26 Marzo 2003

Guerra sbagliata e ingiusta

dal Messaggero Veneto del 26/03/03

Rifiutare una guerra sbagliata e ingiusta


Sant’Agostino ne “La città di Dio” definisce la pace come “tranquillitas ordinis” (tranquillità ordinata), assumendo però un’accezione specificamente filosofica di “ordo” (ordine), che non ha in quel testo il significato attuale, vale a dire un controllo rigoroso (e talora un po’ poliziesco) delle società e delle nazioni. L’accezione filosofica, in generale e non solo nel lessico agostiniano, connota invece il termine “ordo” come un qualcosa che si dice di una situazione o cosa che è “ordinata” a un fine secondo la sua propria natura, quindi ragionevole, e che oggi potremmo definire giusto.

Dunque, “tranquillitas ordinis” significa «una certa tranquillità secondo l’ordine giusto delle cose». Si tratta di ben altro concetto rispetto alla pacificazione forzosa praticata dai regimi autoritari, o dalle dittature di ogni specie. La riflessione del filosofo africano si svolge in un contesto politico e militare che vede il declino rapidissimo dell’impero romano d’occidente sotto i colpi dei goti e dei vandali. Agostino allora parla della pace come di un qualcosa di prezioso, da salvaguardare a ogni costo, che non sia quello della rinunzia alla legittima difesa, i cui presupposti sono nell’applicazione della virtù di giustizia, secondo il Vangelo e la legge dell’amore.

Egli ammette anche la rinuncia eroica alla legittima difesa, ma non nel caso in cui, a esempio, un padre debba agire per difesa, anche uccidendo, nei confronti dell’aggressore del proprio figlio. Papa Giovanni nella “Pacem in terris” del 1961 sottolinea questa lettura sulla pace, chiamandola “frutto” della capacità umana di darsi regole di giustizia, dividendo i beni della terra. «Non c’è pace senza giustizia» leggiamo nella “Populorum progressio” di Paolo VI, e nelle tre encicliche sociali di Papa Wojtyla. Allora: se non c’è la giustizia si creano le condizioni oggettive per il conflitto e la guerra.

Nei paesi a democrazia (pur imperfettamente) compiuta, come il nostro, i conflitti sociali, che sono legittime azioni per la giustizia, rientrano negli ambiti di una dialettica fra interessi e schieramenti, che può vivere anche momenti di durezza, e comportare rischi (le provocazioni del terrorismo), ma sono costitutivi della democrazia stessa. Dove invece l’ingiustizia è un insulto alla stessa umanità, con gli squilibri e le povertà che conosciamo, la stessa vita umana può essere percepita come un valore molto relativo e perfino “spendibile” nella disperazione.
È da questi contesti che trae origine l’adesione nel mondo di masse imponenti all’antioccidentalismo e all’antiamericanismo. Noi in Italia abbiamo l’arcipelago dei pacifisti, che raggruma una miriade di culture e di culture politiche. Per contro, l’eredità del pacifismo unilaterale, da guerra fredda, che voleva disarmare solo gli Usa e la Nato, mi sembra minoritaria, e presente solo in alcune frange o personaggi, gli stessi che mi maltrattavano dieci anni fa quando gli chiedevo perché erano così silenziosi sulle guerre balcaniche.

Di fronte a ciò che ci si staglia dinanzi, oggi non si tratta di essere filo o antiamericani, si tratta di rifiutare con tutte le forze una guerra, che è sbagliata e ingiusta in sé, per le motivazioni e le circostanze addotte da Bush e dalla Rice, che sono ottenebrati da una sorta fondamentalismo protestante quasi millenaristico, tanto quanto dai ricatti elettoral-finanziario-industriali del loro elettorato, e in quanto “guerra”, se vogliamo leggere il mondo odierno con occhi aperti e illuminati, ed evitare un futuro come scenario possibile di un dispiegarsi dell’odio. Per quanto mi riguarda conosco la storia, ho gratitudine per quanto gli americani hanno fatto contro il nazismo, ma non voglio moralmente condividere, e neppure con questa Onu sgangherata e labile, una scelta disumana e senza sbocchi.

Non vi è nulla di più fondamentale per l’umanità che la paziente e instancabile ricerca della pace nella giustizia. In questo modo si aiuta il popolo iracheno, che deve riuscire a liberarsi del sicario di Tikrìt, ma anche il popolo americano, che non si identifica con il suo attuale mediocre presidente.

Esperto di problemi del lavoro
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CHI È


Vicentino del 1929, figlio di padre latisanese, Sergio Romano è osservatore politico di lungo corso. Trentacinque anni nei ranghi degli Esteri, il mondo visto dalle sedi diplomatiche di Londra e di Parigi, dalla Nato a Bruxelles, numero uno della rappresentanza italiana a Mosca, al tempo in cui Gorbaciov sperimenta la perestrojka e la glasnost’. Romano giudica irriformabile il sistema sovietico, l’allora presidente del Consiglio Ciriaco De Mita pensa che sì, o almeno fa vista. È la fine della vecchia Urss, è l’addio di Romano alla Farnesina. Un atto d’orgoglio, un distacco elegante. Si dimette nel 1989, sgradito a De Mita, «sfiduciato» dal proprio governo, come scrive in Memorie di un conservatore (Longanesi), un catalogo del Novecento sub specie autobiografica. Comincia una nuova carriera: editorialista, docente, scrittore. Saggista brillante, tagliente, incisivo.
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A colloquio con Sergio Romano, ambasciatore a Mosca al tempo di Gorbaciov

La forza dell’impero Usa e l’irrilevanza dell’Europa


Bush at War. L’America sola alla guerra, in marcia (contrastata) verso Baghdad che brucia nel deserto rovente di Mesopotamia. Sola sul campo con i cugini britannici, gli alleati più fidi, i migliori combattenti. Una guerra per forza, senza il timbro rassicurante dell’Onu e col mondo diviso, chiaramente sottintesa dal condottiero di Washington, ad Afghanistan detalebanizzato, davanti alle Camere Usa in seduta congiunta: Bush passa in rivista i Rogue States, gli stati-canaglia, cita la Corea del Nord e l’Iran, si appunta sull’Iraq e sul nesso che lo lega (che lo legherebbe) all’accolita di Osama Bin Laden, il demolitore delle Twin Towers. È il discorso annuale sullo Stato dell’Unione del gennaio 2002, è la grande svolta della politica estera statunitense: il prologo della new National Security Strategy, la reazione minacciosa dell’iperpotenza all’inviolabilità perduta. America ferita e decisa a non subire altri first strikes, e viceversa a lanciarne, risoluta ad agire da sé, unilateralmente, con compagni d’avventura volontari e non necessari, ausiliari, a scavalco del Palazzo di Vetro e del suo attendismo. Talché dopo un anno, di marzo, un lunedì 17, non si va neanche alla conta. In compenso si va finalmente a sparare nel Golfo, forti di un’ormai epocale 1441, un testo diplomatico come tanti, in cui ciascun sottoscrivente – dice l’ambasciatore Sergio Romano – può leggere quel che più gli conviene.

«Perché l’America è rimasta sola? Questa è una bella domanda. Che volesse fare da sé, appunto unilateralmente, non c’era alcun dubbio, la svolta era chiara e la si era capita. Quel che non s’è mai capito, invece, è perché Bush sia andato all’Onu il 12 settembre. A fare un discorso oltretutto abbastanza arrogante, abbastanza ultimativo. Chi va all’Onu, la investe di un ruolo, deve giocare con le sue regole. Insomma, una contraddizione. La linea di Colin Powell? Ma sì, certo, lo sappiamo… E però questo non spiega, non convince pienamente. Deve esserci stato un dibattito interno all’esecutivo: Onu sì, Onu no. Poi, una volta stabilito che sì, la Casa Bianca ha preso una strada impercorribile. Con gli ostacoli della Francia e della Russia, con la Cina esitante e la maggioranza indecisa in Consiglio di Sicurezza. Dunque l’America resta sola, ma stranamente lo era già, e con tutte le intenzioni di esserlo e senza che esserlo le procurasse fastidio. Una situazione in ogni caso imbarazzante. Tanto che poi addossa alla Francia la responsabilità della frattura, tanto che Powell, prima dell’attacco, rende nota la lista dei trenta paesi amici e ne annuncia altri quindici anonimi, tanto che Bush scrive a Berlusconi per ringraziarlo… Tutte forme per dire che sì, non abbiamo il consenso dell’Onu, ma abbiamo comunque un largo consenso internazionale».

Un signore amabile, Sergio Romano, ma uso ad andar per le spicce. Interpreta i fatti con prudenza, secondo le categorie del pragmatismo. E insiste: «La guerra deciderà di tutto». E quel che dice rimanda spesso alle tesi su cui si fonda Il rischio americano (Longanesi), agilissimo e di grande successo: America imperiale, Europa irrilevante.
America imperiale. Stars and Stripes e Union Jack che puntano su Nabucodonosor – quel Saddam mezzo nazi intento a sognare, in tempi migliori, una nuova cattività babilonese del popolo d’Israele. Un’offensiva che inalbera il vessillo della “liberazione”, tra pacifismo dilagante e Islam in fermento anti-yankee. Sergio Romano riflette sul vero obiettivo di Bush. «Quando si fa una guerra, bisogna anche appiccicarle un disegno nobile: per esempio quello di un Vicino Oriente aperto alla democrazia, passando per un Iraq libero. Non è il suo scopo principale.

La Casa Bianca vuole soprattutto lanciare un messaggio forte su un punto fermissimo: impedire la proliferazione delle armi nucleari, biologiche, chimiche. Un messaggio a Corea del Nord, Iran, Siria, a chiunque possieda o si metta in testa di possedere ordigni del genere. Questa, a mio avviso, è la strategia statunitense. Poi, naturalmente, tutto dipenderà dall’esito del conflitto. Se ci saranno o no altre tappe, non si può dire. In generale, io osservo che una grande potenza tende a espandersi, non ha il senso del limite, e quel limite va a verificarlo sul terreno. Sinché qualcuno non si mette di traverso con argomenti abbastanza convincenti. Al momento, l’America si è fermata in Corea del Nord. Ma perché? Intanto perché è più facile punire chi le armi le progetta piuttosto che chi già le detiene (e qualche paese si convincerà a questo punto che è meglio averle…). E poi perché all’interno di quell’area tutti dicono “giù le mani dalla Corea del Nord”. Russia, Cina, Giappone, la stessa Corea del Sud, tutti assolutamente interessati alla stabilità. Il paradosso è che lì non esiste un’unione, quale noi invece siamo. Un’Unione Europea disunita, incapace di esprimersi univocamente su un tema cruciale come la questione irachena. La Corea del Nord ci dà una lezione importante. Quando l’America trova un ostacolo, si ferma e ci pensa».

Europa irrilevante. Tradizionalmente litigiosa: «una somma di politiche estere» incapace di fare sistema. Con la Manica divenuta più larga, e l’europeista Blair più lontano da Parigi e Berlino. Proprio in un momento in cui si lavora, a Bruxelles, a una costituzione che dovrà verosimilmente definire «gli strumenti e le regole di una politica estera comune». Molti danni preventivi, a elmetto già in testa ma prima del fuoco, al di qua e al di là dell’Atlantico. L’ambasciatore Romano: «Sì, l’Unione è certamente divisa, e questo innesca un delicato problema. Sa, finché ci si divide sulla politica agricola, o sulla questione congolese… Qui, purtroppo, l’incrinatura riguarda il rapporto con gli Stati Uniti! Io credo, spero che alla fine prevarranno le ragioni del buon senso: che l’Europa non può buttar via quanto la unisce, mercato, moneta, frontiera comuni, e quanto la unirà. E sulla solidarietà transatlantica in crisi, non sono terribilmente preoccupato: si ricucirà. L’ho scritto e glielo ripeto: se l’Europa vuole avere un profilo di grande potenza, qualche litigata con gli Stati Uniti la deve pur fare! L’Onu? Intanto non mi si venga a dire che stava bene, e ora è malata, perché malata lo è dalla fine della guerra fredda, quando in effetti svolse un ruolo internazionale importante.

E peraltro non sono mica tanto sicuro che l’Onu sia in rovina. Tutto dipende dalla guerra! Farà disastri? La si rivaluterà immeditamente! Non ne farà? Beh, allora nascerà un problema. Gli americani ribadiranno che non è all’altezza. Ma intendiamoci: di lì a chiudere bottega… Sono cose che non si fanno. Finirà in un angolo morto, ecco. Se poi lei mi chiede chi ha fatto più danno… Beh, vediamo: francesi e tedeschi potevano agire meglio, la posizione bilaterale ha qualche responsabilità. Gli stessi inglesi si sono allineati troppo rapidamente all’America. Ma in ordine di precedenza il peggio l’ha fatto questa svolta integrale statunitense, l’arroganza, la forza egemone dell’impero».

Potenti del mondo nei guai, davanti all’imprevedibilità della guerra, che va per strade sue proprie. E, nell’antica terra di Ur, Ninive, Babele, meno facili del previsto: la resistenza dei disperati di Saddam, i soliti missili a spasso, il fuoco amico, i morti, i dispersi, gli ostaggi. Leaders supercontestati dal pacifismo planetario, in Italia un mix di testimonianza cristiana, fideismo, buonismo, sindacalismo, antiamericanismo, avventuristica disobbedienza. Uno di quei casi in cui la maggioranza (o la sua epifania mediatica) ha ragione, posto che non ha sempre ragione?

«Macché maggioranza! La maggioranza è tale soltanto se a unirla è un disegno articolato. No alla guerra! Ma che vuol dire? Il rifiuto bisogna poi tradurlo in politica. E in politica, in democrazia, si può governare anche con una maggioranza relativa, ovvero con una minoranza, se gli altri si frantumano in mille gruppuscoli. Questi cortei pacifisti sono unità in apparenza: nei fatti, sono semplicemente una raccolta di coscienze, ciascuna in piazza con le proprie convinzioni, e una raccolta del genere non fa politica. Al punto in cui siamo, però, il problema è un altro. La guerra c’è, purtroppo, e tutto dipenderà dal suo andamento. Anche sugli scenari che lei mi prospetta: escalation o riflusso del terrorismo, rapporto con l’Islam, avvitamento o composizione del dramma israelo-palestinese.

Mi spiego: qui, di questo conflitto, si dovrà pur averne un’idea più precisa: durata, conseguenze, ricadute». Uno scontro costretto a essere ragionevolmente breve e non particolarmente cruento, chirurgico e non disastroso, senza stragi, assolutamente non destabilizzante. «Ecco – dice Sergio Romano –, se così fosse, Bush non potrà definirsi nei guai. Tenga presente che alla fine di quest’anno entra in campagna elettorale. Di qui ad allora, deve controllare le operazioni sul campo, e sopra tutto il dopoguerra. Deve scongiurare – che so… – una guerricciola turco-curda, o il caos nella parte sciita dell’Iraq. Un dopoguerra gestito dall’Onu? Lei dice? A me pare che questo fosse sopra tutto un disegno di Blair, magari per far passare più facilmente il progetto di seconda risoluzione. Sì, poi ripreso da Chirac, è vero. Chissà… Forse un parziale coinvolgimento Onu potrà far comodo anche agli americani. Ma non c’è niente da fare: la guerra è loro, se la vincono gestiranno il dopoguerra. Chi vince paga, capito?».
Altri leaders bellicisti, il fedelissimo Blair, il neoarrivato Aznar, e un Monsieur le Président avido di proscenio, Chirac, il signore dell’Esagono, le petit De Gaulle anti-guerrafondaio, capofila del fronte chiassoso del no, anche lui in affari militar-petroliferi con Saddam.

Sergio Romano: «Nell’ordine. Sono d’accordo con l’articolo di Ralph Dahrendorf apparso su Repubblica. Blair ha il coraggio di un atteggiamento impopolare, controcorrente, e guai grossi all’interno del Labour. Anche se, nel mondo anglosassone, alla fine l’effetto-bandiera funziona e le critiche, con cinquantamila soldati nel Golfo, si spuntano. Rischia molto, il che lo rende nobile, attraente: se sbaglia, lui lo sa: la pagherà alle urne. Dalle quali, invece, non dipende il destino politico di Aznar, vero. Intendiamoci: non che lasci! Ce lo ritroveremo da qualche parte, a livello internazionale. Quel che lei dice è condivisibile: ha elevato la Spagna al girone delle grandi potenze. Aggiungo: forse ambisce a portarla al G8, anche se il prodotto lordo interno spagnolo è circa la metà di quello italiano. Chi ha tempo sul piano elettorale, tutto il tempo davanti per manovrare, è Chirac. Circa quattro anni. In cui si scende e si rimonta. Al momento, da un punto di vista strettamente francese, ne esce bene, con stile.

Lui rappresenta una certa cultura politica francese, un certo sentimento nazionale, una certa originalità transalpina, una certa grandeur. Un rischio, comunque, lo corre: ed è quello di un’America estremamente infastidita dal dissenso, quasi un tradimento, con conseguente gallofobia oltre Atlantico. Non a caso s’incolpa la minaccia di veto francese, piuttosto che la simmetrica minaccia di Putin: il quale Putin, comunque, mi pare in lenta e graduale curva per attestarsi su posizioni meno critiche. Direi che Puntin tiene conto dell’esigenza di un buon rapporto con Washington: negoziati, interessi petroliferi… Bush gli mette le mani nel Golfo?

Ma via! Gliele ha messe in Asia Centrale!… Per concludere: il fatto è che l’America non si aspetta dalla Russia quel che invece si aspetta dalla Francia».
L’Italia e l’Iraq. Con un Berlusconi ondivago e un centro-sinistra in apparenza più coeso. Un Cavaliere con una gran voglia di fare come l’amico Aznar, stare in prima fila con l’amico Bush, ma senza poter pagare il biglietto, e insieme senza l’accortezza tutta slava dell’amico Putin… Un’opposizione naturalmente attenta alla piazza, naturalmente critica su un ardito disegno egemonico, impegnata a invocare l’urgenza umanitaria sull’aggiramento Onu in Kosovo. «Sì, almeno superficialmente il centro-sinistra ne esce ricompattato.

Diciamo che ha assunto una posizione abbastanza massimalista. Sulle basi, tanto per dire… Tutto per evitare ulteriori lacerazioni. I suoi uomini migliori, D’Alema, Fassino, si pongono però da anni lo stesso problema: come diventare una forza di governo credibile sul piano interno e sul piano esterno. D’Alema ci riuscì al tempo del Kosovo. Mi chiedo: oggi cosa avrebbero fatto? Detto di no, come la Francia? Difficile… Così come è difficile, per Berlusconi, fare il Blair, o anche l’Aznar. Sì, credo anch’io avesse un progetto simile a quello di Aznar: essere l’alleato Usa più affidabile nell’Europa continentale. Poi che succede? Legge i sondaggi, e capisce che non va. Sente il Quirinale, e capisce che non va. Per di più esiste in Italia il Vaticano, che assume una posizione saldissima.

Il vero problema è che lui non può fare come Blair: il premier britannico è un monarca eletto, con tutti i poteri datigli dalla legge e dalla prassi, prassi che oltre Manica è più importante della legge. Quello italiano è un sistema politico mediocre, con un primo ministro che presiede un consiglio d’amministrazione, che gestisce un pacchetto di maggioranza costituito da più azionisti, più o meno forti a seconda dei voti: se uno dice alt, il presidente si ferma. Il nocciolo è tutto qui».
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