dal Messaggero Veneto del 20/03/03
di Pierluigi di Piazza
I motivi di un dolore molto profondo
Il concetto di guerra è eversivo nei confronti del Vangelo e della Costituzione
di PIERLUIGI DI PIAZZA
Mi chiedo, con piena sincerità di cuore e di ragione, quale significato possa assumere un convegno a quarant’anni dalla Pacem in terris di papa Giovanni XXIII in una situazione drammatica di guerra che sembra proprio sconfiggere le ragioni della pace, l’impegno per il suo perseguimento.
Forse quando questi frammenti di riflessione compariranno su questo giornale, i bombardamenti sull’Iraq saranno iniziati.
Dopo tanti anni di impegno personale e pubblico per la convivenza pacifica, sempre considerando i propri limiti e inadeguatezza, vivo tristezza, dolore, sdegno e, insieme, la profonda convinzione del dovere di continuare, di perseverare nella spiritualità, nella cultura, nelle realtà istituzionali e politiche per costruire un mondo di giustizia e di pace.
Quali sono i motivi di dolore, di tristezza, di sdegno? Prima di tutto le vittime, tutte le vite umane stroncate, tutti i feriti che porteranno nella loro esistenza i segni della violenza distruttiva che si abbatte anche sulle strutture della vita organizzata, su tutto l’ambiente vitale.
Poi, o comunque insieme, la distruzione del diritto internazionale, dell’Onu e delle Carte costituzionali dei Paesi. L’immagine che mi si raffigura in queste ore è quella di Bush, di Blair, di Aznar e di coloro che fanno da succubi accoliti che con arroganza e spregio incredibili di fronte a tutto il mondo stracciano la Carta delle Nazioni Unite e ne disperdono i pezzi. Questo, a mio sentire, è il passaggio più grave e drammatico perché vorrebbe riportare indietro l’umanità alla situazione in cui la logica del più forte pretende di imporsi e di vincere, senza confronto alcuno.
I motivi ispiratori e l’organizzazione delle Nazioni Unite hanno espulso, per così dire, la guerra dalla storia come strumento di risoluzione dei conflitti.
La concezione e l’attuazione terribile della guerra preventiva sono eversive rispetto a questa impostazione perché esigono la guerra come necessaria, strutturale al sistema dell’impero e del dominio.
Questa dottrina è stata teorizzata nel tristemente famoso documento sulla sicurezza Usa, nel quale si prevede l’intervento unilaterale nei confronti di chi è sospettato di inimicizia, di pericolosità, con valutazioni appunto unilaterali, corrispondenti solo ai propri interessi. Se mai la guerra ha avuto legittimità (personalmente penso di no) questa evidenzia in modo eclatante la sua illegittimità, immoralità, criminalità.
Altro motivo di dolore profondo è l’alimentazione dell’inimicizia, del sospetto, dell’odio, dell’avversione con una conseguente crescita della possibilità di atti di violenta ritorsione, se ingiustamente colpiti si reagisce.
Motivo di profonda tristezza è la constatazione che l’Occidente, Usa in testa, che vanta radici e riferimenti cristiani, stracciano di fatto l’insegnamento del Vangelo, i pronunciamenti delle varie confessioni religiose.
Il Vangelo proclama beati i non violenti e riconosce come figlie e figli di Dio gli operatori di pace, incita a superare l’inimicizia; Gesù di Nazaret di fronte al procuratore di Roma, Pilato, indica la diversità sostanziale fra il suo regno e i regni di questo mondo proprio nel rifiuto dell’uso delle armi.
La Pacem in terris, 40 anni fa, chiedeva il superamento della logica della deterrenza perché già espressione della sfiducia reciproca; la dottrina della guerra preventiva non prevede la deterrenza per il motivo opposto, perché l’avversario va annientato prima che possa organizzarsi e agire. L’enciclica considera la guerra, dati gli armamenti di cui l’umanità si è dotata, fuori dalla razionalità umana e gli atti di guerra indiscriminati (come quelli sull’Iraq) “delitti contro Dio e contro la stessa umanità”.
Giovanni Paolo II in questo periodo ha comunicato a tutta l’umanità con convinzione ferma e con una forza sorprendentemente ritrovata, la sua netta contrarietà alla guerra. Con tutta probabilità lo farà nuovamente in queste ore. Già dal Vaticano è partito un monito molto severo riguardo alla responsabilità di fronte alla coscienza, a Dio, all’umanità tutta di chi decide un’azione tanto criminale.
Proprio insieme a queste considerazioni emerge e si rafforza il convincimento e l’impegno per la pace: il grande movimento che su tutto il pianeta si è messo in movimento deve continuare con intensità a esserci, a esprimersi, superando il possibile scoraggiamento, il senso dell’inutilità per non essere riusciti a fermare la guerra.
Paradossalmente l’alimentazione a convinzioni, presenze, impegno, deriva dall’evidente protervia, arroganza, disumanità dei signori della guerra. Talmente evidente è la loro illegittimità che proprio come accadde alla fine della seconda guerra mondiale, l’umanità dovrà trovare gli strumenti perché quello che accade in questi giorni non accada più. Le coscienze di milioni di donne, di uomini, di giovani di tutto il pianeta sono in movimento, la guerra è realisticamente una sconfitta della pace; ma le ragioni della pace sono più che evidenti e la mobilitazione e l’impegno di ciascuno di noi devono essere conseguenti.
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Lettera di grande modernità e urgenza nell’attuale contesto mondiale
Alla base della pace la solidarietà con ogni minoranza
«Quando i due termini di un’opposizione non vengono definiti entrambi positivamente, cioè l’uno in dipendenza dell’altro, ossia quando dei due termini uno è sempre il termine forte e il secondo è sempre il termine debole, il termine forte è quello che indica lo stato di fatto esistenzialmente più rilevante», scrive Norberto Bobbio (Il problema della guerra e le vie della pace). «La pace – osserva il teologo Luigi Lorenzetti – è termine debole anche nel cristianesimo storico. Il discorso sulla pace, dal secolo IV al nostro tempo, si esaurisce in quello della guerra e precisamente nella distinzione tra guerra giusta/ingiusta che, al di là delle intenzioni, si è prestata, di fatto, a legittimare la politica di guerra». Il giudizio storico potrebbe essere anche più severo: nella chiesa “costantiniana” la teoria della guerra giusta ne ha sancito non solo la legittimità, ma addirittura la necessità.
A confutare profeticamente la plurisecolare teologia della guerra, e a sciogliere il binomio guerra-giustizia fu, quarant’anni or sono, l’enciclica di Giovanni XXIII. Per la prima volta s’invertono i rapporti del discorso teologico: nella Pacem in terris la guerra viene menzionata soltanto per negarne lo statuto di strumento di giustizia (e, si badi bene, con l’argomentazione che ciò alienum est a ratione: l’enciclica, indirizzata ai cristiani e «a tutti gli uomini di buona volontà», fa appello alla ragione prima ancora che alla fede e alla dottrina) e la pace in se stessa, aspirazione di ogni persona, sottratta alle teorizzazioni dei saperi laici o religiosi, diviene il termine fortissimo di una nuova etica universale e unica, senza distinzioni machiavelliche tra pubblico e privato:
«La stessa legge morale che regola i rapporti fra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche».
Un’etica fondata sui valori della verità, della giustizia, dell’amore, della libertà: ma mi piace ricordare come tra i caratteri della convivenza umana ideale Giovanni XXIII indichi anche il «nobile comune godimento del bello in tutte le sue legittime espressioni», introducendo la dimensione estetica a complemento della morale.
Della portata profetica e pratica della Pacem in terris ha lucidamente parlato Giovanni Paolo II nel messaggio per la XXXVI giornata mondiale della pace, registrandone gli effetti positivi ma anche, purtroppo, gli auspici andati delusi, soprattutto quello che a promuovere il bene comune universale provvedesse «un’autorità pubblica a livello internazionale»: Giovanni XXIII riponeva grandi speranze nell’Onu e invece questa «visione precorritrice», scrive Giovanni Paolo II, «non solo… non si è interamente realizzata, ma si deve registrare, purtroppo, la non infrequente esitazione della comunità internazionale nel dovere di rispettare e applicare i diritti umani… Allo stesso tempo, siamo testimoni dell’affermarsi di una preoccupante forbice tra una serie di nuovi “diritti” promossi nelle società tecnologicamente avanzate e diritti umani elementari che tuttora non vengono soddisfatti soprattutto in situazioni di sottosviluppo…
La pace richiede che questa distanza sia urgentemente ridotta e infine superata».
Della attualità, dell’urgenza della Pacem in terris nel nuovo contesto mondiale (nel nuovo “disordine”) molto si parlerà in questo quarantesimo tragico anniversario, e se ne riscoprirà anche, spero, l’articolazione che, in nome della continuità tra privato e pubblico, considera i vari livelli dei rapporti tra individui e comunità.
Esemplifico con dei passaggi (dagli articoli 52-55 relativi al «trattamento delle minoranze» e alla «solidarietà operante») che hanno una forte attinenza col “particulare” della nostra regione: «Risponde… a un’esigenza di giustizia che i poteri pubblici portino il loro contributo nel promuovere lo sviluppo umano delle minoranze, con misure efficaci a favore della loro lingua, della loro cultura, del loro costume, delle loro risorse e iniziative economiche… va però rilevato che i membri delle minoranze… possono essere portati… ad accentuare l’importanza degli elementi etnici… fino a porli al di sopra dei valori umani; come se ciò che è proprio dell’umanità fosse in funzione di ciò che è proprio della nazione… saggezza vorrebbe che sapessero pure apprezzare gli aspetti positivi di una condizione che consente loro l’arricchimento di se stessi con l’assimilazione graduale e continuata di valori propri di tradizioni o civiltà differenti… gli elementi che caratterizzano un gruppo etnico non devono trasformarsi in un compartimento stagno…».
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In convegno sabato a Pozzuolo
Laici e religiosi parleranno del messaggio lanciato dall’enciclica
Se vuoi la sicurezza, dialoga con il nemico: è questo il titolo del convegno che è stato organizzato dal Centro di accoglienza Ernesto Balducci di Zugliano, a quarant’anni dalla pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII.
Il convegno si terrà dalle 15 alle 19.30 di sabato all’auditorium Ipsaa di Pozzuolo del Friuli.
Su un tema che è tragicamente attuale, interverranno: Rinaldo Fabris, biblista, su Radici bibliche della Pacem in Terris, coscienza e impegno per la pace; Raniero La Valle, giornalista e scrittore, I segni dei tempi, ma quali tempi?; Alfredo Battisti, arcivescovo emerito di Udine, Una Chiesa profetica per la pace; Nicola Borgo, presidente dell’Associazione Padre David Maria Turoldo, Padre Turoldo: il rischio della pace, Bruna Camaiani, docente all’Università di Firenze, Papa Giovanni XXIII e la Pacem in Terris nella lettura di padre Ernesto Balducci; Elvira Zaccagnino, presidente della casa editrice La Meridiana, di Molfetta, Don Tonino Bello, ovvero la ferialità della pace. Introdurrà Pierluigi Di Piazza, responsabile del Centro Ernesto Balducci; coordinerà Gianpaolo Carbonetto, caporedattore delle pagine culturali del Messaggero Veneto. Durante il convegno sarà presentato il libro degli atti del convegno Le ragioni della speranza del settembre 2002.
Seguiranno il dialogo in assemblea e la cena comunitaria.
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L’11 aprile la ricorrenza del testo di papa Giovanni XXIII rivolto agli uomini di buona volontà
La Pacem in terris è ancora attuale dopo quarant’anni
di GIANPAOLO CARBONETTO
Molto probabilmente quando leggerete queste righe, le prime bombe saranno cadute – anche ufficialmente – nell’Iraq portando con sé distruzione e morte che ancora una volta, come sempre accade da una trentina d’anni in qua, per oltre il 90 per cento andranno a colpire i civili che, dopo aver dovuto sopportare la sanguinaria dittatura di Saddam, ora dovranno pagare di persona anche perché non sono stati in grado di farlo cadere, magari affrontando con le nude mani i suoi addestrati squadroni delle Guardia presidenziale, ben armati proprio da coloro che ora vogliono distruggerli.
L’11 aprile ricorreranno i quarant’anni della Pacem in terris e sabato Pozzuolo ospiterà un convegno per parlare di questo caposaldo nel pensiero del XX secolo. E parlare di questa epocale enciclica di papa Giovanni non è – come qualcuno ha sostenuto – effettuare archeologia religiosa, ma soltanto ribadire antichi concetti cristiani – tanto per dirne uno, l’amore per il prossimo, qualunque prossimo – a costo di essere osteggiati e sbeffeggiati da altri che dicono di professare la medesima religione e di leggere lo stesso Vangelo. Sberleffi che sono un piccolo prezzo da pagare per i pacifisti perché, come giustamente ha ricordato Benigni, «per un’idea vale la pena di correre qualche rischio. Perché se uno per un’idea non vuole correre rischi, o non vale niente l’idea, o non vale niente lui».
Davanti allo scoppio di una guerra che, come sempre, non necessariamente fa vincere chi è nel giusto, ma soltanto chi in quel momento è più forte, è inevitabile un profondo senso di tristezza che può esprimersi con l’esposizione di altre bandiere della pace alle finestre, magari listandole di lutto con un nastro nero.
È legittimo un senso di rabbia che si estrinsicherà nella partecipazione a tutte le iniziative non violente – di piazza e di meditazione – che renderanno esplicito il rifiuto della stragrande maggioranza di questa nazione a una cobelligeranza, anche parziale, con uno stato portato dal suo presidente a quella che è definita guerra “preventiva”, concetto aberrante, contraddizione filosofica ancor prima che etica.
Cobelligeranza che è illegittima anche per il dettato dell’articolo 11 della Carta costituzionale.
È normale indignarsi pensando che la guerra serve soltanto ad alimentare se stessa e almeno tre enormi business, prima quello dei fabbricanti di armi e poi quelli delle risorse strategiche e della successiva ricostruzione. A questo proposito Marco Paolini, con desolata causticità, alcuni anni fa ha ipotizzato che il progetto della bomba ai neutroni, quella che doveva uccidere la gente senza distruggere le case, sia stato abbandonato non per motivi umanitari, ma proprio perché eliminava uno dei possibili motivi di guadagno economico.
È obbligatorio ribollire di sdegno sentendo un ministro del governo che, riferendosi ai futuri esuli, dice: «Se ne stiano a casa loro».
Ma nonostante tutto ciò, è assolutamente vietato cedere allo scoramento, abbandonarsi a una sensazione di inutilità perché questa volta non si è riusciti a bloccare una guerra già da tempo decisa. Nel piangere i tanti morti del tutto innocenti che ci saranno non si deve dimenticare che questi giorni di disperata speranza sono riusciti a coagulare un’incredibile quantità di persone non attorno a un simbolo, ma a una realtà che deve essere perseguita a ogni costo. Che in questi giorni è stato piantato un seme che darà sicuramente frutti e che ci farà avanzare di un altro passo – piccolo, ma importantissimo – verso quell’utopia realizzabile, verso quell’irragionevolezza che viene chiamata pace. E a dare speranza non è soltanto il fatto che siano centinaia di milioni a essere contro la guerra, ma soprattutto la constatazione che a manifestare insieme ci sono cristiani, musulmani, ebrei, buddisti, animisti, atei e agnostici; che non si fanno più distinzioni artificiose tra credenti e laici che puntano verso lo stesso bene comune.
Pochi mesi fa il Papa ha lanciato un grido di dolore: «Oltre alla spada e alla fame, c’è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dell’agire dell’umanità». Ecco, forse è proprio il “silenzio di Dio” ad avere avvicinato due mondi che, per larghe fascie, non volevano avere niente in comune tra loro, ad avere apparentato coloro che Dio non l’hanno mai sentito a coloro che non lo sentono più. Ora entrambi questi mondi marciano insieme e in democrazia anche questo ha un senso. Negli Stati Uniti d’America i più sono abituati a votare ogni quattro anni e poi a tacere fino alle prossime consultazioni. In Italia gli sconfitti – di qualsiasi parte siano – cominciano a protestare subito.
Ma in entrambi i Paesi prima o poi si torna a votare e a quel punto certe decisioni avranno il loro peso perché se è vero – com’è vero – che la pace è il bene supremo dal quale tutti gli altri discendono, allora inevitabilmente questo Paese pretenderà un governo pacifista, sinceramente ed esplicitamente pacifista, a prescindere dai simboli dei partiti che figurano nella maggioranza.
E per rinsaldare ulteriormente questi legami non è superfluo ricordare che il pacifismo è nato molto lontano nel tempo e in maniera del tutto aconfessionale fondandosi già allora sulla teoria che la pace consensuale e condivisa sia obiettivo necessario della convivenza umana.
Dico già allora perché bisogna risalire alla seconda metà del XV secolo quando la sua essenza intellettuale fu preparata dalle riflessioni del mondo umanistico e, in particolare da quelle di Erasmo da Rotterdam. Poi il primo pacifismo davvero esplicito nacque tra il XVII e il XVIII secolo, nel clima cosmopolita del razionalismo e dell’illuminismo, e si concentrò attorno alla ricerca di regole giuridiche per la convivenza internazionale con elaborazioni scritte come quella del Progetto per rendere la pace perpetua in Europa, di Claude de Saint-Pierre, del 1713, e di Per la pace perpetua, di Immanuel Kant, del 1795, ipotizzando una serie crescente di accordi per limitare le sovranità assolute dei singoli Stati, ipotizzando un modello federale.
Nel XIX secolo si diffusero in tutta Europa le “associazioni per la pace”, ispirate al pensiero liberale e democratico, che organizzarono congressi (a Londra nel 1843, a Bruxelles nel 1848, a Parigi nel 1849). E proprio in questi ambienti e in queste occasioni maturò alla fine dell’800 l’idea di sostenere il pacifismo nell’opinione pubblica con l’istituzione dei premi Nobel per la pace.
Nell’800 si sviluppò anche un pacifismo di matrice socialista, che si opponeva al militarismo e alla guerra, in quanto manifestazioni delle degenerazioni del capitalismo, mentre una corrente pacifista di ispirazione religiosa si sostanziò, sia nell’ambito cattolico, sia in quello ortodosso nel quale spiccano con tutta evidenza le posizioni radicali espresse da Leon Tolstoj.
A fare sviluppare posizioni convintamente pacifiste in molti ambienti sono state determinanti le due guerre mondiali e la successiva fase della guerra fredda e dell’equilibrio del terrore che è stata esplicitamente stigmatizzata proprio nella Pacem in terris. Il pacifismo cattolico del XX secolo è cominciato con la rivoluzionaria ripulsa della prima guerra mondiale definita «inutile strage» da papa Benedetto XV, e si è poi sviluppato attraverso varie testimonianze tra cui quelle di Giorgio La Pira, Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, David Maria Turoldo. Quello di ispirazione marxista si è esplicato soprattutto con una netta opposizione alle politiche e alle strategie dei governi occidentali nella guerra fredda.
Altre correnti pacifiste, poi, si sono imperniate sulla non violenza di ispirazione gandhiana, oppure sulla ricerca di tecniche per la limitazione degli armamenti, o sulla critica ai rischi connessi alla proliferazione degli arsenali atomici in collegamento con le istanze dei movimenti ecologisti.
Ora tutte queste tendenze si sono unite e sarebbe un peccato capitale lasciarle disperdere di nuovo perché questa unione è la vera unica chiave per riuscire a realizzare l’utopia.
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