di p. Ermes Ronchi

Vorrei essere uno dei cinquemila, quella sera, sul lago. Li invidio non per il miracolo dei pani, ma per la seduzione che hanno, più forte di ogni paura. Con Gesù, che ascoltano e bevono. Ascoltano e brucia loro il cuore, ascoltano e risplende la vita.

Stare con lui, quando scendono sera e notte su noi. E il lago, e il deserto, profumano di pane.

Stare con lui, e sentire che più vivo di così non sarò mai.

In quella infinita sera sul lago, due verbi opposti: comprare o dare. Comprare, dicono gli apostoli. Mentalità che è nostra: se vuoi qualcosa, lo devi pagare. Niente di scandaloso, ma diventa banale questa logica d’eterna illusione, in bilico tra dare e avere. In questo sistema chiuso, Gesù rilancia: date!

Date voi stessi da mangiare. Non già “vendete, scambiate, prestate”; ma radicalmente “date”. E sulla notte della necessità ecco spuntare l’alba della gratuità, dell’amore squilibrato e senza calcoli, del dare a fondo perduto senza aspettarsi nulla. Solo la gioia, forse.

Quante volte nel Vangelo lo si vede intento a condividere, felice, il pasto con altri, da Cana all’ultima cena, fino a Emmaus. Gesù amava così tanto mangiare insieme, che il tenerli vicini a sé è diventato il simbolo della sua vita: “quando me ne andrò, e non potrò più riunirvi e darvi il pane, e condividerlo, voi potrete unirvi e mangiare me”.

Dio ferma la fame del mondo solo quando le nostre mani imparano a donare. L’aveva detto: “Voi farete cose più grandi di me”.

E a noi, che sempre preghiamo dacci oggi il nostro pane, il Signore risponde: date voi il vostro pane.

Ecco che i cinque pani passano dalle mani di uno a quelle di tutti i cinquemila. Misteriosa e multipla regola del Regno: poco pane condiviso è sufficiente, perché solo così diventa pane di Dio. Cinque pani allora basteranno per una folla, e i pezzi rimasti riempiranno le ceste. Nulla andrà perduto. Cinque pani e due pesci: è poco, è solo una goccia nel mare, ma è quella goccia che può dare senso a tutta la vita (Madre Teresa). La fame inizia quando io tengo il mio pane per me, quando l’Occidente sazio tiene il proprio pane per sé. Fame che, allora, non finirà.

Sfamare la terra invece è un miracolo possibile se la condivisione si fa realtà. C’è pane sufficiente per tutti nel mondo, ma è diventato insufficiente per l’avidità di pochi.

Il profeta ripete: chi ha fame venga e mangi, senza denaro né spesa. Ma quale fame morde dentro di noi? Solo di pane? O fame di giustizia per noi e per tutti? Fame di avere o anche fame di dare?
Il Signore sia il nostro affamatore, e sapremo dare pane a chi ha fame e accendere fame di cose grandi in chi è sazio di solo pane. E la nostra sarà fame di un mondo nuovo, con mani di pane che conoscono il miracolo del dono.

 

Avvenire XVIII Matteo 14,13-21

Vangelo del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste. Segno da custodire con particolare cura, raccontato per ben sei volte dai vangeli, carico di promesse e profezia.

Gesù vide la grande folla, sentì compassione di loro e curò i loro malati. Tre verbi rivelatori (vide, sentì, curò) che aprono finestre sui sentimenti di Gesù, sul suo mondo interiore.  Vide una grande folla, il suo sguardo non scivola via sopra le persone, ma si posa sui singoli, li vede ad uno ad uno. Per lui guardare e amare sono la stessa cosa. E la prima cosa che vede alzarsi da tutta quella gente e che lo raggiunge al cuore è la loro sofferenza: e sentì compassione per loro. Gesù prova dolore per il dolore dell’uomo, è ferito dalle ferite di chi ha davanti, ed è questo che fa gli cambiare i programmi: voleva andarsene in un luogo deserto, ma ora chi detta l’agenda è il dolore dell’uomo, e Gesù si immerge nel tumulto della folla, risucchiato dal vortice della vita dolente.

Primo viene il dolore. Il più importante è chi patisce: nella carne, nello spirito, nel cuore. E dalla compassione fioriscono miracoli: guarì i loro malati. Il nostro tesoro più grande è un Dio appassionato che patisce per noi.

Il luogo è deserto, è ormai tardi, questa gente deve mangiare…i discepoli alla scuola di Gesù sono diventati sensibili e attenti, si prendono a cuore le persone. Gesù però fa di più: mostra l’immagine materna di Dio che raccoglie, nutre e alimenta ogni vita, e incalza i suoi: Voi stessi date loro… Le emozioni devono diventare comportamenti, i sentimenti maturare in gesti. Date da mangiare:   “la religione non esiste solo per preparare le anime per il cielo: sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra”  (Ev Ga 182). Dacci il pane noi invochiamo, donate ribatte Lui. Una religione che non si occupi anche della fame è sterile come la polvere.

Il miracolo del pane è raccontato come una questione di mani. Un moltiplicarsi di mani, più che di pane. Che passa di mano in mano: dai discepoli a Gesù, da lui ai discepoli, dai discepoli alla folla. Allora apri le tue mani. Qualunque sia il pane che tu puoi donare, non trattenerlo, apri il pugno chiuso. Imita il germoglio che si schiude, il seme che si spacca, la nuvola che sparge il suo contenuto.

Che diritto hanno i cinquemila di ricevere pane e pesce? L’unico loro titolo è la fame. E il pane di Dio, quello delle nostre eucaristie, non impoveriamolo mai all’alternativa meschina tra pane meritato o pane proibito: esso è il pane donato, con lo slancio della divina compassione. Pane gioioso e immeritato, per i cinquemila quella sera sulla riva del lago, per tutti noi sulla riva di ogni nostra notte.

Del mare e della terra faremo pane,


coltiveremo a grano la terra e i pianeti,


il pane di ogni bocca,

di ogni uomo,
ogni giorno
arriverà

perché andammo a seminarlo
e a produrlo

non per un uomo
ma per tutti,


il pane,

il pane
per tutti i popoli


e con esso

ciò che ha
forma e sapore di pane


divideremo:


la terra,
la bellezza,
l’amore,

tutto questo ha sapore di pane

( Pablo Neruda)