San Michele Arcangelo è un potente protettore della Chiesa. Tutti noi fedeli, nel nostro piccolo, dovremmo imitarlo in difesa della Chiesa attraverso preghiere, digiuni, sacrifici, esortazioni e con l’esempio.
Anche i sacerdoti e i vescovi uniti al papa hanno il sacrosanto dovere di difendere la fede dagli attacchi dei nemici interni ed esterni della Chiesa, primo fra tutti Satana.
I sacerdoti devono pregare molto per discernere gli errori dalla Verità in Gesù Cristo, il quale è lo stesso di ieri, oggi e domani.
Come Gesù Cristo accusava pubblicamente le angherie dei farisei e degli scribi del tempo, così anche i sacerdoti abbiano il coraggio di non tacere di fronte alle ingiustizie sociali che vediamo tutti sotto i nostri occhi.
Il peccato è peccato e non può essere ammorbidito da vari compromessi. La Chiesa ha il dovere di dire pubblicamente come stanno le cose, costi quello che costi.
I sacerdoti che tacciono o servono il potere che opprime i fratelli sono responsabili davanti a Dio della loro codardìa.
Tutti i sacerdoti ed i vescovi hanno il dovere di informarsi bene su ciò che riguarda la giustizia sociale, non solo utilizzando i media di regime, ma anche le altre fonti di informazione. Devono chiedere l’aiuto dello Spirito Santo ed esternare pubblicamente la Verità, soprattutto nelle omelie e nei contatti quotidiani con i fedeli. Se lo facessero tutti i sacerdoti ed i vescovi cambierebbero molte cose nel mondo, più di quanto non si creda.
Anche noi fedeli dobbiamo pregare assiduamente per i sacerdoti, i vescovi ed il papa, affinché abbiano il coraggio di testimoniare la Verità.
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Se qualcuno riempie le sue giornate cercando ci compiacere solo agli altri spreca inutilmente le sue energie, perché la stima umana è destinata ad evaporare nel nulla, quella di Dio è per l’Eternità.
La storia ce lo insegna…La nostra vita terrena dovrebbe rendere gloria a Dio, non a noi stessi.
Se la nostra vita non gli rende gloria è inutile.
È Lui che ci ha donato l’esistenza ed è Lui che ci sorregge in ogni momento.
Se facciamo ogni cosa per ricavarne gloria ed onore dagli uomini, non siamo in linea con Dio: Gesù pensava solo al Padre e faceva tutto per glorificare il Padre Celeste: pregava, predicava e faceva miracoli in stretta unione col Padre.
Non gli interessava il giudizio malvagio degli scribi e dei farisei, non se la prendeva con loro, ma metteva in guardia contro la loro ipocrisia, perché non cercavano la gloria di Dio, ma la loro.
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Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi (da Avvenire)
XXVI Dom. T.O. anno C – 2019
Il peccato del ricco? Non vedere i bisognosi
Vengelo (Luca 16, 19-31)
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui (…).
Una parabola dura e dolce, con la morte a fare da spartiacque tra due scene: nella prima il ricco e il povero sono contrapposti in un confronto impietoso; nella seconda, si intreccia, sopra il grande abisso, un dialogo mirabile tra il ricco e il padre Abramo. Prima scena: un personaggio avvolto di porpora, uno vestito di piaghe; il ricco banchetta a sazietà e spreca, Lazzaro guarda con occhi tristi e affamati, a gara con i cani, se sotto la tavola è caduta una briciola. Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Una domanda si impone con forza a questo punto: perché il ricco è condannato nell’abisso di fuoco? Di quale peccato si è macchiato?
Gesù non denuncia una mancanza specifica o qualche trasgressione di comandamenti o precetti. Mette in evidenza il nodo di fondo: un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo, anche se non trasgredisce nessuna legge. Un mondo così, dove uno vive da dio e uno da rifiuto, è quello sognato da Dio? È normale che una creatura sia ridotta in condizioni disumane per sopravvivere? Prima ancora che sui comandamenti, lo sguardo di Gesù si posa su di una realtà profondamente malata, da dove sale uno stridore, un conflitto, un orrore che avvolge tutta la scena. E che ci fa provare vergogna. Di quale peccato si tratta? «Se mi chiudo nel mio io, anche adorno di tutte le virtù, ma non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi dischiudo agli altri, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato» (Giovanni Vannucci).
Doveva scavalcarlo sulla soglia ogni volta che entrava o usciva dalla sua villa, e, impassibile, neppure lo vedeva! Non gli ha fatto del male, no. Semplicemente Lazzaro non c’era, non esisteva, lo ha ridotto a un rifiuto, a nulla. Ora Lazzaro è portato in alto, accolto nel grembo di un Abramo più materno che paterno, che proclama il diritto di tutti i poveri ad essere trattati come figli. Ma “figlio” è chiamato anche il ricco, nonostante l’inferno, anche lui figlio per sempre di un Abramo dalla dolcezza di madre. Padre, una goccia d’acqua sopra l’abisso! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è la morte che converte, ma la vita.
Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la voce e la carne di un Dio che si identifica con loro (ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, è a me che l’avete fatto). Si tratta allora di prendere, come Gesù, il punto di vista dei poveri, di «scegliere sempre l’umano contro il disumano» (David Turoldo), con quel suo sguardo amoroso e forte davanti al quale ogni legge diventa piccina, perfino quella di Mosè (R. Virgili).
(Letture: Amos 6, 11-16; Salmo 145; 1 Timoteo 6,11-16; Luca 16, 19-31)
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/il-peccatodel-ricco-non-vederei-bisognosi
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi
Il cuore di pietra, la malattia meno diagnosticata
XXII Domenica – Tempo ordinario – Anno B
Si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate (…), quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me (…)”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «(…) Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro (…)». E diceva ai suoi discepoli: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male (…)».
Gesù, eri sicuro di trovarlo sui problemi di frontiera dell’uomo, in ascolto del grido della terra, all’incontro con gli ultimi, attraversando con loro i territori delle lacrime e della malattia: dove giungeva, in villaggi o città o campagne, gli portavano i malati e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello. E quanti lo toccavano venivano salvati (Mc 6,56).
Da qui veniva Gesù, portava negli occhi il dolore dei corpi e delle anime, l’esultanza incontenibile dei guariti, e ora farisei e scribi vorrebbero rinchiuderlo dentro piccolezze come mani lavate o no, questioni di stoviglie e di oggetti!
Si capisce come la replica di Gesù sia dura: ipocriti! Voi avete il cuore lontano! Lontano da Dio e dall’uomo. Il grande pericolo, per i credenti di ogni tempo, è di vivere una religione dal cuore lontano e assente, nutrita di pratiche esteriori, di formule e riti; che si compiace dell’incenso, della musica, degli ori delle liturgie, ma non sa soccorrere gli orfani e le vedove (Giacomo 1,27, II lettura).
Il cuore di pietra, il cuore lontano insensibile all’uomo, è la malattia che il Signore più teme e combatte. «Il vero peccato per Gesù è innanzitutto il rifiuto di partecipare al dolore dell’altro» (J. B. Metz).
Quello che lui propone è il ritorno al cuore, una religione dell’interiorità: Non c’è nulla fuori dall’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro, sono invece le cose che escono dal cuore dell’uomo…
Gesù scardina ogni pregiudizio circa il puro e l’impuro, quei pregiudizi così duri a morire. Ogni cosa è pura: il cielo, la terra, ogni cibo, il corpo dell’uomo e della donna. Come è scritto Dio vide e tutto era cosa buona. Ogni cosa è illuminata.
Gesù benedice di nuovo la vita, benedice il corpo e la sessualità, che noi associamo subito all’idea di purezza e impurità, e attribuisce al cuore, e solo al cuore, la possibilità di rendere pure o impure le cose, di sporcarle o di illuminarle.
Il messaggio festoso di Gesù, così attuale, è che il mondo è buono, che le cose tutte sono buone, «piene di parole d’amore» (Laudato si’). Che devi custodire con ogni cura il tuo cuore perché a sua volta sia custode della luce delle cose.
Via le sovrastrutture, i formalismi vuoti, tutto ciò che è cascame culturale, che lui chiama «tradizione di uomini». Libero e nuovo ritorni il Vangelo, liberante e rinnovatore. Che respiro di libertà con Gesù! Apri il Vangelo ed è come una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, ovvii discorsi. Scorri il Vangelo e ti sfiora il tocco di una perenne freschezza, un vento creatore che ti rigenera, perché sei arrivato, sei ritornato al cuore felice della vita.
(Letture: Deuteronomio 4,1-2.6-8; Salmo 14; Giacomo 1,17-18.21-22.27; Marco 7,1-8.14-15.21-23)
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi
Gesù apprezza la fatica, ma rimprovera l’ipocrisia
XXXI Dom. T. O. – Anno A
In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. (…) Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato».
Il Vangelo di questa domenica brucia le labbra di tutti coloro “che dicono e non fanno”, magari credenti, ma non credibili. Esame duro quello della Parola di Dio, e che coinvolge tutti: infatti nessuno può dirsi esente dall’incoerenza tra il dire e il fare.
Che il Vangelo sia un progetto troppo esigente, perfino inarrivabile? Che si tratti di un’utopia, di inviti “impossibil”, come ad esempio: «Siate perfetti come il Padre» (Mt 5,48)?
Ma Gesù conosce bene quanto sono radicalmente deboli i suoi fratelli, sa la nostra fatica. E nel Vangelo vediamo che si è sempre mostrato premuroso verso la debolezza, come fa il vasaio che, se il vaso non è riuscito bene, non butta via l’argilla, ma la rimette sul tornio e la riplasma e la lavora di nuovo. Sempre premuroso come il pastore che si carica sulle spalle la pecora che si era perduta, per alleggerire la sua fatica e il ritorno sia facile. Sempre attento alle fragilità, come al pozzo di Sicar quando offre acqua viva alla samaritana dai molti amori e dalla grande sete.
Gesù non si scaglia mai contro la debolezza dei piccoli, ma contro l’ipocrisia dei pii e dei potenti, quelli che redigono leggi sempre più severe per gli altri, mentre loro non le toccano neppure con un dito. Anzi, più sono inflessibili e rigidi con gli altri, più si sentono fedeli e giusti: «Diffida dell’uomo rigido, è un traditore» (W. Shakespeare).
Gesù non rimprovera la fatica di chi non riesce a vivere in pienezza il sogno evangelico, ma l’ipocrisia di chi neppure si avvia verso l’ideale, di chi neppure comincia un cammino, e tuttavia vuole apparire giusto. Non siamo al mondo per essere immacolati, ma per essere incamminati; non per essere perfetti ma per iniziare percorsi.
Se l’ipocrisia è il primo peccato, il secondo è la vanità: «tutto fanno per essere ammirati dalla gente», vivono per l’immagine, recitano.
E il terzo errore è l’amore del potere. A questo oppone la sua rivoluzione: «non chiamate nessuno “maestro” o “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre, quello del cielo, e voi siete tutti fratelli».
Ed è già un primo scossone inferto alle nostre relazioni asimmetriche. Ma la rivoluzione di Gesù non si ferma qui, a un modello di uguaglianza sociale, prosegue con un secondo capovolgimento: il più grande tra voi sia vostro servo.
Servo è la più sorprendente definizione che Gesù ha dato di se stesso: Io sono in mezzo a voi come colui che serve. Servire vuol dire vivere «a partire da me, ma non per me», secondo la bella espressione di Martin Buber.
Ci sono nella vita tre verbi mortiferi, maledetti: avere, salire, comandare. Ad essi Gesù oppone tre verbi benedetti: dare, scendere, servire. Se fai così sei felice.
(Letture: Malachia 1,14b-2,2b.8-10; Salmo 130; 1 Tessalonicési 7b-9.13; Matteo 23,1-12)
Matteo 23,1-12
Gesù non rimprovera la fatica
di chi non riesce a vivere in pienezza
il sogno evangelico,
ma l’ipocrisia di chi neppure si avvia verso l’ideale,
di chi neppure comincia un cammino,
e tuttavia vuole apparire giusto.
Se l’ipocrisia è il primo peccato,
il secondo è la vanità:
«tutto fanno per essere ammirati dalla gente»,
vivono per l’immagine, recitano.
E il terzo errore è l’amore del potere.
A questo oppone la sua rivoluzione:
«non chiamate nessuno “maestro” o “padre” sulla terra,
perché uno solo è il Padre, quello del cielo,
e voi siete tutti fratelli».
Ma la rivoluzione di Gesù non si ferma qui, a un modello di uguaglianza sociale,
prosegue con un secondo capovolgimento: il più grande tra voi sia vostro servo.
Servo è la più sorprendente definizione che Gesù ha dato di se stesso
Ermes Ronchi
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IV Domenica di Quaresima – Anno A – 2017
Vangelo. Il racconto del cieco guarito ci è proposto come un “segno” per la nostra fede:
si tratta di un incontro con Cristo che è luce e che fa uscire dalla tenebra.
Siamo invitati a rileggere la storia narrata a un livello più profondo rispetto al semplice riacquisto della vista fisica:
l’identità più vera di Gesù è qui quella del rivelatore di Dio per tutti coloro che lo accolgono.
Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi
Affidarsi a Dio, come mendicanti persi nel buio
Giovanni 9,1-41
In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita; sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». (…)
Gesù vide un uomo cieco dalla nascita… Gesù vede. Vede lo scarto della città, l’ultimo della fila, un mendicante cieco. L’invisibile. E se gli altri tirano dritto, Gesù no, si ferma. Senza essere chiamato, senza essere pregato. Gesù non passa oltre, per lui ogni incontro è una meta. Vale anche per noi, ci incontra così come siamo, rotti come siamo: «Nel Vangelo il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato, ma sempre sulla sofferenza della persona» (Johannes Baptist Metz).
I discepoli che da anni camminano con lui, i farisei che hanno già raccolto le pietre per lapidarlo, tutti per prima cosa cercano le colpe (chi ha peccato, lui o i suoi genitori?), cercano peccati per giustificare quella cecità. Gesù non giudica, si avvicina. E senza che il cieco gli chieda niente, fa del fango con la saliva, stende un petalo di fango su quelle palpebre che coprono il nulla.
Gesù è Dio che si contamina con l’uomo, ed è anche l’uomo che si contagia di cielo. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino che viene al mondo, che viene alla luce, è una mescolanza di terra e di cielo, una lucerna di argilla che custodisce un soffio di luce.
Vai a lavarti alla piscina di Siloe… Il mendicante cieco si affida al suo bastone e alla parola di uno sconosciuto. Si affida quando il miracolo non c’è ancora, quando c’è solo buio intorno. Andò alla piscina e tornò che ci vedeva. Non si appoggia più al suo bastone; non siederà più a terra a invocare pietà, ma ritto in piedi cammina con la faccia nel sole, finalmente libero. Finalmente uomo. «Figlio della luce e del giorno» (1Ts 5,5), ridato alla luce, ri-partorito a una esistenza di coraggio e meraviglia.
Per la seconda volta Gesù guarisce di sabato. E invece del canto di gioia entra nel Vangelo un’infinita tristezza. Ai farisei non interessa la persona, ma il caso da manuale; non interessa la vita ritornata a splendere in quegli occhi ma la “sana” dottrina. E avviano un processo per eresia: l’uomo passa da miracolato a imputato.
Ma Gesù continua il suo annuncio del volto d’amore del Padre: a Dio per prima cosa interessa un uomo liberato, veggente, incamminato; un rapporto che generi gioia e speranza, che porti libertà e che faccia fiorire l’umano! Gesù sovverte la vecchia religione divisa e ferita, ricuce lo strappo, unisce il Dio della vita e il Dio della dottrina, e lo fa mettendo al centro l’uomo. La gloria di Dio è un uomo con la luce negli occhi e nel cuore.
Gli uomini della vecchia religione dicono: Gloria di Dio è il precetto osservato e il peccato espiato! E invece no, gloria di Dio è un mendicante che si alza, un uomo con occhi che si riempiono di luce. E ogni cosa ne è illuminata.
(Letture: 1 Samuele 16,1.4.6-7.10-13; Salmo 22; Efesini 5,8-14; Giovanni 9,1-41)
https://www.avvenire.it/rubriche/pagine/affidarsi-a-dio-come-mendicanti-persi-nel-buio
Il Vangelo – Ermes Ronchi
XXXI Dom. T. O. Anno C – 2016 –
Quando Gesù si autoinvita alla nostra tavola
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. (…)
Gesù passando alzò lo sguardo. Zaccheo cerca di vedere Gesù e scopre di essere guardato. Il cercatore si accorge di essere cercato: Zaccheo, scendi, oggi devo fermarmi a casa tua. Il nome proprio, prima di tutto. La misericordia è tenerezza che chiama ognuno per nome.
Non dice: Zaccheo, scendi e cambia vita; scendi e andiamo a pregare… Se avesse detto così, non sarebbe successo nulla: quelle parole Zaccheo le aveva già sentite da tutti i pii farisei della città. Zaccheo prima incontra, poi si converte.
Da Gesù nessuna richiesta di confessare o espiare il peccato, come del resto non accade mai nel Vangelo; quello che Gesù dichiara è il suo bisogno di stare con lui: “devo venire a casa tua. Devo, lo desidero, ho bisogno di entrare nel tuo mondo. Non ti voglio portare nel mio mondo, come un qualsiasi predicatore fondamentalista; voglio entrare io nel tuo, parlare con il tuo linguaggio piano e semplice”.
E non pone nessuna condizione all’incontro, perché la misericordia fa così: previene, anticipa, precede. Non pone nessuna clausola, apre sentieri, insegna respiri e orizzonti. È lo scandalo della misericordia incondizionata.
Devo venire a casa tua. Ma poi non basta. Non solo a casa tua, ma alla tua tavola. La tavola che è il luogo dell’amicizia, dove si fa e di rifà la vita, dove ci si nutre gli uni degli altri, dove l’amicizia si rallegra di sguardi e si rafforza di intese; che stabilisce legami, unisce i commensali…
Quelle tavole attorno alle quali Gesù riunisce i peccatori sono lo specchio e la frontiera avanzata del suo programma messianico.
Dio alla mia tavola, come un familiare, intimo come una persona cara, un Dio alla portata di tutti.
Ecco il metodo sconcertante di Gesù: cambia i peccatori mangiando con loro, cioè condividendo cibo e vita; non cala prediche dall’alto del pulpito, ma si ferma ad altezza di occhi, a millimetro di sguardi. Ammonisce senza averne l’aria, con la sorpresa dell’amicizia, che ripara le vite in frantumi.
Zaccheo reagisce alla presenza di Gesù cambiando segno alla sua vita, facendo quello che il maestro non gli aveva neppure chiesto, facendo più di quello che la Legge imponeva: ecco qui, Signore, la metà dei miei beni per i poveri; e se ho rubato, restituisco quattro volte tanto.
Qual è il motore di questa trasformazione? Lo sbalordimento per la misericordia, una impensata, immeritata, non richiesta misericordia; lo stupore per l’amicizia. Gesù non ha elencato gli errori di Zaccheo, non l’ha giudicato, non ha puntato il dito. Ha offerto se stesso in amicizia, gli ha dato credito, un credito totale e immeritato.
Il peccatore si scopre amato. Amato senza meriti, senza un perché. Semplicemente amato. E allora rinasce.
(Letture: Sapienza 11,22-12,2; Salmo 144; 2 Tessalonicesi 1,11-2,2; Luca 19,1-10).
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I 10 SEGRETI DI MEDJUGORJE (di Padre Livio Fanzaga):
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VIDEO RELATIVI AI MESSAGGI DELLA MADONNA DI MEDJUGORJE
PLAYLIST RELATIVA A MEDJUGORJE (MESSAGGI E COMMENTI IN VIDEO)
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LE APPARIZIONI DELLA MADONNA A PORZUS – Nuova versione
6 luglio 2005
IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA IN AUDIO
Catechesi e omelie di padre Lino Pedron