PERIODO LONGOBARDO
È il V secolo d.C. Per salvaguardare le frontiere del nord-est dell’Impero Romano fu costruito il “Vallo delle Alpi”, allo scopo di garantire difesa da eventuali invasioni barbariche. Nonostante l’apparato difensivo, le orde premevano sempre ai confini. Tra il 401 e il 408, Alarico con i suoi Visigoti e, dopo circa quarant’anni, nel 452, Attila con gli Unni invasero il territorio.
Il loro ingresso avvenne lungo la via romana “Iulia Emona” (Lubiana), verso Aquileia, per poi procedere per Concordia e Altino.
Per la posizione geografica e per la sua struttura di centro fortificato, che offriva poca possibilità di bottino, Forum Iulii e il suo agro non subirono le conseguenze derivanti dal passaggio dell’orda distruttrice. La città, rimasta indenne, diventò e si affermò sempre più come centro politico ed economico. La prova di questo cambiamento, come rileva il Leicht, fu il trasferimento della sede del governatore della Venetia e dell’Histria a Forum Iulii. Di conseguenza si pensò ad una linea di difesa mediante i “castra e i castelli”. Le nuove difese, a salvaguardia del territorio, non valsero, però, ad impedire l’invasione longobarda.
Nella primavera del 568, i Longobardi, sino allora stanziati in Pannonia e temuti per la loro ferocia, irruppero nel Friuli. Le orde non erano composte solo da Longobardi, sotto il comando del re Alboino, ma anche da Gepidi, da Bulgari, da Sarmati e da Svevi1.
L’occupazione avvenne senza difficoltà. I nuovi occupanti portarono con sé le mogli, i figli e tutti i loro averi.
Superate le Alpi, la prima città occupata fu Forum Iulii e il suo agro, da dove gli invasori iniziarono il loro dominio in Italia. Alboino, infatti, entrato senza alcun ostacolo nei confini della Venezia, prima provincia d’Italia, e nel territorio della città, o meglio della fortezza di Forum Iulii, cominciò a pensare a chi affidare il governo della prima regione sottomessa1.
Secondo gli storici la scelta cadde su Gisulfo, suo nipote. Questi, accettando il governo sulla città e sul popolo, chiese al re Alboino di scegliere a sua discrezione alcuni nuclei familiari fra le principali casate longobarde. Così Gisulfo divenne il primo Duca della città. Fidando sulle capacità di governo del nipote, Alboino procedette alla conquista della Venetia, sapendo di aver lasciato alle sue spalle una sicura difesa del territorio appena occupato.
Frattanto Gisulfo iniziò un’opera specifica per favorire il migliore insediamento dei suoi, sia del punto di vista difensivo che da quello di insediamento stabile, nel nuovo contesto territoriale. I Longobardi, sebbene costituissero una percentuale minima della popolazione, dal 5 al 7%, ebbero un peso notevole nella formazione dell’insediamento, basato su “fare”, compagini familiari, viventi in gruppi compatti sia nelle città sia a ridosso delle mura con il controllo delle porte; il capo invece risiedeva nel “praetorium”2.
Questo tipo di insediamento di carattere puramente militare, determinò una netta separazione tra i nuovi arrivati e la popolazione indigena, che divenne tributaria, anche se non privata della libertà personale, e venne gravata da alte tassazioni. Superati i primi momenti difficili dovuti sia alla ricostruzione delle case sia ad un rapporto difficoltoso, non sempre sereno, con gli occupanti, gli indigeni seppero riprendere il loro tradizionale modo di vivere e di operare. Così nel territorio circostante alla Città Ducale sorsero nuclei di insediamenti minori, segnati o indicati con il solo toponimo o qualificati come fundus, casale, curtis, locus, vicus, castrum.
Per castra si devono intendere, più che singole fortezze con funzioni militari, centri abitati muniti di fortificazioni oppure luoghi di rifugio per le genti vicine nei momenti di pericolo.
Il Ducato Longobardo del Friuli ripropose i confini dell’antica regione dei Gallo-Carni. Con il trascorrere del tempo si creò una entità territoriale tale da offrire il motivo per denominare il territorio “Friuli” da Forum Iulii.
Per affrontare e risolvere le diverse situazioni economiche e soprattutto per favorire l’insediamento dei Longobardi sul territorio, l’amministrazione ducale si riservò 1/3 delle terre; il contadino poteva usufruire dei 2/3 rimanenti. Questo cambiamento venne percepito in modo assai negativo oltre che dagli agricoltori anche dagli artigiani, che vedevano compromesse le loro attività. Trascorsi i primi momenti di incertezza, la popolazione locale, sia contadina che artigiana, acquisì un modo di vivere diverso ma dignitoso.
I Longobardi, di fede ariana, ma con usanze pagane, non si accanirono contro la popolazione indigena di fede diversa. Il risultato fu un’identità unica e ciò favorì il nascere di un Ducato autonomo.
Il Duca di Pavia, Agilulfo, per sete di potere, volendo annettersi il Ducato del Friuli, nel 610 permise agli Avari di invadere il Ducato friulano. Cividale con il suo circondario, e quindi anche la zona di Sanguarzo venne devastata ed incendiata. La distruzione fu completa anche nei vicus.
Durante gli anni che seguirono la devastazione e che furono dedicati alla ricostruzione sia delle case che del tessuto sociale, il Ducato mantenne la propria autonomia.
Nell’anno 664, su invito di re Grimaldo, gli Avari invasero di nuovo il Ducato. Il Duca Lupo, che aveva sperimentato durante l’infanzia la loro ferocia, si oppose con tutti i soldati di cui poteva disporre, ma la forza preponderante degli Avari ebbe la meglio, nonostante la strenua resistenza longobarda e la morte del Duca stesso, a cui seguirono incendi e saccheggi. Il re Grimaldo, informato che gli Avari non erano disposti a lasciare il territorio li cacciò dal Ducato1.
Alcuni anni dopo venne eletto Duca di Cividale il vicentino Vettari2. In assenza del Duca, gli Slavi irruppero nel Ducato, in prossimità di Forum Iulii. Al ritorno da Pavia, Vettari, informato dell’accaduto, affrontò gli invasori con un esiguo numero di soldati, ma la capacità strategica del Duca fu tale che egli riportò facilmente la vittoria presso Broxas. Vari sono i pareri circa l’ubicazione di questo luogo. Considerando le vie di penetrazione degli Slavi, la zona più probabile per un confronto armato non poteva che trovarsi tra Ponte San Quirino e Cividale, quindi nella pianura corrispondente all’attuale frazione di Sanguarzo.
Nella successione dei duchi non mancarono ribellioni all’autorità di Pavia, dovute alla rivendicazione della propria autonomia, basata sulla consapevolezza di discendere dalla vera nobiltà longobarda fin dai tempi di Gisulfo.
Nel 706 con il Duca Pemmone iniziò un nuovo periodo di splendore per il Ducato, poiché egli si dedicò prevalentemente al riordino dei costumi e al mantenimento della pace, anche se, per conseguire il suo scopo, dovette più volte combattere con gli Slavi, prima di costringerli alla pace e a temere le armi dei Friulani.
L’opera del Duca Pemmone si infranse per la contesa con il Patriarca Callisto, che aveva la sua sede a Cormons. Questi, con l’appoggio del re Liutprando, si trasferì a Cividale cacciandone il vescovo di Zuglio, Amatore. Per essersi intromesso in una decisione del re, il Duca Pemmone venne condotto al castello di Duino, dove fu soggetto ad una dura prigionia ed in seguito il re Liutprando lo destituì, nominando il figlio Ratchis. Questi governò per sette anni, riportando anche una vittoriosa campagna contro gli Slavi1.
L’azione di Ratchis, volta a dare un nuovo impulso sia economico che politico al Ducato Longobardo del Friuli, portò il Duca a riappacificarsi con il Patriarca Callisto, così i suoi sette anni di reggenza furono segnati da una fioritura artistica e, per la stabilita del governo, dalla nascita di una rete commerciale tale da garantire benessere economico ai cittadini. Tale prosperità si fece sentire anche nell’ambito dell’agro nord della Città Ducale con lo sviluppo di nuovi insediamenti, con un maggior incremento della agricoltura e con la costruzione di mulini lungo le sponde del fiume Natisone.
Ratchis, uomo di fede e di una forte sensibilità cristiana, fu promotore di restauri di chiese nei centri popolati e della costruzione di nuovi edifici in zone periferiche in cui la popolazione era priva di luoghi di culto adeguati.
Per le capacità dimostrate nel reggere il Ducato, nel 744 Ratchis venne eletto re d’Italia, ma, dopo una probabile congiura di palazzo, nel 749 si ritirò a vita religiosa. Anselmo, succeduto al Duca Ratchis, ne seguì le orme nella conduzione del Ducato. Uomo responsabile e di fede, resse l’incarico perseguendo una politica filoromana. Per questo fu costretto a dimettersi e a ritirarsi a vita monastica. Ciò gli permise di fondare le abbazie di Fanano (Modena) nell’anno 752 e quella più illustre di Nonantola (Modena) nell’anno 753.
Così tra alterne vicende di palazzo e senza gravi mutamenti nella vita del Ducato, venne eletto Duca Ritguado. Questa nomina coincise con avvenimenti tali da provocare il declino del regno dei Longobardi in Friuli. Lo splendore dell’arte longobarda, alimentata e nutrita dalla cultura latina andava decadendo sempre più a causa delle condizioni politiche non serene. Durante il Ducato di Ritguado, Carlo Magno, su invito del Papa Adriano I, venne in Italia e, dopo aver espugnato Pavia e Verona, pose fine al regno longobardo e si proclamò loro re.
I Ducati di Benevento, Spoleto, Ravenna e del Friuli, consci di aver goduto sempre di un regime di indipendenza, si ribellarono all’autorità del nuovo sovrano. Il Patriarca di Grado, Giovanni, fece presente a Carlo Magno le rivendicazioni dei Ducati autonomi. Il re con alcune concessioni fece in modo che Benevento e Spoleto rinunciassero alle loro rivendicazioni; il Duca Friulano, rimasto solo, senza alleati e, forse aspirando al trono di Pavia, affrontò l’esercito franco. Nel 776 Rodguado con i suoi exsercitales si mosse da Cividale e incontrò l’esercito rivale presso il fiume Piave. Rodgaudo, con il suo esercito, dopo aver combattuto strenuamente, venne travolto e ucciso1.
Il Ducato Longobardo di Cividale fu soggetto ad una tremenda repressione, che si manifestò sia nel centro che nell’agro. Gli agricoltori, gli artigiani e soprattutto i nobili longobardi dovettero stare alla legge del vincitore: la confisca dei beni e la prigionia. È sufficiente ricordare la sorte del fratello di Paolo Diacono, Arichi, che venne deportato in Francia; i suoi cari furono costretti a mendicare il pane dopo la confisca del patrimonio familiare2.
Un così radicale cambiamento sia politico che sociale, con strascichi di miseria e di odio, viene rimarcato dalla lettera inviata dal Patriarca Sigualdo a Carlo Magno.
Ai duchi longobardi successero i duchi franchi: Massello fu il primo. Nella città come nell’agro, gli uomini di Carlo si sostituirono alla nobiltà longobarda, rendendo difficile il rapporto di convivenza con gli agricoltori e con gli artigiani. Questi ultimi dovettero talvolta sottostare a vere angherie per poter continuare la loro attività.
Paolino di Aquileia, nato, se non a Cividale, nel territorio forogiuliense, da famiglia romana, assoggettata, come tante altre, dai longobardi, compì i suoi studi in Cividale. Dopo la vittoria sul Duca Rotgaudo, Carlo Magno gli donò i beni del longobardo Valdandio di Lavariano. Dal diploma regio si comprende molto bene la posizione politica filofranca dello studioso. Paolino per la sua cultura assai vasta, dalla teologia alle arti liberali, dalla liturgia al diritto, era tenuto in grande considerazione da Carlo Magno, che nel 782 lo convocò ad Aquisgrana e lo nominò membro dell’Accademia Palatina.
Alla morte del Patriarca Sigualdo, nel 787, per volere di Carlo Magno, Paolino venne eletto Patriarca di Aquileia. Durante la sua missione di Patriarca, non mancarono donazioni alla Chiesa e agli uomini di parte franca, così il sovrano si assicurò un completo dominio sul Friuli.
Per la particolare posizione del Friuli, il Ducato fu da Carlo trasformato in contea o marca, con a capo un mark-graf, un marchese, il quale però continuerà a fregiarsi del titolo di duca e avrà la sua sede a Cividale, che, da questo momento, trovandosi a capo della regione più orientale del regno franco d’Italia, muterà il suo nome di Forum Iulii in quello di Civitas Austriae1.
PERIODO DEI PATRIARCHI
Nei primi giorni del mese di agosto dell’anno 899, gli Ungari, condotti dal loro re, Arpad, attraversarono le Alpi Giulie, percorrendo le vie battute dai precedenti invasori. Per queste genti provenienti dalla Pannonia il cammino più facile fu attraverso il valico del Preval e la via romana. Seguendo tale itinerario, lasciarono a nord Cividale e a sud Aquileia. Le due città ducali non subirono distruzioni, morti e sopraffazioni, come nelle precedenti incursioni degli Avari nel 610 o come avverrà nelle seguenti invasioni ungariche del 904 e del 952.
Se Cividale fu risparmiata dalla distruzione, i ripetuti attacchi degli Ungari spopolarono le zone prive di difesa i cui abitanti furono uccisi; chi ebbe la possibilità di fuggire trovò rifugio presso posti sicuri, come in Cividale e nel suburbio.
Le persone valide vennero trasferite come schiavi in Pannonia. Lo spettro della fame si diffuse ovunque. Dopo l’abbandono delle campagne, conseguenza delle razzie subite, cessarono i commerci ed i traffici lungo le vie principali. Tale situazione di miseria e di degrado provocò anche la scomparsa delle attività artistiche, che fioriscono soprattutto in periodi sereni.
Dopo tanta sofferenza venne il tempo della rinascita. Nel 952, il re di Sassonia, Ottone I, inviò Enrico, duca di Baviera e di Carinzia, a opporsi all’orda devastatrice degli Ungari. Dopo duri scontri, il duca riuscì a sconfiggerli e li inseguì sin nelle loro terre. La vittoria non portò solamente pace e serenità alla popolazione, ma, soprattutto, permise una ripresa economica grazie al rinnovato interesse per l’agricoltura, la pastorizia, gli scambi commerciali e ad un nuovo assetto di alcuni centri, dovuto al ripopolamento del suburbio, opera incentivata anche dal Patriarca con l’accoglienza di agricoltori slavi.
La marca del Friuli nel 989 veniva affidata all’amministrazione del duca di Carinzia. Per il Friuli significava la perdita della propria autonomia e del proprio prestigio. Nonostante tale cambiamento, il punto di riferimento in questo contesto storico restò la figura del Patriarca. Persone di ogni condizione trovarono sicurezza, difesa, accoglienza in Cividale e nel suo circondario. Infatti il Patriarca, con il passare del tempo, per il suo prestigio religioso e politico, fu benificato da donazioni e da privilegi: Carlo Magno nel 792; Lodovico il Pio nell’824; Berengario I nel 904 e nel 921; Ugo dona Concordia nel 928 e Muggia nel 931; altre concessioni si aggiunsero ai beni della Chiesa di Aquileia con il diploma dell’imperatore Enrico IV del 3 aprile 1077. Con tale atto, il Friuli si staccava sia dalla marca veronese sia dal Ducato di Carinzia e, dopo alterne vicende, ritrovava la sua autonomia amministrativa e territoriale sotto la giurisdizione del Patriarca, vassallo dell’imperatore. Questa fu l’origine del feudo patriarcale del Friuli.
Il Patriarca, quale metropolita di Aquileia, dipendeva direttamente dal Papa e riceveva l’investitura canonica nella basilica aquileiese, invece, quale vassallo dell’imperatore, riceveva il potere temporale in Cividale. Tale potere comprendeva il diritto di legiferare nell’ambito del territorio, di giudicare e sentenziare nelle cause civili e penali, di imporre e riscuotere imposte, di coniare moneta e di predisporre anche un esercito per la difesa del territorio. Per questi poteri, il Patriarcato assunse un aspetto nuovo sia per la difesa sia per l’amministrazione, in grado di operare per il bene della popolazione, garantendole un discreto tenore di vita grazie agli scambi commerciali.
Negli anni tra i secoli XI e XIII, per garantire la sicurezza del territorio, si procedette all’ampliamento ed alla riparazione dei castelli ancora esistenti, alla ricostruzione di quelli distrutti dagli invasori e anche all’edificazione di nuovi.
Quest’ultimi vennero affidati a nobili e a persone che godevano della fiducia dell’imperatore o del Patriarca per i servizi loro prestati. Abitare in un castello per investitura imperiale o patriarcale, oppure possederlo, comportava prerogative giurisdizionali, civili e militari.
L’aspetto giurisdizionale-militare si estendeva non solo all’interno delle mura del castello, ma anche all’esterno, per uno spazio che solitamente veniva esposto nell’investitura del feudo e che poteva variare da 1,5 a 4,5 km.
I Patriarchi investivano i loro fiduciari del feudo non solo perché vi abitassero, proteggessero e coltivassero le terre, ma soprattutto per avere persone affidabili, che collaborassero alla difesa del territorio, e con il potere di trasferire a loro volta dei feudi nobili, esigendo in cambio omaggi dai loro vassalli.
Per equilibrare il potere dei feudatari laici, i Patriarchi investirono di possessi temporali anche gli ecclesiastici, esentandoli dal servizio militare.
I feudi secolari erano di quattro tipi ed erano denominati comunità, liberi, abitatori e ministeriali.
1) Comunità: erano composti di proprietari liberi e coltivatori. Erano rappresentati da un podestà, castaldo o capitano;
2) Liberi: possedevano feudi retti legali, spettanti solo ai maschi;
3) Abitatori: possedevano feudi retti legali, spettanti ai maschi e alle femmine e avevano la giurisdizione con il garrito;
4) Ministeriali: non si differenziavano dagli abitatori, se non nell’atto dell’investitura, in cui venivano indicati loro gli obblighi del loro ministero.
Dopo un breve cenno storico sulla struttura amministrativa del Patriarcato di Aquileia, viene spontanea la ricerca di coloro che furono i beneficiati, sia dal Patriarca sia dall’imperatore, con la concessione dei feudi. La nostra attenzione si concentra su una famiglia: i Villalta.
Nonostante diligenti ricerche non è stato possibile rintracciare documenti, relativi alla provenienza degli avi della famiglia dei Villalta, antecedenti al 1100.
Si ha un primo cenno ai Villalta il 24 marzo 1160, quando “Heinricus de Villalt” è testimone in Villacco alla conferma che il Patriarca Worlico II fece al Capitolo di Gurk della donazione del fu Patriarca Pellegrino di una corte in Aquileia1.
Da altri atti si viene a sapere che Heinricus aveva un fratello. Infatti “Heinricus et Rantulfus frates di Villalta” furono testimoni il 2 febbraio 1176 in Cividale alla concessine del privilegio del mercato che il Patriarca Worlico II fece a quella città2.
Nello stesso anno (1176) Rantulfus e il fratello Enrico, liberi, con Federico di Caporiacco, comparvero quali testimoni in Bressanone alla donazione del conte Engelberto di Gorizia, avvocato della Chiesa di Aquileia, a suffragio dell’anima sua e di quella della sua consorte Adelaida, di un podere a Michelbach alla Chiesa di Santa Maria in Nova Cella, nella diocesi di Bruxen1.
Il 13 aprile 1198, Donna Irmingarda di Sorfenberch e Volfino, suo marito rinunciarono innanzi al Patriarca, che si trovava a Tricesimo, ai beni posseduti da Mattia e da Vargendo di Sorfenberch … Il Patriarca rilasciò loro 150 marche a lui dovute dal detto Vargendo ed investì Irmingarda del feudo che essa aveva avuto dalla chiesa di Aquileia, quando s’era sposata con Enrico di Villalta2. Questo documento, citato dal Guerra, ci fa comprendere che Enrico di Villalta era già morto nel 1198.
Da questi brevi cenni storici si può ricostruire una genealogia dei Signori di Villalta.