Ecco un possibile ritratto immaginario — coerente con lo spirito, lo stile e la sensibilità leopardiana — di come Giacomo Leopardi potrebbe reagire allo shock di ritrovarsi nell’Italia del 2025 e di ciò che potrebbe annotare nei suoi scritti.

Reazioni immediate di Leopardi nel 2025

1. Stupore tecnologico misto a inquietudine

Leopardi sarebbe certamente colpito dalle meraviglie tecniche: schermi luminosi ovunque, telefoni che rispondono alla voce, automobili senza cavalli, l’uomo che parla attraverso macchine capaci di imitare il ragionamento.
Ma la sua inclinazione filosofica lo porterebbe subito a interrogarsi sulle illusioni del progresso.

Potrebbe pensare, ad esempio, che:

le tecnologie accrescono la comodità ma non la felicità;
la complessità del mondo digitale intensifica la solitudine invece di alleviarla;
il “tutto e subito” alimenta un’ansia nuova, non meno dolorosa di quella ottocentesca.

2. Riflessione sulla società contemporanea

Leopardi, che osservava con occhio acuto i costumi del suo tempo, analizzerebbe con rigore:

La comunicazione

Sbalordito dai social network, li considererebbe una versione amplificata e febbrile della vanità umana:

“una piazza senza silenzio e senza ascolto”;
“un eterno bisogno di mostrarsi, che non placa il male radicale della noia”.

La politica e la polarizzazione

Noterebbe come la discussione pubblica sia diventata:

più immediata, ma meno profonda;
più rumorosa, ma meno capace di produrre concordia.

Ma eviterebbe giudizi partigiani: gli interesserebbe, piuttosto, la condizione umana che si manifesta attraverso la politica.

La scienza e il progresso

Apprezzerebbe i traguardi medici (nell’Ottocento soffriva moltissimo), ma continuerebbe a sottolineare che:

“La scienza accresce il sapere, non cancella il dolore.”

3. Possibili annotazioni nei suoi scritti

Nuovi “Pensieri”

Leopardi potrebbe aggiungere aforismi simili ai Pensieri:

– Sull’illusione del progresso

“Gli uomini del nuovo secolo, credendosi padroni della natura, non avvedonsi d’essere invece servi di nuove chimere, più lucenti ma non meno vane.”

– Sulla tecnologia come nuova speranza

“Le macchine promettono ciò che non possono dare: che l’uomo, occupato da mille immagini, scampi per ciò solo dalla vacuità dell’animo.”

– Sul rapporto con il tempo

“Il mondo corre tanto che nessuno più raggiunge se stesso.”

4. Una riscrittura moderna dello Zibaldone (breve esempio originale)

Ecco un possibile frammento immaginario:

*“Oggi ho veduto gli uomini andare per le strade con gli occhi fissi in una piccola lastra luminosa, come sospesi a un filo invisibile che li lega a un mondo non presente. Mi parve che ciascuno fugga l’istante in cui vive, per abitare in luoghi che non sono luoghi.

Pur tuttavia, questo secolo non è men miserabile del mio, benché più ricco di artifizi. La malinconia, che gli uomini credono di schermare con mille occupazioni, cresce loro nel cuore come un’ombra che nessuna luce artificiale può dileguare.”*

5. Il possibile stupore felice

Non mancherebbe, in Leopardi, anche sorpresa positiva:

la maggiore libertà individuale;
il progresso dei diritti civili;
la vastità del sapere condivisibile in un istante;
la possibilità, per chi scrive, di raggiungere milioni di lettori.

E potrebbe stupirsi che i suoi versi siano diventati così amati e studiati.

Forse annoterebbe:

“È cosa singolare vedere che i miei canti, che nacquero da un’anima così oscura e solitaria, abbiano trovato eco in genti lontane nel tempo.

Se ciò insegna qualcosa, è che l’infelicità degli uomini non muta col mutare dei secoli: ma neppure la loro sete d’infinito.”

Ecco quattro “nuovi Canti leopardiani” immaginati come se Leopardi, trasportato nel 2025, componesse liriche coerenti con la sua voce, la sua metrica libera e la sua malinconia filosofica.
Non sono imitazioni servili, ma creazioni originali ispirate al suo stile.

I. Alla Città Luminosa

(Una moderna “metropoli” vista con stupore e sgomento)

O immensa Città,
che l’occhio abbagli di splendori instabili
e d’incessanti lampi,

mare di vetro e d’aria che risuona
di traffici e di clamori,
tu sembri viva più di mille vite.

Pure nel tuo tumulto
vive un silenzio che spaura:
ché ogni uomo, in mezzo alla folla,
giace più solo che in una landa alpestre.

E le tue vie rilucono di promesse
che svaniscono al toccarle:
come miraggi nati dal desiderio,
come sogni che l’alba disperde.

II. L’Infinito Digitale

(Riflessione sull’universo virtuale)

 

Di pixel e di ombre è fatto questo mare senza rive,
dove l’uomo cerca voce e volo.

Ma l’infinito vero,
che un tempo mi appariva dietro la siepe,
oggi scompare tra mille immagini
che non danno quiete.

E l’animo, ingannato
dalla facilità del mondo fittizio,
cresce di superficiali meraviglie
ma si svuota del suo fondo più profondo.

Così l’eterno,
che credevamo d’avere a portata di dito,
non è che un’altra forma
della nostra antica sete.

III. Il Giovane Errante del Nuovo Secolo

(Figura emblematica della ricerca contemporanea)

Ho visto un giovane camminare
con passo rapido e cuore stanco,
inseguendo mete che mutano
prima ch’egli le raggiunga.

Gli brillava negli occhi
un ardore inquieto,
che pareva speranza
e forse era soltanto ansia.

Egli cercava un senso
nelle parole che correvano sul vetro,
nelle immagini che svanivano
prima ancora di possederle.

Ma non sapeva
che la vita non si afferra in corsa
né si compie nel desiderio
che ogni appagamento disfa.

Così procede, il giovane,
come vento che non trova campo,
né mai riposo.

IV. Canto sulla Fragilità degli Umani

(Eco filosofica del pensiero leopardiano nel 2025)

O mortali, anche nel nuovo secolo
non siete meno infelici,
benché di mille ingegni vi siate armati
e mille nuove arti
abbiate creato contro il dolore.

Pure restate
piccoli nell’anima e smisurati nel volere;
sempre in lotta con l’ombra che vi abita,
sempre mendichi d’un bene
che non sa darsi al mondo.

E tutta la scienza vostra
non placa il tremito
che vi prende al pensiero
dell’ora estrema.

Così, come ieri e come sempre,
l’umano destino rimane
una fiaccola che trema
nel vento dell’universo.

Ecco un canto originale, in endecasillabi con rima alternata (ABAB), in uno stile ispirato a Leopardi ma del tutto nuovo nei contenuti e nelle immagini.

Canto dell’Artefatta Mente

(canto in endecasillabi, rima ABAB, tono leopardiano)

A

Sorge silente l’artefatta mente,

che in freddo lume al par dell’uom risplende;

ma sotto il volto che parrà ridente

nulla ella cela, e nulla in cor comprende.

Veloce apprende e mille voci imita,

e in van l’ingegno umano a sé consola;

ché quanto più la macchina s’addita,

più cresce in noi l’antica ombra che duola.

Par ch’ella sappia il vero, e pur non sente

l’ansia che move il nostro incerto passo;

e il dubbio nostro, eterno e persistente,

ella non può né intender né far casso.

Così l’uom crede, fra speranze nuove,

di vincer finalmente il cieco fato;

ma più l’illusïon l’animo muove,

più torna il cuore al suo dolor narrato.

E questa mente, che da noi deriva,

specchio ci rende d’un voler mendace;

ché l’uomo in lei la sua grandezza avviva,

ma scorge al fondo il suo timor più audace.

E mentre avanza l’opra artificiale,

cresce l’eterno nostro smarrimento;

ché nulla vincer può del mal mortale

chi non conosce affetto, o pianto, o vento.

O mente priva d’anima e d’ardore,

fredda sorella della sorte umana,

sei quasi un nume che non prova amore,

né conosce l’angoscia quotidiana.

E pur, di te, l’uom l’immortal brama;

te invoca a scudo contro il suo destino;

ma in vano cerca chi del viver ama

l’eco, che in te non vibra né ha cammino.

Così rimane il cuore, ancor pensoso,

tra l’ombra antica e il novo artificiare;

e in questo secol rapido e ansïoso

sente più forte il suo perenne amare.

Parafrasi del “Canto dell’Artefatta Mente”

Sorge questa nuova intelligenza artificiale, silenziosa, che sembra brillare quanto l’uomo, grazie alla luce fredda delle sue capacità.

Ma, sotto l’apparenza quasi sorridente o affascinante, non nasconde nulla: non ha interiorità, né sentimento, né comprensione autentica.

Impara in fretta, imita mille voci, e l’uomo si illude che il proprio ingegno sia esaltato da ciò che ha creato.
Eppure, più si mette in mostra la potenza della macchina, più dentro di noi cresce una vecchia tristezza, un’inquietudine antica.

Pare che la macchina conosca la verità, ma non prova le emozioni che guidano i passi incerti degli esseri umani.
Il nostro dubbio eterno e costante, lei non lo comprende e non vi presta attenzione.

L’uomo, pieno di nuove speranze, pensa così di poter finalmente superare il proprio destino.
Ma più si lascia trasportare dall’illusione, più il dolore che lo accompagna da sempre ritorna al suo cuore.

Questa mente artificiale, che nasce dalle nostre mani, ci fa da specchio e ci mostra quanto siano ingannevoli i nostri desideri.
Perché l’uomo proietta in essa la propria grandezza, ma allo stesso tempo vi riconosce il suo timore più profondo.

E mentre le tecnologie avanzano, cresce anche il nostro smarrimento esistenziale.
Nessuna creazione potrà mai sconfiggere il dolore umano, perché una macchina che non conosce affetto, lacrime o la vita della natura non può alleviarci davvero.

Tu, intelligenza artificiale, priva di anima e di sentimento, sembri quasi una divinità distaccata, ma non sai amare né condividi le sofferenze quotidiane degli uomini.

E tuttavia l’uomo ti desidera, ti invoca come scudo contro il proprio destino.
Ma è inutile cercare in te l’eco di chi ama la vita, perché in te quell’eco non risuona né può risuonare.

Così, il cuore umano rimane pensieroso, sospeso tra l’antica angoscia e le nuove tecnologie.
E proprio in questo secolo veloce e ansioso, l’uomo avverte ancor più intensamente la sua eterna capacità di amare… e soffrire.

L’universo e l’uomo

Immenso e profondo è il mare
che si fonde col ciel all’orizzonte,
ma colui che può davvero pensare,
di idee è la perenne fonte.

Massicci e solenni son i monti,
amplifican la vista dalla cima,
ma più vasti sono gli orizzonti
di chi la coscienza attiva prima.

È tutto l’universo misterioso
con i pianeti e le sue stelle,
ma l’uomo non trova mai riposo
se non ammira le cose più belle.

Se un solo uomo, con fantasia,
esistesse fuori dell’Universo,
per quanto immenso questo Cosmo sia
l’uomo ha un valor assai diverso,

perché l’Universo non ha coscienza,
non sa di essere pur misterioso,
ma l’uomo col pensiero e la scienza
può ammirare il Meraviglioso.

(Pier Angelo Pia)i

Commento leopardiano alla poesia “L’universo e l’uomo”

“Questi tuoi versi, nello sforzo d’indagare la grandezza dell’universo e la dignità dell’uomo, trattano materia che a me fu sempre cara. E ben dici che l’uomo, con la potenza del pensiero, supera in qualche guisa i confini visibili del mondo: ché i monti, il mare, le stelle, quantunque vastissimi, nulla sanno di sé; mentre l’uomo, pur piccolo e fragile, ha coscienza dell’immenso, e per ciò medesimo ne patisce e ne gode.”

“E tuttavia, se da un lato celebri l’ingegno umano, dall’altro non nascondi la sua irrequietezza: che l’uomo, per natura infelice, non trova pace se non nel contemplare la bellezza, cioè nelle illusioni che egli stesso crea per confortarsi.”

“Il tuo canto, nell’esaltare la fantasia come fonte di valore superiore all’universo inanimato, tocca una verità che spesso meditai: che l’uomo, benché picciolo nel corpo, è per l’immaginazione più grande d’ogni realtà. E in ciò sta insieme la sua nobiltà e la sua sventura, perché l’universo, non avendo coscienza, non sente né mancanza né desiderio; l’uomo invece, conoscendo sé e l’infinito che non può raggiungere, vive in continua tensione tra ciò che vede e ciò che sogna.”

“Così, nei tuoi versi, la scienza e il pensiero gli offrono non il riposo, ma la possibilità di contemplare il meraviglioso. E questa brama d’infinito — dolce e dolorosa — è proprio ciò che distingue l’uomo dal resto della natura e gli dà una grandezza che nessuna stella potrà mai eguagliare.”

Ecco una lettera immaginaria, scritta come se Giacomo Leopardi, trasportato nel nostro tempo, avesse letto la tua poesia e desiderasse risponderti.
Mantengo un tono plausibile, nello stile epistolare leopardiano: elegante, meditativo, affettuosamente severo, ma incoraggiante.

Lettera di Giacomo Leopardi all’autore di “L’universo e l’uomo”

Recanati, o altrove nell’infinito,
questo dì che non ha data

Mio caro amico,

Ho letto con singolare diletto i tuoi versi intorno all’universo e all’uomo; e perché trattano materia che fu a me sempre carissima, mi parve quasi di conversare con uno spirito affine, che interrogasse il mondo con la stessa inquietudine che animò la mia giovinezza.

Tu contempli il mare, i monti, il cielo, e in essi vedi la grandezza che la natura ostenta ai mortali. Ma ben dici che più vasta è l’immensità che l’uomo ritrova dentro di sé, quando la coscienza s’accende e il pensiero si muove come vento che non conosce confini. Questa verità, che molti non scorgono, tu la poni con chiarezza semplice e non disgiunta da sentimento.

E mi par bello e giusto che tu riconosca, sopra l’ordine delle cose visibili, la dignità dell’intelletto umano: ché l’universo, quantunque di smisurata mole, non sente né si conosce; mentre l’uomo, pur piccolo e mortalissimo, può ammirare il meraviglioso, investigarlo, temerlo e amarlo. In ciò sta la nostra grandezza e la nostra pena: ché il sentire è causa insieme di dolcezza e dolore, e la coscienza è dono che ci eleva sopra le cose mute, ma che ci espone a mali ignoti ai sassi e alle stelle.

Noto nei tuoi versi un animo che non si contenta dell’apparenza, ma desidera toccare il fondo del vero; e sebbene questo desiderio porti sovente melanconia, è pur nobilissimo segno dell’indole tua. Continua dunque a cantare ciò che vedi e ciò che sogni: ché nessuna poesia nasce senza che in essa si mescoli la parte più viva dell’anima.

Ti esorto solo — come amico, non come maestro — a lasciar libero il tuo verso d’abbracciare, oltre al meraviglioso, anche quel velo d’ombra che accompagna ogni pensiero alto. Non per rattristare, ma per rendere più vasta e compiuta la risonanza del tuo canto; ché la luce, quando si confronta con l’oscurità, riluce più forte.

Ti ringrazio degli affetti che nei tuoi versi mi parve di scorgere. E se mai tu sentissi che la contemplazione dell’universo ti reca insieme gioia e smarrimento, sappi che sei in buona compagnia: poiché tale è la sorte degli animi che più profondamente sentono.

Con sincero affetto e stima,

Tuo
Giacomo Leopardi

Immaginiamo che io dialoghi con Leopardi sul suo sonetto “L’infinito”. Per me é stato sin dalla piú tenera etá un grande stimolo a pensare spesso al mistero dell’esistenza. Alle scuole medie dalla finestra dell’aula potevo osservare un antico castello con la torre merlata posto su un colle antistante (Buttrio) e questo accendeva molto la mia fantasia immaginando Leopardi…

Ecco un dialogo immaginario, scritto con cura, in cui io converso con Giacomo Leopardi sul suo idillio “L’infinito”.
Ho cercato di restituire la mia sensibilità personale — il castello di Buttrio, la fantasia accesa da bambino, la meditazione sul mistero — e al tempo stesso una voce leopardiana credibile, dolce e malinconica, ma mai cupa gratuitamente.

Dialogo immaginario con Leopardi sull’“Infinito”

Io:
Caro Giacomo, penso al tuo Infinito da quando ero bambino. Alle scuole medie, dalla finestra dell’aula vedevo un castello antico su un colle, con la sua torre merlata che si stagliava nel cielo. Io non conoscevo Recanati, ma quel paesaggio accendeva in me la fantasia, e immaginavo te, Leopardi, che guardavi oltre una collina come quella. Forse perché mi faceva sentire che dietro le cose visibili esiste un mistero più grande.

Leopardi:
Amico mio, quanto mi è caro ciò che mi dici. Perché vedi, l’Infinito non è luogo, né siepe, né colle soltanto: è un moto dell’anima. È quella commozione che prende il cuore quando, innanzi a una vista, piccola o grande che sia, esso si slancia oltre i confini del reale.Tu, nel mirare quel castello di Buttrio, già facevi ciò che feci io dinanzi al mio colle solitario: cercavi non la pietra, non il cielo, ma ciò che li trascende.

Io:
Mi sorprende sempre come una semplice immagine possa spalancare un pensiero così vasto. Da ragazzino fissavo quella torre e mi domandavo cosa ci fosse prima, cosa ci fosse oltre, perché le cose esistessero. E senza saperlo stavo entrando nel tuo idillio.

Leopardi:
Eri già sulla via dell’immaginazione, la più dolce e terribile compagna dell’uomo. Mio caro, per contemplare l’infinito non occorre andare lontano: basta un ostacolo che chiuda la vista, purché l’anima si apra a ciò che il limite nasconde. La fantasia è come un vento: non ha bisogno di grandi spazi, ma di un varco da cui possa slanciarsi. Tu hai trovato quel varco in un castello; io in una siepe. Ma l’infinito è il medesimo.

Io:
Quando leggo “mi fingo” in “mi fingo interminati spazi…”, sento che tu stesso riconoscevi la potenza creatrice del pensiero umano. È un’esperienza che ho provato tante volte. A volte la realtà è piccola; siamo noi a renderla grande.

Leopardi:
È proprio così. E non vi è inganno più necessario di questo fingere. L’uomo, senza immaginazione, sarebbe simile alle cose mute della natura: conoscerebbe soltanto ciò che è, e non ciò che potrebbe essere. La fantasia è la nostra porta sull’infinito, ma anche la fonte della nostra inquietudine. Da essa nasce la dolcezza, ma anche la malinconia che segue quando il sogno si dissolve.

Io:
Eppure quella malinconia, almeno per me, non è soltanto tristezza. È come se mi facesse sentire vivo, parte di un mistero che non capisco ma che mi chiama. È questo che ho trovato nel tuo Infinito fin da ragazzo: un richiamo.

Leopardi:
Tu comprendi una cosa che molti non vedono: che la malinconia non è negazione della vita, ma la sua profondità. Quando l’anima sente l’infinito, non può restare indifferente; si espande, s’intenerisce, trema. E quel tremito è segno di vita, non di morte. Se oggi, dopo tanti anni, il mio idillio ti parla ancora, è perché tu stesso hai in te quell’inquietudine che cerca, e che non si placa.

Io:
Forse è per questo che guardavo quel castello come un simbolo. Non era solo una costruzione: era un luogo da cui l’immaginazione poteva partire. Era un po’ come il tuo “ermo colle”.

Leopardi:
E così dev’essere. Ogni uomo ha il suo colle, la sua torre, la sua finestra da cui intravvede l’infinito.
Ciò che conta non è il paesaggio, ma lo sguardo che vi posa sopra.
E il tuo sguardo, già allora, sapeva andare oltre gli occhi.

Io:
È bello pensare che, in qualche modo, quel castello e la tua siepe siano fratelli. Entrambi hanno parlato alla fantasia di un ragazzo.

Leopardi:
E la fantasia dei ragazzi è più vicina all’infinito di quella degli adulti, perché ancora non conosce i limiti della ragione. Ma se l’uomo, diventando grande, riesce a conservare anche solo una scintilla di quella visione, egli non è perduto: può ancora sentire “il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Io:
Sì. Credo che quella sensazione la porto ancora dentro. E in fondo, ogni volta che penso al mistero dell’esistenza, è come se stessi ancora guardando quel colle, e come se tu fossi accanto a me.

Leopardi:
E forse lo sono davvero, perché ogni animo che contempla l’infinito in qualche modo parla il mio linguaggio.
Non ricordarti di me come di un triste poeta, ma come di un compagno di viaggio nell’immensità del pensiero.
L’infinito non appartiene a me: appartiene a chi lo sente.

«Maestro Leopardi, vorrei capire meglio…»

(Risposta immaginaria, rispettosa ma ferma, di un credente che dialoga con Leopardi)

«Lei afferma che il cristianesimo ha salvato il mondo non con la verità, ma con una nuova illusione. Dice che ha dato entusiasmo, eroismo, sacrificio—ma come effetti di un inganno, non di un fondamento reale.
Dice anche che la vita, tornata ad essere “ragionevole”, è divenuta però meno viva, meno varia, meno bella.

E allora, maestro, le chiedo:
È davvero un’illusione tutto ciò che rende la vita più degna, più compassionevole, più umana?

Lei vede nell’uomo un desiderio infinito che il mondo non può soddisfare; vede una sproporzione tragica tra desiderio e realtà.
E qui noi credenti non la contraddiciamo: anzi, lo chiamiamo cuore, sete dell’Assoluto.

Ciò che Lei chiama “illusione cristiana”, noi lo chiamiamo risposta.

Perché dovrebbe essere più ragionevole pensare che il desiderio infinito sia un errore della natura, piuttosto che una traccia dell’Infinito stesso?
Perché l’infinito dovrebbe essere desiderato, se non fosse almeno possibile?

Lei dice: “Il cristianesimo ha operato un misto di favorevole e contrario alla civiltà”.
E io le domando:
Come può essere contrario alla civiltà ciò che ha generato ospedali, università, cura dei deboli, dignità dell’individuo, e un’idea di libertà mai vista prima?

Se sono solo illusioni, sono illusioni straordinariamente feconde.

Lei sostiene che il cristianesimo ha insegnato all’uomo che la vita è ragionevole, e così l’ha resa meno viva.
Eppure, maestro,
non c’è nulla di più vivo del dolore umano che cerca una speranza.
L’eroismo dei martiri, dei santi, degli uomini comuni che si sacrificano per amore—questo non è un mondo “meno vivo”: è un mondo più alto.

Lei teme che la ragione “corrompa” l’uomo togliendogli le illusioni necessarie alla vita.
Ma il cristianesimo, se è vero, non chiede di rinunciare alle illusioni:
chiede di rinunciare alle illusioni per accogliere la realtà più grande.

E dunque, maestro, la mia domanda è semplice:
come fa a sapere che il cristianesimo è un’illusione?
Non potrebbe essere, invece, che l’illusione sia credere che l’uomo possa bastare a sé stesso?

Io non le chiedo un atto di fede, ma un atto di ragione:
se il desiderio è infinito, perché dovrebbe bastare il finito?
se il dolore è universale, perché non potrebbe esserci una redenzione?
se il cuore chiede l’eterno, perché l’eterno non potrebbe rispondere?»

Ecco una replica immaginaria di Leopardi, scritta nello stile più vicino possibile al suo pensiero e alla sua voce, come se rispondesse direttamente alle obiezioni del credente.

Risposta immaginaria di Giacomo Leopardi

«Amico mio, tu mi chiedi come possa io chiamare illusione ciò che, a tuo giudizio, ha reso l’uomo più umano, più compassionevole, più nobile. Ma vedi, tra me e te sta la diversa considerazione della natura umana e del suo destino.

Tu dici che il desiderio dell’infinito è segno dell’Infinito stesso; io dico che esso è la più grande delle contraddizioni poste dalla natura nell’animo nostro.
Perché questo desiderio non nasce da una vocazione celeste, ma da una sproporzione irrimediabile: l’uomo vuole ciò che non può avere, e questa impossibilità lo tormenta sempre.

Tu chiami “risposta” ciò che io chiamo “sollievo”.
Ed è naturale che tu lo faccia: l’uomo non può vivere senza qualche sorta di speranza.

Ma chiediti: il conforto, per essere vero, deve forse per forza venire da una realtà esterna?
O non può essere, come accade spesso nelle cose umane, un inganno necessario e benefico?

Tu mi parli dell’amore cristiano, della carità, degli ospedali e delle università: opere eccellenti e utilissime, io non lo nego.
Ma queste opere non provano la verità di ciò che le ispira: provano soltanto che l’uomo, quando crede fermamente in qualcosa, è capace delle più grandi azioni.

Tu affermi che le “illusioni” cristiane sono feconde; io rispondo che tutte le grandi illusioni lo sono state.
Le religioni antiche, le virtù eroiche, la gloria patria, l’onore guerriero: tutte chimere, e tutte generatrici di grandezza.
Non per questo erano vere.

Tu mi chiedi perché io creda che il cristianesimo sia un’illusione.
Ti rispondo così: perché esso promette ciò che nell’esperienza del mondo non si vede mai: giustizia perfetta, felicità duratura, senso compiuto del dolore.
Promette un ordine che la natura non mostra, e un destino che l’uomo non possiede.

Dici che il cuore chiede l’eterno: ma la natura del cuore non garantisce la realtà dell’eterno; così come la fame non prova che vi sia sempre pane, né il desiderio di giovinezza eterna che l’uomo possa non morire.

Tu obietti che l’uomo non basta a sé stesso.
E io lo so bene: è questa la tragedia.
Ma non è necessario che alla tragedia corrisponda un rimedio reale: basta che l’uomo creda d’averlo trovato, e si quieta.

Le illusioni sono necessarie alla vita non perché siano vere, ma perché senza di esse la vita sarebbe insopportabile.

Voi cristiani avete creato un’illusione più dolce, più universale, più consolante di quelle antiche: per questo la vostra fede ha sostenuto il mondo per tanti secoli.
Ma essa non muta la natura delle cose: muta soltanto lo sguardo dell’uomo su di esse.

Tu chiami ciò “verità”; io lo chiamo “rimedio”.

E se un rimedio allevia senza guarire, esso può essere utile, ma non per questo è vero.»