Ascoltandolo, si ha l’impressione che il tempo non sia una linea retta, ma un respiro che si ripiega su se stesso. La musica diventa così una fessura nel presente, uno squarcio da cui l’infanzia riemerge non come ricordo lucido, ma come ombra che vibra.
Ogni suono porta con sé un’eco: non è soltanto una nota, è una persistenza del passato, una traccia che si sovrappone al momento presente. In questo senso, la mia musica è diacronica: convoca epoche diverse nello stesso istante, facendole convivere senza armonizzarle del tutto.
C’è un che di malinconico ma anche di necessario: come se la memoria non fosse più un atto volontario, ma una forza che ci abita, che ritorna a prescindere da noi. La musica allora non accompagna il ricordo: è il ricordo stesso che canta, prende forma sonora e diventa più vero di qualunque immagine mentale.
È come se “Reminiscenze” dicesse: non ricordiamo per capire, ma per sentire il peso e la dolcezza del tempo che non ritorna.
La musica, più di qualsiasi altra forma espressiva, ha un rapporto privilegiato con la memoria perché non rappresenta, ma evoca. Un’immagine ci mostra un ricordo, una parola lo racconta, ma una melodia lo riattiva dentro di noi, come se lo rivivessimo al presente.
In questo senso, la musica è diacronica: non scorre semplicemente nel tempo, ma lo piega, lo stratifica. Una nota può contenere l’infanzia, un accordo può aprire una porta che credevamo chiusa da decenni. Non perché ci faccia ricordare “un evento”, ma perché fa riaffiorare il colore emotivo del tempo passato, quella qualità ineffabile che nessun concetto riesce a restituire.
Qui si rivela un paradosso filosofico: il ricordo non appartiene al passato, ma è sempre un atto del presente. Eppure la musica ci fa percepire il ricordo come una presenza altra, che ci trascende e ci destabilizza. È come se il tempo non fosse una linea, ma un palinsesto: la musica gratta la superficie e lascia emergere i tratti cancellati.
In termini quasi mistici, potremmo dire che la musica è anamnesi, reminiscenza in senso platonico: non tanto recupero di fatti, quanto richiamo a un’origine. Quando ascolti “Reminiscenze”, non stai semplicemente ricordando la tua infanzia: stai ascoltando la vibrazione di ciò che ti ha formato, che ancora pulsa in te come una radice invisibile.
Così la musica non è intrattenimento, ma ritorno dell’essere a se stesso. È memoria incarnata nel suono, il passato che prende corpo nell’istante, il tempo che diventa esperienza viva invece che concetto.
Normalmente ci stanchiamo di ciò che conosciamo troppo bene, perché la ripetizione logora. Eppure, con certe musiche — soprattutto quando nascono da dentro di noi — succede l’opposto: non stancano, non consumano, ma si rivelano come inesauribili.
Forse il motivo è che non stai ascoltando soltanto una sequenza di note, ma stai ascoltando una parte di te stesso che si è fatta suono. È come se il brano fosse un doppio interiore, un’immagine sonora che ti riflette senza mai coincidere del tutto con te. Ogni volta che lo riascolti, non senti semplicemente “quello che hai composto”, ma riattivi il contatto con il nucleo emotivo e temporale da cui è nato.
In altre parole: non ti annoia perché non è mai lo stesso brano. Ogni ascolto porta con sé una sfumatura diversa del tuo stato presente, e così la musica diventa uno specchio mutevole che si rinnova di continuo. Tu credi di riascoltarla, ma in realtà stai riascoltando te stesso in una nuova configurazione.
È un po’ come accade con certi ricordi dell’infanzia: li conosci da sempre, eppure ogni volta che riaffiorano sembrano altri, perché sei cambiato tu. La tua musica, allora, non è un oggetto chiuso ma un organismo vivente che cresce insieme al tuo tempo interiore.
Ecco alcune possibili distillazioni aforistiche della mia riflessione:
La mia musica non mi annoia: non la riascolto, mi riascolta.
Ogni nota che ho inventato è più antica di me: per questo non si consuma.
Un brano mio non è un ricordo, è un doppio che continua a respirare al posto mio.
Non ascolto mai la stessa musica due volte: cambia con me, come un ricordo che non smette di mutare volto.