
San Giovanni Bosco sin da piccolo si esibiva con i suoi giochi da funambolo in mezzo ai suoi compagni. Che sia stata questa la molla che lo ha condotto ad amare i ragazzi dando la sua vita per educarli umanamente e spiritualmente togliendoli dalla strada?
Da bambino, Giovanni Bosco mostrò presto un carattere vivace, creativo e pieno di iniziativa. I racconti della sua infanzia — come quello del suo celebre “spettacolo del saltimbanco” davanti ai compagni e ai contadini del villaggio — ci mostrano un ragazzo che cercava di attirare l’attenzione e la simpatia dei coetanei per poi trasmettere loro qualcosa di buono. Infatti, dopo averli divertiti con i suoi giochi di abilità e acrobazia, concludeva spesso gli spettacoli con una preghiera o una breve riflessione religiosa.
Questo piccolo dettaglio racchiude già il “metodo educativo” che lo avrebbe reso famoso:
Avvicinarsi ai giovani attraverso ciò che li attrae e li diverte,
Creare un clima di fiducia e affetto,
E poi guidarli con dolcezza verso il bene.
In un certo senso, sì — quelle esibizioni infantili furono davvero la scintilla iniziale di un amore che lo spinse, da adulto, a dedicare tutta la vita ai ragazzi più poveri e abbandonati, fondando gli oratori e la Congregazione Salesiana.
In lui il gioco, la gioia e la fede non erano separati: erano tre facce di un unico modo di amare i giovani e aiutarli a crescere “buoni cristiani e onesti cittadini”.
La gioia che educa: la lezione di San Giovanni Bosco
Fin da bambino, Giovanni Bosco amava far sorridere i suoi compagni. Bastavano una corda, qualche gioco di destrezza e il suo entusiasmo contagioso per trasformare un cortile di campagna in un piccolo spettacolo. Ma dietro quei numeri da funambolo si nascondeva già qualcosa di più profondo: un cuore capace di capire che per entrare nel mondo dei ragazzi bisogna parlare la loro lingua, quella della gioia, del gioco e della fiducia.
Quell’esperienza infantile non fu soltanto un divertimento, ma la prima forma del suo modo di amare. Giovanni scoprì che la felicità condivisa può aprire le porte del cuore e diventare occasione di incontro, di amicizia e di crescita. Col tempo, questa intuizione divenne la chiave della sua missione: educare i giovani non con la paura o la severità, ma con l’affetto, l’esempio e la presenza costante.
Don Bosco comprese che ogni ragazzo, anche il più difficile, nasconde un desiderio di bene, proprio come ogni spettacolo nasconde un messaggio da trasmettere. Per questo dedicò la sua vita a tirare fuori il meglio da ciascuno, a dare fiducia, a insegnare che la santità non è tristezza, ma pienezza di vita.
Oggi, la sua lezione è ancora attuale. Ci ricorda che educare non significa solo insegnare, ma camminare insieme, condividere la gioia e accendere speranze. Come quel giovane funambolo che iniziò a far sorridere i suoi amici, anche noi possiamo trasformare i nostri talenti in ponti di incontro e di bene.
Ipotizziamo che l’atteggiamento di don Bosco sin da piccolo, sia stato influenzato dal suo narcisismo ( con tutto il rispetto dovuto ad un grande santo). A me piace pensare questo suo aspetto cosí umano perché so che Dio chiama ciascuno di noi cosí come siamo…
L’idea che Don Bosco, da bambino, potesse essere mosso anche da un desiderio di farsi notare, di sentirsi amato o ammirato, non toglie nulla alla sua santità, anzi, la rende più vera, più vicina a noi.
Spesso, ciò che in noi inizia come un impulso umano — anche un po’ vanitoso, come il piacere di essere applauditi o stimati — può diventare, se illuminato dalla grazia, uno strumento per amare meglio.
Nel piccolo Giovanni c’era forse un bisogno di riconoscimento, sì, ma dentro quel bisogno Dio stava già lavorando, trasformando il narcisismo in dono, l’energia dell’ego in energia d’amore.
È un dinamismo profondamente umano e cristiano: Dio non ci chiama nonostante ciò che siamo, ma attraverso ciò che siamo.
Il carattere vivace, la voglia di emergere, la creatività: tutto questo, anziché essere “corretto”, è stato convertito in passione educativa, in capacità di attrarre i giovani, in entusiasmo che contagiava.
Questa prospettiva ci consola e ci libera.
Perché ci fa capire che la santità non è una perfezione disumana, ma un processo di trasformazione: il punto di partenza non è l’assenza di limiti, ma l’apertura a lasciarsi cambiare dall’amore di Dio.
In fondo, Don Bosco ci insegna anche questo: che Dio non cancella la nostra umanità, la trasfigura.
E che ciò che nasce come un piccolo desiderio di essere amati, può diventare, nelle sue mani, un grande desiderio di far amare.
Personalmente ho fatto l’insegnante per tutta la vita e ricordo che da piccolo mi piaceva molto esibirmi nelle imitazioni. Mi é sempre piaciuto insegnare…
La pedagogia divina — quella che si manifesta nell’Incarnazione — è esattamente questo: Dio che si “espone”, che si mette in gioco, che scende al livello dell’uomo per farsi comprendere, amare, imitare. È la stessa dinamica dell’educatore vero: non insegna dall’alto, ma “entra nella scena”, partecipa, si lascia guardare, emozionare, perfino giudicare.
Il fatto che da bambino mi piacesse imitare, mettermi in gioco, forse era già il segno di una vocazione comunicativa, di una chiamata a “stare di fronte” agli altri per donare qualcosa di me.
E come in Don Bosco, anche in me quel desiderio di essere visto e ascoltato si è trasformato, nel tempo, in desiderio di far crescere gli altri, di trasmettere non solo conoscenze, ma vita, passione, umanità.
In un certo senso, potremmo dire che il buon educatore è un riflesso dell’Incarnazione: mette in gioco la propria umanità perché attraverso di essa passi qualcosa di più grande.
Forse non è un caso che abbia riconosciuto in Don Bosco un’anima simile: un uomo che, come me, ha amato insegnare perché ha amato le persone.
La pedagogia di Dio e la gioia di insegnare
A volte penso che il desiderio di insegnare nasca molto prima di entrare in una scuola.
Forse comincia da bambini, quando si sente dentro una forza che spinge a comunicare, a farsi ascoltare, a condividere qualcosa che arde dentro. Ricordo che da piccolo amavo imitare, esibirmi: mi piaceva far ridere, attirare l’attenzione, vedere negli occhi degli altri quella scintilla di interesse e di sorpresa.
Non lo sapevo ancora, ma forse lì si nascondeva la prima forma del mio desiderio di insegnare.
Anche Don Bosco, da ragazzo, si esibiva con i suoi giochi da funambolo, e in quegli spettacoli ingenui già si intravedeva un cuore che cercava un contatto con gli altri. Mi piace pensare che anche lui fosse spinto da un po’ di narcisismo — un tratto così umano, così vero. Ma proprio in quella parte fragile e vivace, Dio aveva seminato una chiamata.
Perché Dio non chiama i perfetti: chiama gli uomini e le donne reali, con i loro limiti, le loro passioni, le loro ferite. Li trasforma dall’interno, come il sole che entra in una stanza e la illumina senza cambiarne la forma.
In fondo, questa è la pedagogia divina dell’Incarnazione: Dio che si fa vicino, che non insegna dall’alto, ma entra nella nostra condizione, prende il linguaggio, i gesti e i sogni dell’uomo per dire l’amore eterno.
È ciò che ogni vero educatore cerca di fare: non trasmettere solo nozioni, ma farsi ponte, farsi presenza che accompagna, che ascolta, che mostra con la vita ciò che le parole non bastano a spiegare.
Dopo una vita nell’insegnamento, guardo indietro e capisco che non ho solo insegnato, ma sono stato anch’io educato — dai volti, dalle storie, dalle domande dei ragazzi.
E allora mi accorgo che la gioia di insegnare è la stessa gioia di Dio quando incontra l’uomo: la gioia di comunicare la vita, di vedere l’altro fiorire.
Forse è proprio questo che Don Bosco aveva intuito sin da bambino: che per educare basta un cuore che ama, e che ogni dono umano, anche il più semplice o vanitoso, può diventare un canale di grazia se viene offerto con sincerità.
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Lettera a me stesso: il filo dell’insegnare
Caro me,
questa sera sento il bisogno di guardarmi dentro con tenerezza.
Rivedo il bambino che ero — curioso, vivace, felice di imitare, di far sorridere gli altri. Allora non lo capivo, ma forse in quel desiderio di essere visto c’era già una piccola chiamata, una spinta a entrare in relazione, a comunicare qualcosa di bello.
Poi la vita mi ha condotto tra i banchi, ma dall’altra parte della cattedra.
E lì ho scoperto che insegnare non era un mestiere, ma un modo di abitare il mondo: essere ponte, voce, presenza. Ogni sguardo incontrato, ogni domanda ingenua, ogni silenzio ha lasciato un segno in me. Ho capito che insegnare è un dialogo: non si educa senza lasciarsi educare.
Oggi, guardando indietro, riconosco la pedagogia di Dio che attraversa la mia storia.
Un Dio che non corregge i nostri limiti cancellandoli, ma li trasforma in possibilità.
Forse anche il mio desiderio di esibirmi, il bisogno di essere riconosciuto, erano solo la prima lingua con cui Dio mi parlava: la lingua dell’umanità, quella che Lui stesso ha scelto incarnandosi.
Così come in Don Bosco, anche in me la grazia non ha distrutto la natura, l’ha accolta, l’ha resa feconda.
Ora so che Dio insegna come un grande Maestro: con pazienza, con dolcezza, con un sorriso che invita a ricominciare.
E io, nella mia piccola parte, ho cercato di fare lo stesso: di mostrare ai miei alunni che la conoscenza è un atto d’amore, e che dietro ogni lezione può nascondersi un incontro con la vita.
Forse questo è il dono più grande che ho ricevuto: scoprire che l’insegnamento non finisce con la pensione, perché chi ama imparare dagli altri continua a insegnare anche nel silenzio, anche nella memoria.
Con gratitudine,
me stesso — l’insegnante, l’alunno, il figlio di Dio.