SMARRIMENTO
Correva il tempo in cui la giovinezza, chiudendo il suo cancello alle mie spalle, non parve dover dare spazio ancora ai sospiri acerbi di quelle illusioni e mostrando ormai verso loro la sua indifferenza, dopo che fu trascurato l’attimo da vivere nell’intensità del suo calore.
Quell’attimo fuggevole or s’annegava nel rimpianto di quella stagione inebriante di promesse.
Il delirio prese allor possesso di quella primavera non vissuta; quasi sì che la morte, davanti a me, tentasse la sua mossa nei miei pensieri, lungo il sentiero oscuro del mio cammino.
Qualcuno, però, s’accinse a combatterla inviando un messaggero alla mia porta sulle ali di una pietà che egli provava per me in quel momento di grande sconforto.
Un sogno volò su questo sonno; ma che fosse tale, non lo saprei davvero dire.
Ecco apparirmi una giovane donna, ferma nel suo grave portamento. Era bellissima sì che a descriverla diventava una cosa ardua.
“ Non certo per me questa è venuta”, pensai “ Eppoi… Che mai avrei a che fare con lei?”
L’insignificanza della mia persona non mi permetteva l’ardimento di posare gli occhi su di lei.
A torto, però, del mio pensiero, mi fissò intensamente sicché crebbe forte, allora, quel turbamento; le gambe sembrarono non obbedire a nessun comando per fuggire altrove.
Non potendo fare altro, mi rifugiai facendomi piccolo in me stesso.
Ella però non demordeva dall’intento che io non conoscevo, sì che aumentò la confusione nella mente.
Questa confusione crebbe ancora più quando, nel rivolgermi la parola, mi chiese di sposarla.
“ Uno scherzo…”, pensai nel mio silenzio; ma in quello sguardo vi lessi la fermezza del suo intento e ne rimasi prigioniero.
Quegli occhi sembravano indagare su quei pensieri, quasi che nulla dovesse rimaner a lei nascosto.
Tosto, allora, una gelosia profonda venne a prendere posto come se l’anima nuda fosse stata scoperta e altre paure cominciarono a prendere posto.
Queste, mi guidarono per sentieri senza sbocco, dove la mia intimità ne rimaneva impigliata, quanto i rovi nel bosco.
Mi guardò ancora, indovinando quelle mie nuove paure: “ Le ferite del cuore sembrano non dar tregua in te “, disse “ La sensibilità che t’avvolge è troppo forte per dissolvere quel passato così travagliato di sentimenti “.
Tacque per un lungo momento; poi riprese: “ Or ti sei scelta, come compagna la solitudine lungo la tua strada, inondandola di malinconia quand’ella invece può avere disposizioni più nobili atte a creare dimensioni più alte nel tuo animo “.
Non risposi a quelle parole; ma poi non potei fare a meno di replicare a ciò che aveva detto: “ Sì, è vero, la solitudine m’è compagna di vita poiché mai potrà tradire ciò che in me alberga “.
“ Troppo veleno c’è in te, per trovare pace… Quale antidoto potrà mai vincerlo? Per questo, da te sono venuta e se di sposarmi or ora ti ho chiesto, né la paura o la gelosia abbia a prendere dimora in te, che ben altro si cela nella mia richiesta “.
Alla fine, tacque ancora; in quel lungo silenzio però lo smarrimento non m’abbandonava ancora:
“ Ma dunque, chi sei? “, chiesi con gran timore, quand’ecco mi ripresi.
Rispose: “ Io sono colei preposta a cantare in desiderio di chi vuole muovere e far ragionare il cuore e la mente per diversa via, per chi ha smarrito in sé la strada. Vengo in soccorso di colui che ha smarrito il suo stupore e, per tale, ricerco nell’uomo il re che mi sposi e re è proprio quel fanciullo che gran parte di voi ha mandato in esilio. La parola è lo strumento con cui io risveglio la grammatica dei sensi, illuminando ciò che l’uomo ha in sé, spento. Ora che sei a conoscenza del mio chiedere, t’invito, se vuoi, a toglierti quei calzari che rendono pesante il passo, cancellando l’orma leggera della mente; se poi ti è gradita la mia presenza, vorrei riprendere con te il cammino che tosto hai interrotto, non avvertendo alcuno vicino a te”.
Ancora confuso, rivolsi allora la memoria a quel cancello che il tempo aveva ormai chiuso alle spalle e subito una figura, nascosta, sbucò dall’ombra.
Era la persona, mutila di una gamba, che il fanciullo vide solo di schiena andare avanti in piena solitudine.
Mal s’accompagnava ancora a quelle stampelle, sì che ogni equilibrio era precario. Lo vidi in volto e un’amara meraviglia mi colse, quand’ecco m’avvidi chi fosse, e un pianto, da dentro, mi morse.
“ Sì, quell’uomo “, mi disse allora “ sei proprio tu”.
La meraviglia, che si frammischiava alle lacrime, era ancora tanta e le sue parole altro non erano se non un brusio: “ Mal t’accompagni nel tuo cammino, tanto che, ragione e cuore son impediti nel sostenerti “.
Duro, e alquanto lungo, fu quel momento di sorpresa, tanto che pur lei, che ignoravo, fece silenzio.
Poi che mi fui ripreso tosto, continuò con tono affabile: “ Lo so, l’immagine che tu vedi, il fanciullo l’ha serbata sin dalla notte che si bagnò d’altre lacrime. Furono, queste, più amare di quanto ancora il tuo cuore non creda; ma se tu da un simile fremito sei ancora scosso, sappi che il fanciullo in te non è morto, come tu credi, ed è mio desiderio, attraverso lui, condurti laddove ragione e cuore possano ricongiungersi in virtù di quella pace che tu brami; tal pace, però, sappi, non è senza lotta. Fa uscire, dunque, da te quel tormento che la impedisce, agitando la tua mente e impedendo al tuo spirito la luce. Tu, ancor poni il lamento della tua primavera, ma il tempo ne ha oscurato la scena ormai; ormai è lontana e dal passato nulla più torna. Dunque, nella tua solitudine ancor ti nutri di questo tuo tormento? Fai male, poiché questa è una prigione per chi la vuol sentire tale. Pur abbracciandola, a voler tuo, disprezzasti la fortuna che regalava; ma ricordati che non sei solo tu a dover viverla. Ricordati che ciascuno, in sé, vive la sua solitudine ricavando da lei pure quel sostegno dolce alla memoria “.
Le sue parole mi fecero arrossire.
Avrei voluto replicare:” Quale fortuna posso aver io ricavato da lei? “, ma tacqui.
Mal avevo speso i frutti della fortuna che la solitudine m’aveva offerto, guardando la fortuna altrui, all’altrui consenso dato.
Non dando peso a quei silenzio, dove i pensieri s’aggiravano e che pur intuiva, continuò: “ Non la solitudine o la fortuna ti sono state nemiche, ma tu nemico a te stesso sei stato. Già, perché, della fortuna l’uomo è sempre pronto a lamentarsi, e serva ad ogni suo capriccio la vuole. Lei però ti ha colto in altro modo e voglio dirti come in questo tuo cammino ti abbia sorriso; a guidare la tua mente, e non solo, si pose. Prima di te, ben altri ebbero a chiedere ragione di lei; a quali scogli, infatti, va ad urtare l’uomo, annaspando poi per causa propria quando questa se ne vola altrove? Stolto, e non altro, si dimostra non guardando quanto, sia corrotto dal vizio”.
Poi, volgendo lo sguardo nella stanza illuminata fiocamente, s’avvide come io avessi gravato la solitudine di un’immensa brama di conoscere: “ Che son questi? “, soggiunse poiché vide sul tavolo quell’ammucchiare di libri.
“ Come… Non vedi? Sono libri! “, replicai.
“ Sì, vedo che sono libri e il sapere è in funzione di ciò che ognuno chiede; ma tu che chiedi mai a te stesso? Ad ammucchiar libri sopra un tavolo, non dà pace all’animo poichè, in tal modo, ognuno insegue l’altro… Che vale a leggere tanto e male, se poi quello che hai letto s’addormenta nella mente? Ogni sapere sfugge ad ogni umana conclusione ed è gia vecchio tutto quello che oggi l’uomo scopre; oggi altro non fa, se non metter mano a quello che allora fu scoperto e mai saldi sono i suoi sentieri che, ai tanti sforzi della mente, non concede tregua e di quest’accumulo di sapere alla morte, quando giunge, assai poco importa”.
In questo fiume di parole, io fui preso come colui che cerca aiuto al suo annaspare convulso, trovando forse una illusoria salvezza alla sua disperazione.
“ Io t’ invito, se tu vuoi, a fuggire quest’errore; fuggi, dunque, che a ben altre disposizioni, desidero condurne il tuo animo, in piena libertà e leggerezza di pensiero… Esci da questo imbroglio! Fuggi pur da un simile formicaio qual è la città con il suo lucro ”.
“ Come, e dove fuggire? ”, azzardai dirle; ma lei non rispose ed io, per sfuggire all’imbarazzo del suo sguardo mi volsi verso la finestra.
Lì, sui sentieri della notte, i pensieri andavano a posare la loro orma, inseguendo con incredibile leggerezza dell’animo, lo sfavillio delle costellazioni.
“ Ascolta la notte “, m’esortò la donna “ Veglia e ascolta la sua voce, perché la notte è ben più viva di quello che tu credi! Ancor ti esorto… Fuggi da ciò che impedisce la tua serenità “, detto questo, non la udii più… Se n’era volata via? Tutto, dunque, era stata una lunga suggestione?
Mi sorprese un tuffo al cuore e sentii l’animo come da tempo non lo sentivo, e le sue parole nella mente s’aggirarono, quasi a fugare lo smarrimento.
Contemplai, fra quelle stelle, l’immenso mistero che mi sovrastava e, scoprendomi mistero a me stesso, mi lasciai sommergere da quello scorrere di fibrillazioni di istanti.
Un tutto e un nulla; fu questo il brivido che d’improvviso m’avvolse e il cielo stesso mi rapiva attraverso le sue ramificazioni, dove nel soffio di quel vento siderale, ogni stella, con la propria brillantezza, pareva raccontare la sua storia, la storia di una creazione che palpitava, che respirava, che viveva.
Oh, qual pianto segreto dell’anima m’ afferrò allora!
Era un pianto che giù giù scendeva a sommergere con le sue lacrime ogni punto arido in cui si rifugiava ogni sentimento incredulo; e come avrei potuto abbandonarmi all’indifferenza verso quello spettacolo?
Ed ecco scoprirmi come un viandante che era fuoriuscito dal nulla; un viandante che un giorno si era trovato in cammino.
Quanto avevo camminato? Quando e quanto i miei passi divennero pesanti? Quante volte questa stanchezza fu fasciata dalla luce del tramonto? Cosa potevo essere io stesso se non un punto tra infiniti punti attraversato da quel brivido?
Osservavo la notte vestita d’innocenza, mentre l’onda dei miei pensieri si riversava sul ricordo appena lasciato alle spalle di quell’ultimo tramonto; ma ecco che un pensiero attraversò fulmineo quell’incanto, quasi sorpreso: “ E’ davvero innocente la notte? “, mi chiedevo “ Certo, il sonno, che lei riversa, sembra renderla tale “, mi risposi poi, “ Esso toglie le armi e seduce ogni essere, regalando ad ognuno il suo mondo per mezzo del sogno; eppure la sovranità del silenzio fa della notte la regina delle inquietudini, a chi non vuol cedere a lei le sue armi. In lei si radunano le disposizioni che ogni animo può sentire e un brivido sembra percorrerla a squarciare quell’innocenza; nel sonno, ecco la vita e la morte vivere l’inganno nella loro sospensione. L’inganno, proprio qui, sembra vigilare attraverso l’innocenza del sonno; e nel sogno, ecco manifestarsi la malattia “.
In quell’irreale silenzio osservavo i palazzi attorno, immersi nella semioscurità delle luci artificiali che sembravano gettare su di essi una sensazione di sicurezza, forse illusoria ma pur sempre necessaria.
Lì, le finestre chiuse parevano comunicarsi, l’una all’altra, le sensazioni che custodivano; lì, in un sussurro, parevano rendere le cose senza veli, mentre ancora un brivido attraversò ancora i miei pensieri: “ Sì… “ mi dicevo “ Siamo qui, stretti come in un alveare; un brulichio di storie segrete che ronzano attorno ad un comune luogo, dove familiarità ed estraneità si fondono. Interrogativi, angosce, dolori, gioie, tutto lì, in quella sospensione…”.
Mi strinsi in me con quel mio pensiero, forse per il timore che mi stava assalendo. Oh, quanto piccolo mi sentii, allora, avvolto da quel mistero! Sentivo, in questo, il pungolo dell’esistenza; sì, la vita e la sua spina vennero a prendere coscienza in me di quel travaglio.
Fui sommerso pian piano dalla sonnolenza sì che mi ridistesi sul letto.
Quando mi risvegliai, quella donna ancora continuava a persistere fra i miei pensieri come se fosse frutto di una realtà
Quelle parole stesse, sembravano calate in una realtà; vivevano una realtà.
Ero talmente imbrigliato in quella ragnatela che non sapevo darmene ragione: “ Fuggi… “, mi aveva consigliato.
Ed ecco che quella parola ancora rintronava nella mente; ma da chi, da cosa sarei dovuto fuggire?
“ Se ti è gradita la mia presenza… “, aveva poi soggiunto; però, ormai la sua presenza si era dissolta e non potevo più udirne la voce.
Mi guardai attorno nella camera, mentre alla finestra s’affacciava la luce dell’alba.
Il velo della notte pian piano si stava alzando lasciando scendere, come rugiada, quelle parole fra i solchi dell’anima.
Da lì a poco sarebbe seguita l’irrompere dell’aurora.
Se quelle parole furono simili alla rugiada, lo scoprii gettando lo sguardo sulla scrivania, quando mi alzai.
“ Che sono questi? “, aveva chiesto vedendo quell’ammucchiar di libri.
Solo in quel momento mi resi conto della mia follia che mi aveva sostenuto nella pretestuosa vanità di immergermi nello scibile della conoscenza… La mia mente abbracciava tutto, per non stringere nulla.
Ma ecco che: “ … Io ti invito a fuggire questo errore “, aveva detto e m’accorsi quanto lei mi stava rimproverando attraverso il fanciullo.
Sì, al fanciullo ella aveva delegato il suo compito.
IN VIAGGIO CON L’IO
L’IO DAVANTI ALLO SPECCHIO
Per sua natura, l’uomo è portato a comunicare con gli altri; è un’esigenza dettata dalla necessità di rapportarsi con l’altro attraverso un dialogo dove porre, in un confronto, ciò che esistenzialmente lo coinvolge.
Egli, quindi, si trova a dover esternare quelle situazioni limite che, non riuscendo ad inglobare nella sua sfera, lo travolgono, trovandosi così a muoversi in quello che è il labirinto della sua esistenza.
Con un tale atteggiamento, egli viene così a confessare una sua realtà in cui si trova a dibattersi.
Confessare all’altro diventa allora un atto necessario per approdare a un tentativo di chiarificazione capace di orientare la sua ricerca.
Nel confessare all’altro si tende, in tal modo, ad un atto di fiducia nell’altro; a cercare nell’altro una corrispondenza di situazioni in cui entrare in una forma di comunicazione.
Quindi, nel confessare ad un altro si tende, in tal modo, ognuno esterna qualcosa di sé attraverso quel rapporto che instaura con l’altro.
Simili confessioni soffrono, però, una loro ambiguità, in quanto, pur conoscendolo, l’interlocutore che sta davanti a noi è uno sconosciuto.
Perciò, in questo confessarsi, ognuno esterna qualcosa in conformità a quel rapporto che via via si è instaurato; questa, però, può essere interrotta in un qualsiasi momento.
Ciò che l’altro viene così a sapere è in base a ciò che a lui si voleva confidare.
Per tanto, pur comunicando con il mondo più prossimo di ciascuno, paradossalmente si comunica, come detto, con un conosciuto – sconosciuto, dove vi potrà entrare l’empatia verso l’altro ma non necessariamente la simpatia in quanto, quest’ultima, viene a sposarsi in modo istintivo per attrazione di sentimenti.
La confessione, a questo punto,, potrà essere ascetica, ovvero priva di pathos; in tal modo, chi si confessa non intende andare oltre quel limite prefissato e la sua diventa una semplice esternazione di cui se ne perderà le tracce attraverso l’indifferenza propria e altrui.
A questo punto, se confessare agli altri diventa qualcosa di aleatorio, confessare a se stessi cosa può produrre?
Si può mentire agli altri, ma non a se stessi.
Ognuno, in questo caso, è nudo a se stesso… Brancola nel buio che è in lui.
Di fronte a se stesso “ l’io “ si irrigidisce… il suo specchio è la coscienza e, per tale, confessarsi ad un simile specchio comporta uno spogliamento totale per ciò che sono quelle sovrastrutture che riguardano il proprio essere.
Cosa può ognuno pensare di sé… Cosa è, cosa non è?
Già! Prima o dopo, ognuno si trova a dover farsi queste domande nel tentativo di chiarirsi fra limiti e condizionamenti..
In natura, è l’unico ad essere consapevole di questo suo stato precario.
Si può dire che egli si scopre un granellino cosmico in seno all’universo… Un granellino che ha proprio quella coscienza che lo espone ad esplorare il suo abisso.
Come il mare cela fra i suoi abissi ciò che è di più nascosto e di inconoscibile, così l’uomo.
Egli è un inconoscibile a se stesso che si può equiparare a quel mondo ignoto che si protrae al di là di quello che, una volta, la mitologia definiva come colonne d’Ercole.
Queste colonne, che si ergono in ciascuno, si chiamano dubbi.
Da queste colonne, ognuno si protrae nel tentativo di gettare il suo sguardo al di là di quell’orizzonte che cela mondi ancor non identificabili.
L’uomo, dunque, è un immenso abisso con cui il suo “ io “ viene rapportandosi nel suo breve transitare.
Egli tenta di indagare, di conoscere, di esorcizzare l’ignoto e di trovare, come non mai in questa epoca, risposte alle sue ansie, alle sue paure.
Nessuna conoscenza potrà, però, scardinare queste paure; queste potranno essere fasciate da una fede o da una speranza in una sua risoluzione.
Ma ecco disegnarsi la difficoltà di trovare un approdo a quel mondo nascosto in sé; nessuno, pur osservandosi, non sarà mai in grado di eliminare le storture che si sono attecchite in lui in un aggregato di sfere che orbitano a definire una sua individualità.
Quali sono queste sfere… in che modo agiscono?
Bisogna dire indubbiamente che ognuno è avvolto da una serie di influssi che immancabilmente vanno a marcare questa sua personalità.
Innanzi tutto l’influsso della natura o cosmo che di si voglia.
Nel suo osservarsi biologicamente, ognuno par doversi chiedere se la sua anima non sia legata a quella del cosmo, ai suoi umori… a considerare che anche il cosmo abbia una sua anima.
Non è forse ogni uomo un aggregato di materia, di atomi che leggi ed energia cosmica regolano nella loro dinamica?
Poi ecco l’influsso dell’ambiente ( la natura ), l’influsso genetico… e ancora, l’influsso sociale, culturale
In relazioni a questi influssi si può dire che ogni personalità vive uno stato di tensione tra il suo essere al mondo e il suo essere nel mondo.
Mondo psicologico, mondo intellettivo e mondo spirituale, sono sfere a cui “ l’io “ approda cercando una concordanza nel suo apprendere.
A questo punto, in rapporto a questi mondi, bisogna effettivamente dire che non è facile orientarsi dovendo, ciascuno, muoversi in un mare di insidie.
Quale valore potrà mai tenere saldo, allora, nel suo modo di rapportarsi?
Bisogna dire che il rapporto tra persona e persona e tra persona e mondo è commisurato alla situazione con cui, soggettivamente, ciascuno instaura in base a quell’empatia dialogica.
Pian piano ecco allora formarsi quell’abito mentale che lo porterà a muoversi e ad agire per sé con quei mondi.
Ma nonostante questo, ecco che quell’abito mentale viene permeato da quell’ambiente che fa sì di introiettare un pensiero dominante nell’ambito di una cultura chiusa e, per tale, a impedire una visione aperta capace di armonizzare le varie tendenze soggettive.
No, non è facile armonizzarsi con quell’ambiente che è venuto ad impregnare con situazioni complesse ciò che viene a delineare una persona; un mondo dove, psicologicamente, l’individuo si ritrova prigioniero di un sistema dominante: “ Di fra le sbarre della sua individualità l’uomo contempla disperato le mura massicce delle circostanze esteriori… ( Buddenbrook )
Di questa persona, il mondo ne valuta ciò che esteriormente manifesta ma, in realtà, cosa vede di questa… cosa ne valuta?
Un giudizio sulla persona, quindi, sarà sempre fuorviante in quanto gli influssi che questa subisce, spesso vengono ad alterare la visione della persona stessa.
In che modo mai potrà allora difendersi da quell’assalto? Già; lo hanno indottrinato con pensieri non suoi.
Così egli si dibatterà nel tentativo di districarci da quell’abbraccio soffocante che gli impedisce di respirare la sua realtà e di trovare un suo modo specifico in grado di rispondere per sé.
Se, effettivamente, ognuno si trovasse ad essere prigioniero in tal senso, ecco che i rapporti sociali tenderebbero a manifestare la loro ambiguità attraverso un rapporto inautentico in cui il fare e il pensare sembrano nuotare in senso contrario.
La necessità oggettiva fa sì di escludere la necessità soggettiva.
Quest’ultima, si trova così limitata nell’esprimere la sua realtà, tanto da far scivolare la coscienza nell’abisso più profondo.
Fasciato dal suo ambiente sociale e culturale, l’individuo ignora il più… ignora il mondo.
Ora, il mondo è un variegato sistema di culture che si scontrano, volendo ciascuna affermare la propria preminenza, più che cercare la sintesi; ciò che vero per l’una, non lo è per l’altra.
Questa mancanza di sintesi è ancorata ad una radicalità di parte, l’individuo si addormenta su se stesso, ovvero sembra subire una sterilizzazione in cui “ l’io “ non è in grado di operare.
Dunque, l’irrigidimento crea una stratificazione e, a causa di questo, “ l’io “ subisce l’ambiente che gli impedisce una sua orientazione.
Mondo psicologico,, mondo intellettivo e mondo spirituale, sono mondi dove la conciliazione tra loro è alquanto problematica.
Nella necessità di rapportarmi allora a questi mondi ( o sfere ), io non posso altro che parlare, esistenzialmente, per me, confessare a me stesso la mia realtà.
Alla luce di queste considerazioni, ecco chiedermi: “ chi sono? ”.
Dietro a questa domanda la confessione par doversi dilatare in una sua deflagrazione spargendo intorno le scaglie che la domanda stessa vien provocando: “ In che modo mi pongo davanti a me stesso… mi riconosco veramente come mi vedo, come sono? “.
Da questa deflagrazione posso solo dire che “ io credo di conoscermi “, e in questo mio credere di conoscermi, forse si cela un ambiguo modo di conciliare il mio essere.
In realtà, io mi conosco meno di quello che credo e il mio pensiero pare qui arenarsi su quegli scogli che si celano dentro la mia personalità.
Mi chiedo se la mia personalità sia dipendente solo da un modo di essere o anche da quella serie di influssi che ne marchia l’essere.
Già… Mi vien fatto di chiedermi cosa appartenga a me e cosa, invece, è frutto d’altro: esteriorità e interiorità sono due mondi sovrapposti o uno è complementare dell’altro?
In questo suo specchiarsi, “ l’io “ non può fare altro che confessare la sua storia.
Gettando lo sguardo sul passato ( alla luce del presente ) penso: “ Se su questo mio cammino non ci fossero state determinate situazioni ad incidere sull’evoluzioni della mia esistenza, sarebbe stata diversa la mia storia?”.
Indubbiamente si! Il mio modo di sentire il totalmente altro, il mio modo di essere e di credere avrebbero orientato diversamente questo cammino.
Ma io sono legato solo a questa mia realtà, poiché ogni ipotesi diversa appare come una sequenza di quei “ se “ assomigliante a quella scia spumosa che un’imbarcazione lascia dietro di sé, sino a che questa si dissolve ne nulla.
Ecco allora scorrere qui, mentalmente, le immagini della mia storia, vederle srotolare in una sequenza piena di situazioni in cui mi sono trovato a pormi una miriade di conclusioni acefale.
Spesso, guardando il mondo attorno a sé e il posto occupato, sorge molto facilmente uno stato di insoddisfazione verso se stessi, trovandosi prigionieri della propria realtà.
Prima di tutto prigioniero di un mondo psicologico che si è imbevuto e impregnato di situazioni complesse che via via sono venute a formare una personalità.
Ed ecco che, esaminando fin qui psicologicamente la mia vita, il tutto parmi essere un risultato caotico di questa mia esistenza, in cosa ho mai creduto, in che maniera il mio essere ha saputo mettersi in sintonia relazionale con il totalmente altro?
Mi rendo conto di essere immerso in una complessità dove più che trovare le risposte, mi rifugio in un indefinito atteggiamento in cui l’ambiguità sembra prendere dmora.
Mi chiedo di cosa mai sia venuto ad acquisire, oggi, in questa ricerca di me stesso… ma poi, stavo ricercando cosa? Quale motivo mi ha portato a credere una cosa piuttosto che un’altra? Quale garanzia mi potrà derivare dall’una o dall’altra?
E poi… io e l’altro! Dunque, il mio “ io “ e “ l’altro “; cercavo me stesso in relazione all’altro.
Ma in un mondo di maschere ( come io ho avuto modo di scrivere altrove ), i rapporti sono solo formali; della persona se ne valuta ciò che essa può produrre, ma non ciò quella che è.
Cosa può produrre, però, ciascuno?
Ciascuno può produrre ciò che è opera del suo essere e, per giunta, nell’ambiente in cui si opera e si agisce tutto sembra subire una sterilizzazione; un atto di spersonalizzazione dove viene a porsi un doppio atteggiamento, di cui l’uno è l’ombra dell’altro.
In tal modo, veramente ognuno è solo con se stesso; ognuno abita il suo mondo di silenzio dove i suoi pensieri spesso si trasformano in oscure trame psicologiche segnate da ferite indelebili.
Come passeggeri su un treno assiepato, sembra che ciascuno prosegua la sua corsa nel segno di una mèta solitaria di cui e solo e vagamente a conoscenza.
Vien fatto di dire, allora, che l’esistenza si poggia su una scommessa a cui non ci si può sottrare.
Sentiamo lo sferragliare del treno e ne misuriamo le tappe, chiusi in quel silenzio esistenziale.
Lasciando, qui, spazio all’immaginazione, ecco trovarmi allora seduto in uno di quegli scompartimenti assieme ad altre persone.
Il mio sguardo corre sui loro volti; volti impenetrabili dietro a cui ciascuno sembra celarsi con la sua storia.
IN VIAGGIO CON L’IO
Dunque, il treno avanza; getto uno sguardo dal finestrino verso un panorama in fuga, una successione di immagini che però si presentano ristrette a causa della limitazione propria del finestrino.
Me ne sto seduto, assorto nei miei pensieri mentre le immagini continuano a sfilare; a distanza qualche campanile, con la sua chiesa, svetta qua e là su piccoli centri abitati, mentre più adiacente alla ferrovia, estensioni di campi rivelano un paesaggio monotono.
E’ una rappresentazione, questa, che altre persone, in mia compagnia dentro lo scompartimento, percepiscono anche loro.
Ma vedono, loro, quello che vedo io?
E’ una illusione che io mi fabbrico, con questo pensiero; pur guardando, ognuno coglie a modo suo quella realtà.
Il silenzio pare domini la scena; giro lo sguardo nello scompartimento, ed ecco che, per ingannare quell’inattività forzata, ognuno si distrae a proprio modo: uno sta leggendo il giornale, un altro sonnecchia, un altro ancora sta masticando una qualche caramella, mentre l’unico rumore che si sente è lo sferragliare del treno sui binari.
Nessuno sembra abbia voglia di chiacchierare e poi, come si fa a parlare fra sconosciuti?
L’estraneità crea diffidenza e per tanto la comunicazione diventa un azzardo nel tentativo di scoprire l’altro.
Ma ognuno è in compagnia dei i suoi pensieri; con un simile atteggiamento, ogni persona erge fra sé e gli altri una forma di barriera, nuotando in un suo mare in cui regolare la consistenza di ogni influsso.
La comunicazione, in tal modo, sembra dover soffrire quella chiusura al dialogo; una maschera si frappone tra loro, e questa è il silenzio.
Eppure, essendo l’uomo portato a comunicare, la voglia di chiacchierare sarebbe grande… ma che dire?
Fra estranei, è di regola l’approccio ad una conversazione frivola che meno impegna gli interlocutori e, in più dei casi, quale argomento più frivolo se non il commento del tempo, sui suoi fenomeni atmosferici?
Una conversazione frivola che non impegna più di tanto gli interlocutori, ma che alla lunga, permetterebbe di allargare quel principio di dialogo.
Ecco però che, poco dopo, quell’interlocutore deve scendere alla fermata successiva: la conversazione è finita ancora prima di cominciare… un saluto di cortesia, poi quel volto sarà riassorbito dall’oscurità.
Il dialogo è sfumato, per fortuna dell’uno o il rammarico dell’altro dei probabili interlocutori; i loro pensieri possono continuare a muoversi nel loro mare.
NELL’OCEANO SILENZIOSO DELL’IO
In alternanza di tempo, ai primi due compagni di viaggio, anche il terzo è sceso, dopo un affrettato saluto di cortesia…Sono rimasto solo nello scompartimento, immerso nei miei pensieri.
“ Buon giorno… “, aveva detto; un buongiorno che, come per gli altri due passeggeri, denotava una semplice formalità in quel civile rapporto di regole che ci costruiamo nella quotidianità… ma quanto lontana era la distanza di quel saluto?
L’estraneità allarga le distanze circondandole di diffidenza o indifferenza.
Ed ecco ritrovarmi in uno scenario un po’ surreale per quello che mi riguarda.
Surreale è stato l’atteggiamento per cui si è creata l’opposizione fra me e quei viaggiatori, ognuno permeato da quel silenzio.
Ogni “ io “, in questo, può paragonarsi ad un relitto che viene sballottato dalle onde tumultuose di un immenso Oceano, e seppur si muova e agisca in quel mondo in superficie, c’è una forza di gravità che tende trascinare “ l’io “ fra i suoi fondali.
Dal tumulto della superficie al silenzio dei fondali , ecco che “ l’io “ si trova a combattere le insidie che lì si annidano.
Questo Oceano che lo inquieta è il suo mondo psicologico, e per tanto l’uomo si trova ad essere un abisso nell’abisso; sì, un immenso abisso dove il suo “ io “disperatamente tenta di indagare, di conoscere, di esorcizzare l’ignoto che è in lui.
Egli arranca fra le miriadi di domande, di supposizioni e sensazioni emotive dove far convogliare la visione di una realtà in grado di chiarirlo a se stesso.
Potrà mai raggiungere un tale obiettivo?
E’ una scommessa persa in partenza, ogni incognita ne trascina un’altra; pertanto, un lavoro che rimane indefinito… soprattutto quando si tratta di indagare su se stessi.
E’ difficile confessarsi per quello che si è poiché, psicologicamente, la propria nudità interiore fa paura; ma fa paura soprattutto quel mondo che attenta a questa sfera personale… pertanto ecco la rigidità degli atteggiamenti.
Ci si discosta, quasi ad avvertire, da esso, un pericolo che viene ad invadere la sua casa interiore.
Dunque, pensando a coloro che erano i miei compagni di viaggio, sono cosciente di un fatto e che cioè, io non posso dirmi dissimile da loro stessi; anch’io mi sono lasciato fasciare dal silenzio, dalla diffidenza che viene a suscitare sentimenti guardinghi.
Ognuno, però, non può rinunciare a conoscere quel mondo in cui si trova, pur lui, a girare; senza il mondo esterno, egli stesso, infatti, non riuscirebbe a riconoscere se stesso in relazione con l’altro che è, in definitiva, l’interlocutore che da spazio al confronto.
Mentre sono immerso in queste considerazioni, il viaggio prosegue.
IL MALESSERE DELL’IO
Con il suo monotono sferragliare, il treno prosegue la sua corsa.
Lungo il percorso, lo sguardo sembra irretirsi di fronte a quell’assalto di cespugli che sfilano davanti al finestrino che, lungo la tratta, viene a nascondere la placidità del paesaggio.
l’irretirsi dello sguardo è dato dal fatto che non è in grado di focalizzare l’immagine, di mettere a fuoco, cioè, quello che è stato appena percepito; quasi un precipitarsi dell’immagine senza preavviso.
Mi vien fatto di pensare che “ l’io “ si irretisca ogni qual volta non riesca a cogliere quell’immagine allorché, presentandosi simile a un lampo, viene impedita la fonte da cui è scaturita: Cosa ho mai percepito dal mondo? Ora “ l’io “, invaso dal mondo, si trova in un certo qual modo spaesato in quanto la sua percezione viene a scontrarsi violentemente con quella realtà.
Ciò può mettere in dubbio quella realtà percepita, come se questa fosse un accidente delle sue percezioni in un rapporto estraneo e passivo… come lo era stato lo sguardo di fronte all’incalzare di quei cespugli.
In realtà quei cespugli non si sono mai mossi dal loro posto.
Allora cosa ha mai colpito il mio sguardo?
Certamente un’accelerazione di un movimento non imputabile alla volontà propria, che impedisce di stabilizzarsi in un suo spazio armonico.
Quindi è la coscienza che attiva “ l’io “, creando in tal modo la relazione necessaria alla sua realtà.
La coscienza è l’attività di un giudizio che, positivamente o negativamente, pone “ l’io “ nella situazione di dover sottostare di fronte a qualcosa che lo immette in quel circolo per cui egli è.
Egli si pone, pertanto, a stabilire una relazione in cui, giudicando, si trova ad essere giudicato; pertanto, giudichiamo perché a nostra volta ci sentiamo giudicati e questo è ciò che psicologicamente ci imbarazza.
Perciò, l’irretirsi “ dell’io “ è l’imbarazzo a cui va incontro nel giudizio; pertanto il mondo è una minaccia.
Quanto allora sono sinceri i rapporti con l’altro?
Questa domanda confessa una sua paralisi quand’ecco il rapporto sociale pretende di annullare “ l’io “ in virtù di qualcosa che è solo fittizia.
In questo rapporto fittizio, la spontaneità sembra ritirarsi in se stessa per la paura delle incomprensioni, che potrebbero nascere da equivoci fuorvianti, di quella realtà intima che chiede di essere ascoltata.
Ogni realtà è occulta a se stessa e porta al rifiuto di una vera comunicazione, poiché l’identità “ dell’io “ è data dal suo linguaggio.
Ogni comunicazione con l’altro è diversa… diversa la dinamica.
Il malessere “ dell’io “ è dato, quindi, dall’impossibilità di giustificare una realtà che è solo propria, dall’incomprensione di una identità che, alla fine viene a celarsi nei pensieri più reconditi.
IDENTITA’ E RELAZIONE DELL’IO
Forse non se n’accorgiamo, ma in ciascuno “ l’io “ tende a mascherarsi, mettendo fra sé e l’altro una distanza, ed ecco che questa distanza si formalizza attraverso il linguaggio.
Il linguaggio è la spia di quell’identità che viene ad esprimersi attraverso forme di individuazioni da valutare secondo lo scopo di quelli che si possono definire rapporti sociali.
Attraverso questi rapporti, “ l’io “ è portato a manifestarsi in una certa circospezione quando non trova corrispondenza relazionale.
Parentele, conoscenze, amicizie; per ognuno di questi rapporti, il linguaggio si conforma a ciò che “ l’io “ va incontro.
Ogni incontro è diverso e, per sostenere la relazione, il linguaggio assume un carattere specifico secondo il grado raggiunto “ dall’io “ nel modo di comunicare i suoi pensieri.
Quindi, sono diversi i linguaggi che corrono tra persona e persona; chiudendosi però in un loro occulto, fanno sì di creare una forma ermetica di fronte all’ingerenza di ciò che non può definire la sua struttura.
Ora, a cosa è legata la struttura “ dell’io “?
Non si può oggettivare “ l’io “, ma si può oggettivare il corpo, quindi, solo immerso in un corpo,
“ l’io “ ha una sua ragione d’essere, però come soggetto; solo come soggetto ” l’io “ può dirsi “ io ”.
Il corpo è l’espressione esterna “ dell’io “ ed è in base a questo, che “ l’io “ va incontro a quella formazione dialettica che porta al giudizio; “ l’io “ è giudicato nella sua esteriorità.
Nell’esteriorità, però, vi si nasconde l’equivoco del giudizio; già, poiché identità ed esteriorità , il giudizio li riassume in un unico aspetto.
Ma “ l’io “ cela in sé l’aspetto occulto del pensiero che, se non espresso, può indefinitamente navigare nel suo mare, senza che nessuno lo possa inglobare attraverso il giudizio.
Quindi la relazione con l’altro è solo parziale… Con il suo pensiero “ l’io “ si nasconde al mondo attraverso il silenzio.
Il pensiero, per ciò, non sarà mai oggetto di verifica, trovandosi “ l’io “ in una situazione che, di per sé può sfuggire a qualsiasi indagine.
Può sfuggire all’altro, ma non a se stesso in quanto coscienza.
Per tale, come coscienza, non può mentire a se stesso senza subire una sua alterazione.
Come questa avvenga, c’è lo rivela l’esempio della bugia che spesso viene detta ( innocente o voluta che sia ); nella bugia “ l’io “ non è più “ io “ cioè si distacca da sé, non è più la trasparenza e la spontaneità vien meno.
Il tentativo che si tenta di fare, è sviare da sé l’immagine negativa di un giudizio che, fino a quel momento, ci era stato favorevole.
Ecco, la porta dello scompartimento si apre; entra una donna di mezza età che, salutando con un sorriso di circostanza, si accomoda di fronte a me.
Rispondo al sorriso, ma senza rivolgerle la parola; riaffiora in me la diffidenza verso gli estranei.
Forse rimpiango nel non essere più solo; la figura femminile mi ha sempre coperto d’imbarazzo.
Torno a guardare fuori dal finestrino quell’assalto di cespugli, poi socchiudo gli occhi.
Con gli occhi socchiusi continuo a far scorrere i miei pensieri sulla realtà di come i rapporti con l’altro celino proprio un loro contrasto.
LA GELOSIA DELL’IO
C’è un aspetto che fa sì che “ l’io “ si nasconda ancor più nella sua oscurità allorché, ingabbiato in un corpo, si sente oggettivato da se stesso… si guarda, si osserva in un contesto di gelosa intimità.
E’ un atteggiamento che diventa il tentativo di occultare una realtà che, per molti versi, creerebbe una situazione insostenibile… Ognuno è geloso di se stesso.
Questa considerazione la ricavai da un sogno che io ebbi a fare; era la richiesta di sposarsi da parte di una donna da cui, alla fine, fece emergere il sentimento della gelosia.
Quando mi ritrovai a rielaborarlo, mi chiesi: “ Ero geloso di lei o di me? “.
Ecco che una simile domanda si portava appresso altre domande, ovvero mi chiedevo cosa fosse
“ l’io “ in relazione a se stesso e cosa fosse “ l’io “ in relazione all’altro.
Quello che mi dicevo era che la gelosia veniva ad esprimersi attraverso quel che “ l’io “ si vede e si sente in una situazione di verità e negatività.
E’ un gioco ambiguo; un rapporto di specchi dove, ad ogni ingerenza esterna, la gelosia fa da baluardo.
La gelosia di sé fa sì che nessuno venga ad intromettersi o ad investigare su cui che s’aggira nella propria profondità; lì, la porta è sbarrata.
E’ sbarrata perché “ l’io stesso” non riesce ad accettare la realtà di sé, dovendosi chiedere se come si vede è veramente quella realtà.
“ L’io “ vede sempre in sé una difformità.
La difformità è riscontrabile in un suo oggettivarsi.
Ciò che il sogno occultava era la fisicità, ma non “ l’io “.
Ma “ l’io “ era consapevole di quella fisicità e per tale, seppur sospesa nel sogno, “ l’io “ tendeva a nasconderla.
Sì, dobbiamo ammetterlo che per ciascuno, davanti a quello specchio, nasce quella specie di pudore con cui avvolgere la nudità.
Ognuno è nudo a se stesso; in tal modo, il tentativo di fasciare con la propria ragione una realtà scomoda della personalità, porta l’individuo ad inabissarsi nell’oscurità del suo bozzolo.
Con un simile atteggiamento si vuol impedire così l’apertura di un foro che lasci entrare la luce, abbarbicandosi a quello stato psicologico in cui altro non si vuol fare se non impossessarsi di sé. Si diventa gelosi di quell’aspetto negativo che si vuol proteggere e che se è scoperto, viene a distruggere le apparenze che sono state faticosamente create per non lasciarsi travolgere.
“ L’io” diventa, così, geloso di sé chiudendosi nella sua sfera, opponendosi all’altro; rivendica quello spazio per cui viene a sbarrare l’accesso ad ogni possibilità, nascondendosi in ciò che di più segreto che vi è nella sua personalità.