Fb 14 agosto ’22
Lc 12,49-53
I giorni dell’angoscia (di p.Ermes Ronchi)
Sono venuto a gettare fuoco sulla terra. E come vorrei che fosse già acceso! Pensate che io sia venuto a portare la pace? No, vi dico, ma la divisione.
Gesù manifesta tutta la sua angoscia: ormai all’orizzonte si stagliano i bagliori di un incendio che lo coinvolgerà: ho un battesimo nel quale sarò battezzato e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Il Dio biblico non porta la falsa pace dell’imparzialità o dell’inerzia, ma “ascolta il gemito” dei poveri e dei piccoli, e poi prende posizione contro i faraoni di sempre. Dio non è neutrale: vittime o carnefici per lui non sono la stessa cosa, tra ricchi e poveri ha delle preferenze, e si schiera. Sono venuto a portare la divisione, quella che si realizza quando gli affamati di giustizia si oppongono ai fabbricanti di ingiustizia, quando i puri di cuore prendono le distanze dal corrotto e corruttore, quando i prigionieri escono dalle segrete e si mettono in cammino nel sole.
Ci capita, a volte, di essere senza fuoco, battezzati non nel fuoco ma nella cenere, di maneggiare le armi letali dell’indifferenza e della freddezza: restando muti davanti al grido dei poveri e di madre terra, mentre soffiano i veleni degli odi, si chiudono approdi, si alzano muri, avanza la corruzione, si avvelena la casa comune. Non si può restarsene inerti a contemplare la vita che ci scorre a fianco, malata. Altrimenti il male avanzerà e si farà sempre più arrogante e legittimato.
“Sono venuto a portare il fuoco”. Ecco l’alta temperatura morale in cui soltanto avvengono le trasformazioni positive del cuore e della storia, in cui si è creativi.
La Evangelii gaudium invita i credenti alla creatività nella missione, nella pastorale, nel linguaggio. Propone instancabilmente non l’omologazione, ma l’unicità; invoca non l’obbedienza ma l’originalità del vivere. Fino a suggerire di non temere eventuali conflitti che ne possono seguire (Eg 226), perché senza conflitto non c’è passione.
Continua il Vangelo: Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? Un invito pieno di energia, rivolto proprio a tutti: non seguite il pensiero dominante, non accodatevi alla maggioranza o ai sondaggi d’opinione.
Giudicate da voi stessi, intelligenti e liberi, svegli e sognatori, andando oltre la buccia delle cose: «La differenza decisiva non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa» (C.M. Martini). Tra chi si domanda che cosa c’è di buono o di sbagliato in ciò che accade, e chi non si domanda più niente.
Giudicate da voi… Siate profeti, siate profeti anche scomodi, dice il Signore. Anche oggi, a casa nostra, i nostri messaggi di coerenza possono essere una moltitudine, ogni giorno, tra gli adulti e tra i bambini. Creatività e coerenza. E far divampare quella goccia di fuoco che lo Spirito ha seminato in ogni vivente.
Avvenire XX DOMENICA C
Luca 12,49-57
Fuoco e divisione sono venuto a portare. Vangelo drammatico, duro e pensoso. E bellissimo. Testi scritti sotto il fuoco della prima violenta persecuzione contro i cristiani, quando i discepoli di Gesù si trovano di colpo scomunicati dall’istituzione giudaica e, come tali, passibili di prigione e morte. Un colpo terribile per le prime comunità di Palestina, dove erano tutti ebrei, dove le famiglie cominciano a spaccarsi attorno al fuoco e alla spada, allo scandalo della croce di Cristo.
Sono venuto a gettare fuoco sulla terra. Il fuoco è simbolo altissimo, in cui si riassumono tutti gli altri simboli di Dio, è la prima memoria nel racconto dell’Esodo della sua presenza: fiamma che arde e non consuma al Sinai; bruciore del cuore come per i discepoli di Emmaus; fuoco ardente dentro le ossa per il profeta Geremia; lingue di fuoco a pentecoste; sigillo finale del Cantico dei Cantici: le sue vampe sono vampe di fuoco, una scheggia di Dio infuocata è l’amore.
Sono venuto a gettare Dio, il volto vero di Dio sulla terra. Con l’alta temperatura morale in cui avvengono le vere rivoluzioni.
Pensate che io sia venuto a portare la pace? No, vi dico, ma divisione. La pace non è neutralità, mediocrità, equilibrio tra bene e male. “Credere è entrare in conflitto” (David Turoldo). Forse il punto più difficile e profondo della promessa messianica di pace: essa non verrà come pienezza improvvisa, ma come lotta e conquista, terreno di conflitto, sarà scritta infatti con l’alfabeto delle ferite inciso su di una carne innocente, un tenero agnello crocifisso.
Gesù per primo è stato con tutta la sua vita segno di contraddizione, “per la caduta e la risurrezione di molti” (Luca 2,34). Conosceva, come i profeti antichi, la misteriosa beatitudine degli oppositori, di chi si oppone a tutto ciò che fa male alla storia e ai figli di Dio. La sua predicazione non metteva in pace la coscienza di nessuno, la scuoteva dalle false paci apparenti, frantumate da un modo più vero di intendere la vita.
La scelta di chi perdona, di chi non si attacca al denaro, di chi non vuole dominare ma servire, di chi non vuole vendicarsi, di chi apre le braccia e la casa, diventa precisamente, inevitabilmente, divisione, guerra, urto con chi pensa a vendicarsi, a salire e dominare, con chi pensa che vita vera sia solo quella di colui che vince.
Come Gesù, così anche noi siamo inviati a usare la nostra intelligenza non per venerare il tepore della cenere, ma per custodire il bruciore del fuoco (G. Mahler), siamo una manciata, un pugno di calore e di luce gettati in faccia alla terra, non per abbagliare, ma per illuminare e riscaldare quella porzione di mondo che è affidata alle nostre cure.
Quando un credente, mosso dallo Spirito Santo, prega per i peccatori, non fa selezioni, non emette giudizi di condanna: prega per tutti.
E prega anche per sé. In quel momento sa di non essere nemmeno troppo diverso dalle persone per cui prega: si sente peccatore, tra i peccatori, e prega per tutti.
La lezione della parabola del fariseo e del pubblicano è sempre viva e attuale (cfr Lc 18,9-14): noi non siamo migliori di nessuno, siamo tutti fratelli in una comunanza di fragilità, di sofferenze e nell’essere peccatori.
Perciò una preghiera che possiamo rivolgere a Dio è questa: “Signore, nessun vivente davanti a Te è giusto (cfr Sal 143,2) – questo lo dice un salmo: “Signore, nessun vivente davanti è Te è giusto”, nessuno di noi: siamo tutti peccatori –, siamo tutti debitori che hanno un conto in sospeso; non c’è alcuno che sia impeccabile ai tuoi occhi. Signore abbi pietà di noi!”.
E con questo spirito la preghiera è feconda, perché andiamo con umiltà davanti a Dio a pregare per tutti. Invece, il fariseo pregava in modo superbo: “Ti ringrazio, Signore, perché io non sono come quei peccatori; io sono giusto, faccio sempre…”.
Questa non è preghiera: questo è guardarsi allo specchio, alla realtà propria, guardarsi allo specchio truccato dalla superbia.Il mondo va avanti grazie a questa catena di oranti che intercedono, e che sono per lo più sconosciuti… ma non a Dio!
Ci sono tanti cristiani ignoti che, in tempo di persecuzione, hanno saputo ripetere le parole di nostro Signore: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
da un’omelia di papa Francesco
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Io che sono lento a credere, che mi ci vorrà forse tutta la vita non per capire, ma solo per assaporare un poco della fede, come potrò cogliere qualcosa della Trinità? La strada non è quella delle formule. Voler capire la Trinità attraverso i concetti, è come tentare di capire una parola analizzando l’inchiostro con cui è scritta.
Dio non è una definizione, è un’esperienza.
I termini di Gesù per raccontare la Trinità, sono nomi di famiglia, odori di casa, suoni e silenzi di affetti. Padre, figlio, nomi che si abbracciano. Lo Spirito dice che ogni vita respira e si dilata solo quando si sa accolta, presa in carico. Abbracciata. E su tutto regna sovrana la relazione; sul trono di famiglia, il legame.
Dio l’abbracciante. Se non c’è amore, non vale nessun magistero; senza il suo respiro, nessuna cattedra sa dire Dio.
E’ l’abbraccio il senso pieno della Trinità, e l’uomo ha il suo volto.
Quando Dio dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, l’immagine non è quella del Creatore, non quella dello Spirito, né quella del Verbo eterno, ma le tre realtà fuse insieme.
Ecco perché la solitudine mi pesa tanto e mi fa paura, perché è contro la mia natura. Ecco perché quando amo e trovo amicizia sto così bene, perché è secondo la mia, la nostra vocazione.
La relazione come cuore reciproco dell’essenza di Dio nell’uomo.
Ci ha amati così tanto da mandare suo Figlio. E mondo e uomo sono storia della Trinità. Mosè, il grande amico di Dio, prega così: “Che il Signore cammini in mezzo a noi, venga in mezzo alla sua gente. Non resti sul monte, guida alta e lontana, ma scenda e si perda in mezzo al calpestio del popolo”.
Tutta la Scrittura ci assicura che nel calpestio del popolo, nella polvere dei sentieri, lo Spirito accende profeti e orizzonti; il Padre rallenta il suo passo paziente sul ritmo del nostro, e il Figlio è salvezza che ci cammina, sicura, a fianco.
Tutto questo ci sarebbe bastato! Invece l’Ascensione ci porta in pieno nel seno della Trinità: noi siamo quell’uomo pensato e creato non ad immagine del Dio solitario, ma della sua Trinità, dove si è felici solo l’uno nell’altro.
Questo Dio folle che ha amato non solo noi, ma tutto il creato. E che anch’io amo, perché è opera delle sue dita. Coi suoi spazi, le sue nuvole, i suoi figli, la sua dolce e aspra bellezza.
Terra amata e paziente. Grande giardino di Dio, con noi suoi piccoli “giardinieri planetari”.
La Trinità è lo specchio del mio senso ultimo, e dell’universo stesso.
Incamminato verso un Padre che mi dà vita, verso un Figlio che mi innamora, verso uno Spirito che accende di comunione le mie solitudini, io mi sento piccolo ma abbracciato dal mistero, come un bambino col naso all’insù.
Resto saldo nel loro vento in cui naviga l’intero creato che mi attende. Mi attende, perché il suo nome è comunione.
p.Ermes Ronchi
Avvenire
SS. TRINITA 2020
I nomi di Dio sul monte sono uno più bello dell’altro: il misericordioso e pietoso, il lento all’ira, il ricco di grazia e di fedeltà (Es 34,6). Mosè è salito con fatica, due tavole di pietra in mano, e Dio sconcerta lui e tutti i moralisti, scrivendo su quella rigida pietra parole di tenerezza e di bontà.
Che giungono fino a Nicodemo, a quella sera di rinascite.
Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Siamo al versetto centrale del vangelo di Giovanni, a uno stupore che rinasce ogni volta davanti a parole buone come il miele, tonificanti come una camminata in riva al mare, fra spruzzi d’onde e aria buona respirata a pieni polmoni: Dio ha tanto amato il mondo… e la notte di Nicodemo, e le nostre, s’illuminano.
Gesù sta dicendo al fariseo pauroso: il nome di Dio non è amore, è “tanto amore”, lui è “il molto-amante”. Dio altro non fa che, in eterno, considerare il mondo, ogni carne, più importanti di se stesso. Per acquistare me, ha perduto se stesso. Follia della croce. Pazzia di venerdì santo. Ma per noi rinascita: ogni essere nasce e rinasce dal cuore di chi lo ama.
Proviamo a gustare la bellezza di questi verbi al passato: Dio ha amato, il Figlio è dato. Dicono non una speranza (Dio ti amerà, se tu…), ma un fatto sicuro e acquisito: Dio è già qui, ha intriso di sé il mondo, e il mondo ne è imbevuto. Lasciamo che i pensieri assorbano questa verità bellissima: Dio è già venuto, è nel mondo, qui, adesso, con molto amore. E ripeterci queste parole ad ogni risveglio, ad ogni difficoltà, ogni volta che siamo sfiduciati e si fa buio.
Il Figlio non è stato mandato per giudicare. “Io non giudico!”(Gv 8.15) Che parola dirompente, da ripetere alla nostra fede paurosa settanta volte sette! Io non giudico, né per sentenze di condanna e neppure per verdetti di assoluzione. Posso pesare i monti con la stadera e il mare con il cavo della mano (Is 40,12), ma l’uomo non lo peso e non lo misuro, non preparo né bilance, né tribunali. Io non giudico, io salvo. Salvezza, parola enorme. Salvare vuol dire nutrire di pienezza e poi conservare. Dio conserva: questo mondo e me, ogni pensiero buono, ogni generosa fatica, ogni dolorosa pazienza; neppure un capello del vostro capo andrà perduto (Lc 21,18), neanche un filo d’erba, neanche un filo di bellezza scomparirà nel nulla. Il mondo è salvo perché amato. I cristiani non sono quelli che amano Dio, sono quelli che credono che Dio li ama, che ha pronunciato il suo ‘sì’ al mondo, prima che il mondo dica ‘sì’ a lui.
Festa della Trinità: annuncio che Dio non è in se stesso solitudine, ma comunione, legame, abbraccio. Che ci ha raggiunto, e libera e fa alzare in volo una pulsione d’amore.
I DI QUARESIMA
Omelia
In quel tempo. In questo tempo.
Come in una parabola moderna, ho immaginato le tentazioni di Gesù nella città che conosco meglio: a Milano. Un piccolo racconto.
Il diavolo portò Gesù nella grande città, la capitale della finanza e della moda. Lo pose sul punto più alto del tempio, sulla guglia centrale del Duomo, e gli mostrò la città tutta intera: il Castello, la Borsa, la cintura delle banche, lo stadio, le vie della moda. E c’era folla sul corso, turisti e polizia. C’erano quelli che chiedono l’elemosina circondandosi di cani perché dicono che la gente ha più compassione delle bestie e dei cuccioli, che non degli uomini. E sull’asfalto grigio, coriandoli e stelle filanti di carnevale, e la pioggia leggera di marzo. Qualcuno, occhi tristi e pelle scura, vendeva le ultime rose ai passanti .
Guardando bene si vedevano anche quelli che si lasciavano andare alla solitudine, alla vecchiaia, alla depressione, che si lasciavano morire di alcool, di droga, di esclusione, di abusi.
Allora il diavolo disse a Gesù: “Tutto questo è mio! Tutto sarà tuo se ti inginocchi davanti a me!”
Signore, perché non gli hai dato del bugiardo?
Dicendogli, e dicendo a noi, che non è vero, che non tutto è suo, che la città non è il suo regno, che ci sono giusti e bambini e innamorati e generosi.
Lascia che ti mostri una cosa, Signore, proprio a Te che non hai reagito. Nella città, che il diavolo dice sua, ci sono luoghi dove per tutto il giorno si asciugano lacrime, dove vegliano quelli che intercedono per i fratelli e cercano il Tuo volto.
Ci sono donne e uomini che vogliono fare della loro vita qualcosa che serva a qualcuno.
Ci sono madri che danno ancora la vita per i figli e gente onesta perfino nelle piccole cose, ci sono padri che trasmettono rettitudine ai loro figli e occhi diritti.
C’è il grido del male, lo sento forte e mi stordisce a giorni, ma più ancora c’è il silenzioso germogliare del bene.
Signore, se guardi bene nella città che il diavolo dice sua non c’è solo arroganza, competizione, fastidio reciproco, insofferenza, rifiuto.
Puoi incontrare anche la forza dell’amore, la passione per la giustizia, il sottovoce dell’onestà, gente che non ha secondi fini, piccoli profeti del quotidiano.
E se vieni ancora più vicino puoi incontrare anche me, perché ci sono anch’io e sono tra quelli che credono ancora all’amore e alla speranza.
Buttati, ti ha detto il diavolo, verranno gli angeli a portarti sulle mani! Io lo so che verranno, quando con l’ultimo, con il più grande atto di fede, mi butterò in Te nel giorno della mia morte, fidandomi.
Se c’è un angelo nel cielo sopra Milano, un angelo sopra questi paesi, chiedo che mi accompagni nell’ultimo viaggio, oltre le porte dell’ombra, tenendomi per mano, perché ho un po’ paura, e mi dica in quell’ultimo tratto di cielo solo questo:
“Vieni, hai tentato di amare, il tuo desiderio di amore era già amore”! Non chiedo altro, ma che lo dica con un sorriso.
E’ la mia speranza, un sogno dolce, di cui non mi stanco.
Le tre tentazioni che abbiamo udito, sono la massima espressione dell’intelligenza umana. Non propongono delitti, sangue, violenza, guerra, barricate contro i poveri, queste cose sappiamo riconoscerle, tentiamo perfino di sfuggirle. Propongono di nutrirci di cose, di non cercare dalla parte dello spirito.
La prima tentazione pone l’alternativa: pietre o pane? Il diavolo, che è il più intelligente tra gli spiriti, dice a Gesù: “Non sognare, vedi queste pietre? Cambiale in pane.
Gli uomini hanno bisogno di pane e di miracoli, hanno bisogno di capi che sembrino forti, assicuragli questo: pane, miracoli e capi e saranno tutti dalla tua parte.
Non vedi il piacere che hanno di ricevere il pane e ancor più di riceverlo dalle mani di qualcuno invece di guadagnarlo?”
Ma Gesù non si impossessa della libertà di nessuno, né con il pane né coi miracolo, troppi l’hanno fatto, lui è maestro di libertà. E oppone alla fame di cose, il morso del più: “Non di solo pane vive l’uomo”, anzi di solo pane l’uomo muore. L’uomo vive di ciò che viene dalla bocca di Dio.
Bellissima questa parola: l’uomo vive di Dio. Dalla bocca di Dio sono venute le parole che hanno creato la luce, il cosmo, le creature, è venuto il Verbo e il Vangelo.
Tu, io, noi tutti, ogni creatura è venuta dalla bocca di Dio. Il tuo respiro è il respiro stesso di Dio. Di Dio e di te io vivo. Di te, creatura che tocchi con dita di bontà, la mia vita.
Seconda tentazione: tutto sarà tuo, se segui la mia logica.
Tu vuoi cambiare il corso della storia facendoti servo? Cioè con niente, senza mezzi, senza potere? non funzionerà. Il mondo ha dei problemi, tu devi risolverli.
Che problemi risolve una Croce? Li aumenta, invece. Il mondo è tutto una collina di croci, cosa cambierà un Crocifisso in più? Prenditi il potere, prenditi l’autorità, le leggi, le decisioni, occupa i posti chiave, solo così risolverai i problemi. Vuoi dare libertà? Ma non sanno che farsene. La libertà è un peso troppo grande, preferiscono eseguire ordini.
Ma Gesù sa che il potere è un sole nero. E ingannatore, nessun faraone libererà mai i suoi schiavi. E risponde Gesù: non ti piegare, non ti inginocchiare davanti a nessuno, eppure sarai servitore di tutti.
Terza tentazione Buttati giù, e Dio manderà i suoi angeli. Mostra a tutti un Dio immaginario che smonta e rimonta la natura e le sue leggi, a piacimento, come fosse il suo giocattolo; che è una assicurazione contro gli infortuni della vita, che salva da ogni problema, che ti protegge dalla fatica.
E Gesù risponde: “Non tentare Dio!” Io so che il Signore sarà presente, ma come Lui vorrà non come io vorrei. E se cadrò sarà ancora più vicino, chino su di me. e io avanzerò nella vita non a forza di miracoli, ma per il miracolo di un amore che non si arrende.
Gesù si oppone alla tentazione sfidandola, alzando la posta: dì che queste pietre diventino pane… Il pane è un bene, è un valore, fa vivere. Gesù risponde offrendo più vita: “Non di solo pane vivrà l’uomo!” Il pane è buono ma più buona è la Parola: il pane dà vita ma più vita viene dalla bocca di Dio.
Per questo siamo qui, fratelli, per avere più vita, per camminare dal deserto di pietre e tentazioni, al giardino del sepolcro vuoto, fresco e risplendente nell’alba, mentre fuori è primavera: è questo il percorso della Quaresima. Non penitenziale, quindi, ma vitale; non di sacrifici ma di germogli. L’uomo non è polvere o cenere, ma figlio di Dio e simile a un angelo (Eb2,7) e la cenere posta sul capo non è segno di tristezza o piccolezza ma di nuovo inizio: la cenere che si sparge nell’orto e nel campo per più fecondità, la ripartenza della creazione, sempre e comunque, anche partendo dal quasi niente che rimane fra le mani.
Preghiera alla Comunione
Riascoltiamo il Salmo 50, salmo quaresimale, nella lettura di G. Quarenghi. Non smettere di volermi bene,
non smettere mai,
nemmeno quando ti faccio arrabbiare.
Ho sbagliato, sapevo che non era da fare,
l’ho fatto lo stesso
l’ho fatto apposta.
Non capisco cosa mi succede, a volte
so che è sbagliato,
Tu me l’hai detto e ridetto che è sbagliato
ma io lo faccio lo stesso.
Non posso farne a meno,
è più forte di me.
Ma non sono solo io a fare così, anche gli altri lo fanno
ma adesso è di me che voglio parlarti.
Mi hai insegnato ad essere sincero,
chi è sincero è buono, dici sempre,
mi hai insegnato a non avere paura
di quello che sono, a non nascondermi.
Vieni a cercarmi, trovami,
non dirmi che non ti fidi più di me
e fammi tornare ad essere contento.
Dimentica i miei errori
e non ci saranno più!
Non mandarmi via,
non mandarmi dove Tu non ci sei.
Non dirmi che non mi vuoi più qui con Te
e non andare via, neppure Tu.
Rimani qui e guardami
come quando mi vuoi bene,
pensa che posso farcela e ce la farò,
pensa che sono buono e lo sarò
buono come Te.
Non ti piacciono le promesse
e io non te le faccio,
Tu perdonami però, vieni a cercarmi,
quello che vuoi è che io capisca,
questo conta, che io capisca.
Eccoti finalmente sei qui,
mi prendi tra le braccia,
tienimi così e dimmelo,
dimmelo
che non smetterai di volermi bene, mai.
Il Vangelo – A cura di Ermes Ronchi
III Domenica – Tempo Ordinario – Anno C – 2019
A Nazaret il sogno di un mondo nuovo
Vangelo – Luca 1,1-4; 4,14-21
(…) In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore». Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Commento di p.Ermes Ronchi
Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Sembrano più attenti alla persona che legge che non alla parola proclamata. Sono curiosi, lo conoscono bene quel giovane, appena ritornato a casa, nel villaggio dov’era cresciuto nutrito, come pane buono, dalle parole di Isaia che ora proclama: «Parole così antiche e così amate, così pregate e così agognate, così vicine e così lontane. Annuncio di un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell’umanità» (R. Virgili).
Gesù davanti a quella piccolissima comunità presenta il suo sogno di un mondo nuovo. E sono solo parole di speranza per chi è stanco, o è vittima, o non ce la fa più: sono venuto a incoraggiare, a portare buone notizie, a liberare, a ridare vista. Testo fondamentale e bellissimo, che non racconta più “come” Gesù è nato, ma “perché” è nato. Che ridà forza per lottare, apre il cielo alle vie della speranza. Poveri, ciechi, oppressi, prigionieri: questi sono i nomi dell’uomo.
Adamo è diventato così, per questo Dio diventa Adamo. E lo scopo che persegue non è quello di essere finalmente adorato e obbedito da questi figli distratti, meschini e splendidi che noi siamo. Dio non pone come fine della storia se stesso o i propri diritti, ma uomini e donne dal cuore libero e forte. E guariti, e con occhi nuovi che vedono lontano e nel profondo. E che la nostra storia non produca più poveri e prigionieri. Gesù non si interroga se quel prigioniero sia buono o cattivo; a lui non importa se il cieco sia onesto o peccatore, se il lebbroso meriti o no la guarigione. C’è buio e dolore e tanto basta per far piaga nel cuore di Dio. Solo così la grazia è grazia e non calcolo o merito.
Impensabili nel suo Regno frasi come: «È colpevole, deve marcire in galera». Il programma di Nazaret ci mette di fronte a uno dei paradossi del Vangelo. Il catechismo che abbiamo mandato a memoria diceva: «Siamo stati creati per conoscere, amare, servire Dio in questa vita e poi goderlo nell’eternità». Ma nel suo primo annuncio Gesù dice altro: non è l’uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l’uomo. C’è una commozione da brividi nel poter pensare: Dio esiste per me, io sono lo scopo della sua esistenza.
Il nostro è un Dio che ama per primo, ama in perdita, ama senza contare, di amore unilaterale. La buona notizia di Gesù è un Dio sempre in favore dell’uomo e mai contro l’uomo, che lo mette al centro, che dimentica se stesso per me, e schiera la sua potenza di liberazione contro tutte le oppressioni esterne, contro tutte le chiusure interne, perché la storia diventi totalmente “altra” da quello che è. E ogni uomo sia finalmente promosso a uomo e la vita fiorisca in tutte le sue forme.
(Letture: Neemia 8,2-4.5-6.8-10; Salmo 18; 1 Corinzi 12,12-30; Luca 1,1-4; 4,14-21)
Commento al Vangelo domenica 27 gennaio – p.Ermes – a Nazaret il sogno di un mondo nuovo
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/a-nazaretil-sogno-di-un-mondo-nuovo
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi
I potenti alzano barriere, Dio le supera
II Domenica di Avvento – Anno C
*Vangelo – Luca 3,1-6
1 Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, 2 sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. 3 Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, 4 com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia:
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
5 Ogni burrone sia riempito,
ogni monte e ogni colle sia abbassato;
i passi tortuosi siano diritti;
i luoghi impervi spianati.
6 Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
Commento di padre Ermes Ronchi
Una pagina solenne, quasi maestosa dà avvio al racconto dell’attività pubblica di Gesù. Un lungo elenco di re e sacerdoti a tracciare la mappa del potere politico e religioso dell’epoca, e poi, improvvisamente, il dirottamento, la svolta. La Parola di Dio vola via dal tempio e dalle grandi capitali, dal sacerdozio e dalle stanze del potere, e raggiunge un giovane, figlio di sacerdoti e amico del deserto, del vento senza ostacoli, del silenzio vigile, dove ogni sussurro raggiunge il cuore. Giovanni, non ancora trent’anni, ha già imparato che le uniche parole vere sono quelle diventate carne e sangue. Che non si tirano fuori da una tasca, già pronte, ma dalle viscere, quelle che ti hanno fatto patire e gioire.
Ecco, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Non è l’annunciatore che porta l’annuncio, è l’annuncio che lo porta, lo incalza, lo sospinge: e percorreva tutta la regione del Giordano. La parola di Dio è sempre in volo in cerca di uomini e donne, semplici e veri, per creare inizi e processi nuovi. Raddrizzate, appianate, colmate… Quel giovane profeta un po’ selvatico dipinge un paesaggio aspro e difficile, che ha i tratti duri e violenti della storia: ogni violenza, ogni esclusione e ingiustizia sono un burrone da colmare. Ma è anche la nostra geografia interiore: una mappa di ferite mai guarite, di abbandoni patiti o inflitti, le paure, le solitudini, il disamore… C’è del lavoro da fare, un lavoro enorme: spianare e colmare, per diventare semplici e diritti. E se non sarò mai una superstrada, non importa, sarò un piccolo sentiero nel sole.
Vangelo che conforta: – anche se i potenti del mondo alzano barriere, cortine di bugie, muri ai confini, Dio trova la strada per raggiungere proprio me e posarmi la mano sulla spalla, la parola nel grembo, niente lo ferma; – chi conta davvero nella storia? Chi risiede in una reggia? Erode sarà ricordato solo perché ha tentato di uccidere quel bambino; Pilato perché l’ha condannato. Conta davvero chi si lascia abitare dal sogno di Dio, dalla sua parola.
L’ultima riga del Vangelo è bellissima: ogni uomo vedrà la salvezza. Ogni uomo? Sì, esattamente questo. Dio vuole che tutti siano salvi, e non si fermerà davanti a burroni o montagne, neppure davanti alla tortuosità del mio passato o ai cocci della mia vita. Una delle frasi più impressionanti del Concilio Vaticano Secondo afferma: «Ogni uomo che fa esperienza dell’amore, viene in contatto con il Mistero di Cristo in un modo che noi non conosciamo» (Gaudium et spes 22). Cristo raggiunge ogni uomo, tutti gli uomini, e l’amore è la sua strada. E nulla vi è di genuinamente umano che non raggiunga a sua volta il cuore di Dio.
(Letture: Baruc 5,1-9; Salmo 125; Filippesi 1,4-6.8-11; Luca 3,1-6 )
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/i-potenti-alzano-barriere-dio-le-supera
http://www.smariadelcengio.it/fra-ermes-ronchi-comunica/26879/commento-al-vangelo-9-dicembre-p-ermes-i-potenti-alzano-barriere-dio-le-supera/
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi
I Domenica Avvento – Anno C
Nonostante tutto, la storia è un itinerario di salvezza
Vangelo – Lc 21,25-28.34-36
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
Commento di fra Ermes
Ci saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle. Il vangelo di Luca oggi non vuole raccontare la fine del mondo, ma il mistero del mondo; ci prende per mano, ci porta fuori dalla porta di casa, a guardare in alto, a percepire il cosmo pulsare attorno a noi, immensa vita che patisce, soffre, si contorce come una partoriente (Is13,8), ma per produrre vita.
Ad ogni descrizione drammatica, segue un punto di rottura, un tornante che apre l’orizzonte, lo sfondamento della speranza e tutto cambia: ma voi risollevatevi e alzate il capo, la liberazione è vicina. Anche nel caos della storia e nelle tempeste dell’esistenza, il vento di Dio è sopra il mio veliero.
State attenti a voi stessi, che il cuore non diventi pesante! Verrà un momento in cui ci sentiremo col cuore pesante. Ho provato anch’io il morso dello sconforto, per me e per il mondo, ma non gli permetterò più di sedersi alla mia tavola e di mangiare nel mio piatto. Perché fin dentro i muscoli e le ossa io so una cosa: che non può esserci disperazione finché custodisco la testarda fedeltà all’idea che la storia è, nonostante tutte le smentite, un processo di salvezza.
Il dono dell’Avvento è un cuore leggero come la fiducia, quanto la speranza; non la leggerezza della piuma sbattuta dal vento, ma quella dell’uccello che fende l’aria e si serve del vento per andare più lontano.
E poi un cuore attento, che legga la storia come un grembo di nascite: questo mondo porta un altro mondo nel grembo, un sogno da trasformare in vita, perché non si ammali. Vivete con attenzione, state attenti alle piccole enormi cose della vita. Scrive Etty Hillesum dal campo di sterminio: «Esisterà pur sempre anche qui un pezzetto di cielo che si potrà guardare, e abbastanza spazio dentro di me per poter congiungere le mani nella preghiera».
I Vangeli d’Avvento usano questo doppio registro: fanno levare il capo verso le cose ultime, verso Colui-che-si-fa-vicino, e poi abbassare gli occhi verso le cose di qui, dentro e attorno a noi. Lo fanno per aiutarci a vivere attenti, ad abitare la terra con passo leggero, custodi dei giorni e pellegrini dell’eterno, guardando negli occhi le creature e fissando gli abissi del cosmo, attenti al venire di Dio e al cuore che si fa stanco. Pronti ad un abbraccio che lo alleggerisca di nuovo, e lo renda potente e leggero come un germoglio.
Avvento: la vita è non è una costruzione solida, precisa, finita, ma è una realtà germinante (R. Guardini), fatta anche e soprattutto di germogli, a cui non ti puoi aggrappare, che non ti possono dare sicurezze, ma che regalano un sapore di nascite e di primavera, il profumo della bambina speranza (Péguy).
(Letture: Geremia 33, 14-16; Salmo 24; 1 Tessalonicesi 3, 12-14, 2; Luca 21, 25-28.34-36).
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/nonostante-tutto-la-storia-e-un-itinerario-di-salvezza
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi
Noi siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama
marzo 2018di carmelovalmadonna
IV Domenica di Quaresima “Laetare” – Anno B
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Dio ha tanto amato il mondo, versetto centrale del Vangelo di Giovanni, versetto dello stupore che rinasce ogni volta, per queste parole buone come il miele, tonificanti come una camminata in riva al mare, fra spruzzi d’onde e aria buona respirata a pieni polmoni; parole da riassaporare ogni giorno e alle quali aggrapparci forte in tutti i passaggi della vita, in ogni caduta, in ogni notte, in ogni delusone.
Dio ha così tanto amato… e la notte di Nicodemo, e le nostre notti si illuminano. Qui possiamo rinascere. Ogni giorno. Rinascere alla fiducia, alla speranza, alla serena pace, alla voglia di amare, di lavorare e creare, di custodire e coltivare persone e talenti e creature, tutto intero il piccolo giardino che Dio mi ha affidato.
Non solo l’uomo, ma è il mondo che è amato, la terra è amata, e gli animali e le piante e la creazione intera. E se egli ha amato la terra, anch’io la devo amare, con i suoi spazi, i suoi figli, il suo verde, i suoi fiori.. E se Egli ha amato il mondo e la sua bellezza fragile, allora anche tu amerai il creato come te stesso, lo amerai come il prossimo tuo: «mio prossimo è tutto ciò che vive» (Gandhi).
La rivelazione di Gesù è questa: Dio ha considerato il mondo, ogni uomo, questo mio niente cui però ha donato un cuore, più importante di se stesso. Per acquistare me ha perduto se stesso. Follia d’amore.
Dio ha amato: la bellezza di questo verbo al passato, per indicare non una speranza o una attesa, ma una sicurezza, un fatto certo, e il mondo intero ne è intriso: «il nostro guaio è che siamo immersi in un oceano d’amore, e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). Tutta la storia biblica inizia con un “sei amato” e termina con un “amerai” (P. Beauchamp). Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama.
Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato, perché chi crede abbia la vita. A Dio non interessa istruire processi contro di noi, non dico per condannare o per pareggiare i conti, ma neppure per assolverci. La vita degli amati da Dio non è a misura di tribunale, ma a misura di fioritura e di abbraccio, nel paradigma della pienezza.
Perché il mondo sia salvato: salvare vuol dire conservare, e nulla andrà perduto, non un sospiro, non una lacrima, non un filo d’erba; non va perduta nessuna generosa fatica, nessuna dolorosa pazienza, nessun gesto di cura per quanto piccolo e nascosto: Se potrò impedire a un Cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano. Se potrò alleviare il Dolore di una Vita o lenire una Pena, o aiutare un Pettirosso caduto a rientrare nel suo nido non avrò vissuto invano. (Emily Dickinson).
(Letture: 2 Corinzi 36,14-16.19-23; Salmo 136; Efesini 2, 4-10; Giovanni 3, 14-21)
https://buff.ly/2FpmyDN
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SANTA FAMIGLIA – Lc 2, 22-40
di p. Ermes Ronchi
Benvenuti all’incontro con il Signore, portando la gioia e il peso delle nostre famiglie, i sorrisi e le lacrime, tutti i ‘perché’ senza risposta, ciascuno pastore di un piccolo gregge affidato alle sue cure. Per questo chiediamo il dono di un cuore affidabile, coraggioso e tenace.
OMELIA
Maria e Giuseppe portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore. Una giovanissima coppia col suo primo bambino arriva portando la povera offerta dei poveri, due tortore, e la più preziosa offerta del mondo: un bambino.
Non fanno nemmeno in tempo a entrare che subito le braccia di un uomo e di una donna si contendono il bambino. Sulle braccia di due anziani, riempito di carezze e di sorrisi, passa dall’uno all’altro il futuro del mondo: la vecchiaia del mondo che accoglie fra le sue braccia l’eterna giovinezza di Dio.
Il piccolo bambino è accolto non dagli uomini delle istituzioni, ma da un anziano e un’anziana senza nessun ruolo ufficiale, però due innamorati di Dio che hanno occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. Perché Gesù non appartiene all’istituzione, ma all’umanità, nella vita che finisce e in quella che fiorisce.
‘E’ nostro, di tutti gli uomini e di tutte le donne. Appartiene agli assetati, a quelli che non smettono di cercare e sognare mai, come Simeone; a quelli che sanno vedere oltre, come la profetessa Anna; a quelli capaci di incantarsi davanti a un neonato, perché sentono Dio come futuro’ (M. Marcolini).
Mosso dallo Spirito Simeone si reca al tempio e lo accoglie fra le sue braccia.
Un vecchio e un neonato, una vita che si chiude e una vita appena fiorita e su questo sfondo il futuro che riprende a scorrere. Infatti Simeone, l’anziano, comincia a parlare non più del passato, come sono soliti fare gli anziani, ma del futuro come fanno i giovani. Ecco un passato stanco inizia a celebrare un possibile domani giovane.
Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia. Sono parole che lo Spirito ha conservato nella Bibbia perché io, noi, le conservassimo nel cuore: anche tu, come Simeone, non morirai senza aver visto il Signore. È speranza. È Parola di Dio. La tua vita non finirà senza risposte, senza incontri, senza luce. Verrà anche per te il Signore, verrà come aiuto in ciò che fa soffrire, come forza di ciò che fa partire.
Io non morirò senza aver visto l’offensiva di Dio, l’offensiva del bene, l’offensiva della luce che è già in atto dovunque, l’offensiva del lievito, del granello di senape.
Poi Simeone canta: ho visto la luce da te preparata per tutti. Ma quale luce emana da Gesù, da questo piccolo figlio della terra che sa solo piangere e succhiare il latte e sorridere agli abbracci?
Simeone ha colto l’essenziale: la luce di Dio è Gesù, luce incarnata, carne illuminata, storia fecondata, amore in ogni amore. La salvezza non è un opera particolare, ma Dio che è venuto, si lascia abbracciare dall’uomo, è qui adesso, mescola la sua vita alle nostre vite e nulla mai ci potrà più separare.
Simeone dice poi tre parole immense a Maria, che sono per tutti noi, perché Maria è l’icona di tutti i discepoli: egli è qui come caduta e risurrezione, come segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri dei cuori.
Caduta. Risurrezione. Contraddizione.
Cristo come caduta. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, che fa cadere in rovina il nostro mondo di maschere e bugie, che rovina la vita insufficiente e malata, la vita che è solo illusione di vita. Gli spiriti impuri nel vangelo di Marco se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore.
A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano dell’uomo: denaro, successo, potere, egoismi.
Ad essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui.
Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Vanno in rovina, come aveva sognato Isaia, le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l’uomo libero e amante.
Posso diventarlo anch’io, se il vangelo diventa in me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro “Cristo, mia dolce rovina” (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, getta via dalle mie braccia le cose morte e dilata gli orizzonti che respiro. Cristo mia dolce rovina, impossibile amarti impunemente, impossibile amarti e non pagarne il prezzo in moneta di vita nuova.
**Egli è qui per la risurrezione: egli è qui come forza che mi ha fatto ripartire quando credevo che per me fosse finita, quando avevo il vuoto dentro e il nero davanti agli occhi. E se sono caduto sette volte mi ha rialzato otto volte. Risurrezione della nobiltà che c’è in ogni uomo, anche il più perduto e disperato.
*** Cristo come contraddizione: i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le sue vie non sono le nostre vie; lui contraddice la mia quieta mediocrità, tutto il disamore. Contraddice le idee sbagliate che ho su Dio.
Caduta, risurrezione contraddizione. Tre parole che danno respiro e movimento alla vita.
Gesù ha il luminoso potere di far vedere che le cose sono abitate da un oltre.
Nell’ultima preghiera del giorno, a ogni calar della notte, monaci e monache, anziani fedeli e giovani profeti, da secoli, da millenni, in ogni angolo della terra, ripetono queste parole di Simeone: Ora lascia che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua luce.
Io ho visto la luce. Atto di fede. Che voglio ripetere, ad occhi aperti: io ho visto la luce. Io guardo e vedo Dio all’opera, oggi, acceso come luce improvvisa, come fioritura inattesa. Vite rimesse in piedi.
Io ho visto e vedo ancora lo Spirito smuovere istituzioni che parevano immobili e accendere fuochi da stoppini smorti.
Io ho visto e vedo adesso Gesù, come caduta degli idoli, come speranza dentro ogni sconfitta, contraddizione di tutto ciò che contraddice l’amore.
Come Simeone, occhi velati e accesi, io ho visto la luce e come lui benedico.
Tornarono quindi alla loro casa. E il Bambino cresceva e la grazia di Dio era su di lui. Tornarono alla santità, alla profezia e al magistero della famiglia, che vengono prima di quelli del tempio. Tornarono alla famiglia, come faremo noi, a sapersi stupire ancora e sempre per la bellezza degli affetti, quegli antichi e quelli nuovi.
Alla famiglia che è santa perché la vita e l’amore vi celebrano la loro festa, e ne fanno la più viva fessura e feritoia dell’infinito.
LA BENEDIZIONE DELLA CASA
Benedici ogni casa, Signore.
Il sacrificio fedele dell’amore,
la poesia dei gesti quotidiani,
la risurrezione di ogni alba,
i risvegli accanto a chi amo,
l’amore racchiuso dentro una carezza.
Benedici ogni casa,
quando la sera accoglie in sé le vite,
quando al mattino si offre alla luce,
quando accoglie ospiti e pellegrini e amici
attorno alla tavola, tuo primo altare.
Benedici ogni casa,
che sia nido e vela,
profumata di pane e di fatica,
i suoi miracoli, i suoi misteri,
l’amore sotto ogni silenzio,
la speranza sotto ogni paura.
Benedici la mia casa, Signore,
anche nei giorni in cui
allo slancio subentra la stanchezza
e la fatica sembra scolorire la gioia.
Benedici gli occhi semplici sulle cose,
il cuore che respira l’infinito,
l’istante che brilla nell’eterno
e l’eterno che abita l’istante.
Benedici me, Signore,
con la presenza dei miei cari
E possa tu benedire loro
con la mia presenza.
Preghiera alla comunione
O Signore, tu sei qui, sei in me,
venuto in questo piccolo, povero tempio che sono io.
Ti accolgo fra le mie braccia, come Simeone e Anna.
Ti offro un po’ di calore. E ti prego:
sii per me rovina e risurrezione, Signore.
Non lasciarmi mai nell’indifferenza, nella falsa pace.
Cristo, mia dolce rovina, che rovini la vita insufficiente,
la vita morente, il mio mondo di maschere e di bugie,
che rovini la vita illusa,
contraddicimi, Signore.
Contraddici i miei pensieri con i tuoi pensieri,
le mie scelte di comodo,
il Narciso che è in me.
Contraddici l’immagine falsa che ho di te
e i miei piccoli amori.
Vieni come una breccia, come un varco verso orizzonti più grandi,
come una falla di luce che si insinua nelle mie ombre.
E sii la mia risurrezione, Signore,
quando credo che per me sia finita,
quando ho il vuoto dentro e il buio davanti agli occhi.
Sii mia risurrezione dopo il fallimento facile,
dopo una fedeltà mancata, dopo una umiliazione bruciante.
E poi risorgi, Signore,
con le cose che amavo e credevo finite,
risorgi dando respiro alla vita
dando futuro a chi crede di avere solo un passato.
Amen.
Dice il Salmo: “Se Dio non edifica la casa, i costruttori faticano invano.” I costruttori faranno appartamenti, condomini, ma la casa è solo Dio che la fa
1° NOVEMBRE 2017 – TUTTI I SANTI –
Ap 7,2-4. 9-14 – Rom 8,28-39 – Mt 5, 1-12
Festa di Tutti i Santi, di tutti i poveri, i buoni, i pacificati, misericordiosi, sognatori di cieli nuovi e terra nuova. Festa dei santi di casa, che hanno vissuto al nostro fianco e ci hanno insegnato il mestiere di vivere e l’arte di amare. I genitori, che ci hanno insegnato come ci chiamiamo e come ci si comporta con gli altri…
Omelia
Le beatitudini raccontano di un Dio che regala gioia a chi genera bontà, che regala vita a chi produce amore.
Gandhi le definiva le parole più alte che l’umanità abbia ascoltate, sono un vulcano di nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà e di giustizia, di occhi limpidi.
Percorrere queste otto piste rende più bella la vita, più umana la storia.
Perché sono i poveri i pilastri segreti della terra, e non i ricchi.
Gli affamati di giustizia sono i legislatori nascosti della storia, quelli che non valgono agli occhi avidi del mondo, e quelli che hanno il cuore bambino, i tessitori segreti della pace.
La parola beatitudine è un termine un po’ pallido. Ma nella Bibbia “Beato” indica qualcosa di energico: non un generico essere contento, gioioso, soddisfatto. Ma qualcosa di più che capiamo dalla prima parola del primo salmo, che comincia così: beato l’uomo.
Ma quale uomo? l’uomo che cammina sulla via della giustizia… Allora beato si dovrebbe tradurre così: in piedi, in cammino, avanti, in marcia, voi poveri, Dio cammina e lotta con voi.
In piedi quanti amate la pace; avanti, non fermatevi, Dio è dalla vostra parte, cammina con voi.
Alzatevi, voi che siete contro la violenza, la terra vi appartiene.
Avanti quelli che hanno fame di giustizia, è vero pane, pane buono.
E ci sorprende che il vangelo non si rivolga ai migliori, i più bravi, i più devoti o intelligenti. O a quelli che non hanno peccati, che non hanno problemi nella vita.
Le locomotive della storia, piccole o grandi, quelle che tirano avanti, anche di un solo passo, tutto il mondo, sono coloro che assomigliano a questi otto tipi umani, ai poveri, i buoni, i pacificati, misericordiosi, sognatori di cieli nuovi e terra nuova, e a Gesù, volto alto e puro dell’uomo, che li riassume tutti.
Le beatitudini sono la bella notizia che i somiglianti a Cristo vivono meglio e umanizzano il mondo.
Sono parole che ti portano al cuore delle relazioni umane.
Ed è una sorpresa vedere che Gesù, in queste otto parole, non si riferisca mai a comportamenti religiosi. Non dice beati quelli che pregano molto, i molto devoti, i frequentatori assidui di chiese.
Ma i poveri, gli affamati, i misericordiosi, quelli delle lacrime, quelli della pace e della non violenza. Sono atteggiamenti umani, è la santità delle case, delle strade, della vita quotidiana.
È la religiosità della vita. Dentro questi comportamenti c’è Dio, che semina la sua vita, e innesta eternità e gioia.
Allora riprendiamoci i santi. Che non sono quelli che fanno miracoli, i taumaturghi, gli asceti del no, ma gli uomini dalla vita intensa, che hanno dato qualcosa, un po’, o molto alla vita. Che non hanno fatto cose straordinarie, ma si sono appassionati per la trasparenza del cuore, e si sono presi cura della giustizia, della pace, della felicità di qualcuno.
Non dei campioni, degli eroi duri e puri, o realizzatori di grandi opere. Gesù ha canonizzato una povera vedova che aveva offerto due centesimi per il tempio, un niente ma pieno di cuore. Ha fatto santo Zaccheo, ricco, ladro, odiato, capo degli impuri di Gerico, quello che si dice un caso disperato! Io sto con loro.
Perchè il Paradiso non è pieno di santi, ma di peccatori perdonati, di gente proprio come noi, come me.
Che tentiamo di seguire Cristo.
Nel Credo diremo: credo la comunione dei santi…
C’è nella storia, e la conosciamo bene, una comunione dei malvagi che si spalleggiano tra loro; una rete di violenti e corrotti che umilia, offende, inquina la nostra terra.
Noi la vediamo, ma non crediamo in essa, non le accordiamo fiducia. Io so che i potenti, i forti, i ricchi dominano, ma io non credo in loro.
Credo invece nella comunione dei santi, nei buoni che fanno rete tra loro e che, senza neppure saperlo, sostengono il mondo.
Credo nella catena di solidarietà dei buoni, degli onesti, dei miti, dei generosi, in questo legame umile e fortissimo che si oppone alla rete dei violenti e dei corrotti. E che con piccoli gesti rammendano tenacemente il tessuto continuamente lacerato del mondo.
Io credo che il futuro dell’umanità è comunione, credo che in ognuno c’è l’orma di ognuno, che i valori si salvano insieme. Non si vince da soli!
Credo anche che un pensiero di pace pensato nella grotta più nascosta da un eremita silenzioso, o da te nel silenzio della tua camera, non resta senza effetto,
Credo nella comunione dei buoni:
Le mie braccia aperte sono appena l’inizio del cerchio
che un amore più vasto compirà (Margherita Guidacci).
Ognuno è inviato alla terra come braccia aperte, punto caldo di un vasto cerchio d’amore.
Ascolto le beatitudini, il manifesto più stravolgente e contromano che sia dato ascoltare. Mi fido di loro. Credo che il bene è più forte del male, che la luce è più forte del buio, che la purezza è più umana della volgarità, la pace più umana della guerra, la giustizia migliore dell’accumulo di denaro. Altrimenti perché varrebbe la pena vivere e lottare e credere?
Credo nella forza dei giusti e dei miti, dei non violenti sola forza invincibile, e la mia fede è rafforzata dalla tua fede; il mio cuore si fa più pulito nella comunione con chi ha occhi più limpidi dei miei.
Qui nel tempo e poi nell’eterno, santi e peccatori si tengono per mano, e i santi trascinano gli altri in alto, su, verso la vita.
E se non avremo molto da offrire al Signore nell’ultimo giorno, ci presenteremo a lui come mendicanti, ricchi solo di speranze.
E credo che per ciascuno di noi il Padre buono dirà:
Vieni figlio, il tuo desiderio di amore era già amore.
Vieni figlio, sognatore, devoto, vagabondo, poco importa, vieni.
E se anche hai infranto mille volte le tue promesse, vieni.
Vieni, nonostante tutto, vieni,
con i tuoi tesori in vasi di argilla,
con i tuoi gesti pieni di cuore, vieni!
Nulla mai ti separerà dall’amore.
PREGHIERA alla comunione
Signore, tu che regali vita
a chi produce amore,
tu che non convochi eroi nella tua casa,
ma uomini e donne veri,
vedi, qualche volta, lo sono anch’io.
Fammi restare davanti a te,
semplicemente, come un bambino,
a mani aperte, a cuore aperto,
con fame di abbracci.
Donami occhi puri che sappiano vedere te
nel sorriso e nella croce,
nei colori dell’autunno
nel piccolo animale
e nel tappeto di galassie su cui cammini.
Donami orecchi attenti che ti ascoltino
nel silenzio e nell’orchestra di tutto il creato,
nelle lacrime dei fratelli e nella loro gioia.
La tua voce, Signore, fammi sentire,
la tua voce che sussurra:
Vieni, chiunque tu sia,
vieni così come sei
sognatore, devoto, vagabondo, vieni.
Il tuo desiderio di amore era già amore.
Vieni, adesso nulla
ti separerà mai più
dall’amore di Dio.
p. Ermes Ronchi
XXX domenica A
Matteo 22,34-40
di p. Ermes Ronchi
È risuonato uno di quei vangeli su cui poggiare la vita, su cui fondare l’architettura della casa: la casa comune e la mia piccola tenda.
Ma anche uno di quei vangeli davanti ai quali mi sento piccolissimo: troppo grande, fuori misura. Vorrei tacere, perché ho paura di rovinarlo con le mie parole, mentre invece è salvato da due azioni, che la Bibbia ripete instancabilmente. I due verbi che salvano la Parola di Dio sono: ascolta e ricorda.
Ascolta, Israele. E ricorda, guardati dal dimenticare.
Mi chiedo spesso che cosa significhi ‘amare Dio’. La risposta, semplice, è già qui: significa ascoltarlo e non dimenticarlo.
Salvare un pezzetto di Dio in noi.
Oggi un vangelo da salvare a ogni costo.
Ma facciamo un passo indietro. Ripartiamo dalla prima lettura, dal libro dell’Esodo. “non molesterai il forestiero e non lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto”. E ancora: Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio (Levitico 19,34).
Ho cercato un po’ nella Bibbia, ed ho avuto una sorpresa totale. Nella sola Legge di Mosè il comandamento di amare lo straniero e il forestiero ricorre una quarantina di volte, ama il prossimo tuo ricorre una volta soltanto. Al punto che molti esegeti deducono che il vero, nuovo comandamento biblico non è tanto: ama il prossimo tuo come te stesso, quanto piuttosto ama lo straniero come te stesso.
Non ci posso credere: ama il prossimo tuo ricorre solo una volta, ama lo straniero più di quaranta volte.
Quanto è politicamente scorretta la Bibbia! Semplicemente scandalosa.
Tutte le culture attestano l’importanza dell’ospitalità, o l’ospitalità o la guerra, ma la bibbia fa qualcosa di unico.
Colloca lo straniero nel cuore del racconto di fondazione di Israele.
Di solito le culture pongono al centro del racconto di fondazione la figura di un eroe. La bibbia no, mette al centro un gruppetto di schiavi, la memoria non di una gloria ma di una oppressione.
La novità la possiamo cogliere se pensiamo alle nostre storie personali: ognuno di noi quando parla di sé e del suo passato non racconta i fallimenti o gli aspetti negativi, ma i successi e gli obiettivi raggiunti.
Caso unico nella storia dell’umanità, Israele non pone a fondamento un eroe, ma l’immagine di sé straniero in Egitto. E poi ripete instancabilmente: Ricordati che sei stato straniero.
E stende regole di comportamento, nate per un popolo di migranti senza terra, nei loro campi profughi nel deserto, sfuggito per poco al genocidio e all’annegamento del Mar Rosso: Non molesterai e non opprimerai il forestiero, perché opprimi te stesso, la tua storia, il tuo seme.
Il segreto, la sfida di queste parole arriva diritta e chiara: Tu l’amerai come te stesso. Fino a guardare con i suoi occhi, sentire con le sue orecchie e provare la sua paura. Fino ad amarlo come parte di te.
Così nel vangelo. Un dottore della legge, un fine teologo, interroga Gesù: Qual è il comandamento grande?
La risposta di Gesù, come al solito, spiazza e va oltre: non cita nessuna delle dieci parole, colloca invece al cuore del suo annuncio la stessa cosa che sta nel cuore di tutti i viventi, l’amore: tu amerai, desiderio, attesa, profezia, sogno.
Per questo: “il vangelo, se lo esprimi con bellezza e forza, sicuramente risponderà alle domande più profonde dei cuori” (E. G 265).
Nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio. Amerai, dice Gesù, usando un verbo al futuro, come una azione mai conclusa, infinita. Non un dovere, ma una necessità per vivere.
Io, cosa devo fare, oggi e domani, per essere veramente vivo? Tu amerai.
Cosa farò poi, anno dopo anno? Tu amerai.
E l’umanità, il suo destino, la sua storia? Solo questo: l’uomo amerà.
Qui gettiamo lo sguardo sulla fede ultima di Gesù: lui crede nell’amore, si fida dell’amore, fonda il mondo su di esso.
Vivi a partire da te, ma non per te.
L’amore non veglia solo sui confini dell’eterno, ma è il motore della vita qui e ora, rimette in moto la vita, la storia che si era fermata. Ma chi è il mio prossimo? Gandhi diceva: tutto ciò che vive è il mio prossimo, la natura l’acqua l’aria le piante gli animali.
E per non perderci nel romanticismo, la Bibbia si fa concreta, esigente, provocatoria: amerai lo straniero, il migrante, il profugo come te stesso! e ancora: se presti denaro non esigerai interesse, restituirai il mantello al povero al tramonto del sole, è la sua pelle, la sua vita.
Se non fai così, costruisci il contrario, ami l’opposto della vita.
Gesù, sulla stessa linea, risponde al dottore della Legge indicando, non un comandamento grande, ma due: amerai Dio, amerai il prossimo. Risponde con un vangelo strabico: testa nel cielo ma piedi per terra.
Amare…almeno, sento dire, male non ne ho fatto, non ho ucciso nessuno! Sei sicuro? Forse menti a te stesso! Si uccide anche stando alla finestra. A guardare l’uomo a terra bastonato, a non intervenire, a non farsi prossimo. È la morte che mette il nido tra noi. Paul Beauchamp, mio vecchio professore a Parigi, diceva: Tutta la legge è preceduta da un “sei amato” e seguita da un “amerai”.
“Sei amato” è il fondamento, “amerai” è l’obiettivo.
Se non hai questo fondamento e questo obiettivo,
tu ami il contrario della vita. Ami la morte.
Amerai Dio con tutto, con tutto, con tutto. Per tre volte l’appello a qualcosa di irraggiungibile. Solo Dio ama con tutto il cuore, lui che è l’amore stesso. L’uomo ama di tanto in tanto, e come a tentoni, e con cento contraddizioni.
La bibbia lo sa bene, infatti il testo ebraico del comandamento direbbe alla lettera così: amerai Dio con tutti i tuoi cuori.
L’uomo ha due cuori, un cuore d’ombra e uno di luce, uno che accusa e uno che perdona.
Ama Dio con i tuoi cuori, con il tuo cuore che crede, e con il tuo cuore anche quando dubita.
Amalo nei giorni della luce e amalo come puoi, come riesci, anche nell’ora in cui si fa buio dentro di te.
Il secondo comandamento è introdotto da una piccola frase rivelatrice: il secondo comandamento è simile al primo. «Amerai l’uomo» è simile all’ «amerai Dio». Il prossimo è simile a Dio. Questa è la rivoluzione di Gesù: il prossimo ha volto e voce e cuore simili a Dio.
Il prossimo è parola santa, il suo volto è libro santo.
Questo vangelo è il punto indimenticabile da dove da ripartire. Quando non so dove sono, quando voglio rimettermi in cammino, ecco: ascolta e ricorda, tu amerai.
Ascolta e ricorda, per ritornare al punto alfa della tua vita, per camminare verso il punto omega del mondo. Tu amerai, voce del verbo vivere.
Amami tu, Signore.
Quando non so amare,
quando ti amo poco,
quando amo distrattamente,
amami tu Signore.
Quando mi alzo al mattino
ancora pieno di sogni,
quando mi corico alla sera
avvolto da delusioni,
amami tu;
e soprattutto quando non sono amabile
amami tu Signore.
Quando mi illudo di amare te
senza amare gli altri,
quando mi illudo di amare gli altri
senza amare te,
amami tu;
quando nessuno mi ama
amami tu Signore!
(Adriana Zarri)
Preghiera alla comunione.
Donami amore, Signore,
che come il vento del mattino ripulisca il viso della terra
e addolcisca gli occhi.
Donami amore
che aggiunga speranza quando la speranza dispera
Donami amore
che raccolga tutte le preghiere uscite dal cuore,
che mi faccia vulnerabile alle lacrime e al riso.
Donami amore che riduca la distanza dalle altre creature,
Donami amore nel passato che mi riassorbe, nel presente per la fioritura del mio cuore.
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi
Trasfigurazione del Signore
Anno A – 2017
L’uomo, icona di Cristo dipinta lungo una vita
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete» […]. Matteo 17,1-9
Commento di p. Ermes Ronchi
«Un fiore di luce nel nostro deserto» (Turoldo), così appare il volto di Cristo sul Tabor. Ed è il volto ultimo e alto dell’uomo. In principio, in ogni uomo è stato posto non un cuore d’ombra, ma un seme di luce, sepolto in noi come nostro volto segreto.
Gesù prende con sé Pietro e Giovanni e Giacomo, i primi chiamati, e li porta con sé, su un alto monte. Li conduce là dove la terra s’innalza nella luce, dove è la nascita delle acque che fecondano ogni vita.
Il suo volto brillò come il sole: il volto è come la grafia del cuore, la sua espressione. Il volto alto dell’uomo è comprensibile solo a partire da Gesù. Ogni uomo abita la terra come un’icona di Cristo incompiuta, che viene dipinta progressivamente lungo l’intera esistenza su un fondo d’oro già presente dall’inizio e che è la somiglianza con Dio. Ogni Adamo è una luce custodita in un guscio di fango.
Vivere altro non è che la fatica aspra e gioiosa di liberare tutta la luminosità e la bellezza sepolte in noi.
E le sue vesti divennero bianche come la luce: la gloria è così eccessiva che non si ferma al volto, neppure al corpo intero, ma tracima verso l’esterno e cattura la materia degli abiti e la trasfigura. Se la veste è luminosa sopra ogni possibilità umana, quale sarà la bellezza del corpo?
Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia: Mosè sceso dal Sinai con il volto imbevuto di luce e di vento, Elia rapito in un carro di fuoco e di luce.
Allora, Pietro, stordito e sedotto da ciò che vede, balbetta:
È bello per noi essere qui. Stare qui, davanti a questo volto, che è l’unico luogo dove possiamo vivere e sostare. Qui siamo di casa, altrove siamo sempre fuori posto. Altrove non è bello, e possiamo solo pellegrinare, non stare. Qui è la nostra identità, abitare anche noi una luce, una luce che è dentro la nostra creta e che è il nostro futuro.
Non c’è fede viva e vera che non discenda da uno stupore, da un innamoramento, da un: che bello! Gridato a pieno cuore, come Pietro sul Tabor.
Ma come tutte le cose belle la visione non fu che la freccia di un attimo: e una nube luminosa li coprì con la sua ombra.
Venne una voce: quel Dio che non ha volto, ha invece una voce. Gesù è la Voce diventata Volto. Il Padre prende la parola, ma per scomparire dietro la parola di suo Figlio: ascoltate Lui. Fede fatta d’ascolto: sali sul monte per vedere, e sei rimandato all’ascolto. Scendi dal monte, e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: Ascoltatelo.
La visione del volto cede all’ascolto del volto. Il mistero di Dio è ormai tutto dentro Gesù. Così come anche il mistero dell’uomo. Quel volto parla, e nell’ascolto diventiamo come lui, anche noi imbevuti di cielo.
(Letture: Deuteronomio 7,9-10.13-14; Salmo 96; 2 Pietro 1,16-19; Matteo 17,1-9)
https://buff.ly/2wsHxRg
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/l-uomo-icona-di-cristo-dipinta-lungo-una-vita
http://www.cercoiltuovolto.it/p-ermes-ronchi/
Il suo volto brillò come il sole:
il volto è come la grafia del cuore, la sua espressione.
Il volto alto dell’uomo è comprensibile
solo a partire da Gesù.
Ogni uomo abita la terra
come un’icona di Cristo incompiuta,
che viene dipinta progressivamente
lungo l’intera esistenza su un fondo d’oro
già presente dall’inizio
e che è la somiglianza con Dio.
Ogni Adamo è una luce
custodita in un guscio di fango.
… La visione del volto cede all’ascolto del volto.
Il mistero di Dio è ormai tutto dentro Gesù. Così come anche il mistero dell’uomo.
Quel volto parla, e nell’ascolto diventiamo come lui, anche noi imbevuti di cielo.
– Ermes Ronchi – (Trasfigurazione del Signore)
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XII Domenica del tempo durante l’anno – Anno A
Ger 20,10-13 –Rom 5, 12-15 – Mt 10,26-33
“Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore”. Per tre volte Gesù ci incoraggia, in un mondo, in un tempo dove la paura è sempre pronta a impadronirsi di noi, gli attentati, i venti di guerra, il crac delle banche. Siamo qui per liberarci dalle paure, con tre regole umanissime e creative: Non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura.
Omelia
“Voi valete più di molti passeri. Voi avete il nido nelle mani di Dio”. Ogni volta, di fronte a queste parole provo paura e commozione insieme.
La paura di non capire un Dio il cui amore assedia le più umili tra le sue creature: i passeri e perfino i capelli del capo,
ma anche la tenerezza di immagini delicate e abbraccianti, che raccontano l’impensato di Dio. che fa per te ciò che nessuno mai ha fatto, ciò che nessuno mai farà: “ti conta tutti i capelli in capo” perché tu vali, tu vali di più, vali molto di più di ciò che pensavi.
“Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore”. Nel Vangelo di oggi per tre volte Gesù rassicura i suoi.
Non temete, “Neppure un passero cadrà a terra senza il volere del Padre vostro”. Eppure i passeri continuano a cadere, gli innocenti continuano a morire e i bambini ad essere venduti a poco più di un soldo o gettati via appena spiccato il loro breve volo.
Ma allora, è Dio che fa cadere, è Dio che abbatte, è Lui che infrange le ali, che vuole la morte? No, noi abbiamo interpretato questo passo superficialmente, forse sull’eco di certi proverbi popolari come: non si muove foglia che Dio non voglia,
ma il Vangelo non dice questo, letteralmente dice due parole sole: senza (àneu, nel greco biblico): neppure un passero cadrà a terra senza Dio, senza un Dio coinvolto nei voli dei suoi e anche nel loro cadere: Dio sarà lì, il passero non cadrà fuori dalle mani di Dio, nessuno sarà strappato dalle mani di Dio.
Nulla accade nell’assenza di Dio, all’insaputa di Dio e non già senza che Dio lo voglia perché molte, troppe cose accadono nel mondo contro il volere di Dio. Ogni odio, ogni guerra, ogni violenza… ma nessuno muore senza che Lui non muoia un po’, nessuno è crocifisso, nessuno è cacciato via senza che non lo sia anche lui, che intreccia la sua vita con la nostra vita.
Ma noi vorremmo di più. Vorremmo non cadere mai, e voli lunghissimi
Dio, però, non è una assicurazione contro gli infortuni della vita, non è la discriminante tra la salute e la malattia.
Il suo campo d’azione non sono le cellule dell’organismo ma le fibre della paura e dell’odio, il cuore rotto dove si annida quella che Giobbe chiama la bestia del canneto: la paura.
Dio sta nel riflesso più profondo delle nostre lacrime, per farsi argine e ponte, salva non dalla sofferenza ma nella sofferenza, salva non dalla morte ma nella morte.
“La paura non passa per Decreto Legge” (card. Martini). Passa per una Buona Notizia, se c’è vangelo, quel Vangelo che ci insegna come si vince: opponendo alla paura non il coraggio o una qualche forma di eroismo. Noi non siamo eroi, noi siamo credenti e l’esatto contrario della paura è la fede.
Non abbiate paura, voi siete come passeri che hanno il nido nelle mani di Dio. Se credi a questo, se credi che sei custodito nelle sue mani, allora tutto cambia.
Gesù parla di tre paure, tre momenti che mangiano la vita.
Non abbiate paura di essere giudicati dalle persone, siate liberi. La paura del giudizio vi può uccidere. Non vivere di riflesso di ciò che gli altri pensano, non seguire la corrente.
E ciò che avete sentito come un piccolo sussurro all’orecchio del cuore, gridatelo dalle terrazze. Gridalo, vuol dire abbi fiducia nel bello e nel buono, dì forte che il bene è più importante del male.
Il niente dei capelli: una immagine minima per dire che Qualcuno mi vuole bene frammento su frammento, fibra dopo fibra, e lo sai che niente è troppo piccolo o insignificante di una persona alla quale vuoi bene.
Sì, è vero che i capelli contati da Dio hanno da attraversare la morte, ma nulla andrà perduto.
Dio salva e salvare vuol dire conservare, e tutto sarà conservato. Ogni passero, ogni capello, ogni filo d’erba, ogni bicchiere di acqua fresca, tutto ritroveremo in Dio, nulla andrà perduto. Ci sono luoghi in cui è pericoloso essere cristiani, ma poi noi stessi ci facciamo del male, siamo i nostri nemici, quando viviamo troppo stress, fumo, il mangiare male…
E ora Gesù capovolge il registro del discorso e suggerisce una paura inattesa: abbiate paura di colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo.
L’anima può essere uccisa, è vulnerabile, è una fiamma che devo ravvivare. Perché l’anima può morire, muore di superficialità, muore di indifferenza, di disamore, di ipocrisia, l’anima muore quando ti vendi per denaro, quando disanimi gli altri attorno a te, togli animo e coraggio, quando ti metti a demolire, a diffondere calunnie, a deridere gli ideali, ad amare la paura.
Un verso di Péguy Charles dice: di un pagano si può fare un cristiano,/ di un peccatore si può fare un santo,/ ma di coloro che non sono niente,/ né pagani né cristiani, né santi né peccatori,/ di loro i morti-vivi che cose ne faremo? I morti-vivi, cosa ce ne facciamo?
La domanda: sono vivo dentro?
Invece voi valete, che bello questo verbo: tu vali per Dio, vali di più, molto di più di molti passeri, più di tutti i fiori del campo, più di quanto osavo sperare, molto di più. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita.
Ma l’immagine dei passeri e dei capelli, mi riporta a un’altra serie di riflessioni. Penso ai più fragili tra noi: agli anziani, agli ammalati, agli handicappati, a quelli che non possono più lavorare, che non possono più produrre, che si sentono inutili. Proprio a loro Gesù ripete: “Non temere” tu vali di più. Anche se la tua vita fosse leggera come quella di un passero o fragile come un capello tu vali di più. Perché esisti, vivi, pensi, sorridi, ami, crei.
‘Signore, io ho combinato poco nella mia esistenza e adesso non riesco più a combinare niente’ e Lui risponde “Tu vali di più” ma non perché produci o ti affermi ma perché esisti, nella gratuità come i passeri, nella debolezza come i capelli.
Non abbiate paura. Dalle mani di Dio ogni giorno spicchiamo il volo, nelle sue mani il nostro volo terminerà ogni volta
perché niente accade fuori di Lui,
perché là dove tu credi di finire, proprio là inizia il Signore,
trovi il nido straordinario che sono le mani di Dio.
Preghiera
Non avere paura, tu vali più di molti passeri
e il Padre che nutre gli uccelli del cielo
nutrirà la tua luce e la fiamma del cuore.
Non temere, tutti i tuoi capelli sono contati,
nulla è troppo piccolo per l’infinito amore.
Non temere, tu vali di più,
molto di più di quanto speri,
molto di più
Signore donami ali
E il cuore dei piccoli,
leggeri come passeri,
fragili come capelli,
che hanno come loro forza solo la tua forza.
Fammi sentire la tua mano, il caldo della tua mano,
tu come una carezza, come un nido,
come un vento che sostenga il volo,
che porta pollini di primavera
che disperde la polvere dove appassisce l’anima.
Dalle tue mani ogni giorno spicchiamo il volo,
nelle tue mani il nostro volo terminerà ogni volta
perché niente accade fuori di Te,
perché là dove credo di finire, o morire,
proprio là inizia il Signore,
e trovo il nido straordinario che sono le mani di Dio. Amen
Che bello questo verbo! Per Dio, io valgo. Valgo di più, di più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di più di quanto osavo sperare. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita.
p. Ermes Ronchi
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi
Il «respiro di Dio» viene in modo diverso per ciascuno
Domenica di Pentecoste – Anno A – 4 giugno 2017
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». (Giovanni 20, 19-23)
La Parola di Dio racconta in quattro modi diversi il venire dello Spirito Santo, per dirci che Lui, il respiro di Dio, non sopporta schemi.
Nel Vangelo lo Spirito viene come presenza che consola, leggero e quieto come un respiro, come il battito del cuore.
Negli Atti viene come energia, coraggio, rombo di tuono che spalanca le porte e le parole. Mentre tu sei impegnato a tracciare i confini di casa, lui spalanca finestre, ti apre davanti il mondo, chiama oltre.
Secondo Paolo, viene come dono diverso per ciascuno, bellezza e genialità di ogni cristiano.
E un quarto racconto è nel versetto del salmo: del tuo Spirito Signore è piena la terra. Tutta la terra, niente e nessuno esclusi. Ed è piena, non solo sfiorata dal vento di Dio, ma colmata: tracima, trabocca, non c’è niente e nessuno senza la pressione mite e possente dello Spirito di Dio, che porta pollini di primavera nel seno della storia e di tutte le cose. “Che fa vivere e santifica l’universo”, come preghiamo nella Eucaristia.
Mentre erano chiuse le porte del luogo per paura dei Giudei, ecco accadere qualcosa che ribalta la vita degli apostoli, che rovescia come un guanto quel gruppetto bloccato dietro porte sbarrate. Qualcosa ha trasformato uomini barcollanti d’angoscia, in persone danzanti di gioia, “ubriache” (Atti 2,13) di coraggio: è lo Spirito, fiamma che riaccende le vite, vento che dilaga dalla camera alta, terremoto che fa cadere le costruzioni pericolanti, sbagliate, e lascia in piedi solo ciò che è davvero solido. È accaduta la Pentecoste e si è sbloccata la vita.
La sera di Pasqua, mentre erano chiuse le porte, venne Gesù, stette in mezzo ai suoi e disse: pace! L’abbandonato ritorna da coloro che lo avevano abbandonato. Non accusa nessuno, avvia processi di vita; gestisce la fragilità dei suoi con un metodo umanissimo e creativo: li rassicura che il suo amore per loro è intatto (mostrò loro le mani piagate e il costato aperto, ferite d’amore); ribadisce la sua fiducia testarda, illogica e totale in loro (come il Padre ha mandato me, io mando voi). Voi come me. Voi e non altri. Anche se mi avete lasciato solo, io credo ancora in voi, e non vi mollo.
E infine gioca al rialzo, offre un di più: alitò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo. Lo Spirito è il respiro di Dio. In quella stanza chiusa, in quella situazione asfittica, entra il respiro ampio e profondo di Dio, l’ossigeno del cielo. E come in principio il Creatore soffiò il suo alito di vita su Adamo, così ora Gesù soffia vita, trasmette ai suoi ciò che lo fa vivere, quel principio vitale e luminoso, quella intensità che lo faceva diverso, che faceva unico il suo modo di amare, e spalancava orizzonti.
(Letture: Atti 2,1-11; Salmo 103; 1 Corinzi 12,3-7.12-13; Giovanni 20, 19-23 )
Fonte – http://buff.ly/2qIqisF
II di pasqua Giovanni 20,19-31
La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi nelle mani e nei piedi del crocifisso, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Leonard Cohen cantava: c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce. Le mani ferite del Risorto sono le feritoie, le crepe da cui entra la luce.
Omelia di p. Ermes Ronchi
I discepoli erano chiusi in casa per paura. È un momento di disorientamento totale: l’amico più caro, il maestro che era sempre con loro, con cui avevano condiviso tre anni di vita, quello che camminava davanti al gruppo, per cui avevano abbandonato tutto, non c’è più. L’uomo che sapeva di cielo, che aveva spalancato per loro orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Ogni speranza finita, tutto calpestato (M. Marcolini). E in più la paura di essere riconosciuti e di fare la sua stessa fine.
Ma quegli uomini e quelle donne fanno la cosa giusta: ed è quella di stare insieme, di non separarsi, fare comunità. Forse sarebbero stati più sicuri a disperdersi fra la folla e le carovane dei pellegrini. Invece no, non si sbandano e fanno argine comune allo sgomento comune. Sappiamo due cose sole di loro: la paura e il bisogno di stare insieme.
In questo stringersi l’uno all’altro, per paura e per memoria di Lui, germoglia la prima comunità cristiana.
Quella casa è la madre di tutte le chiese. La sera di Pasqua il Signore entra nella stanza chiusa, dove manca l’aria e si respira paura: Pace a voi. Come il Padre ha mandato me anch’io mando voi. Li manda, così come sono, poca cosa davvero, un gruppetto alla sbando.
Come il Padre me, così io voi. Ma ora c’è in loro “un di più”: Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, inaffidabili, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, che scuote le porte chiuse del cenacolo. Il respiro di Dio. E che cosa produce? A sorpresa, il perdono.
A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati.
Sì, perdonare è un bisogno di Dio, è il suo respiro di Padre; ha più bisogno lui di perdonare che noi di essere perdonati: per essere Padre lui ha la necessità di abbracciare ogni figlio prodigo che torna, ha necessità di parlare con ogni figlio maggiore che non capisce, di partire in cerca di ogni pecora che si perde.
Prima opera che consegna a coloro che hanno Pace e Spirito: voi perdonerete i peccati… e non è detto ai preti, ma a tutti i discepoli e a tutte le discepole che hanno ricevuto lo Spirito e la Pace. Perdonare è possibile a tutti:
perdonare è de-strutturare il male,
de-creare il male in sé e attorno a sé.
Ma che cos’è un peccato? Risposta del vecchio catechismo: Offesa fatta a Dio disubbidendo alla sua legge. Ma non è Dio che offende questo continuo peccare, è noi che offende e umilia (Turoldo). Immaginiamo così Dio? Uno che pur offeso da me, è bravo e non mi fa pesare l’offesa? Che idea meschina di Dio abbiamo coltivato, l’abbiamo ridotto a poca cosa, costretto in miseria, a rovistare nella spazzatura delle vite.
Non riesco più a sentir parlare di peccato come fosse un’offesa a una legge. Il peccato è uno soltanto: è il disamore. Incapacità di amare, volontà di non amare.
Il disamore ferisce il mondo, offende l’uomo, disamore è l’anti-creazione.
L’unico comando che Gesù ci lascia, quello davvero suo è: amatevi. Amatevi altrimenti vi distruggerete tutti, e la ragione sarà sempre del più forte, del più violento, del più armato, del più crudele.
E Dio come perdona il disamore? Come uno smemorato? Fa come se non fosse successo niente? Ma questo a cosa servirebbe? A pareggiare i conti? A ritornare alla casella di partenza? Un estenuante gioco dell’oca?
Dio perdona come un creatore, non come uno smemorato. Non un colpo di spugna sulla lavagna della vita, ma un colpo di vento nelle vele della mia nave. Perdona risuscitando amore. Perdona, togliendo pietre che chiudono, creando aperture.
Cos’è Gesù Cristo? È una struttura di apertura, di aperture continue. Perdona aprendo cose nuove, non cancellando cose vecchie.
Voglio dirvi tutto il mio disagio per tanto linguaggio liturgico lamentoso, teso a chiedere pietà, il perdono delle colpe, mia colpa, mia grandissima colpa, e poi la richiesta di salvare l’anima dalla perdizione. Ma soprattutto, per l’immagine di Dio che questa inflazione di peccato e di richieste di perdono propone: puntiglioso, pericoloso, un ragioniere attento alle piccole cose. Anziché il Dio innamorato, seminatore di bellezza, primavera del cosmo e del cuore.
Gesù nel Vangelo ci ha detto di chiamare Dio Padre, “Abba”, papà, come figli, come amici, tralci della vite, acqua di quella sorgente. Lo chiamo papà, e continuamente gli chiedo pietà. Che amore, che fiducia è quella che ha continuamente bisogno di chiedere pietà al proprio padre? Quale figlio quando torna alla casa dei genitori per prima cosa chiede “perdono, pietà, scusami”, come facciamo noi in chiesa?. No, chiede un abbraccio.
Il perdono di Dio è questo, il dilagare del suo sole sopra le mie ombre; di aperture dentro i miei limiti. Brecce di luce, fessure di cielo, correnti nuove dentro l’immobile stagno dove sono insabbiato. Che aprono la strada a più amore, a più libertà, a più coscienza.
Otto giorni dopo Gesù è ancora lì: l’abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare.
Li aveva inviati per le strade, e li ritrova ancora chiusi in quella stanza. Ma Gesù accompagna con delicatezza infinita la fede piccola dei suoi, con umanità suprema gestisce l’imperfezione delle vite di tutti.
Non ci chiede di essere perfetti, ma di essere autentici;
non di essere immacolati, ma di essere incamminati.
E si rivolge a Tommaso – povero caro Tommaso diventato proverbiale per la sua incredulità – Gesù l’aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, lo aveva fatto rigoroso e coraggioso, il solo che entra e esce da quella casa.
Invece di imporsi, si propone alle sue mani: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.
Gesù rispetta la sua fatica e i suoi dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del vivere. Lui non si scandalizza, si ripropone, non rimprovera si espone con le sue ferite aperte.
Toccami! Il vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato. Che bisogno c’era?
Non le ha toccate, le ha baciate quelle ferite diventate le feritoie della più grande bellezza del mondo. C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce (Cohen)
Tommaso, beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Siamo noi, una beatitudine per me e per te. Grande educatore, Gesù, forma alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, dalle visioni, alla serietà delle scelte.
Che bello se nella Chiesa, come nel cenacolo, riprendessimo a essere educati più all’approfondimento che all’ubbidienza; più alla ricerca che alla docilità! Che energie e quanta maturità!
Ecco una beatitudine che sento finalmente mia, le altre le ho sempre sentite troppo difficili, cose per pochi coraggiosi.
Questa è invece una beatitudine per noi, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede, per chi ricomincia.
Beati voi che credete… Voglio dire grazie a tutti quelli che credono senza necessità di segni, e la loro fede rafforza la mia;
grazie a tutti quelli che si sono messi in piedi, anche se è notte. Anche se hanno mille dubbi, come Tommaso;
grazie a tutti quelli che non si accontentano del sentito dire, ma vogliono una fede che si incida nelle mani di ogni giorno!
Beati! C’è una beatitudine nel credere, una promessa di gioia nella fede: che non significa una vita più facile ma più piena e appassionata, ferita e luminosa, piagata e guaritrice.
Credere fa bene, credetemi (credete a Tommaso, a Giovanni, a Maddalena, a quanti l’hanno incontrato). Credete all’ultima riga del vangelo: tutto questo è stato scritto, perché crediate e, credendo, abbiate in voi la vita (Gv 20,31).
Credere ti fa bene, ti fa più vivo e più felice. Credere è il rischio di essere felici, di avere in noi la vita.
Queste cose sono state scritte perché crediate in Gesù, e perché, credendo, abbiate la vita. Credere ti fa bene, è il modo essere più vivi e più felici, per avere più vita: io credo, e carezzo la vita, perché profuma di Te! (Rumi). L’augurio che lascio a ciascuno: non possiamo toccare Cristo e le sue ferite, ma possiamo toccare la vita. Accarezziamola, sentiremo che profuma di Dio.
Alla Comunione
Quando sulla mia vita scende la sera,
torna, o Signore, a farti vicino
ad augurare pace.
Vieni, Signore dalle mani e dal cuore feriti.
Ti dico le parole di Tommaso:
Mio Signore e mio Dio.
Mio come lo è il cuore,
e, senza, non sarei;
mio come lo è il respiro,
e, senza, non vivrei.
Tu sei energia che sale, dice e ridice e non tace mai.
Si dilata dentro, mette gemme di luce,
mi offre due mani piagate
dove poter riposare e riprendere il fiato del coraggio.
Signore mio e Dio mio,
mio non di possesso ma di appartenenza,
io appartengo a te,
il mio Amato è mio
e io sono per lui.
Amen.
p. Ermes Ronchi
Vangelo – Giovanni 11, 55 – 12, 11
In quel tempo. Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo.
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: «Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me».
Intanto una grande folla di Giudei venne a sapere che egli si trovava là e accorse, non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti. I capi dei sacerdoti allora decisero di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù.
Commento (Ermes Ronchi)
Inizia la settimana in cui avvengono le cose supreme. Per viverla in profondità vorrei suggerire a me stesso prima, e a voi, un verbo: il verbo accompagnare.
Possiamo accompagnare il Signore nella sua passione in molti modi: leggendo il vangelo, partecipando ai riti, prendendoci il tempo di stare in silenzio davanti a un crocifisso, ma se Cristo, come dice Pascal, è in agonia fino alla fine dei tempi, se Cristo è in ogni uomo, se noi tutti insieme formiamo il suo unico corpo, allora Gesù è ancora ucciso oggi in Nigeria, bombardato in Siria, salta in aria a Bagdad, naufraga al largo di Lampedusa. Contemporanea a me è la croce. E io come le donne al calvario sarò tenacemente vicino per portare aiuto e conforto.
Oggi il vangelo racconta di Maria che prende fra le sue mani i piedi di Gesù, durante una cena, in una casa d’amici. Fra quattro giorni il vangelo racconterà di Gesù che, in un’altra cena, ripete quel gesto, prende fra le sue mani i piedi dei discepoli, quasi che avesse imparato da una donna i gesti per dire l’amore.
Una donna e Dio si incontrano, e ciò accade nei gesti inventati dall’amore. Uomo e Dio parlano la stessa lingua.
Un mondo scomposto ruota attorno a quell’evento, un mondo agitato: una gran folla, dice Giovanni, molti curiosi che vogliono vedere il miracolato. E poi i capi dei sacerdoti, i farisei, i guardiani della fede, i delatori, guardie che hanno l’ordine di arrestarlo. E poi i discepoli, Giuda tra tutti, e nessuno che abbia occhi per la tenerezza, per leggere i segreti del cuore. Un mondo che non capisce.
E poi c’è la donna, un’amica e Gesù che difende questa scena straordinaria.
Le mani di Maria sui suoi piedi. Carezze su quei piedi, la parte del nostro corpo più lontana dal cielo, più vicina alla polvere delle strade. Piedi di Gesù che hanno percorso tutte le strade di Palestina, tutti i sentieri del cuore per raggiungermi.
Una carezza come un grazie, sui piedi di Dio. Dio non è venuto con ali d’angeli, ma con piedi d’uomo per conoscere e faticare i miei stessi sentieri.
E il più duro sentiero è la morte.
Abbraccia i suoi piedi per dire: ‘Dove andrai Tu, andrò anch’io; dove Tu ti fermerai, mi fermerò anch’io; porrò i miei passi sulle orme dei tuoi passi!” Ti accompagnerò.
Poi il nardo su quei piedi, come una dichiarazione, 300 grammi di amore. Una dismisura, molto più di ciò che serve a profumare una persona.
Maria versa profumo, senza calcolare; Gesù verserà sangue senza riservare una sola goccia. Maria e Gesù si capiscono.
E poi i capelli su quei piedi! Per una donna di allora sciogliere i capelli per un uomo era un gesto di una carica affettiva veemente, gesto dell’intimità, della appartenenza, dell’incontro. Gesù è lo sposo.
Non ha bisogno di una cena, lui che va a morire, ma di gesti intensi, di gratuità e di tenerezza. Come ogni uomo, cerca queste tre cose: tenerezza, intensità e gratuità, le cose che toccano il nostro profondo e lo fecondano di vita.
“E la casa – dice Giovanni – si riempì di profumo”. Non solo il corpo, la casa intera si riempì del profumo della sposa del Cantico. Quella casa è la nostra terra e noi, come Maria, a portare il buon profumo di Cristo.
Ma a che cosa serve una casa piena di profumo? Cosa ce ne facciamo? Che cosa cambia nella storia del mondo un vaso di profumo? Eppure la liturgia lo ricorda sulla soglia dei giorni assoluti: il profumo non è il pane, non è l’abito, non è necessario per vivere, è gioia, è un dono gratuito. È un di più, come il vino di Cana, il ‘di più’ indispensabile; il superfluo, necessario alla qualità della vita! Il profumo è una dichiarazione d’amore.
Quel vaso di nardo valeva dieci volte i trenta denari che daranno a Giuda come prezzo di Gesù. Perché questa spesa senza misura e senza necessità?
Maria spende trecento denari come per dire: ‘qualcuno ti tradirà per trenta denari ma io ti amerò dieci volte tanto. Qualcuno ti venderà ma io ti riscatterò per dieci volte!’ E il cuore di Gesù esultava e riceveva forza per camminare verso i giorni supremi.
È come se Maria dicesse: “Hanno deciso la tua morte, ma io ti profumo con ciò che fa vivere, l’hai insegnato Tu che l’amore fa esistere. Tu ci hai riempito d’amore. Ci ami troppo, piccoli e peccatori come siamo, e io ti ricambio con questo troppo di profumo.
L’uomo pratico che è in noi è tentato di dire che si tratta solo di un gesto bello e sentimentale, se non fosse ben più di questo: un gesto rivelatore, una piccola grande storia che rivela Dio e l’uomo.
Giuda, simbolo della mentalità concreta, che vuole dare un prezzo ad ogni cosa, anche all’amore, che conosce il prezzo delle cose ma non il loro valore, critica la tenerezza: “Questo profumo è denaro rubato ai poveri”, ma Gesù non si lascia chiudere in questa alternativa: o tu o i poveri! Gesù non mette una priorità contro l’altra. Dice a me, a noi: non rinunciare ad un amore in nome di un altro amore.
“I poveri li avrete sempre con voi”. Sono io che ve li lascio in eredità, li avrete come parte di me, membra del mio corpo da ungere di profumo e di cura.
E dice a me: non guardare come Giuda il prezzo del nardo, guarda l’amore di Maria;
non guardare come Giuda il mancato guadagno, gusta il profumo che riempie la casa;
non guardare al costo dell’unguento, impara la generosità dell’amicizia.
A me questo racconto dice: Anche tu hai un vaso di nardo ed è la tua esistenza. Giorno per giorno, ora per ora, goccia per goccia, come il profumo più caro, impara a versarlo per qualcuno: un amico o povero, Dio o un amore. Hai nardo di intelligenza, di tempo, cultura, affettività, denaro, competenze, hai più di 300 denari di nardo, rompi il vaso e versa sul figlio dell’uomo.
Impara a bruciare in uno slancio tutti i tuoi patrimoni di calcoli e di tristezze. E la tua casa si riempirà di profumo, ed esulterà il cuore di Dio. E insieme a Lui esulteranno quanti sono seduti alla tua mensa, o quanti ti incontrano.
Noi non possiamo fare grandi cose, ma piccole cose con grande amore (Madre Teresa). Come i pollini di questa primavera che riempiono il vento: non tutti arriveranno a fecondare fiori e generare frutti, ma almeno serviranno a profumare un po’ l’aria che respiriamo. Accompagniamo il Signore in questa settimana, passo passo. Non occorrono grandi cose, ma piccole cose fatte con grande amore.
PREGHIERA
O Vita di ogni uomo
Signore, sono come Maria di Betania e come Giuda.
Conosco le piccolezze dell’anima
ma conosco anche qualche slancio del cuore;
qualche volta mi pare di volare, l’aria è profumata,
qualche volta è solo buio su tutto il cuore.
Ma oggi, mentre ti avvii alla Passione,
nel riverbero cangiante degli ulivi,
vorrei che tu fossi consolato
dai miei piccoli gesti di amicizia, come a Betania.
Cerco dentro di me una parola, un gesto, un sentimento,
da offrirti come goccia dal mio vaso di nardo.
Cerco un volto, un povero, un fratello
dove versare una goccia di bontà.
Sono povero, ho soltanto gocce,
sono un vaso vuoto,
ma tu fa’ del mio nulla
qualcosa che serva a qualcuno.
Non tener conto della mia parte di Giuda
ma di qualche segreto ardore
che Tu conosci, che Tu sai riaccendere.
E possano le nostre vite spargere profumo,
disseminare i pollini della tua vita,
o Vita di ogni uomo! Amen
( Ermes Ronchi ) http://www.sancarloalcorso.it/scc/showPage.jsp?wi_number=34287&wmenuid=
SECONDA DOMENICA DI AVVENTO – A
Is 11,1-10 – Rom 15, 4-9 – Mt 3, 1-12
di p. Ermes Ronchi
Due Profeti nel deserto di Giudea: Isaia e Giovanni, un sogno che chiama dal futuro, una decisione che preme oggi.
Vieni a cercarci:
noi siamo sempre più smarriti e dunque vieni sempre Signore.
Vieni, tu che ci ami:
nessuno è in comunione con te se non lo è anche col fratello, e dunque vieni sempre, Signore.
Noi siamo tutti lontani,
non sappiamo chi siamo, cosa fare e come farlo e dunque vieni sempre, Signore.
Omelia
Giovanni il Battista predicava nel deserto della Giudea dicendo: convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino (Mt 3,2).
Gesù cominciava sulla riva del lago con l’identico annuncio: convertitevi perché il regno dei cieli è vicino (Mt 4,17).
Tutti i profeti hanno gli occhi fissi nel sogno, che ha nome regno dei cieli, che è un mondo nuovo intessuto di rapporti buoni e felici. Ne percepiscono il respiro vicino: è possibile, è ormai iniziato. Su quel sogno ci chiedono di osare la vita, ed è la conversione.
Si tratta di tre annunci in uno, e tra tutte la parola più calda di speranza è l’aggettivo “vicino”. Dio è vicino, è qui, prima buona notizia: il grande Pellegrino ha camminato, ha consumato distanze, è vicinissimo a te.
Dio è accanto, a fianco, dentro tutto ciò che vive: rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente (parola di Isaia), uomo e donna, arabo ed ebreo, mussulmano e cristiano, bianco e nero, per una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani.
Il Regno dei cieli e la terra come Dio la sogna. Non si è ancora realizzata? Non importa, il sogno di Dio è più vicino, anzi è più vero che non la realtà stessa, fatta di lupi e di muri, è il nostro futuro che ci porta, la forza che fa partire.
Convertitevi, ossia osate la vita, mettetela in cammino, e non per eseguire un comando, ma per una bellezza; non per una imposizione da fuori ma per una seduzione. Ciò che converte il freddo in calore non è un ordine dall’alto, ma la vicinanza del fuoco; ciò che toglie le ombre dal cuore non è un obbligo o un divieto, ma una lampada che si accende, un raggio, una stella, uno sguardo. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui: cambiate lo sguardo con cui vedete gli uomini e le cose, cambiate strada, sopra i miei sentieri il cielo è più vicino e più azzurro, il sole più caldo, il suolo più fertile, e ci sono cento fratelli, e alberi fecondi, e miele.
La forza che cambia il cuore non è mai la paura, ma è una forza non umana che cresce dentro, una forza im-mane, cioè il divino in noi, Dio che viene, che va alla radice del vivere, più vicino a me di me stesso.
La prima parola di Giovanni e Gesù è vangelo, bella notizia: si è avvicinato il Regno di Dio.
Noi pensiamo che la presenza del Signore si sia rarefatta in questa società di idoli.
Il profeta ripete: il regno è più vicino oggi di ieri, di dieci o vent’anni fa, ma a noi sembra che si sia allontanato.
Se guardo con attenzione, io vedo che il mondo è più vicino al regno di Dio oggi di ieri: è cresciuta la libertà di essere se stessi, l’autenticità nelle relazioni, la consapevolezza che l’uomo è il diritto di avere diritti, è cresciuta la giustizia e la solidarietà verso i deboli, verso i disabili c’è stata una autentica rivoluzione, l’amore per tutte le creature, per la terra, l’aria, le acque. E l’istruzione e la scienza.
Anche altro è cresciuto, è vero, una solitudine, una individualizzazione, una disgregazione dei legami, una idolatria del denaro e dell’apparire, una insofferenza verso gli estranei.
Ma io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù.
Lo credo non per un vacuo ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella positiva. Io scelgo il Regno per un atto di speranza: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino alla morte di croce.
Come riuscire a vederlo? A un Maestro un giorno un discepolo chiese: ‘Un tempo c’erano uomini che vedevano Dio faccia a faccia, perché oggi nessuno più vede Dio?’ E il Maestro rispose: ‘Perché oggi nessuno sa più inginocchiarsi così profondamente!’
Per vedere bene qualsiasi cosa ti devi inginocchiare a millimetro di viso, di occhi, di voce.
Chiniamoci con attenzione e lo vedremo. Nell’intimo di ciascuno, nell’umiltà dei giorni e dei segni viene, per questo è necessario avere quello che il profeta chiama l’occhio penetrante. Uno sguardo che non si ferma alla superficie delle cose, alla nebbia delle parole, che va oltre le apparenze.
Gesù è l’incarnazione di un Dio che si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore, un respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra.
Perché viene? Perché deve venire, per un suo bisogno, perché prima ancora che un mio problema la salvezza è un desiderio di Dio. Che io sia amato dipende da lui non da me. Il venire di Dio dipende da Lui. Perciò ne sono sicuro…
Con le immagini forti della scure e del fuoco, dagli effetti definitivi, Giovanni dice che ‘Dio viene al centro della vita non ai margini di essa’ (Bonhoeffer), che Dio raggiunge e tocca quella misteriosa radice del vivere che ci mantiene diritti come alberi forti, che ci permette di vedere orizzonti di luce nonostante le macerie, di raccogliere frumento buono nonostante gli inverni.
Dio ha a che fare non solo con la mia vita, ma con il centro della mia vita.
Non è l’ultima risorsa quando non ho più risorse; no, viene come forza della mia forza, terra profonda delle mie radici, sole del mio cielo.
Viene dentro la passione d’amore, dentro la fedeltà al dovere, dentro il coraggio di sperare, nella gioia della libertà raggiunta, quando accetto la sproporzione tra ciò che mi è promesso e ciò che stringo fra le mani, e tuttavia faccio avanzare di un passo, di un millimetro, di un niente, la bontà del mondo.
Io cerco chi sa darmi speranza. La speranza me la dà Dio in me, vicino come il respiro, vicino come il cuore, la sua vita dentro la mia vita.
Con Lui vivrò un battesimo di vento e di fuoco. Vento che gonfia le vele e fa ripartire, e focolare che dà calore e sicurezza e fa vivere accesi.
Con Lui il peccato non è più semplicemente trasgredire delle regole, ma trasgredire il sogno che Dio sogna per noi.
Un sogno grande come quello di Gesù, bello come quello di Isaia, al centro della vita come quello di Giovanni.
Preghiera alla comunione.
Manda il tuo messaggero davanti a noi, Signore,
un angelo, un uomo, una donna, un bambino
che ci insegnino a chinarci profondamente
a inginocchiarci per essere più vicini
al volto degli altri, al cuore del mondo.
Manda il tuo messaggero
manda ancora Profeti,
uomini dal cuore in fiamme:
e tu a parlare dai loro roveti.
Vieni più vicino Signore
Allunga ancora un po’ quella mano
che non hai mai cessato di tendermi
e ti sentirò vivo come acqua nel deserto,
come miele nei giorni dell’amarezza,
come vento e come fuoco
che riaccendono il sogno di un mondo nuovo,
un sogno dolce come quello dei profeti,
al cuore della vita come quello di Gesù,
seminato come una perla di luce
nel cuore vivo di tutte le cose. Amen
p. Ermes Ronchi
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6 luglio 2005
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