato nessuno che tornasse a rendere gloria a Dio? Sulla bilancia del Signore ciò che pesa (l’etimologia di ‘gloria’ ricorda il termine ‘peso’) viene da altro, Dio non è la gloria di se stesso: “gloria di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo). E chi è più vivente di questo piccolo uomo di Samaria? Il doppiamente escluso che si ritrova guarito, che torna gridando di gioia, ringraziando “a voce grande” dice Luca, danzando nella polvere della strada, libero come il vento?
Come usciremo da questo vangelo, dalla eucaristia di domenica prossima? Io voglio uscire aggrappato, come un samaritano dalla pelle di primavera, a un ‘grazie’, troppe volte taciuto, troppe volte perduto.
Aggrappato, come un uomo molte volte guarito, alla manciata di polvere fragile che è la mia carne, ma dove respira il respiro di Dio, e la sua cura.