Cosicché se qualche Wayta non verrà come è suo dovere, il portinajo sostituisca altro in suo luogo e nel corso dei susseguenti otto giorni a colui che era tenuto a fare la detta Wayta li levi pegno per l’importo di due denari; se per la Schyrawayta, il doppio. … Alla Porta Brossana siano esenti dal far la Wayta la casata del maestro Giovanni, … la casata del fu Marinutti di S. Giorgio, perché deve fare il muro alla Porta Brossana ed atterrare i castelli che vengono presi dal Patriarca … Appartenenti alla Porta Brossana … erano otto di S. Giorgio…”1.

La diffidenza della Città di Cividale verso il Signore Giovanni di Villalta-Urusbergo era pienamente giustificata, poiché il castellano era considerato un feudatario che accoglieva i fuoriusciti e dalla Città e dal Patriarcato. A proposito, il Nicoletti ci riferisce quanto avvenne il 15 settembre 1331.
“Precogna e Bernardo di Spilimbergo, Giovanni di Villalta ed altro loro fautori riscaldati dalla natura e dall’habito piegato al male, et dall’affetto vendicativo de’ Fuoriusciti, poche hore dinanzi il giorno appoggiando le scale a’ muri occuparono il borgo di Ponte della Città, et rotto le porte, et introdotta una mano di rustici non meno avari, che sanguinosi, con improvviso spavento commossero le viscere de’ miseri Cittadini, che destati dal rumore videro dolenti le sostanze loro rapite dalla violenza, et essi da una parte degli occupatori tirati dal letto si trovarono strettamente imprigionati nella Torre di Salomone Picolomini, nobile nostro. Mentre che un’altra parte, facendo riparo all’audatia, in capo del ponte del Natisone, drizzata una trincea con un monte di boti di corpo largamente capaci, cercasse mantenere il borgo occupato.

Del che accorti quei della Città, producendo dallo sdegno et vergogna, subito consiglio, et ardire, armati s’apprestarono al Ponte. Ivi il tiro continuo delle balestre di smisurata grandezza offese l’una e l’altra parte. Né però seguì altro effetto narrabile, se non quando gli occupatori, per troncar ogni speranza a’ Cittadini di recuperar l’occupato, gittarono sopra il Ponte, che allora era di legni unitamente da tutte le due rive congiunti, pece, oglio e strame, acioché quella materia secca concependo il foco rovinasse il passaggio, et l’opera di molti denari e mesi. Perché allora i Cittadini invigoriti nel maggior pericolo sprezzate le fiamme già accese, e gettato a terra il forte, passando oltre il Ponte spogliarono del possesso iniquo i nemici, e frettolosamente li cacciarono fuori del qual; molti col ferro deposto violentemente uccisi fecero fede, ecc. del terrore e tremore di una tanta briga”1.

Dalle discordie intestine e dalle guerre fra loro combattute nacquero il depauperamento delle loro finanze e l’indebolimento del Patriarcato. Così, la protervia dei grandi e la nomina del Patriarca avocata dal Pontefice, crearono una frattura all’interno del Patriarcato. Alcuni Signori trattavano il Patriarca come un forestiero contro il quale bisognava stare in guardia; altri, invece, lo vedevano come un punto di riferimento per salvaguardare diritti da loro acquisiti. In questo clima di contrapposizione il 17 dicembre 1332 moriva nel Castello di Udine il Patriarca Pagano. Di lui il Bianchi scrive che morì dopo aver retto con molto senno per anni 13, mesi 8 e giorni 2 un intricatissimo governo2.
Nell’attesa di un nuovo Patriarca non mancarono momenti di tensione tra il conte di Gorizia e alcuni feudatari per l’attribuzione di alcuni feudi e delle loro attinenze.

Si giunge così all’8 luglio 1334, data in cui da Avignone, Francia, il Papa Giovanni XXII nomina Patriarca di Aquileia Bertrando di San Genesio, invitandolo a partire al più presto per la sua nuova sede.
Conscio della situazione del Patriarcato, delle lotte tra feudatari e delle diffidenze di questi verso il conte di Gorizia, il Patriarca Bertrando convocò il 4 luglio 1335, a Udine, il Parlamento Generale. Tra i convocati c’erano anche Giovanni di Villalta-Urusbergo e Odorico di Villalta. Nel corso dell’assemblea, dopo aver ricordato lo stato di degrado in cui versava il Friuli a causa delle guerre intesine, e volendo dare sicurezza alla popolazione, propose di costruire un esercito armato di cittadini liberi e ministeriali e la divisione del territorio patriarcale in cinque quartieri. “Il primo quartiere sia la Città di Cividale con tutto ciò che è fra il fiume Torre ed il Judrio, con tutta la Schiavonia e i Colli; sia capitano di questo Filippo de Portis, per il primo mese soltanto e suoi consiglieri Giovanni di Cuccagna e Ermanno d’Altemps…”1.

Con i nuovi ordinamenti stabiliti dal Patriarca, il 30 novembre 1335 si insediò in Cividale il Magistrato dei Giudici dei Malefici. Quest’organismo fu istituito per porre rimedio al gran numero di delitti che venivano commessi e per evitare le continue discordie che si verificavano sia nella Città sia nel territorio circostante.
Nonostante il rinnovamento del Patriarcato, il Signore di Villalta-Urusbergo non abbandonò la sua intenzione di unificare il patrimonio dei Villalta a quello di Urusbergo. Il 18 dicembre 1342, alcuni suoi parenti del ramo dei Villalta-Caporiacco vendettero tutta la loro parte del Castello di Urusbergo, compreso il terreno fuori della mura, case, sedimi, ecc.2.
Non molto tempo dopo, il 24 maggio 1343, Rambaldo e Federico q.m D.no di Caporiacco vendettero a Giovanni di Villalta di Urusbergo per 15 marche di denari la loro parte del castello e del borgo di Urusbergo3.

Giovanni di Villalta-Urusbergo, sebbene avesse cercato in ogni modo di possedere tutto il castello, non ebbe la gioia di veder realizzate le sue ambizioni. Sentendo prossima la fine, fece testamento e il 5 dicembre 1343 morì4. Venne sepolto nella Chiesa di Santa Maria Maddalena dei Frati Minori in Villalta. Il Patriarca Bertrando, nel martedì 16 dicembre 1343 in Aquileia, nominò alcuni procuratori con l’incarico di prendere possesso dell’eredità lasciata da Giovanni di Villalta-Urusbergo5.
A seguito della morte del Signore Giovanni di Villalta-Urusbergo, il 13 novembre 1344 alcuni parenti, Nicolusso e Simone, figli del fu Federico (1310), Nicolusso figlio del fu Odorico (1341), Mainardo figlio del fu Indruccio (1334), nella chiesa di Santa Maria Maddalena in Villalta, contrattarono con il Signor Giovanni, nobile della famiglia Cucagna, essendo questi procuratore di GioFrancesco e di Bartolomeo, figli del fu Giovanni di Villalta-Urusbergo, di vendere la loro parte sita nel castello e gli altri beni circostanti in Urusbergo ai figli del defunto Giovanni.

Tutto doveva essere portato a compimento in un tempo stabilito. Trascorso il 21 novembre del medesimo anno senza aver raggiunto un accordo, gli stessi parenti nominarono due procuratori perché si recassero in Urusbergo a rinnovare l’offerta al nobile GioFrancesco. Il 4 dicembre 1344, gli incaricati si presentarono al castello di Urusbergo. GioFrancesco li accolse all’ingresso del maniero. Udite le proposte dei messaggeri, rispose, con atteggiamento presuntuoso, di non essere alla conoscenza che i Signori di Villalta fossero possessori di certi luoghi del castello, né all’intorno, né in villa. Solamente ad una dimostrazione di proprietà e dei loro diritti ci avrebbe pensato1.

Questa risposta arrogante causò lunghe e ostinate controversie tra i parenti. Il Patriarca Bertrando intervenne per tentare di appianare ogni divergenza e ogni contrasto nell’esecuzione testamentaria del padre Giovanni. In questo clima GioFrancesco cacciò in malo modo dal castello di Urusbergo la madre Sofia, parente dei nobili di Cucagna. Come conseguenza, su ordine del Patriarca, il conte venne preso e rinchiuso in prigione, da dove riuscì a fuggire grazie all’aiuto di persone fidate e a ritornare nel proprio castello, che fortificò ulteriormente. Favorito da tale opera e dalla posizione strategica in cui si trova il castello, il Villalta iniziò in vari modi ad infastidire i Patriarcali. Questi, ben armati, anche con parecchi composti di una serie di carrucole fisse e mobili per sfondare le mura e permettere l’ingresso nel castello, tentarono più volte di conquistarlo. Dopo alcuni giorni di continui assalti, non ottenendo alcun risultato per la posizione strategica del castello difeso valorosamente da soldati alle dipendenze di GioFrancesco, i Patriarcali furono costretti ad abbandonare l’impresa ed a ritirarsi.

GioFrancesco, per dimostrare la sua indipendenza dal Patriarca, ebbe la temerarietà di recarsi in città, a Cividale, provocando ovunque danni, comprese le proprietà delle Monache Benedettine site nella zona materialmente chiamata Sanguarzo. In città, il conte pubblicamente si appellò al Papa per protestare contro le sentenze inflitte nei suoi confronti dal Patriarca e per domandare che Bertrando rispettasse le molteplici promesse fatte dal suo predecessore Wolfger di Ellebrechtskirchen ad Enrico il Vecchio di Villalta (@1250) e accusando il Patriarca di non osservare la giustizia e di conseguenza di essere un pastore parziale1.

Gli atteggiamenti di GioFrancasco di Urusbergo dimostrano quanta prepotenza caratterizzasse tutta la sua persona. Con i suoi masnada, infatti, molestava continuamente la comunità di Cividale, usando armi da fuoco che, secondo il Corioni, vennero usate per la prima volta il 15 settembre 1332.
La sua prepotenza si manifestava anche con l’opposizione al Patriarca, per cui venne considerato un feudatario fedele al conte di Gorizia. A conferma di ciò vi è l’accordo stipulato assieme ai figli, Tolberto, Matiusso e Giovanni, con il conte di Gorizia: concedergli libero accesso, per 10 anni, ai suoi castelli2.

Non mancarono tensioni e scontri d’arma, dato che si faceva sempre più diffuso il malessere sia tra la popolazione che tra i feudatari, tra i quali c’erano sia sostenitori che avversari del Patriarca. Il risultato di questa difficile situazione sfociò in un incontro dei nobili di Cividale nel salone del palazzo De Portis. In tale circostanza venne espresso un giudizio negativo sull’operato del Patriarca e fu quindi deciso di ucciderlo. Mentre Bertrando ritornava da una missione, presso San Giorgio della Richinvelda, venne assalito e ucciso da alcuni congiurati. Era il 6 giugno 1350.

Per comprendere meglio la situazione in cui versava il Friuli in quegli anni, è opportuno trascrivere quanto conservaro nella collezione del conte Pietro di Montereale: “Anno Jubilei MCCCL, indictione tertia, die sexto iulii. Patriarcha Bertrandus mortus fuit inter Rausedum et Barbeanum per gentem comitis de Goritia mediante illis de Civitate Austriae et illis de Villalta, iis omnibus venientibus furtive Spilimbergum, tractatu quorundam Dominorum de Forojulio; sed taceo pro meliore mei”.
Non mancarono usurpazioni di diritti da parte dei feudatari e neppure accordi per la supremazia di un casato su un altro. Infatti GioFrancesco di Villalta-Urusbergo e Vecciglio di Caporiacco favorirono matrimoni tra i servi e le serve delle loro masnade3.

Con la nomina del nuovo Patriarca di Aquileia, nella persona di Nicolò di Lussemburgo, non ci furono grandi mutamenti nei rapporti con i feudatari che, legati al conte di Gorizia, cercavano di sganciarsi dall’autorità patriarcale. In questo contesto muore GioFrancesco, nell’anno 1360.
I figli, Giovanni, Tolberto e Matiusso, nel castello di Urusbergo, convennero di dividere il patrimonio del padre GioFrancesco e quello della madre. A Giovanni toccò in sorte il castello di Villalta con le pertinenze e i diritti, eccetto il garito, che doveva essere comune ai tre fratelli; a Toloberto e a Matiusso, con i diritti e le pertinenze, spettò il castello di Urusbergo, eccetto il garito e le masnade, sia maschie che femmine e i loro peculii, che dovevano essere in comune a tutti e tre i fratelli1.
I tre giovani non mutarono i loro atteggiamenti nei riguardi del Patriarca Nicolò, dal quale rivendicavano l’autonomia. Per conseguire il loro obiettivo, decisero di porsi sotto la custodia dei duchi d’Austria. In seguito all’accordo furono inviati dei soldati sotto il comando del conte Cili. Per indebolire il Patriarca, i nuovi arrivati coniarono monete false, distrussero i raccolti e cercarono con ogni mezzo di contrastare l’azione dei De Portis, difensori dei diritti delle Benedettine di Santa Maria in Valle nel territorio di Sanguarzo.

I cividalesi, per porre fine ai soprusi dei Villalta-Urusbergo, raccolte tutte le forze possibili, assediarono il castello di Urusbergo. L’assedio si protrasse per dodici giorni, con alterne vicende e con vittime da ambo le parti. Infine, il 21 settembre 1364, il capitano austriaco si arrese, dopo aver ottenuto l’incolumità di tutti i combattenti. Il castello venne atterrato sino alle fondamenta e il materiale trasferito a Cividale per restaurarne le mura2.
Dopo questi fatti Tolberto si ritirò presso il fratello Giovanni nel castello di Villalta. Sposato con Caterina di Francesco da Colloredo, morì nel 1372 senza discendenti. Matiusso, dopo la distruzione del castello di Urusbergo, ottenne dal conte di Gorizia la villa di Versa3. Egli aveva avuto due mogli, Nida di Nicolò di Villalta e Caterina di Francesco della famiglia dei Savorgnan, dalla quale ebbe il figlio Matiusso. Questi fu l’ultimo discendente dei Signori di Villalta-Urusbergo, morto nell’anno 1406.

Alcuni avvenimenti, come l’interdetto in cui incorse la città di Cividale e il suburbio, la repressione dei congiurati con la morte orrenda del figlio di Filippo De Portis, Francesco, contribuirono ad aumentare ulteriormente le divisioni tra nobili e nobili, tra popolani e popolani, con il risultato di esacerbare gli animi alimentando lo spirito di vendetta. Un segno della grave situazione in cui versava il Patriarcato è la morte tragica del Patriarca Giovanni, ucciso sulla soglia del castello di Udine per mano di Tristano Savorgnan. Il Parlamento della Patria, la città di Cividale ed alcuni Comuni chiesero l’intervento del Papa Bonifacio IX, che rispose inviando alla sede patriarcale friulana il romano Antonio Caetani. Il suo Patriarcato fu caratterizzato da un periodo di pace e di serenità per il Friuli in generale. Per la città di Cividale, invece, vi furono avvenimenti dolorosi, che coinvolsero tutte le comunità della periferia, compresa Sanguarzo. La gente si sentiva oppressa, perché esclusa dalle decisioni prese unilateralmente dal Consiglio e sopraffatta dalla precarietà economica e dalla miseria conseguente, dovuta allo scarso interesse dimostrato dalle autorità per favorire il commercio.

In questo contesto, nell’anno 1404, i popolani si sollevarono; entrarono in città e depredarono le case dei nobili. Non soddisfatti di quanto accaduto, gli insorti decisero di occupare le residenze dei maggiorenti. La vendetta non tardò. I nobili, sostenuti da alcuni castellani corsi in loro aiuto, aprirono le porte della Città. I popolani, che erano rimasti a custodia delle case dei nobili, furono colti di sorpresa e, fatti prigionieri, furono decapitati.

Nel contempo, dopo le dimissioni del Patriarca Caetani, Bonifacio IX inviò, quale Patriarca, il vescovo di Concordia, Antonio Pancera. Questi iniziò la sua azione pastorale favorendo la politica di Venezia e, di conseguenza, le aspirazioni di supremazia della città di Udine e della potente famiglia Savorgnan, filoveneziana. La città di Cividale, sentendosi esclusa da alcune importanti decisioni, fece istanza ad Antonio Pancera perché ripristinasse i diritti acquisiti con il Patriarca Marquardo sia su Tolmino sia sui proventi doganali della strada del Predil.

Le ripetute richieste non ebbero seguito. Il Consiglio della Città, allora, fece presente la propria condizione al Papa Gregorio XII. Il Patriarca, schieratosi con i nemici del Pontefice, venne sostituito da Antonio Da Ponte, vescovo di Concordia. Questi cercò in ogni modo di stabilire, ma inutilmente, un rapporto di equilibrio. La scelta del Papa, di convocare in Cividale un Concilio, riaccese le animosità dei sostenitori della politica veneziana. Nonostante i molteplici e palesi tentativi di impedire al Papa Gregorio XII di raggiungere Cividale, il 6 giugno 1409, festività del Corpus Domini, il Concilio fu aperto, ma, per le divergenze in seno al Patriarcato e per l’azione degli antipapi, si tennero solamente tre sessioni, conclusesi il 5 settembre dello stesso anno.
I comportamenti delle diverse fazioni nell’ambito patriarcale si ripercossero in modo assai rilevante sulla popolazione dedita ai lavori agricoli, alla conduzione dei pascoli e alla prestazione di servizi ai nobili. I popolani erano condizionati in tutto, anche nella propria famiglia, perché si vedevano bruciati i raccolti e depredati del poco bestiame che possedevano, talvolta venivano imprigionati senza motivo o costretti a mettersi al servizio di un altro padrone.

Non migliore era la situazione delle famiglie di Sanguarzo che lavoravano alle dipendenze del Gastaldo del Monastero delle Benedettine di Santa Maria in Valle di Cividale. Gli abitanti del contado, oltre a subire le conseguenze delle calamità naturali, erano costretti a difendere perfino l’abitazione e a subire spesso, ritornando dai mulini, angherie e il furto del proprio macinato. Come se questo non bastasse, in determinati periodi, persone scelte a caso erano obbligate a prelevare e a trasportare, con i propri mezzi, a Cividale le pietre del Castello di Urusbergo, che venivano utilizzate per il ripristino delle mura della città.
La nomina a Patriarca di Lodovico di Teck, cognato del conte di Ortemburg, portò un po’ di speranza nel miglioramento delle proprie condizioni di vita alle popolazioni fino allora duramente provate.

Il 12 luglio 1412, con grande sfarzo ed alla presenza del Parlamento della Patria, il nuovo Patriarca ricevette l’investitura nel Duomo di Cividale. Il Leicht a proposito commenta che “fu l’utima grande cerimonia del Sacro Romano Impero svoltasi in Friuli” e il Grion “l’ultima volta che Cividale figurò capitale di diritto e di fatto del Friuli”.
L’imperatore d’Ungheria Sigismondo aveva promesso una politica più attenta per Cividale e il suo territorio, di conseguenza stipulò con Venezia un accordo in base al quale le Serenissima rinunciava ad ogni aspirazione sulla città. Cividale non essendo in grado di fronteggiare le minacce della potente repubblica veneta, decise di venire con essa a patti, anche perché tra la popolazione si stava diffondendo un certo malessere causato dalla scarsità dei raccolti e dalle continue privazioni a vantaggio dei combattenti impegnati nelle frequenti lotte.

Nel 1419, il Patriarca Lodovico di Teck cercò di sollevare le sorti del territorio con vari provvedimenti, ma inutilmente, perché dovette fuggire in Germania, sperando di ottenere degli aiuti. Il 6 giugno 1420 anche Udine si sottometteva alla repubblica di San Marco. Lo spodestato Patriarca, Lodovico di Teck, nel 1422, con un forte esercito invase il territorio cividalese, ma per la pronta reazione dei Veneziani fu costretto a desistere dall’impresa e a ritirarsi. Ritornò, tuttavia, nel 1431, con un numeroso esercito Ungherese con l’intento di riconquistare il territorio del Patriarcato e dopo aver occupato varie zone del cividalese, si diresse verso Udine. I Veneziani, appoggiati dalla cavalleria del conte di Carmagnola, costrinsero l’esercito del Patriarca a ritirarsi. Nel 1439, Lodovico moriva a Basilea.

La vittoria conseguita sul Patriarca Lodovico di Teck ebbe gravi conseguenze nel cividalese, sia per le distruzioni causate dai combattimenti, sia per le atrocità commesse nei confronti delle popolazioni inermi dagli Ungheresi e da parte dei Veneziani.
La conquista veneziana definitiva sancì la fine del Patriarcato, perché il nuovo Patriarca, Lodovco Trevisan, venne a patti con Venezia e nel 1445, con il consenso dei Capitoli di Aquileia, di Cividale e di Udine, rinunciò a favore di Venezia a tutti i diritti di principe temporale dal Patriarcato.

La Serenissima, desiderosa di aumentare il proprio prestigio e temendo un risveglio delle richieste di autonomia del Patriarca, chiese, senza successo, al Papa Paolo II di sopprimere il Patriarcato e di sostituilo con due vescovadi, uno a Cividale ed uno a Udine.
Il Direttore Generale del Museo di Vienna, J. Von Zahn, a seguito di una sua visita in Friuli, pubblicò nel 1884 “I Castelli Tedeschi in Friuli”, in cui si legge quanto segue: “ … la illegalità, l’amor delle risse e il disprezzo di ogni autorità sono stati un mal così diffuso tra i nobili in Friuli … dal sec. XIII fino al tempo in cui la Signoria di Venezia abbatté il Patriarcato e strinse i polsi ai selvaggi feudatari: allorché il Leone di San Marco chiuse la ferocia Aquila Friulana in gabbia e su vi tenne saldamente la sua zampa, allora soltanto ritornò la pace e l’ordine nel paese”1.
Gli anni che seguirono furono contraddistinti dalla continua ricerca di migliorare l’economia, entrata in crisi a causa delle lotte tra famiglie al servizio di nobili tra loro rivali e delle guerre tra il Patriarca e le emergenti potenze, desiderose di estendere il proprio dominio sul territorio.

Le popolazioni locali, come tante altre del pago cividalese, mentre cominciavano a godere di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, dopo tanti sacrifici, furono colpite da un forte terremoto. Era l’anno 1448. Se Cividale dovette constatare rilevanti danni sia ai palazzi che al Duomo, possiamo solo immaginare in quale situazione dovevano trovarsi Sanguarzo e i dintorni. Oltre alla distruzione delle case e alla perdita dei beni, la popolazione dovette far fronte anche alla siccità ed alla morte, per infezione, del bestiame; ciò causò l’emigrazione di molte famiglie verso il Veneto.

Lo spirito indomito della popolazione rimasta in loco ideò una nuova toponomastica, che diede origine, negli anni seguenti, ai vari borghi: Sanguarzo, Sopravilla Ponte, Gradois, Guspergo.
La tranquillità in cui viveva la gente, ripresasi dalle difficoltà, venne bruscamente interrotta nell’anno 1472 dall’invasione dei Turchi. Superate le prime difese, gli invasori si portarono fin sotto le mura di Cividale, razziando e devastando il suo territorio. I danni riportati dal contado furono ingentissimi. Cividale dovette organizzare nuove difese per contrastare le continue scorrerie turche, che si ripeterono nel 1477 e nel 1478 per concludersi, con ancora maggiori danni nel 1499.

Non erano ancora cessati i pianti per i lutti e per le distruzioni recati dai Turchi, che scoppiò una contesa tra Venezia e la casa d’Austria. Fu l’inizio di una lunga guerra che travagliò il Friuli, specialmente nel 1509, quando gli imperiali, dopo aver sconfitto i Veneziani nella Ghiara d’Adda, al comando di Massimiliano si mossero verso il Friuli, con l’intento di occupare Cividale. La città venne circondata. Si può immaginare la situazione in cui venne a trovarsi Sanguarzo, quando il Duca di Brunswich pose il campo nei pressi del paese, prima di muovere all’attacco della città. Dalla collina presso Zuccola, l’artiglieria attaccò Cividale con un violento e prolungato fuoco. Alla forza degli imperiali i locali non poterono rispondere che con scarse milizie. Gli aiuti giunti da Udine non bastarono. Gianpaolo Gradenigo, infatti, venne sconfitto con i suoi soldati sul torrente Ellero. Cividale, senza speranza di ottenere altri aiuti ed invitata ad arrendersi, resistette validamente con l’aiuto della popolazione della città e del circondario. Il combattimento violentissimo durò due giorni. Gli imperiali, visti vani i loro sforzi e constatato l’alto numero dei soldati morti e la popolazione ostile, si ritirarono ripiegando verso Gorizia.

Era ancora viva la gioia per la vittoria riportata sugli Austriaci, quando il flagello della peste e un nuovo terremoto, anno 1511, colpirono la città di Cividale e il suo contado; a ciò si aggiunse l’occupazione austriaca di Cividale, che costrinse gli abitanti ad abbandonare le loro case; vi fecero ritorno nel febbraio 1514 e riconsegnarono il proprio territorio alla Serenissima. Se furono gravi i danni politici subiti dai cividalesi per la perdita dei possessi di Tolmino, di Plezzo e delle miniere di Idra, non meno gravi furono i danni riportati dalla popolazione di Sanguarzo e del contado, poiché vennero meno gli scambi di merci con i vicini e la popolazione fu costretta e a rivolgersi verso il Veneto per la vendita dei propri prodotti agricoli.

Nel 1553 Venezia, con la nomina del Provveditore, Zaccaria Barbarigo, sospese tutti i poteri del Consiglio cittadino, attribuendoli al Provveditore. Cividale con il suo suburbio risentì le conseguenze di tale provvedimento che ne limitava l’autonomia e la libertà. Sanguarzo per sopravvivere dovette ripiegare sull’agricoltura e sulla pastorizia. Certe famiglie, non possedendo appezzamenti di terreno adatti al pascolo, si servivano abusivamente della proprietà comunale, cioè dei terreni che un tempo erano stati dei Villalta-Urusbergo. Le conseguenze furono gravi, poiché i trasgressori dovettero non solo pagare delle multe, ma anche subire dei processi seguiti da alcuni giorni di prigione.
Una serie di fattori favorevoli, quali le sorgenti utilizzabili per l’irrigazione e la posizione ottimale per lo scambio di prodotti agricoli, facilitò lo sviluppo dell’agricoltura su un vasto territorio. Si ampliarono le abitazioni e si costruirono edifici nuovi, non solo per uso agricolo, ma sorsero anche case patronali con giardino.

Il godimento di un certo benessere procurato sia dal lavoro autonomo sia dalla mezzadria, cambiò il modo di vivere della gente. Non c’era solo il desiderio di migliorare il lavoro dei campi o la condizione di vita, ma anche quello di partecipare alla gestione della cosa pubblica. Nel momento in cui l’aspirazione del popolo di prendere in mano la propria vita e di essere rappresentato nell’arengo era maggiormente sentita, nel 1588 Venezia sopprimeva tale istituto. Solamente alcune famiglie ebbero il privilegio di far parte del Consiglio cittadino, previa autorizzazione del Provveditore, che presiedeva personalmente le sedute. Priva di un’organizzazione autonoma, Sanguarzo con il suburbio cividalese si sentì emarginata; la situazione fu aggravata dalla peste del 1599. Superata la prova, la popolazione, confortata e sostenuta dai principi del Concilio di Trento, sentì il desiderio di unirsi per essere maggiormente rappresentata sia nell’ambito civile sia nella comunità cristiana.

SAN FLOREAN

T’un cjamp di fèn
cà e là baràz
quatri scjalins
un mûr di clàs…
une glesiute
‘ne cjampanute…
su’nt’une piere
un nòm, un àn…
Ce pâs intôr!
San Floreàn…

“Dài… pìche, pìche… c’ò sìn a bòn!”
“Jè Juste a square”… “Cà tal cjantòn…”
“Tègnino i càncars?”… “Ciòl su i diurìnç…”
Jerin in quatri, o ben in vinç?
Un marangòn… un muradôr…
Un pichepiere… Cui sa di lôr?
E àn fàt pal Sant, martir cristiàn
muàrt a Lauriacum, sot Diocleziàn,
une “cjasute” dongie Sanguârz…
e tôr a tôr il puèst pai muàrz…
Mi par di viòdiu quand che sot sere,
passànd di cà, dîs ‘ne prejere:
son là che pòlsin, sintâs, cidîns,
un dongje l’altri, su chei scjalìns

T’un cjamp di fèn…
cà e la baràz
une glesiute
un mûr di clàs…
su’nt’une piere
un nom, un àn…
Ce pâs intôr!
San Floreàn…
Franco Musoni