Pur se fisicamente lontani, noi crediamo che i battezzati sono uniti tra loro da una comunione spirituale che è tenuta viva dallo Spirito Santo.
Questa è una comunione forte perché supera tutte le barriere; supera addirittura la barriera della morte. Grazie ad essa infatti noi siamo sempre uniti a Gesù, a Maria, ai nostri cari defunti. È come il filo elettrico attraverso cui trasmettere la nostra preghiera fino al cuore di Gesù e al cuore di Maria, la Madre a cui ci stiamo rivolgendo sempre più intensamente. Trasmette anche la preghiera di suffragio per i nostri defunti. Essi sentono il nostro ricordo e la nostra preghiera e ce ne sono riconoscenti, perché non li abbandoniamo anche se alcuni di loro, come capita in questo tempo, affrontano il passo della morte senza aver vicino le persone care.
Oltre che con la preghiera, troviamo altri modi per interessarci gli uni degli altri usando i diversi mezzi di comunicazione. Il tempo dell’emergenza si allunga e cresce, di conseguenza, per molte persone il peso della solitudine.
Tanti, poi, sono in ansia per la malattia di qualche loro caro che spesso costringe alla quarantena l’intera parentela. Aumenterà, inoltre, il numero di persone e di famiglie che si ritroveranno in ristrettezze economiche, con i bisogni primari da soddisfare. Nessuno allora nelle nostre comunità sia perso di vista! Se rafforzeremo la solidarietà tra di noi, usciremo da questo tempo di prova avendo sconfitto un altro virus malefico: il virus morale dell’individualismo.
Come cristiani siamo chiamati ad osservare con gli occhi della fede gli imprevedibili avvenimenti che stanno travolgendo il mondo. Dio è presente e vuol dirci una parola per la nostra salvezza.
Nel Vangelo troviamo questo sofferto rimprovero: “ Sapete interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?” (Mt 5,25). Quali segnali ci sta lanciando lo Spirito del Signore? In questo tempo stiamo tutti lottando, alcuni anche eroicamente, contro il virus che ci minaccia di morte fisica.
È un’impresa benemerita che Gesù fece per primo restituendo a Lazzaro la vita fisica e gli affetti delle sorelle e degli amici. La Parola di Dio, però, ci invita ad accorgerci che ognuno di noi ha tendenza a rinchiudersi in un’altra tomba, quella dell’egoismo. L’egoista è uno che tende a rinchiudersi in se stesso. Non tiene lo sguardo aperto verso gli altri perché è rivolto a soddisfare solo i propri bisogni, tornaconti e interessi.
Non tralascia se stesso per donarsi, ma usa gli altri per soddisfare la propria insaziabile sete di piacere, la voglia di possedere e di consumare. Si riduce, così, alla solitudine e il cuore diventa per lui come una tomba. È la morte della sua anima, peggiore della morte del corpo, perché segna il fallimento di tutta l’esistenza. Ebbene, Gesù ha donato tutto se stesso, fino all’ultima goccia di sangue, per strapparci da questa terribile tomba che è la stessa in cui si è rinchiuso il diavolo. E per far entrare in noi il suo Spirito, realizzando una vera “trasfusione” di amore nel nostro cuore.
Così lo trasforma da tomba a tempio santo, in grado di ospitare in sé tanti altri fratelli. Questa è la risurrezione che ha generato i santi e ha cambiato il mondo. Chi la vive è già nella vita eterna perché la morte fisica sarà il passaggio per entrare nella Comunione dell’Amore con Gesù, Maria e tutti i santi.
+ Andrea Bruno Mazzocato Arcivescovo di Udine Udine,
23 marzo 2020
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V DI QUARESIMA Gv 11,1-53
p.Ermes Ronchi
Il racconto della risurrezione di Lazzaro è la pagina dove Gesù appare più umano. Lo vediamo fremere, piangere, commuoversi, gridare. Quando ama, l’uomo compie gesti divini; quando ama, Dio lo fa con gesti molto umani.
Una forza scorre sotto tutte le parole del racconto: non è la vita che vince la morte. La morte, nella realtà, vince e ingoia la vita. Invece ciò che vince la morte è l’amore. Tutti i presenti quel giorno a Betania se ne rendono conto: guardate come lo amava, dicono ammirati. E le sorelle coniano un nome bellissimo per Lazzaro: Colui-che-tu-ami.
Il motivo della risurrezione di Lazzaro è l’amore di Gesù, un amore fino al pianto, fino al grido arrogante: vieni fuori! Le lacrime di chi ama sono la più potente lente d’ingrandimento della vita: guardi attraverso una lacrima e capisci cose che non avresti mai potuto imparare sui libri.
La ribellione di Gesù contro la morte passa per tre gradini:
E poi: lasciatelo andare, dategli una strada, e amici con cui camminare, qualche lacrima, e una stella polare. Che senso di futuro e di libertà emana da questo Rabbi che sa amare, piangere e gridare; che libera e mette sentieri nel cuore.
E capisco che Lazzaro sono io. Io sono Colui-che-tu-ami, e che non accetterai mai di veder finire nel nulla della morte.
Gesù ripete oggi per noi le tre parole di ogni ricominciamento: togliete le pietre, uscite fuori, e poi andate!
Io invidio Lazzaro non perché ritorna di nuovo alla vita, ma perché è circondato da un mucchio di gente che gli vuol bene fino alle lacrime.
Vivere è il risultato di molte risurrezioni, di molte liberazioni: dalla paura, dalla disperazione, dalla violenza, dalla solitudine, dall’indifferenza. Risorgere è faccenda di adesso, di questo momento: risorgere dalle vite spente, dalle vite senza sogno e senza fuoco.
La seconda parola:
Non è il tuo angolino o la tua tana, il luogo dove sei al sicuro: non stare al chiuso, da solo, allo stretto: vieni fuori, incontro al mondo. Incontro agli altri. Fuori c’è forza e sole.
Dio in noi. È Lui che apre il passaggio, Lui che sta nel riflesso più profondo delle nostre lacrime, e si fa argine alla paura, argine alla morte; e toglie la dura pietra.
Prendiamoci un momento di silenzio per metterlo al centro della nostra umanità, come lievito, sale e luce, seme e strada.
Avvenire V di quaresima
Di Lazzaro sappiamo poche cose, ma sono quelle che contano: la sua casa è ospitale, è fratello amato di Marta e Maria, amico speciale di Gesù. Il suo nome è: ospite, amico e fratello, insieme a quello coniato dalle sorelle: colui-che-Tu-ami, il nome di ognuno.
A causa di Lazzaro sono giunte a noi due tra le parole più importanti del vangelo: io sono la risurrezione e la vita. Non già: io sarò, in un lontano ultimo giorno, in un’altra vita, ma qui, adesso, io sono.
Notiamo la disposizione delle parole: prima viene la Risurrezione e poi la Vita. Secondo logica dovrebbe essere il contrario. Invece no: io sono risurrezione delle vite spente, sono il risvegliarsi dell’umano, il rialzarsi della vita che si è arresa.
Vivere è l’infinita pazienza di risorgere, di uscire fuori dalle nostre grotte buie, lasciare che siano sciolte le chiusure e le serrature che ci bloccano, tolte le bende dagli occhi e da vecchie ferite, e partire di nuovo nel sole: “ scioglietelo e lasciatelo andare”. Verso cose che meritano di non morire, verso la Galilea del primo incontro.
Anch’io risorgerò perché il mio nome è lo stesso: “amato per sempre”; perché il Signore non accetta di essere derubato dei suoi amati. Non la vita vince la morte, ma l’amore. Se Dio è amore, dire Dio e dire Risurrezione sono la stessa cosa.
Lazzaro, vieni fuori! Esce, avvolto in bende come un neonato, come chi viene di nuovo alla luce. Morirà una seconda volta, è vero, ma ormai gli si apre davanti un’altissima speranza: ora sa che i battenti della morte si spalancano sulla vita.
Tre imperativi raccontano la risurrezione: esci, liberati e vai! Quante volte sono morto, mi ero arreso, era finito l’olio nella lampada, finita la voglia di amare e di vivere. In qualche grotta dell’anima una voce diceva: non mi interessa più niente, né Dio, né amori, né vita.
E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so perché; una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole, un amico ha spezzato il silenzio, lacrime hanno bagnato le mie bende, e ciò è accaduto per segrete, misteriose, sconvolgenti ragioni d’amore: un Dio innamorato dei suoi amici, che non lascerà in mano alla morte.
Omelia
Di Lazzaro sappiamo poche cose, ma sono quelle che contano: la sua casa è ospitale, è fratello amato di Marta e Maria, amico speciale di Gesù: ospite, amico e fratello. Ma il suo nome più vero è quello coniato dalle sorelle: colui-che-Tu-ami è malato, il nome di ognuno di noi.
Se Tu fossi stato qui, non sarebbe morto. Le sorelle esprimono un rimprovero, per la loro preghiera non esaudita. E quante volte, anche le nostre… Ma forse Dio non risponde perché prepara dell’altro, come a Betania.
“Vostro fratello risorgerà”. Marta la sente come una frase consolatoria, parole formali che tutti sanno dire, e risponde come delusa: “so bene che risorgerà nell’ultimo giorno. Ma quel giorno è così lontano da questo dolore”.
Mentre lei parla con verbi al futuro, Gesù parla al presente: “Io sono”, e seguono parole tra le più importanti del vangelo: “Io sono la risurrezione e la vita”. Lo sono adesso.
Notiamo la disposizione delle parole. Prima viene la Risurrezione e non, come si saremmo aspettati, la vita.
Per Gesù prima viene la liberazione e poi la vita autentica.
Io sono la risurrezione: una linfa potente e fresca che si dirama per tutto il cosmo e che non riposerà finché non abbia raggiunto e fatto fiorire l’ultimo ramo della creazione, l’ultimo angolo del cuore.
Riascoltiamo le tre parole finali di Gesù disposte come tre gradini di questa risurrezione: togliete la pietra!
Chiesa in uscita, tante volte invocata da papa Francesco.
Davanti al grande mare aperto capisco che posso avere paura con la mia piccola barca. Le navi sono al sicuro quando restano ormeggiate nel porto, ma non è per questo che sono state costruite. Non siamo nati per restarcene spiaggiati sulla riva, per finire arenati nei bassifondi della vita.
Ed ecco la terza parola: Liberatelo e lasciatelo andare! Lazzaro esce avvolto in bende come un neonato. Morirà una seconda volta, ma ormai gli si apre davanti un mondo abitato da una altissima speranza: Qualcuno gli vuole bene, e questo Qualcuno è più forte della morte. La vita non finisce per sempre.
Liberatelo e lasciatelo andare. Lo ripete per ciascuno di noi: liberati come si liberano le vele al vento,
E poi: lasciatelo andare l’uomo è un inventore di strade; dategli una stella polare per il suo viaggio, la lacrima di qualche amico, la certezza di un approdo, e sarà creativo.
Dove sta il perché ultimo della risurrezione di Lazzaro? Sta nelle lacrime di Gesù, che sono una dichiarazione d’amore fino al pianto.
Noi tutti risorgiamo per le lacrime di Dio, risorgiamo perché amati.
Dio è padre e non ha figli da buttare. La risurrezione è prima di tutto un bisogno di Dio: Dio non è padre se non ha dei figli vivi!
Io invidio Lazzaro, non perché ritorna in vita una seconda volta, ma perché è circondato da gente che gli vuole bene, pieno di amici quel suo mondo. Che sono il presagio di vita vera.
Quante volte sono morto, quante volte mi sono addormentato, era finito l’olio nella lampada, era finita la voglia di impegnarmi e di amare, forse era finita anche la voglia di vivere. L’anima era nella tomba, mentre una voce, che era mia e non era mia, diceva: non mi interessa niente, non mi interessa nessuno, basta, è finita.
E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so da dove, non so perché. Una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole.
Qualcuno è venuto, un grido di amico ha spezzato il silenzio.
Delle lacrime hanno bagnato le mie bende.
E questo accade perché Dio continua ad essere amico, e per questo continua ad essere risurrezione e vita.
Dio in noi come un tarlo che rode le bende, ruggine che spezza le catene, forza che abbatte la grotta che ci rinchiude.
Lui è la Risurrezione, energia che non riposerà
finché non abbia raggiunto l’ultimo ramo della creazione,
finché non sia spezzata la pietra dell’ultima tomba
Fb 29 marzo 2020
Non mi lasci morire
Gesù piange. Le lacrime sono la sua ribellione, stupenda “arroganza” dell’amico che si rifiuta di accettare la morte dell’amico.
Amore arrogante fino al grido: vieni fuori!
Di Lazzaro non sappiamo nulla se non che era suo amico. Sappiamo anche di tutte le lacrime versate per la sua morte: di Marta e Maria, dei giudei, di Gesù stesso.
Io invidio Lazzaro non per la vita ridata, ma per essere circondato da amici, segno di una vita riuscita con la santità che è propria dell’amicizia, il sacramento che conforta la vita.
La morte mette in gioco la credibilità di Dio. Se è per sempre, allora Lui è Dio di morte!
Ma un forte filo rosso attraversa tutta la Bibbia: Lui è il Dio dei vivi, non dei morti. Come alla samaritana è ancora a una donna che Gesù regala parole di speranza: Io ci sono e sono colui che adesso, qui, fa rinascere e ripartire da tutte le cadute, gli inverni, gli abbandoni.
Eppure a me che cosa importa di Lazzaro, cosa me ne faccio della sua resurrezione? Lazzaro non è mio amico, non è mio padre o mia madre, non è uno dei miei morti.
A me non importa Lazzaro, mi importano le lacrime di Gesù per l’amico! È questa la salvezza: il pianto di Dio. Sono io l’amico che Egli non accetta di veder finire nel nulla della morte. E quante volte sono morto! Quante volte mi sono addormentato! Era finito l’olio della lampada e.. punto. Finito tutto. Buio immenso di silenzio.
Finita la voglia di amare, e con lei quella di vivere. E mi dicevo in qualche grotta oscura dell’anima: Dio non mi interessa più. Non mi importa se mi ama.
Nel giorno delle lacrime Dio sembra essere lontano. Il suo ritardo pesa.
Poi un seme ha cominciato a spingere, non so dove.. perché. Una pietra si è mossa e si è infilato un raggio di sole, un sussurro d’amico ha percosso il silenzio, delle lacrime hanno bagnato le bende.
Il risvegliarsi dell’umano.
Io sono la risurrezione, io il rialzarsi della vita che si è arresa!
Bella la sequenza delle parole: prima viene la risurrezione e poi la vita, non il contrario.
Siamo chiamati come vivi alla fatica del risorgere per una vita salda, amorevole, generosa, sorridente, creativa. Eterna. Una vita che rotola armoniosa nelle mani di Dio.
E il perché sta in questo amore fino al pianto. Risorgiamo ora, e dopo la morte, perché il suo vero nemico non è la vita, è l’amore. Forte come la morte, dice il Cantico.
Se il nome di Dio è amore, allora lo è anche Risurrezione.
Lazzaro, vieni fuori! Liberatelo e lasciatelo andare!
Tre ordini per risorgere: esci, liberati e vai. Con passo leggero, su sentieri aperti al sole, in un mondo che sa, sicuro, che qualcuno va ben oltre la morte.
Il vero risorto non è Lazzaro, tornato alla sua vita mortale, ma le sorelle di Betania e tutti i giudei che quel giorno hanno creduto all’amore.
Come chiunque riempia la propria vita di Dio.
XXVI – Anno C
Lc 16, 19-31
Basilio Magno rivolto ai cristiani di Cappadocia:
Il pane che si spreca sulla tua tavola, è pane sottratto all’affamato;
a chi è scalzo spettano le scarpe allineate nei tuoi armadi;
a chi è nudo spettano i vestiti che le tarme mangiano nei tuoi bauli;
è del povero il denaro che si svaluta nella cassaforte delle banche.
Dalla nostra indifferenza, liberaci Signore
Dal non saper più piangere, Liberaci Signore
Dal non saper condividere, liberaci Signore
OMELIA
Una parabola dura e dolce, con la morte a fare da spartiacque tra due scene.
Prima scena: C’era una volta un uomo ricco… e uno povero. In questo avvio, con il sapore di una favola, c’è già il messaggio: il mondo è spaccato, ci sono due mondi e in mezzo una voragine. È così che la vogliamo questa terra? Con uno avvolto di porpora, uno vestito di piaghe; uno che si rimpinza ogni giorno e spreca; uno con occhi tristi e affamati, a gara con i cani, a vedere se è caduta a terra qualche briciola. Ricordo una struggente canzone di Branduardi con due versi che dicono:
e si mangiava come due fratelli, una briciola l’uomo ed una il cane.
Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Una domanda si impone con forza a questo punto: perché il ricco è condannato nell’abisso di fuoco? Per il lusso, gli abiti firmati, gli eccessi della gola? No. Il suo peccato è l’indifferenza totale verso il povero: non uno sguardo, non una briciola, non una parola.
Lazzaro è così vicino, sulla soglia di casa, che inciampa in quel fagotto e il ricco neppure lo vede; magari va e torna dal tempio tutti i sabati, canticchia i salmi e non lo vede, legge Mosè e i profeti, e non lo vede.
Manca però l’essenziale. Mancano tre verbi: vedere, fermarsi, toccare. Tre verbi umanissimi, i primi tre gesti del Buon Samaritano. Mancano, e allora tra le persone si scavano baratri, si innalzano muri.
Questo è il comportamento che san Giovanni chiama, senza giri di parole, omicidio: chi non ama è omicida.
La parabola racconta un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo. Un mondo così, dove uno vive da dio e uno da rifiuto, è quello sognato da Dio? E’ umano che una creatura sia ridotta in condizioni disumane per sopravvivere, come un cane, come una bestiolina?
Lo sguardo di Gesù non si posa sui comandamenti e le regole, ma sulla evidenza della realtà, che è malata, da cui sale un disagio, uno stridore, un conflitto, un orrore che avvolge tutta la scena. E che ci fa provare vergogna.
La realtà viene prima della legge, la legge è piccola cosa davanti al cuore di Dio.
Di quale peccato si è macchiato il ricco? Che male ha fatto al povero Lazzaro?
Chiaro: non lo ha fatto esistere. L’ha ridotto a un rifiuto, a un nulla, una carta per terra. Nel suo cuore l’ha ucciso. Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’uomo, un’ombra fra i cani,
Quanti invisibili delle nostre città, e anche dei paesi! Attenzione agli invisibili, vi si rifugia l’eterno.
Il male è questo: “Se mi chiudo nel mio io, anche adorno di tutte le virtù, ma non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi dischiudo agli altri, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato” (Giovanni Vannucci).
È tempo di smetterla con i nostri esami di coscienza negativi a sfogliare la margheritina delle regolette, e domandarci invece nella lingua del vangelo: non che male ho fatto? Ma che bene ho fatto? Chi ho aiutato, ieri, oggi, adesso?
Prendersi cura delle creature è la sola misura dell’eternità.
Seconda scena. Morì il povero e fu portato in alto. Morì anche il ricco e fu sepolto nell’inferno. Lazzaro è portato sulle mani degli angeli, accolto nel grembo di un Abramo più materno che paterno,
Questa parola materna: grembo, seno, è usata per proclamare il diritto di tutti i poveri ad essere trattati come figli. Ma “figlio” è chiamato anche il ricco, anche lui con la dignità di figlio per sempre, nonostante l’inferno, figlio di un Abramo dalla dolcezza di madre.
Tra noi e voi è posto un grande abisso, dice Abramo, rimane la grande separazione già creata in vita.
Perché l’eternità inizia qui, l’inferno è già qui, nutrito dalle nostre scelte senza cuore:
L’inferno è il prolungamento delle voragini che abbiamo scavato in vita.
Padre, una goccia d’acqua sopra l’abisso!
Che cosa risolve una goccia d’acqua sulla punta del dito? Non spegne i fuochi, non estingue l’arsura della sete, ma… attraversa l’abisso. Forse ora il ricco comincia a capire: il senso della vita è avvicinare, sconfinare, passare porte, abbattere distanze tra le persone.
Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è un morto che converte, ma la vita. Non è la morte o la punizione che ammaestra, ma la vita reale, ascoltino quella.
Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la voce e la carne di un Dio, che sono i principi del Regno. Prendete il loro punto di vista come faceva Gesù, con quel suo sguardo amoroso e forte davanti al quale ogni legge diventa piccina, e piccina è perfino quella di Mosè (R. Virgili).
Che ti costa, padre Abramo, un piccolo miracolo! Ma non sono i miracoli a cambiare la nostra storia, non sono le apparizioni a cambiare la vita, la terra è già piena di miracoli, la terra è già piena di profeti: hanno i Profeti, ascoltino quelli, hanno il Vangelo, ascoltino! Di più ancora: la terra è piena di poveri Lazzari, li ascoltino, li guardino, li tocchino. Non c’è miracolo che valga il grido dei poveri.
Il primo miracolo è accorgerci che l’altro esiste (S. Weil).
nelle loro piaghe è Dio che è piagato,
ogni volta che avete fame sono io che ne sento i morsi e l’ululato nel ventre;
ogni volta che vi trattano con dolcezza sono io che ne sento la carezza; ogni volta che avete fatto del bene a uno dei miei fratelli più piccoli è a me che l’avete fatto.
Se l’altro ha sete, e tu gli dai da bere aceto o disprezzo, invece è il Golgota, il Calvario del mondo, con te protagonista del male.
Due giorni fa leggevamo una lettera di San Vincenzo de Paoli che dice: “Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, corri da lui. Il Dio che lasci è meno sicuro del Dio che trovi” (San Vincenzo de Paoli). Il Dio che laasci in chiesa è meno sicuro del Dio che trovi nel povero Lazzaro.
PREGHIERA ALLA COMUNIONE
Vuoi dare onore al corpo di Cristo?
Dopo averlo onorato in chiesa,
non disprezzarlo quando è coperto di stracci
fuori della porta della chiesa.
Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo»
ha detto anche: «Questa è la mia fame».
Che importa che la mensa del Signore
scintilli di calici d’oro mentre lui muore di fame?
Che senso ha offrirgli porpora e oro
e rifiutargli un bicchiere d’acqua?
Rendi bella la casa del Signore
ma non disprezzare il mendicante,
perché il tempio di carne di tuo fratello
è più prezioso del tempio di pietre!
(Giovanni Crisostomo)
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi (da Avvenire)
XXVI Dom. T.O. anno C – 2019
Il peccato del ricco? Non vedere i bisognosi
Vengelo (Luca 16, 19-31)
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui (…).
Una parabola dura e dolce, con la morte a fare da spartiacque tra due scene: nella prima il ricco e il povero sono contrapposti in un confronto impietoso; nella seconda, si intreccia, sopra il grande abisso, un dialogo mirabile tra il ricco e il padre Abramo. Prima scena: un personaggio avvolto di porpora, uno vestito di piaghe; il ricco banchetta a sazietà e spreca, Lazzaro guarda con occhi tristi e affamati, a gara con i cani, se sotto la tavola è caduta una briciola. Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Una domanda si impone con forza a questo punto: perché il ricco è condannato nell’abisso di fuoco? Di quale peccato si è macchiato?
Gesù non denuncia una mancanza specifica o qualche trasgressione di comandamenti o precetti. Mette in evidenza il nodo di fondo: un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo, anche se non trasgredisce nessuna legge. Un mondo così, dove uno vive da dio e uno da rifiuto, è quello sognato da Dio? È normale che una creatura sia ridotta in condizioni disumane per sopravvivere? Prima ancora che sui comandamenti, lo sguardo di Gesù si posa su di una realtà profondamente malata, da dove sale uno stridore, un conflitto, un orrore che avvolge tutta la scena. E che ci fa provare vergogna. Di quale peccato si tratta? «Se mi chiudo nel mio io, anche adorno di tutte le virtù, ma non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi dischiudo agli altri, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato» (Giovanni Vannucci).
Doveva scavalcarlo sulla soglia ogni volta che entrava o usciva dalla sua villa, e, impassibile, neppure lo vedeva! Non gli ha fatto del male, no. Semplicemente Lazzaro non c’era, non esisteva, lo ha ridotto a un rifiuto, a nulla. Ora Lazzaro è portato in alto, accolto nel grembo di un Abramo più materno che paterno, che proclama il diritto di tutti i poveri ad essere trattati come figli. Ma “figlio” è chiamato anche il ricco, nonostante l’inferno, anche lui figlio per sempre di un Abramo dalla dolcezza di madre. Padre, una goccia d’acqua sopra l’abisso! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è la morte che converte, ma la vita.
Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la voce e la carne di un Dio che si identifica con loro (ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, è a me che l’avete fatto). Si tratta allora di prendere, come Gesù, il punto di vista dei poveri, di «scegliere sempre l’umano contro il disumano» (David Turoldo), con quel suo sguardo amoroso e forte davanti al quale ogni legge diventa piccina, perfino quella di Mosè (R. Virgili).
(Letture: Amos 6, 11-16; Salmo 145; 1 Timoteo 6,11-16; Luca 16, 19-31)
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/il-peccatodel-ricco-non-vederei-bisognosi
Se i peccatori pensassero all’eternità, al terribile sempre!… si convertirebbero immediatamente. Non è necessario provar l’esistenza dell’inferno. Nostro Signore stesso ne parla, narrando la storia del ricco malvagio che chiamava “Lazzaro ! Lazzaro”
Si sa benissimo che l’inferno c’è, ma si vive come se non ci fosse, e per poche monete si vende l’anima. Vi sono, purtroppo, persone che perdono la fede, e non si persuadono dell’esistenza dell’inferno, se non quando vi entrano.
L’inferno scaturisce dalla bontà divina. I dannati diranno “Oh se almeno Dio non ci avesse tanto amati !… soffriremmo meno, l’inferno sarebbe sopportabile !… Ma qual dolore ! essere stati così tanto amati”.
Se un dannato potesse dire una volta sola “Mio Dio, vi amo!” per lui non ci sarebbe più inferno; ma ahimè quella povera anima ha perduta la facoltà che le era stata data, la facoltà d’amare, perchè non ne fece uso. Il suo cuore è disseccato, come il grasso che vien tratto dal torchio; per quest’anima non più felicità, non più pace, perchè non c’è più amore.
Non è Dio che ci condanna, siamo noi con i nostri peccati. I dannati non accusano Dio; accusano se stessi e dicono: “Ho perduto Dio, l’anima ed il Cielo per colpa mia”.
I dannati saranno avvolti dall’ira divina, come i pesci nell’acqua. Pensare che si è dannati! Condannati da Dio ! Questo fa tremare!… Maledetti da Dio! E perchè? Perchè gli uomini s’espongono alla divina maledizione? Per una bestemmia, per un cattivo pensiero, per due minuti di piacere… Due minuti di piacere! Perdere Dio, l’anima, il Paradiso, per sempre!…
Si vedrà salire al Cielo in anima e corpo quel padre, quella madre, quella sorella, quel vicino, che condividevano la nostra vita, ma che noi non abbiamo imitati; e noi precipiteremo a bruciare nell’inferno, in anima e corpo. I demoni si scaglieranno contro di noi. Tutti i demoni, di cui avremo seguiti i consigli, ci tormenteranno…
Il dannato dirà a se stesso: “Ho perduto Dio, l’anima, il Paradiso per mia colpa, per mia colpa, per mia grandissima colpa!”…. E sollevandosi dalla vampa tosto vi ricadrà… ma sempre sentirà il bisogno di sollevarsi, perchè creato per Iddio, il più grande, il più sublime degli esseri, l’Altissimo… come un uccello in una stanza vola fino al soffitto e tosto ricade… La giustizia di Dio è il soffitto che rigetta i dannati.
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di p. Ermes Ronchi
V DI QUARESIMA – Lazzaro- 2017
Gv 11,1-53
Il racconto della risurrezione di Lazzaro è la pagina evangelica dove Gesù appare più umano. Lo vediamo fremere, piangere, commuoversi, gridare. Un Dio umano.
Prendiamoci un momento di silenzio per metterlo al centro della nostra umanità, come lievito, sale e luce, seme e strada.
Omelia
Chi vince la morte non è la vita, è l’amore.
Di Lazzaro sappiamo poche cose, ma sono quelle che contano: la sua casa è ospitale, è fratello amato di Marta e Maria, amico speciale di Gesù: ospite, amico e fratello. Ma il suo nome più vero è quello coniato dalle sorelle: colui-che-Tu-ami è malato, il nome di ognuno di noi.
Se Tu fossi stato qui, non sarebbe morto. Le sorelle esprimono un rimprovero, per la loro preghiera non esaudita. E quante volte, anche le nostre… Ma forse Dio non risponde perché prepara dell’altro, come a Betania.
“Vostro fratello risorgerà”. Marta la sente come una frase consolatoria, parole formali che tutti sanno dire, e risponde come delusa: “so bene che risorgerà nell’ultimo giorno. Ma quel giorno è così lontano da questo dolore”.
Mentre lei parla con verbi al futuro, Gesù parla al presente: “Io sono”, e seguono parole tra le più importanti del vangelo: “Io sono la risurrezione e la vita”. Lo sono adesso.
Notiamo la disposizione delle parole. Prima viene la Risurrezione e non, come si saremmo aspettati, la vita.
Per Gesù prima viene la liberazione e poi la vita autentica.
Vivere è il risultato di molte risurrezioni, di molte liberazioni: dalla paura, dalla disperazione, dalla violenza, dalla solitudine, dall’indifferenza. Risorgere è faccenda di adesso, di questo momento: risorgere dalle vite spente, dalle vite senza sogno e senza fuoco.
Io sono la risurrezione: una linfa potente e fresca che si dirama per tutto il cosmo e che non riposerà finché non abbia raggiunto e fatto fiorire l’ultimo ramo della creazione, l’ultimo angolo del cuore.
Riascoltiamo le tre parole finali di Gesù disposte come tre gradini di questa risurrezione: togliete la pietra! Rotolate via quei macigni, quelle macerie sotto cui vi siete seppelliti con le vostre stesse mani;
via i sensi di colpa, rovesciate l’incapacità di perdonare a voi stessi e agli altri;
togliete via la memoria amara del male ricevuto, che vi inchioda ai nostri ergastoli interiori, e crea legami mortificanti.
Togliete la durezza del cuore. E fate entrare la combattiva tenerezza del vangelo.
La seconda parola: Lazzaro, vieni fuori!
Fuori nel sole, fuori è primavera. E lo dice a me: Ermes, vieni fuori. Fuori dalla grotta nera dei rimpianti e delle delusioni, dal guardare solo a te stesso, dal sentirti al centro del mondo, della famiglia, del tuo ambiente. Vieni fuori, ripete alla farfalla che è in me, chiusa dentro il bruco che credo di essere.
Non è il tuo angolino o la tua tana, il luogo dove sei al sicuro: non stare al chiuso, da solo, allo stretto: vieni fuori, incontro al mondo. Incontro agli altri. Fuori c’è forza e sole.
Chiesa in uscita, tante volte invocata da papa Francesco.
Davanti al grande mare aperto capisco che posso avere paura con la mia piccola barca. Le navi sono al sicuro quando restano ormeggiate nel porto, ma non è per questo che sono state costruite. Non siamo nati per restarcene spiaggiati sulla riva, per finire arenati nei bassifondi della vita.
Vieni fuori. Non è vero ciò che scrive Bertold Brecth: “le madri tutte del mondo partoriscono a cavallo di una tomba”. Come se la vita fosse risucchiata subito dalla morte o camminasse sempre sul ciglio del sepolcro, sull’orlo dell’assurdo.
Le madri partoriscono a cavallo di una speranza, di una grande bellezza, di uno spazio aperto, di molti abbracci. A cavallo di un sogno!
Ad ogni nascituro, Cristo e il mondo gridano, a una voce: vieni! Esci, e portaci più coscienza, più libertà, più amore!
Ed ecco la terza parola: Liberatelo e lasciatelo andare! Lazzaro esce avvolto in bende come un neonato. Morirà una seconda volta, ma ormai gli si apre davanti un mondo abitato da una altissima speranza: Qualcuno gli vuole bene, e questo Qualcuno è più forte della morte. La vita non finisce per sempre.
Liberatelo e lasciatelo andare. Lo ripete per ciascuno di noi: liberati come si liberano le vele al vento, come si sciolgono le catene, i nodi della paura, i grovigli del cuore. Liberati da maschere e paure.
E poi: lasciatelo andare l’uomo è un inventore di strade; dategli una stella polare per il suo viaggio, la lacrima di qualche amico, la certezza di un approdo, e sarà creativo.
Dove sta il perché ultimo della risurrezione di Lazzaro? Sta nelle lacrime di Gesù, che sono una dichiarazione d’amore fino al pianto.
Noi tutti risorgiamo per le lacrime di Dio, risorgiamo perché amati.
Dio è padre e non ha figli da buttare. La risurrezione è prima di tutto un bisogno di Dio: Dio non è padre se non ha dei figli vivi!
L’eloquenza delle lacrime, che è la più potente lente d’ingrandimento della vita: guardi attraverso una lacrima e capisci cose che non potresti mai imparare sui libri.
Io invidio Lazzaro, non perché ritorna in vita una seconda volta, ma perché è circondato da gente che gli vuole bene, pieno di amici quel suo mondo. Che sono il presagio di vita vera.
Gesù ripete anche a noi le tre parole di ogni ricominciamento: togliete le pietre, uscite fuori, e poi andate!
Che senso di futuro e di libertà emana da questo Rabbi che sa amare, piangere e gridare, e liberare senza legare a sé.
Lui è il Dio coinvolto, che ride e piange con i suoi figli.
Quante volte sono morto, quante volte mi sono addormentato, era finito l’olio nella lampada, era finita la voglia di impegnarmi e di amare, forse era finita anche la voglia di vivere. L’anima era nella tomba, mentre una voce, che era mia e non era mia, diceva: non mi interessa niente, non mi interessa nessuno, basta, è finita.
E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so da dove, non so perché. Una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole.
Qualcuno è venuto, un grido di amico ha spezzato il silenzio.
Delle lacrime hanno bagnato le mie bende.
E questo accade perché Dio continua ad essere amico, e per questo continua ad essere risurrezione e vita.
Dio in noi come un tarlo che rode le bende, ruggine che spezza le catene, forza che abbatte la grotta che ci rinchiude.
Dio in noi. È Lui che apre il passaggio, Lui che sta nel riflesso più profondo delle nostre lacrime, e si fa argine alla paura, argine alla morte; e toglie la dura pietra.
Lui è la Risurrezione, energia che non riposerà
finché non abbia raggiunto l’ultimo ramo della creazione,
finché non sia spezzata la pietra dell’ultima tomba
PREGHIERA ALLA COMUNIONRE
Signore, colui che ami è malato.
Sono io il tuo amico, malato e amato,
sono Lazzaro, sono Marta e Maria.
Non restare lontano, amico,
vieni vicino, così vicino
che possa contare a una a una le tue lacrime.
Per le tue lacrime io risorgerò,
per il tuo amore appassionato, io vivrò per sempre.
Sono io il tuo amico malato, io sono Lazzaro.
Santo solo di amicizia, santo solo perché amato.
Io sono Marta e Maria sorelle a infiniti morti,
derubato di amici, o di padre, o di figlio, o di marito,
ma io credo. I miei sono morti, ma non per sempre,
perché il tuo amore non accetta di finire.
Io morirò, ma non per sempre,
perché tu sei risurrezione che non riposerà
finché non sia spezzata la tomba dell’ultima anima
finché le tue forze non siano pervenute
sull’ultimo ramo della creazione.
Amen
Il Vangelo – Ermes Ronchi – 2 aprile 2017
Non è la vita che vince la morte, è l’amore
V Domenica di Quaresima – Anno A
In quel tempo, le sorelle di Lazzaro mandarono a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato». All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Marta, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». (…)Giovanni 11,1-45
Di Lazzaro sappiamo poche cose, ma sono quelle che contano: la sua casa è ospitale, è fratello amato di Marta e Maria, amico speciale di Gesù. Il suo nome è: ospite, amico e fratello, insieme a quello coniato dalle sorelle: colui-che-Tu-ami, il nome di ognuno.
A causa di Lazzaro sono giunte a noi due tra le parole più importanti del Vangelo: io sono la risurrezione e la vita. Non già: io sarò, in un lontano ultimo giorno, in un’altra vita, ma qui, adesso, io sono.
Notiamo la disposizione delle parole: prima viene la risurrezione e poi la vita. Secondo logica dovrebbe essere il contrario. Invece no: io sono risurrezione delle vite spente, sono il risvegliarsi dell’umano, il rialzarsi della vita che si è arresa.
Vivere è l’infinita pazienza di risorgere, di uscire fuori dalle nostre grotte buie, lasciare che siano sciolte le chiusure e le serrature che ci bloccano, tolte le bende dagli occhi e da vecchie ferite, e partire di nuovo nel sole: scioglietelo e lasciatelo andare. Verso cose che meritano di non morire, verso la Galilea del primo incontro.
Io invidio Lazzaro, e non perché ritorna in vita, ma perché è circondato di gente che gli vuol bene fino alle lacrime. Perché la sua risurrezione? Per le lacrime di Gesù, per il suo amore fino al pianto.
Anch’io risorgerò perché il mio nome è lo stesso: amato per sempre; perché il Signore non accetta di essere derubato dei suoi amati. Non la vita vince la morte, ma l’amore. Se Dio è amore, dire Dio e dire risurrezione sono la stessa cosa.
Lazzaro, vieni fuori! Esce, avvolto in bende come un neonato, come chi viene di nuovo alla luce. Morirà una seconda volta, è vero, ma ormai gli si apre davanti un’altissima speranza: ora sa che i battenti della morte si spalancano sulla vita.
Liberatelo e lasciatelo andare! Sciogliete i morti dalla loro morte. E liberatevi dall’idea della morte come fine di una persona. Liberatelo, come si liberano le vele, si sciolgono i nodi di chi è ripiegato su se stesso.
E poi: lasciatelo andare, dategli una strada, amici, qualche lacrima e una stella polare.
Tre imperativi raccontano la risurrezione: esci, liberati e vai! Quante volte sono morto, mi ero arreso, era finito l’olio nella lampada, finita la voglia di amare e di vivere. In qualche grotta dell’anima una voce diceva: non mi interessa più niente, né Dio, né amori, né vita.
E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so perché; una pietra si è smossa, è entrato un raggio di sole, un amico ha spezzato il silenzio, lacrime hanno bagnato le mie bende, e ciò è accaduto per segrete, misteriose, sconvolgenti ragioni d’amore: un Dio innamorato dei suoi amici, che non lascerà in mano alla morte.
(Letture: Ezechiele 37,12-14; Salmo 129; Romani 8,8-11; Giovanni 11,1-45)
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