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Fb 4 giugno
Festa degli abbracci
Gv 3,16-18

La Trinità: un dogma che può sembrare lontano, ma che invece è rivelazione del segreto del vivere, della sapienza sulla vita, sulla morte, sull’amore, e mi dice: in principio a tutto, ma proprio a tutto, è il legame.
Io che sono lento a credere, come potrò cogliere qualcosa della Trinità? Pensare di capirla attraverso le formule è come voler capire una parola analizzando l’inchiostro con cui è scritta. Ma Dio non è una definizione, è un’esperienza! La Trinità non è un concetto da capire, è una realtà condivisa da accogliere.
In uno dei capolavori di Kieslowski, il bambino protagonista sta giocando. Improvvisamente chiede alla zia: «Com’è Dio?». La zia lo chiama a sé, lo abbraccia, gli bacia i capelli e stringendolo sussurra: «Come ti senti, ora?». Pavel non vuole sciogliersi dall’abbraccio, alza gli occhi e risponde: «Bene, mi sento bene». E la zia: «Ecco, Pavel, Dio è così».
Dio come un abbraccio. Se non c’è amore, non vale nessun magistero. Se non c’è amore, nessuna cattedra sa dire Dio. Questo è il senso pieno della Trinità, specchio del nostro cuore profondo, e del senso ultimo dell’universo. Origine e vertice, fonte e culmine dell’umano e del divino: la comunione.
Sulla prima lettura i nomi di Dio sul monte sono uno più bello dell’altro: il misericordioso e pietoso, il lento all’ira, il ricco di grazia e di fedeltà (Es 34,6). Mosè è salito con fatica, due tavole di pietra in mano, e Dio sconcerta lui e tutti i moralisti, scrivendo su quella rigida pietra parole di tenerezza e di bontà.
Parole che giungono fino a Nicodemo, a quella sera di rinascite. Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Siamo al versetto centrale del Vangelo di Giovanni, a uno stupore che rinasce ogni volta davanti a parole tonificanti come una camminata in riva al mare, fra spruzzi d’onde e aria buona respirata a pieni polmoni.
Ha dato suo Figlio per amore: Amare non è un fatto sentimentale, non equivale a emozionarsi o a intenerirsi, ma a dare, verbo fattivo di mani e di gesti.
Dio ha tanto amato il mondo… e la notte di Nicodemo, e le nostre, s’illuminano.
Se mi domandano: tu cristiano a che cosa credi? La risposta spontanea è: credo in Dio Padre, in Gesù risorto, nella Chiesa… Giovanni indica una risposta diversa: il cristiano crede all’amore. Noi abbiamo creduto all’amore: ogni uomo, ogni donna, anche il non credente lo sa, lo conosce come sapienza del vivere. È lo stesso amore interno alla Trinità che da lì si espande, ci abbraccia e poi dilaga.

Davanti alla Trinità, io mi sento piccolo ma abbracciato, come un bambino: abbracciato dentro un vento in cui naviga l’intero creato, che ha nome amore.
Festa della Trinità: annuncio che Dio non è in se stesso solitudine, ma comunione, legame, abbraccio. Che ci ha raggiunto, ci libera e ci dà il suo cuore plurale.

 

Avvenire

TRINITÀ 2023

Per dire la Trinità, Gesù usa nomi di famiglia, di casa, nomi che abbracciano e stringono legami: Padre, Figlio, Spirito buono, alito che fa respirare la vita. La festa della Trinità è l’annuncio che Dio non è in se stesso solitudine, ma comunione, legame, abbraccio. Che ci raggiunge e ci dà il suo cuore plurale.
Allora capisco perché la solitudine mi pesa così tanto e mi fa paura: perché è contro la mia natura. Allora capisco perché quando sono con chi mi ama, sto così bene: perché realizzo la mia vocazione.
La Trinità è lo specchio del mio senso ultimo, e del senso dell’universo: tutto incamminato verso un Padre fonte di libere vite, verso un Figlio che mi innamora, verso uno Spirito che accende di comunione le nostre solitudini.
Anche l’autopresentazione di Dio sul monte Sinai, davanti al suo grande amico Mosè, ha nomi caldi: misericordioso, pietoso, lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà (Es 34,6). Mosè è salito con fatica, due tavole di pietra in mano, e Dio sconcerta lui e tutti i moralisti, scrivendo su quella rigida pietra parole di tenerezza.
E Mosè capisce e prega: “Che il Signore cammini in mezzo a noi, venga in mezzo alla sua gente. Non resti sul monte, guida alta e lontana, ma scenda e si perda in mezzo al calpestio del popolo”.
Tutta la Scrittura ci assicura che nel calpestio del popolo, nella polvere dei nostri sentieri, lo Spirito accende i suoi roveti e i suoi profeti; il Padre rallenta il passo sul ritmo del nostro; il Figlio è salvezza che ci cammina a fianco: “venuto non per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato” (Gv 3,17). Lui non condanna e neppure giudica: “Io non giudico!”(Gv 8.15). Parola dirompente, da ripetere alla nostra fede paurosa settanta volte sette! Io non giudico, né per sentenze di condanna, né per verdetti di assoluzione. Posso pesare i monti con la stadera e il mare con il cavo della mano (Is 40,12), ma l’uomo non lo peso e non lo misuro: lo amo; non preparo né bilance, né tribunali, perché non giudico, io salvo.
“Dì loro ciò che il vento dice alle rocce,/ ciò che il mare dice alle montagne. / Dì loro che una bontà immensa penetra l’universo,/ dì loro che Dio non è quello che credono, /che è un vino di festa, un banchetto di condivisione / in cui ciascuno dà e riceve./ Dì loro che Dio è Colui che suona il flauto /nella luce piena del giorno, / si avvicina e scompare, e ci chiama alle sorgenti./ Dì loro l’innocenza del suo volto, /i suoi lineamenti, il suo sorriso. /Dì loro che Egli è il tuo spazio e la tua notte,/ la tua ferita e la tua gioia. /Ma dì loro, anche, che Egli non è ciò che tu dici di Lui, che la sua tenda è sempre oltre… (Comm. Franc. Cistercense)

 

 

Che giungono fino a Nicodemo, a quella sera di rinascite.
Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Siamo al versetto centrale del vangelo di Giovanni, a uno stupore che rinasce ogni volta davanti a parole buone come il miele, tonificanti come una camminata in riva al mare, fra spruzzi d’onde e aria buona respirata a pieni polmoni: Dio ha tanto amato il mondo… e la notte di Nicodemo, e le nostre, s’illuminano.
Gesù sta dicendo al fariseo pauroso: il nome di Dio non è amore, è “tanto amore”, lui è “il molto-amante”. Dio altro non fa che, in eterno, considerare il mondo, ogni carne, più importante di se stesso. Per acquistare me, ha perduto se stesso. Follia della croce. Pazzia di venerdì santo. Ma per noi rinascita: ogni essere nasce e rinasce dal cuore di chi lo ama.
Proviamo a gustare la bellezza di questi verbi al passato: Dio ha amato, il Figlio è dato. Dicono non una speranza (Dio ti amerà, se tu…), ma un fatto sicuro e acquisito: Dio è già qui, ha intriso di sé il mondo, e il mondo ne è imbevuto. Lasciamo che i pensieri assorbano questa verità bellissima: Dio è già venuto, è nel mondo, qui, adesso, con molto amore. E ripeterci queste parole ad ogni risveglio, ad ogni difficoltà, ogni volta che siamo sfiduciati e si fa buio.
Salvezza, parola enorme. Salvare vuol dire portare a maturazione, a pienezza e poi conservare. Dio conserva: questo mondo e me, ogni pensiero buono, ogni generosa fatica, ogni dolorosa pazienza; neppure un capello del vostro capo andrà perduto (Lc 21,18), neanche un filo d’erba, neanche un filo di bellezza scomparirà nel nulla. Il mondo è salvo perché amato. I cristiani non sono quelli che amano Dio, sono quelli che credono che Dio li ama, che ha pronunciato il suo ‘sì’ al mondo, prima che il mondo dica ‘sì’ a lui.
Festa della Trinità: annuncio che Dio non è in se stesso solitudine, ma comunione, legame, abbraccio. Che ci ha raggiunto, e libera e fa alzare in volo una corrente d’amore.

 

 

Fb 7 giugno 2020
L’abbracciante

Io che sono lento a credere, che mi ci vorrà forse tutta la vita non per capire, ma solo per assaporare un poco della fede, come potrò cogliere qualcosa della Trinità? La strada non è quella delle formule. Voler capire la Trinità attraverso i concetti, è come tentare di capire una parola analizzando l’inchiostro con cui è scritta.
Dio non è una definizione, è un’esperienza.
. E su tutto regna sovrana la relazione; sul trono di famiglia, il legame.
Dio l’abbracciante. Se non c’è amore, non vale nessun magistero; senza il suo respiro, nessuna cattedra sa dire Dio.
E’ l’abbraccio il senso pieno della Trinità, e l’uomo ha il suo volto.
Quando Dio dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, l’immagine non è quella del Creatore, non quella dello Spirito, né quella del Verbo eterno, ma le tre realtà fuse insieme.
Ecco perché la solitudine mi pesa tanto e mi fa paura, perché è contro la mia natura. Ecco perché quando amo e trovo amicizia sto così bene, perché è secondo la mia, la nostra vocazione.
La relazione come cuore reciproco dell’essenza di Dio nell’uomo.
Ci ha amati così tanto da mandare suo Figlio. E mondo e uomo sono storia della Trinità.

Tutto questo ci sarebbe bastato! Invece l’Ascensione ci porta in pieno nel seno della Trinità: noi siamo quell’uomo pensato e creato non ad immagine del Dio solitario, ma della sua Trinità, dove si è felici solo l’uno nell’altro.
Questo Dio folle che ha amato non solo noi, ma tutto il creato. E che anch’io amo, perché è opera delle sue dita. Coi suoi spazi, le sue nuvole, i suoi figli, la sua dolce e aspra bellezza.
Terra amata e paziente. Grande giardino di Dio, con noi suoi piccoli “giardinieri planetari”.
io mi sento piccolo ma abbracciato dal mistero, come un bambino col naso all’insù.
Resto saldo nel loro vento in cui naviga l’intero creato che mi attende. Mi attende, perché il suo nome è comunione.

 

 

Perfino i nomi che Gesù sceglie per raccontare il volto di Dio sono nomi che contengono legami: Padre e Figlio sono
Dì loro ciò che il vento dice alle rocce,/ ciò che il mare dice alle montagne. / Dì loro che una bontà immensa penetra l’universo,/ dì loro che Dio non è quello che credono, /che è un vino di festa, un banchetto di condivisione / in cui ciascuno dà e riceve./ Dì loro che Dio è Colui che suona il flauto /nella luce piena del giorno, / si avvicina e scompare, e ci chiama alle sorgenti./ Dì loro l’innocenza del suo volto, /i suoi lineamenti, il suo sorriso. /Dì loro che Egli è il tuo spazio e la tua notte,/ la tua ferita e la tua gioia. /Ma dì loro, anche, che Egli non è ciò che tu dici di Lui/ e che tu non sai nulla di Lui, /eppure ti fidi e lo preghi e lo cerchi nel nome di ogni creatura.
(Commissione. Francofona. Cistercense)

 

 

Fb 14 maggio – VI di Pasqua
Gv 14,15-21
A tu per tu, con la pazienza del “se…”
In questo passo del Vangelo di Giovanni, Gesù chiede, per la prima volta, di essere amato. In principio a tutto, pone un legame d’amore. La sua prima parola è “se”: se mi amate. Un punto di partenza libero, umile, fragile, fiducioso, paziente. Puoi aderire o rifiutare, in totale libertà.
La sua parola finora diceva: amerai Dio e il prossimo, vi amerete gli uni gli altri; ora agli obiettivi dell’amore aggiunge se stesso. ‘Se mi amate’: e seguono parole che grondano unione, vicinanza, intimità, un tu per tu con Dio, in divina monotonia: il Padre vi darà lo Spirito, che rimarrà con voi, che sarà presso di voi, che sarà in voi; io stesso verrò da voi, e se voi sarete in me, io sarò in voi.
Chi ama osserverà il suo comandamento, il nuovo, l’unico: amatevi come io vi ho amato, e farlo diverrà per lui naturale, perché l’amore ti cambia la vita, e se ami non potrai ferire, tradire, rubare, violare, restare indifferente.
Se mi ami, ti trasformerai in un’altra persona, prolungherai i miei gesti e diventerai trasparenza di me. Sarai eco delle mie parole e del mio vento. Se mi ami, si spalancherà per te il mare immenso di Dio, e tu ne farai parte.
Gesù cerca spazi aperti e spazi nel cuore, ma amarlo è rischioso. Infatti per sette volte ribadisce il suo sogno: unirsi, abitare in noi: essere-in. Non soltanto “essere accanto”, presso, vicino, ma “essere-in”. Dentro, immersi, uniti, nella stessa creta, fino a diventare l’uno casa dell’altro.
E lo fa con parole che dicono unione, incontro, intimità, festa umile e sublime nella comunione, in una circolarità infinita. Ognuno è goccia della sua sorgente, fiamma dell’unico roveto, respiro nel suo vento, riflesso del suo sguardo.
Quindi non temete, mai vi lascerò orfani. Orfano è parola legata all’esperienza della morte e della separazione, ma Gesù afferma: non abbiate paura! Non lo siete ora e non lo sarete mai. Mai orfani, mai separati da me.
La presenza di Cristo in me non è quindi da raggiungere, non è lontana. È già data, è qui, è dentro e indissolubile, oceano immenso che mai verrà meno.
E infine la promessa di Gesù: io vivo e voi vivrete. Lui che vive e fa vivere: cinge un asciugamano e lava i piedi, che spezza il pane, che nel giardino piange nel cuore dell’amica, che sulla spiaggia prepara il pesce per consolare i suoi. Comandamenti che confortano la vita. Vivrete, perché io vivo: il mestiere di Dio è far vivere.
Chi ama, vive: perché il tempo dell’amore è più lungo del tempo della vita, perché forte come la morte è l’amore, e le grandi acque non possono spegnerlo né i fiumi travolgerlo.
Il cristiano è così: un amato che diventa amante.
Un Vangelo da mistici, di fronte al quale si può solo tacere, portando la mano alla bocca. La mistica però è un’esperienza per tutti: “il cristiano del futuro o sarà un mistico o non sarà” (Karl Rahner).

 

Avvenire

VI di Pasqua Gv 14,15-21

Sette versetti, nei quali Gesù ripropone, per sette volte, il centro del suo messaggio: in principio a tutto e a compimento di tutto, è posta la stessa azione: amare, pietra d’angolo e chiave di volta della vita viva. «La legge tutta è preceduta da un “sei amato” e seguita da un “tu amerai”. Sei amato, fondazione della legge; amerai, il suo compimento. Chiunque astrae la legge da questo principio amerà il contrario della vita» (P. Beauchamp). Amerà la morte.
“Se mi amate”. Gesù non detta regole, si fa mendicante d’amore rispettoso e paziente. Entra silenzioso e a piedi nudi nel tessuto più intimo della vita Non rivendica amore per sé, lo spera. Lo fa con estrema delicatezza, mettendo a capo di tutto un “se”. Il punto di partenza più umile, fragile, fiducioso, paziente: “se mi amate”.
Nessuna minaccia, nessun ricatto. Puoi accogliere o no, in totale libertà.
Ma amarlo è pericoloso: amore è parola che brucia le labbra se pronunciata male, se suona incoerente. “Se mi amate, osserverete…”, un bellissimo automatismo, radice della coerenza: solo se ami, osservi. Che cosa? “I miei comandamenti”. Non le tavole di pietra del Sinai, ma il suo, il nuovo, l’unico, la cronaca del suo amore diventata legge: lui che si perde dietro alla pecora perduta, dietro a pubblicani e prostitute e vedove povere, che fa dei bambini i principi del regno, che ama per primo e in perdita.
La secondo termine decisivo del vangelo di oggi è una parolina, brevissima, ma esplosiva come una mina disseminata in tutto il brano, la preposizione “in”: “voi in me e io in voi”. Dio dentro di me e io dentro Dio, innestato, immerso. E non è fatica di conquista, vetta che non raggiungi. Ci siamo già dentro, dobbiamo solo prenderne coscienza! E non scappare, non fuggire dietro agende e telefonini, ma ascoltare la sua richiesta sommessa: Resta con me, rimani in me!
Gusto l’immagine di me immerso “in” Dio, tralcio della vite madre, stessa linfa, stessa vita; raggio del sole, stessa luce, stesso fuoco; goccia d’acqua dello stesso oceano. C’è un cromosoma divino nel nostro DNA. Per questo la nostra vita è piena di futuro.
Infatti il brano è tutto sotteso da un filo d’oro di verbi al futuro: “ pregherò, vi darò, non vi lascerò, verrò, mi vedrete, saprete, vivrete, amerò, mi manifesterò”. Che senso di vitalità e di strade spalancate, di gemme che si schiudono e di nascite! Abbiamo un Dio che presiede a tutte le nascite, che ci precede su tutte le strade, che irrompe dal futuro e non dal passato.
“Non vi lascerò orfani, io vivo e voi vivrete”. Far vivere è la vocazione di Dio, il suo mestiere. La prima legge di Dio è che l’uomo viva e questa è anche tutta la sua gioia.

(p.Ermes Ronchi)

 

 

Fb 7 maggio – V di Pasqua
La strada di casa (p.Ermes Ronchi)

Gv 14,1-12
Via. Verità. Vita. Parole immense, che scappano da tutte le parti, ma che sempre fanno centro nel nostro cuore.
Io sono la via, la strada, che è molto più di una stella polare che indica, pallida e lontana, la direzione. È qualcosa di vicino, solido e affidabile dove posare i piedi; il terreno, battuto dalle orme di chi è già andato oltre, e che ti assicura che non sei solo. La strada è libertà nata dal coraggio di uscire e partire, come Abramo.
La Bibbia è piena di strade, di vie, di sentieri e di futuro che chiama. Davanti all’uomo non c’è una non-strada, ma un ventaglio di strade. Ma Gesù specifica: la strada sono io. Non c’è allora un sentiero, ma una persona da percorrere: sulle sue orme, i suoi gesti, i suoi ideali controcorrente; sulle sue scomode scelte.
Alla base della civiltà occidentale la storia e il mito hanno posto due viaggi ispiratori: quello di Ulisse e del suo avventuroso ritorno a Itaca, il cui simbolo è un cerchio; il viaggio di Abramo, che parte per non più ritornare, il cui simbolo è una freccia. Gesù è via che si pone dalla parte della freccia, a significare non il semplice ritorno a casa, ma un viaggio mai finito, verso cieli nuovi e terra nuova, verso un futuro tutto da creare.
Io sono la verità: non in una dottrina, in un libro, in una legge migliori delle altre, ma in quel ”io” sta la verità; nella vita di Gesù, venuto a mostrarci il vero volto dell’uomo e di Dio. Verità è un termine che ha la stessa radice latina di primavera (ver-veris), verità che risorge coraggiosa e amabile. Se invece è arrogante, senza tenerezza, aggressiva e dispotica; se è gridata con le parole di pietra dei fondamentalisti, allora non è voce di Dio. E la verità sei tu quando ti prendi cura e custodisci, asciughi una lacrima, ti fermi accanto all’uomo bastonato dai briganti, quando sai mettere sentori di primavera dentro un’esistenza.
La verità è la sorella della tenerezza, insieme cercano la comunione. Il cristianesimo non è un sistema di pensiero, ma una storia e una vita (F. Mauriac).
Io sono la vita. Che hai a che fare con me, Gesù di Nazareth?
La risposta è una pretesa perfino eccessiva: io faccio vivere. E’ questa la richiesta più diffusa dei Salmi (Dio, fammi vivere!), è la supplica più gridata da Israele, che è andato a cercare lontano il grido di tutti i disperati della terra, e l’ha raccolto e lo custodisce nei salmi. Vita è tutto ciò che mettiamo sotto questo nome: futuro, amore, casa, festa, riposo, desiderio, pasqua, generazione, abbracci.
E ciò vuol dire che il mistero di Dio non è lontano, è strada sottesa ai tuoi passi. “Io sono vita” significa che non cercheremo altrove, perché siamo finalmente a casa.
Guardi Gesù, osservi come vive, come ama, come accoglie e come muore, e capisci quel Dio che aggiunge vita alla vita.

 

Avvenire

V di Pasqua Gv 14,1-12

Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?
Gesù non risponde: “io ‘conosco bene’ la strada e adesso ve la descrivo e poi vi passo le coordinate”; dice invece: “guardami Tommaso, sono io la via”.
La strada verso Dio, verso il cuore caldo della vita, è la vita di Cristo. Guardi Gesù, come vive, come si commuove e tocca, come va incontro, come muore, e capisci Dio e la vita. E se voglio entrare in quel mistero metterò i miei passi sui suoi passi, preferirò coloro che lui preferiva, rinnoverò con le mie le sue scelte, mi muoverò solo dietro alla sua stella polare. J, Maritain mette in bocca a Gesù questo invito: “Non cercatemi in un luogo, ma là dove amo e sono amato”.
‘Io sono la verità’. Come io vivo è il vivere vero, come mi comporto con i piccoli e con le donne, con i poveri cristi e con i Pilato di turno, con gli uccelli e con i fiori del campo, con il Padre e l’ultima pecora… La verità è fatta di carne, ieri baciata, tra poco straziata.
Verità disarmante è il suo muoversi libero, regale e amorevole tra le creature. Mai arrogante e sempre senza compromessi. Diritto e sicuro. La verità è coraggiosa e amabile. Quando invece è arrogante e senza tenerezza, è una malattia che ci fa tutti malati di violenza. La verità dura, dispotica, gridata da parole di pietra “è così e basta”, non è la voce di Dio. Dio è verità amabile, di occhi e mani accesi!
Io sono la vita. Parole che nessuna spiegazione può esaurire. Che hai a che fare con me, Gesù di Nazareth? La risposta è una pretesa eccessiva e sconcertante: io faccio vivere.
Io sono la vita. Allora più Vangelo entra in me, più vita si aggiunge alla vita. Quella vita che si oppone alla pulsione di morte, all’auto distruttività che coltiviamo in noi, alle paure, alla sterilità di una vita inutile. Vita è tutto ciò che possiamo mettere sotto questa nome: futuro, amore, casa, festa, riposo, desiderio, pasqua, felicità. Per questo fede e vita, sacro e realtà, hanno l’identica sorgente, e coincidono.
I gesti e le parole di Gesù sono energia che sa scheggiare le corazze dure, fa fiorire la corteccia malata della storia, fa sognare terra nuova e cieli nuovi, se e quando la sua tenerezza attraversa le nostre mani.
Il mistero di Dio non è lontano da te, è nella tua vita: vive nel tuo nascere, amare, dubitare, credere, perdere, illuderti, osare, generare… In ogni tuo amore è Lui che ama. Il mistero di Dio non è lontano, ma è la strada sottesa ai nostri passi. Se Dio è la vita, allora “c’è della santità nella vita, viviamo la santità del vivere” (Abraham Hescel). Per questo fede e vita, spiritualità e realtà non si oppongono, ma si incontrano e si baciano, come nei Salmi.

 

 

21 Fb II di Pasqua Gv 20, 19-31

NON OSTACOLI MA OPPORTUNITA’ (di p. Ermes Ronchi)

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei Giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene.
Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto. E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il vangelo: ‘in mezzo a loro’. E dice: Pace a voi. Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, ora, qui. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sulle delusioni patite, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso.
Gesù e Tommaso, loro due cercano. Si cercano.
Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di rimproverarli, si mette a disposizione delle loro mani.
Tommaso non si era accontentato delle parole degli altri dieci; non di un racconto aveva bisogno, ma di un incontro con il suo Signore. Che viene una prima volta ma poi ritorna, che invece di imporsi, si propone; invece di ritrarsi, si espone alle mani di Tommaso: Metti qui il tuo dito; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.
La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto dell’amore, e allora resteranno eternamente aperte. Su quella carne l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come l’amore stesso.
Il vangelo non dice che Tommaso abbia davvero toccato e messo il dito nel foro. A lui è bastato quel Gesù che si propone, ancora una volta, un’ennesima volta, con questa umiltà, con questa fiducia, con questa libertà, che non si stanca di venire incontro, che non molla i suoi, neppure se loro l’hanno abbandonato.
È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare: mio Signore e mio Dio.
Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine per noi che non vediamo, che cerchiamo a tentoni e facciamo fatica, e che finalmente sento mia, alla mia portata.
Grande educatore, Gesù: forma i suoi alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, alla ricerca personale più che alla docilità e all’obbedienza.
Beati i credenti! La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici, portando come Tommaso le nostre debolezze, non più ostacoli ma opportunità per l’incontro.

 

Avvenire II di Pasqua Gv 20, 19,31

Aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei ma anche di se stessi, della propria viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento. Sembra che manchi l’aria.
Eppure Gesù viene, nonostante il loro e il mio cuore inaffidabile: e stette in mezzo a loro. Mi conforta pensare che se trova chiuso lui non se ne va; se tardo ad aprire, otto giorni dopo è ancora lì.  Shalom, ha detto, saluto biblico che significa molto più della pace come semplice fine delle violenze, indica la forza dei miti e dei nonviolenti dentro la logica del più armato, la luce dei puri di cuore dentro la nebbia delle astuzie, la serenità dei giusti nelle ingiustizie, la perseveranza degli onesti fra le disonestà.
Soffiò e disse: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, il vento sottile dell’Oreb su Elia profeta, quello che scuoterà le porte chiuse del cenacolo: ecco io vi mando!
“Se non vedo e non tocco, non crederò”. Povero, caro Tommaso, diventato addirittura proverbiale! Vuole delle garanzie, e ha ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne uscirà rovesciata.
Gesù si avvicina alla nostra lentezza del credere con pochi, semplici verbi: guarda, metti, tocca. Tommaso comprende da quei fori il motivo per cui Cristo è risorto: per un amore scritto con ferite ormai incancellabili, da cui non sgorga più sangue ma luce.
Tommaso si arrende non ai suoi occhi o al suo toccare, ma a questa esperienza di pace offerta da Gesù per ben tre volte. E la sua pace scende ancora sulle nostre sconfitte, sulle nostre chiusure, sulle nostre paure.
Alla fine Tommaso passa dall’incredulità all’estasi. Se poi abbia toccato o no il corpo del Risorto, non è importante.
“Mio Signore e mio Dio”. Tommaso ripete quel piccolo “mio” che cambia tutto, che non indica possesso geloso, ma appartenenza, eco del Cantico dei Cantici: il mio amato è mio e io sono sua!
Mio Signore , che mi fai vivere, che sei la parte migliore di me. “Mio”, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. “Mio”, come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.
Beati quelli che senza aver visto crederanno. Beatitudine consolante che finalmente sento mia. Gesù mi dice beato! Beato chi fa fatica, chi cerca a tentoni, chi non vede ancora eppure cammina avanti, “siamo pellegrini senza strada, ma tenacemente in cammino” (Giovanni della Croce).
La fede è il rischio di essere beati, cioè felici. Di vivere una vita non certo più facile, ma più piena e appassionata. Ferita sì, talvolta, ma luminosa comunque e perfino guaritrice. Così termina il Vangelo, così inizia la mia sequela: col rischio di essere felice.

 

Fb II di Pasqua Gv 20, 19-31

NON OSTACOLI MA OPPORTUNITA’

I discepoli erano chiusi in casa per paura dei Giudei. Hanno tradito, sono scappati, hanno ancora paura: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando? E tuttavia Gesù viene.
Una comunità chiusa dove non si sta bene, porte e finestre sbarrate, dove manca l’aria e ci si sente allo stretto. E tuttavia Gesù viene. Non al di sopra, non ai margini, ma, dice il vangelo: ‘in mezzo a loro’. E dice: Pace a voi. Non si tratta di un augurio o di una promessa, ma di una affermazione: la pace è, ora, qui. È pace sulle vostre paure, sui vostri sensi di colpa, sulle delusioni patite, sui sogni non raggiunti, sulle insoddisfazioni che scolorano i giorni. Qualcuno però va e viene da quella stanza, entra ed esce: i due di Emmaus, Tommaso il coraggioso.
Gesù e Tommaso, loro due cercano. Si cercano.
Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di rimproverarli, si mette a disposizione delle loro mani.
Tommaso non si era accontentato delle parole degli altri dieci; non di un racconto aveva bisogno, ma di un incontro con il suo Signore. Che viene una prima volta ma poi ritorna, che invece di imporsi, si propone; invece di ritrarsi, si espone alle mani di Tommaso: Metti qui il tuo dito; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.
La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il punto più alto dell’amore, e allora resteranno eternamente aperte. Su quella carne l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come l’amore stesso.
Il vangelo non dice che Tommaso abbia davvero toccato e messo il dito nel foro. A lui è bastato quel Gesù che si propone, ancora una volta, un’ennesima volta, con questa umiltà, con questa fiducia, con questa libertà, che non si stanca di venire incontro, che non molla i suoi, neppure se loro l’hanno abbandonato.
È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare: mio Signore e mio Dio.
Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Una beatitudine per noi che non vediamo, che cerchiamo a tentoni e facciamo fatica, e che finalmente sento mia, alla mia portata.
Grande educatore, Gesù: forma i suoi alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, alla ricerca personale più che alla docilità e all’obbedienza.
Beati i credenti! La fede è il rischio di essere felici. Una vita non certo più facile, ma più piena e vibrante. Ferita sì, ma luminosa. Così termina il Vangelo, così inizia il nostro discepolato: col rischio di essere felici, portando come Tommaso le nostre debolezze, non più ostacoli ma opportunità per l’incontro.

 

 

 

Fb 9 aprile – Pasqua del Signore
Non qui
Un corpo assente. Nella tomba fuori le mura, di storicamente certo c’è solo il vuoto. E da quel buio vuoto parte la corsa di Maddalena, di Pietro e di Giovanni, la paura delle donne, lo sconcerto di tutti.
Il primo segno è la pietra divelta. Silenzio e freddo. Un corpo assente non può sfamare la bramosia della morte; morte attonita, a mani vuote, dai conti in perdita.
Davanti a tanta assenza, ecco angeli vestiti di lampi: “perché cercate tra i morti colui che vive? Non è qui”. Una cascata di speranza. Il “Vivente” non è qui! Lui c’è, ma non più fra le cose morte. Non più.
Qualcosa si muove in Maria: un’ansia, un’improvvisa folata di vento scuote di colpo lei e la vita attorno.
Corse allora… cos’altro avrebbe potuto fare? Corre perché sta nascendo il giorno, deve correre perché è il parto del mondo nuovo, perché incombono le doglie della vita, del futuro, della speranza, di nuovi orizzonti.
Corre da Pietro e dal discepolo amato e anche loro «correvano tutti e due…». Perché tutti corrono nel mattino di Pasqua? Perché il cuore è in tumulto, perché l’amore ha fretta, perché la vita non indugia e spinge, per aprirsi un varco e uscire.
Chi ama è sempre in ritardo sull’amore. E il discepolo che Gesù amava corre più in fretta, arriva per primo alla fede, perché, «i giusti camminano, i sapienti corrono, ma solo gli innamorati volano» (Camilla Battista Varano).
Non mi toccare, dice Gesù. Si tocca per capire, per stringere, come non ci fosse altro. Non mi trattenere perché la lotta non finisce qui, perché questo mattino è solo l’avvio. La festa sarà dopo, quando Dio asciugherà ogni lacrima e non ci sarà più né morte, né lutto, né lamento, perché le cose di prima sono passate.
Alle volte ho un sogno: che al Santo Sepolcro un annunciatore ripeta le parole dell’angelo: non è qui. È fuori, è davanti. Cercate meglio, cercate ancora. Vi precede in Galilea, là dove tutto può ripartire. E incalza: Lui si fida ancora, vi aspetta per vivere solo di inizi. Vi precede perché la risurrezione di Gesù è assoluta novità, ma catturerà anche voi, sarete presi dentro, contagiati di vita indistruttibile!
Molto più facile sarebbe stato fondare il cristianesimo sulle opere di Gesù, sul suo coraggio di opporsi ad ogni potere, di morire perdonando. La risurrezione, bastione su cui si regge o cade la Chiesa, non è un’invenzione o una scelta degli apostoli, è un qualcosa che si è imposto da sé. Ed è così bello pensare che Pasqua, l’inaudito, è raccontata con i verbi semplici dei nostri mattini (svegliarsi, alzarsi), quando fuori è primavera e magari non ce ne accorgiamo.
Pasqua è qui, adesso. Ogni giorno, quel giorno. La forza della Risurrezione e delle ripartenze “non riposa finché non abbia raggiunto l’ultimo ramo della creazione e rovesciato la pietra dell’ultima tomba” (M. Luzi).

Pasqua 2023 Matteo 28,1-8

All’alba, alle prime luci, quasi clandestinamente, due donne si recano alla tomba nel giardino. Vuote le mani, vengono solo per visitare la tomba: guardare, osservare, sostare, ricordare. Sono le stesse donne che venerdì hanno abitato, senza arretrare di un centimetro, il perimetro attorno alla croce.
Un angelo scese dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Non apre il sepolcro perché Gesù esca, è già uscito, ma per mostrarlo alle donne: il sepolcro è vuoto, il Nazareno è già altrove. Come, non è detto. Il mistero di Dio resta intatto.
Donne, angelo, guardie, il brivido della terra, cielo, pietra, alba: tutti sono convocati perché Gesù Cristo cattura dentro il suo risorgere tutto l’universo; è energia che si dirama per tutte le vene del mondo, una forza che ha imbevuto di sé tutta la trama del creato. “E non riposerà più, fino a che non avrà raggiunto l’ultimo ramo della creazione e rovesciata la pietra dell’ultima tomba” (M.Luzi).
Le donne hanno il cuore grande abbastanza per parlare con gli angeli: “So che cercate Gesù, non è qui!”. Voi cercatrici, mendicanti dell’amato, continuate, ma con occhi nuovi.
Che bello questo: non è qui! Cristo c’è, esiste, vive, ma non qui. Non è rinchiuso in nessun luogo. Va cercato altrove, diversamente, via dal territorio delle tombe, è in giro per le strade, un Dio da cogliere nella vita. Dappertutto, ma non qui, fra le cose morte. Bisogna cercare più a fondo: non c’è luogo che lo contenga, non chiesa, non parole o liturgie. Lui è oltre, sempre oltre è il suo infinito cammino.
Non è qui, vi precede, è davanti ad aprire la nostra immensa migrazione verso la vita. E’ davanti, a ricevere in faccia il vento, il sole, il futuro, la violenza.
Andate, vi precede. Un Dio migratore, abbiamo, che ama gli spazi aperti, che apre cammini, attraversa pietre e spalanca tombe. Pasqua vuol dire ‘passare’. Non è festa per stanziali, ma per migratori, per chi inventa sentieri che facciano scollinare verso più giustizia, più pace, più armonia con il creato, verso terra nuova e cieli nuovi.
Vi precede in Galilea. Là lo vedrete. Ucciso a Gerusalemme, risorto a Gerusalemme, ma l’incontro avverrà ai margini, lontano dal centro dei poteri omicidi, in Galilea dove tutto ha avuto inizio con tre anni di strade, lago, pani e pesci, olivi, le lezioni sulla felicità, intese amicali. Devono rileggere tutta la vita di Gesù per capire la sua risurrezione. Devono ripercorrere la sua vita dall’inizio, allora capiranno che Dio l’ha risuscitato perché una vita così non può finire. Che gesti e parole così meritano di non morire, hanno dentro la vita indistruttibile che Dio regala a chi produce amore.

La Pasqua, la risurrezione è il tema più arduo e più bello di tutta la Bibbia. Balbettiamo, come gli evangelisti, che, per tentare di raccontarla, si fecero piccoli, non inventarono parole, ma presero in prestito i verbi delle nostre mattine, delle nostre piccole risurrezioni quotidiane: svegliarsi e alzarsi: si svegliò e si alzò il Signore.
Quel giorno, raccontato con i verbi di ogni giorno.
Ogni giorno è quel giorno. Pasqua è qui, adesso.
Tornate all’umanità di Gesù, a tutti i brividi di umano…
Tornate alla sua vita: chi vive una vita come la sua lo vede,
ma non con gli occhi del corpo, ma con quelli del cuore,
cioè ne fa l’esperienza,
Là lo vedrete.
Un amico, che si dichiara ateo, mi illumina sulla mia fede: “sai qual è la differenza tra te che credi e io che non credo? Per me Gesù, un grandissimo della storia, forse il più grande, è purtroppo morto, giustiziato nel 33 sotto Ponzio Pilato; per te invece Gesù è vivo.
Il cristianesimo è quello che è, solo se Cristo è risuscitato.
La chiesa non è nata dal ricordo di Gesù, ma dalla sua presenza.

 

 

 

LE PALME 23

di p. Ermes Ronchi

La domenica delle Palme ci immerge in uno dei momenti più festosi della vita di Gesù: un fiume di sorrisi, dal monte degli ulivi al tempio. E attorno era primavera, allegra e potente, come adesso.
Non ho più dimenticato un dialogo di molti anni fa con un monaco trappista dell’abbazia di Orval, in Belgio. Davo una mano nella “brasserie”, cercando di rendermi utile, quando mi venne da chiedergli: «Padre, ma lei non si è mai stancato di Dio? Di pregare, di pensare a lui, di dargli tutto il tempo? Quando ci si stanca di Dio, cosa dobbiamo fare?». Mi aspettavo che dicesse: ma come si fa a stancarsi di Dio? Vuol dire che siamo credenti da poco…
Invece mi guardò con i suoi occhi profondi, e mi raccontò di una omelia di san Bernardo ai suoi monaci: «nel giorno delle Palme, nel corteo che accompagna il Maestro e i discepoli giù dal monte degli ulivi, c’è chi canta, chi applaude, chi fa ala e stende i mantelli, chi agita rami di palma: un giardino che cammina. Chi più vicino a Gesù, chi più lontano. Ma tutti contenti. C’è però un personaggio che fa più fatica di tutti, anche se è forte, anche se è il più vicino, ed è l’asina con il suo puledro (Matteo 21,2), su cui hanno steso i mantelli, su cui è salito Gesù. Chi sente tutto il peso di quell’uomo da portare su per l’erta che sale dal torrente Cedron verso il tempio e si stanca, è l’asina. È la più vicina a Gesù eppure quella che fa più fatica. Così anche noi» continuò «quando facciamo fatica, quando sentiamo il peso delle cose di Dio, forse questo accade perché siamo molto vicini al Signore, stiamo portando lui e insieme il peso del cielo sopra di noi, con le sue nuvole scure da spingere più in là. L’importante è continuare: poco dopo c’è Gerusalemme».
La Settimana santa porta con sé i giorni supremi della storia, la Sua vita e la nostra un fiume solo, i giorni della “vendetta” di Dio: quando Dio si vendica di tutta la lontananza, di tutta la separazione, di tutta l’indifferenza, inventando la croce che solleva la terra, che abbassa il cielo, che raccoglie gli orizzonti, crocevia di tutte le nostre strade disperse. La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante. Lassù, le braccia di Gesù, inchiodate e distese in un abbraccio irrevocabile, mai più revocato, sono le porte dell’eden spalancate per sempre, sono dilatazione del cuore fino a lacerarsi, ancor prima del colpo di lancia. Nuova genesi dell’uomo in Dio: l’amato nasce sempre dalla ferita del cuore di chi lo ama. L’uomo nasce dal cuore lacerato del suo creatore. Rivelazione ultima che Dio e la vita sono sempre dono di sé, e non sarai mai abbandonato.
Allora nella croce di Gesù risplende davvero la gloria della vita.

 

Fb 2 aprile – Domenica delle Palme

L’atto d’amore perfetto
Gli ultimi giorni di Gesù: dall’entrata in Gerusalemme, al rinnegamento di Pietro, fino alla folle corsa di Maria nel mattino di Pasqua, quando anche la pietra del sepolcro si veste di angeli e di luce, e ogni paura vola via.
Giorni supremi dal respiro profondo, respiro del tempo che cambia ritmo nell’attesa di qualcosa, di qualcuno che viene.
L’attesa ci fa passare attraverso il volto amico di Maria, che a Betania prende fra le sue mani i piedi di Gesù, ben povero tesoro, dove nulla c’è di divino, solo la stanchezza di essere uomo. Carezze di nardo su quei piedi così lontani dal cielo, così vicini alla polvere con cui Dio fece Adamo.
Una carezza sui piedi di Dio. Piedi sulle strade di Galilea e sul mio cuore, dove anch’io sono polvere e cenere. Dio non ha ali, ma piedi per perdersi con me nelle strade della storia.
Dio viene come un Re mendicante. A Betlemme la sua famiglia era ricca d’amore e la speranza viaggiava a dorso di un asinello, ora è così povero e solo da non possedere neanche la più povera bestia da soma. Un amante disarmato.
Benedetto Colui che viene, benedetto perché viene! È stupendo poter dire: Dio viene. In queste strade che sentono di folla, nella mia casa che sa di pane, Dio viene ancora. Si avvicina, è alla porta.
Poi Gesù si consegna alla morte. Perché? Per essere con me e come me, perché io possa essere con lui e come lui, il volto vero e alto dell’uomo, come quando appare al balcone di Pilato (ecco l’uomo!) col volto intriso di sangue, ed è il balcone del mondo, dove è ancora crocifisso in tutti i suoi fratelli, straziato nella loro carne, straziata e santa.
In questa lenta settimana, possiamo seguire Gesù ora per ora. La cosa più santa che possiamo fare è stare con lui come le donne, come il centurione esperto di morte, per provare a capire che lì, in quell’agonia, canta il primo vagito di un mondo nuovo.
Cosa ha visto in lui il centurione pagano? Il guerriero non ha assistito a nessuna
risurrezione, solo a una esecuzione capitale, a una morte da chiavi. Cosa ha visto nello strazio di un morente? Un terremoto, una passione che, come vento di primavera, trema indomita sulla croce, una forza che scuote le pietre dei sepolcri, che non lascia dormire la polvere, ma vi fa entrare il respiro del mattino. La croce è l’abisso dove Egli viene da amante.
Il soldato ha visto che è possibile un altro modo di essere uomini. Ha visto il mondo capovolgersi: Dio che dà la vita anche a chi gli dà la morte; che non risponde al male con un di più di violenza, ma prendendolo su di sé.
La croce è l’immagine di Dio più pura, più alta, più bella della nostra fede; qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato una falsa idea di Dio. Solo la croce toglie ogni dubbio: lui è con me, fino all’estremo, per sempre.
Incantati, poggiamo saldi sulla cosa più bella del mondo: un atto d’amore, un dono d’amore, perfetto.

Fb 19 marzo – IV di Quaresima
Gv 9,1-41
L’albeggiare di Dio in noi (p.Ermes Ronchi)

Lungo i suoi tre anni sulla strada Gesù incontra molta gente, ma oggi, per la via, incrocia l’ultimo degli ultimi: un cieco, innocente e innocuo. Gli si avvicina, lo tocca. Lo riconosciamo! Solo lui passa oltre le colpe che sembrano interessare tutti, ma non Gesù.
La muta speranza del cieco non chiede, non gli chiede, il perché della sua condanna: cerca solo a tentoni mani che lo tocchino, e che sugli occhi spenti gli infondano un po’ di vita. Alla sua impurità cerca partecipazione, non spiegazione.
Invece i farisei su questo hanno eretto una serie di parole e sofismi per non ascoltare la vita. È il mondo ad essere cieco! Infatti sulla bocca dei farisei il termine più ricorrente è “peccato”, innalzato a teoria per spiegare il mondo e la sua realtà.
Una religione immiserita a questioni di peccato che Gesù capovolge all’istante: l’uomo non coincide con il suo errore, mai. Esso non spiega Dio, che è compassione, futuro, approccio ardente, amore che fa ripartire a cuor leggero.
Gesù non parlerà di peccato se non per dire che è perdonato; che Dio non si spreca in castighi, che non indugia sul moralismo. Che l’essenza etica del suo Vangelo è il valore assoluto di ogni persona, che la nostra vita è un quotidiano e continuo albeggiare. Che Dio albeggia in noi.
Gesù si fa culla per le nostre albe, e seguirlo è rinascere.
Con poco fango, con la creta di poca polvere impastata a saliva, ecco un minimo nuovo creato, che Gesù stende su quelle palpebre innocenti e giudicate, bozzolo chiuso nel buio. E come con la bambina di Giairo, lo congeda con “Kum!”: “Alzati!”. Risorgi e vai dove tutti ti possano vedere con occhi nuovi. E fallo anche tu, illumina la tua vita.
In questa piccola liturgia di mani e saliva, celebrata con fragile argilla impastata d’amore, Gesù è Dio che si contamina con l’uomo, è l’uomo contagiato di cielo.
“Vai alla piscina di Siloe!”. Il mendicante cieco si aggrappa al bastone e ad una carezza sugli occhi. Si fida di un miracolo che ancora non c’è, di un salto nel buio.
Andò, e tornò che ci vedeva.
Non siederà più a terra a invocare pietà, ma starà ritto in piedi con la faccia nel sole, finalmente libero. Finalmente uomo.
Di fronte alla gioia di un uomo che per la prima volta vede gli occhi di sua madre, anche gli alberi applaudono, anche i fiumi battono le mani, come dice il salmo.
Ma l’uomo nato cieco passa da miracolato a imputato. Ai farisei delle certezze e della teologia morale non interessano quegli occhi tornati a splendere, ma la “sana” dottrina. E sul guarito di sabato avviano un processo per eresia.
Ma la strada maestra della Chiesa è l’uomo. Sempre.
Una carezza di luce sul cieco: Gesù lo illumina e tutti ne siamo sanati. Ci dice che se una esperienza regala vita, allora è buona e benedetta. Perché legge suprema di Dio è che l’uomo viva.

 

Avvenire IV di Quaresima Gv 9,1-41
UN UOMO NATO CIECO

Un uomo nato cieco, così povero che possiede soltanto se stesso. E Gesù si ferma proprio per lui. Arriva la prima domanda: perché cieco? Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori? Gesù ci allontana immediatamente dall’idea che il peccato sia la spiegazione del male, la chiave di volta della religione. La bibbia non da risposte al perché del male innocente, le cerchi invano. Neppure Gesù lo spiega. Fa altro: lui libera dal male, si commuove, si avvicina, tocca, abbraccia, fa rialzare. Il dolore più che spiegazione vuole condivisione.
Gesù spalma un petalo di fango sulle palpebre del cieco, lo manda alla piscina di Siloe, torna che ci vede: uomo finalmente dato alla luce. Nella nostra lingua partorire si dice anche “dare alla luce”. Gesù dà alla luce, partorisce vita piena.
Il filo rosso del racconto è una seconda domanda, incalzante, ripetuta sette volte: come ti si sono aperti gli occhi? Tutti vogliono sapere “come” si fa, “come” ci si impadronisce del segreto di occhi nuovi e migliori, tutti sentono di avere occhi incompiuti. Lo sappiamo: basta una lacrima e non vedi più. Quanti occhi acutissimi ho visto spegnersi: dicevano di vederci bene ed è bastata una lacrima, l’unghiata di un dolore, e si sono annebbiati, gli orizzonti e le strade scomparsi.
Di fronte alla gioia dell’uomo “dato alla luce”, che vede per la prima volta il sole, il blu del cielo e gli occhi di sua madre, anche gli alberi, se potessero, danzerebbero; anche i fiumi batterebbero le mani, dice il salmo. I farisei, no. Non vedono il cieco illuminato ma solo un articolo violato: Niente miracoli di sabato. Non si salvano vite, oggi. C’è il riposo santo. Avete sei giorni per farvi guarire, non di sabato. Di sabato Dio vi vuole ciechi! Ma che religione è mai quella che non guarda al bene dell’uomo, ma che parla solo di se stessa, a se stessa? Una fede che non si interessi dell’umano non merita che ad essa ci dedichiamo (Bonhoeffer)
C’è un’infinita tristezza nella pagina. I farisei mettono Dio contro l’uomo, ed è il peggior dramma che possa capitare alla nostra fede, a tutte le fedi: mostrano che è possibile essere credenti, senza essere buoni; credenti e duri di cuore. È facile ed è mortale.
E invece no, gloria di Dio non è il sabato osservato, ma un mendicante che si alza, che torna a vita piena, “uomo finalmente promosso a uomo” (P. Mazzolari). E il suo sguardo che illumina il mondo dà gioia a Dio più di tutti i comandamenti osservati
Come lui, torniamo ad avere occhi di bambini, di figli amati: occhi aperti, occhi meravigliabili, occhi grati e fiduciosi, occhi speranzosi, occhi che ridono o piangono con chi sta loro davanti; occhi, insomma, contagiati di cielo.

 

 

Signore metti luce nei miei pensieri, luce nelle mie parole, luce nel mio cuore.

 

 

Fb 12 marzo – III di Quaresima
Gv 4,5-42
Infinita sete
Gesù e una donna straniera. Occhi negli occhi al muretto del pozzo, con lo sguardo ad altezza del cuore.“Dammi da bere”. Il viandante ha sete, ma non di acqua.
Il dono è il tornante di questa storia, è parola portante della storia sacra: ti darò una sorgente intera in cambio di un sorso d’acqua. Simbolo bellissimo: la fonte è molto più di ciò che serve alla tua sete; è senza misura, senza fine, senza calcolo. Esuberante ed eccessiva. Immagine di Dio che si dona con un desiderio preciso: che lo amiamo non da servi, non più da sottomessi, ma da innamorati.
Anche oggi Gesù va diritto al pozzo del cuore, all’essenziale che tracima. E vede un cuore ferito, indurito, forse malato. Ma il suo sguardo non si posa sugli errori in cui la donna è inciampata, lui vede solo una grande sete, una sete infinita.
«Hai avuto cinque mariti. Vai a chiamare colui che ami». Il suo è il linguaggio femminile dei sentimenti, della ricerca di ragioni forti per vivere. «Se tu conoscessi il dono di Dio!» Donna, non vivere solo per i tuoi bisogni, fame, sete, amori, un po’ di religione, perché poi avrai solo un po’ d’acqua nella brocca, presto finita, sempre insufficiente. Non vivere senza mistero. Senza dono.
Gesù non giudica e non assolve. Non cerca indizi di colpa, ma un bene che subito mette in luce: hai detto bene, questo è vero. Non dice, quest’acqua non è buona, gli amori umani sono cattivi. Dice solo: se bevi di quest’acqua avrai ancora sete, svelando che fra la nostra sete profonda e l’acqua dei pozzi umani la distanza è incolmabile.
Non le chiede di mettersi in regola, prima di affidarle l’acqua vivente, sarò l’acqua a trasformarla. E’ il Messia di suprema delicatezza, è il volto bellissimo di Dio.
Ti darò acqua di sorgente. Gesù: lo ascolti e nascono fontane. E tutto zampilla, come un’acqua che eccede la sete e supera il tuo bisogno, che scorre verso altri.
Che cosa si vede da quel luogo, dal pozzo di Sicar? Il monte Garizim, con il tempio dei samaritani; e attorno cinque alture su cui i coloni stranieri hanno eretto cinque templi ai loro dei. Il popolo è andato dietro a cinque idoli, come la donna a cinque uomini. Storia, simbolo, popolo, persona, tutto si intreccia per convergere all’essenziale: lo Sposo cerca la sposa perduta.
La donna sente questa energia d’amore vivo, e ne è contagiata. Abbandona brocca e pozzo, e corre! Corre in città, e ferma tutti per strada: “c’è uno che sa tutto di me! Che vede in ognuno la sorgente del bene, più forte del male, e fontane di futuro”.
E chiama, annuncia, testimonia!
Nulla rivela il mistero dell’uomo quanto il mistero dei suoi amori.
Gesù fa nascere nella samaritana la sete di Dio, un Dio cui si accede per la porta del cuore. Solo lì si capisce ogni cosa.
Io sono acqua viva. Ricevimi, donami, e donandomi mi otterrai di nuovo.

 

Avvenire III DI QUARESIMA Giovanni 4, 5-17 2017
Dammi da bere. Dio ha sete, ma non di acqua, bensì della nostra sete di lui, ha desiderio che abbiamo desiderio di lui. Lo Sposo ha sete di essere amato.
La donna non comprende, e obietta: Giudei e samaritani sono nemici, perché dovrei darti acqua? E Gesù replica, una risposta piena di immaginazione e di forza: se tu conoscessi il dono di Dio.
Parola chiave della storia sacra: Dio non chiede, dona; non pretende, offre. Il maestro del cuore mostra che c’è un metodo, uno soltanto per raggiungere il santuario profondo di una persona. Non è il rimprovero o la critica, non il verdetto o il codice, ma far gustare qualcosa di più, un di più di bellezza, di vita, di gioia, un’acqua migliore. E aggiunge: ti darò un’acqua che diventa in te sorgente che zampilla vita.
Gesù il poeta di Nazaret usa qui il linguaggio bello delle metafore che sanno parlare all’esperienza di tutti: acqua, viva, sorgente. Lo sai, donna della brocca, la sorgente è più dell’acqua per la tua sete, è senza misura, senza calcolo, senza sforzo, senza fine, fiorisce nella gratuità e nell’eccedenza, dilaga oltre te e non fa distinzioni, scorre verso ogni bocca assetata.
Cos’è quella sorgente, chi è, se non Dio stesso? Lo immaginava così Carlo Molari: “Dio è una sorgente di vita a cui puoi sempre attingere, disponibile ad ogni momento, che non viene mai meno, che non inganna, che come il respiro non puoi trattenere per te solo. Ma non chiuderti, o la sua acqua passerà oltre te…”
Se tu conoscessi il dono di Dio… Dio non può dare nulla di meno di se stesso (M. Eckart), il dono di Dio è Dio stesso che si dona. Ti darò un’acqua che diventa sorgente, vuol dire metterò Dio dentro di te, fresco e vivo, limpidezza e fecondità delle vite, farò nascere in te il canto di una sorgente eterna.
Il dono è il fulcro della storia tra i due, al muretto del pozzo: non una brocca più grande, non un pozzo più profondo, ma molto di più: lei, che con tanti amori era rimasta nel deserto dell’amore, ricondotta alla sua sorgente, al pozzo vivo. Vai a chiamare tuo marito, l’uomo che ami. Gesù va diritto al centro, ma non punta il dito sui cinque matrimoni spezzati, non pretende che ora si regolarizzi, prima del dono. Il Maestro con suprema delicatezza non rovista nel passato, fra i cocci di una vita, ma cerca il bene, il frammento d’oro, e lo mette in luce per due volte: hai detto bene, hai detto il vero. La samaritana è donna verace. Quel Dio in cui sono tutte le nostre sorgenti non cerca eroi ma uomini veri.
Mi chiedi dove adorare Dio, su quale monte? Ma sei tu il monte! Tu il tempio. Là dove sei vero, ogni volta che lo sei, il Padre è con te, sorgente che non si spegne mai.

Fb 5 marzo 23 – II di Quaresima
Mt 17,1-9
Frammenti di luce (di p.Ermes Rochi)

Dalle tentazioni (I domenica) alla trasfigurazione (II domenica) : da polvere e cenere, ai volti vestiti di sole. Dal deserto di pietre e violenza, dalla guerra incessante del predatore di turno, al monte della luce e della pace, al solo luogo, il silenzio, dove è possibile l’ascolto.
Gesù prende con sé Pietro, Giovanni e Giacomo, i primi chiamati, e li porta con sé su di un alto monte, là dove la terra s’innalza nella luce, dove nascono le acque che fecondano la vita. I monti sono degli indici puntati verso il mistero del cosmo, ci raccontano che la vita è ascensione e fame di verticalità, incalzata da una forza di gravità celeste.
“E là si trasfigurò davanti a loro”, brillò come il sole, con le vesti a riflettere il suo cuore di luce. L’esclamazione stupita di Pietro: che bello qui, non andiamo via!… è propria di chi ha sbirciato per un attimo dentro il Regno. Non solo Gesù, il suo volto, le sue vesti: là sul monte ogni cosa è illuminata. Per dire a tutti noi che il deserto non vincerà, che ce la faremo. Insieme.
Una luce che i tre dovranno custodire per il giorno più buio, quando quel volto sarà colpito, sfigurato, oltraggiato. Nel colmo della prova, un filo terrà legati i due volti di Gesù: quello che ora gronda di luce, e quello che stillerà sangue. Ma anche allora, alla fine verrà la vita. «Sulla croce già respira, nuda, la risurrezione» (A. Casati).
“Ha fatto risplendere la vita”, scrive Paolo al suo amico Timoteo nella seconda Lettura. Come un sole che immette nel mondo frammenti di stelle, che dona bellezza all’esistenza. E che dispensa sogni e canzoni nuove al nostro peregrinare, e ci regala la gioia di credere in questo Dio, fonte inesausta di canto, forza mite e possente che preme dentro per aprire su di noi finestre di cielo!
E noi, che siamo gocce di luce custodite in gusci d’argilla, come possiamo spianare la strada alla vita? La risposta è offerta dalla nube e dalla Voce: è mio figlio! Ascoltatelo! Il primo passo per essere contagiati da Dio è l’ascolto, dare tempo e cuore al suo Vangelo. Quel Dio che non ha volto, ha invece Parola, che scompare dietro quella di suo figlio: ascoltate lui!
Sali sul monte per vedere, come fosse un premio alla tua fatica, e ne scendi rimandato all’ascolto, meno gratificante e tuttavia profetico, che porta fino a noi l’eco dell’ultima parola sul monte della visione: ascoltate lui.
I tre sono saliti per vedere e si ritrovano ad ascoltare una Voce, discepoli come noi di una bella notizia: una goccia di luce è nascosta nel cuore vivo di tutte le cose. Cristo ha fatto risplendere la mia vita. È venuto nella mia e in quella del mondo intero, e non se n’è più andato.
E beati coloro che hanno il coraggio di essere luminosi nello sguardo, nel giudizio, nel sorriso. Davvero è bello per noi stare lì, con loro, come fu per Pietro e il suo sogno di tre capanne sul monte di luce.

 

 

II di quaresima (Mt 17, 1-9)

La quaresima, quel tempo che diresti sotto il segno della penitenza, ci spiazza subito con un vangelo pieno di sole e di luce. Dai 40 giorni del deserto di sabbia, al monte della trasfigurazione; dall’arsura gialla, ai volti vestiti di sole.
La quaresima ha il passo delle stagioni, inizia in inverno e termina in primavera, quando la vita intera mostra la sua verità profonda, che un poeta esprime così: “Tu sei per me ciò ch’è la primavera per i fiori” (G. Centore). “Verità è la fioritura dell’essere” (R. Guardini). “Il Regno dei cieli verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme” (G. Vannucci). Il percorso della realtà è come quello dello spirito: un crescere della vita.
Gesù prende con sé i tre discepoli più attenti, chiama di nuovo i primi chiamati, e li conduce sopra un alto monte, in disparte. Geografia santa: li conduce in alto, là dove la terra s’innalza nella luce, dove l’azzurro trascolora dolcemente nella neve, dove nascono le acque che fecondano la terra.
“E si trasfigurò davanti ai loro occhi”. Nessun dettaglio è riferito se non quello delle vesti di Gesù diventate splendenti. La luce è così eccessiva che non si limita al corpo, ma dilaga verso l’esterno, cattura la materia degli abiti e la trasfigura. Le vesti e il volto di Gesù sono la scrittura, anzi la calligrafia del cuore.
L’entusiasmo di Pietro, quella esclamazione stupita: che bello qui! Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un ‘che bello!’ gridato a pieno cuore.
Il compito più urgente dei cristiani è ridipingere l’icona di Dio: sentire e raccontare un Dio luminoso, solare, ricco non di troni e di poteri, ma il cui tabernacolo più vero è la luminosità di un volto; un Dio finalmente bello, come sul Tabor.
Ma a noi non interessa un Dio che illumini solo se stesso e non illumini l’uomo, “non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano. Un Dio cui non corrisponda la fioritura dell’umano, il rigoglio della vita, non merita che a Lui ci dedichiamo” (D. Bonhoeffer). Come Pietro, siamo tutti mendicanti di luce. Vogliamo vedere il mondo in altra luce, venire davvero alla luce, perché noi nasciamo a metà, e tutta la vita ci serve per nascere del tutto.
Viene una nube, e dalla nube una Voce, che indica il primo passo: ascoltate lui! Il Dio che non ha volto, ha invece una voce. Gesù è la Voce diventata Volto e corpo. Il suo occhi e le sue mani sono il visibile parlare di Dio.
Come il Signore Gesù abbiamo dentro non un cuore di tenebra ma un seme di luce. La via cristiana altro non è che la fatica gioiosa di liberare tutta la luce e la bellezza seminate in noi.

 

 

 

 

 

Fb 26 febbraio 23 – I di quaresima

Mt 4,1-11

Dal punto più alto di noi (p. Ermes Ronchi)
Ogni tentazione è una scelta tra due amori: «Sempre sul ciglio dei due abissi / tu devi camminare e non sapere / quale seduzione se del Nulla / o del Tutto ti abbatterà» (David Maria Turoldo).
Il più astuto degli spiriti si è mascherato e si presenta come un amico che vuole aiutare Gesù a fare meglio il messia. Ma che cosa propone il diavolo di così potente? Non le tentazioni che ci saremmo aspettate per tradizione: la sessualità o le osservanze religiose. Si tratta invece di scegliere che tipo di Messia diventare, che tipo di Uomo. Se il Maestro avesse risposto diversamente al tentatore, non avremmo avuto né la croce né la via cristiana.
Le tre tentazioni ridisegnano lo schema delle relazioni: il rapporto con me stesso e con le cose (pietre o pane?); con Dio (un Onnipotente, magico distributore di grazie a nostro servizio); con gli altri (il potere e il dominio). Di tutto questo il diavolo fa mercato (se tu mi adorerai…), al contrario di Dio che mai mercanteggia sui suoi doni. E quanto è facile fare mercato di se stessi, in cambio di prestigio, poltrone, denaro.
Le tentazioni di Gesù riassumono i grandi inganni della vita, primo fra tutti quello di sostituire Dio con delle cose: «dì che queste pietre diventino pane, questa è tutta la vita, non c’è altro!». Pietre o pane, quindi? Gesù denuncia questa alternativa, dove l’uomo sopravvive appena, dilatando la fame e gli orizzonti del cuore: di solo pane l’uomo non vive, anzi lentamente muore
Il pane è un bene, un bene santo. Cosa c’è di male nel pane? Gesù l’ha moltiplicato, ma non l’ha mai cercato per sé, si è invece fatto pane offerto a tutti, nessuno escluso. . Il nostro errore è aver proclamato assolute le cose.
Capisco allora che la fede è un’offerta di più vita: il pane mantiene la vita, ma più vita viene dalla sua Parola. E mi ritrovo mendicante di cielo, di giustizia vera e bella, di amore per me e per gli altri, di agognata pace, dove trova senso il viaggio bello della quaresima, questo passaggio dalla dispersione alla profondità.
È bella la Quaresima. Non si impone come stagione penitenziale, ma si propone come reinvenzione: la primavera che riparte, la vita che punta diritta verso la luce di Pasqua. Un tempo di novità, di semplici, solidali, concreti, nuovi stili di vita, a cura della casa comune e di tutti i suoi abitanti.
«Ed ecco angeli si avvicinarono e lo servivano». Avvicinarsi e servire, parole angeliche. Se in questa Quaresima ognuno di noi si avvicina e si prende cura di una persona che ha bisogno, regalando del tempo e un po’ di cuore, questo sarà per lei l’avvicinarsi di un angelo, un frullare d’ali in volo nella casa.
Il Nemico allora si allontanerà, per far posto ancora agli angeli, al nostro avvicinarsi e servire: questo è il vangelo semplice dove il male non ha più casa, da dove continua a fuggire.

Avvenire I DI QUARESIMA

In quel tempo. In questo tempo.
Come in una parabola dei nostri giorni, provo a immaginare il vangelo delle tentazioni nella città che conosco meglio: Milano.
Il diavolo portò Gesù nella metropoli, capitale della finanza e della moda. Lo pose in alto, sopra la guglia centrale del Duomo, e gli mostrò la città ai suoi piedi: il Castello, la Borsa, la cintura delle banche, lo stadio, le vie della moda. E c’era folla sul corso, turisti e polizia. Qualcuno dei mendicanti stringeva un cagnolino in grembo, forse per un po’ di calore, forse per attivare un briciolo di pietà.
Sull’asfalto grigio, coriandoli e stelle filanti di carnevale, e la pioggia leggera di fine inverno. Qualcuno, occhi tristi e pelle scura, vendeva le ultime rose ai passanti .
Guardando bene si vedevano anche quelli che si lasciavano andare: alla solitudine, alla vecchiaia, alla depressione, che si lasciavano morire di droga o di dolore.
Allora il diavolo disse a Gesù: “Tutto questo è mio! Tutto sarà tuo se ti inginocchi davanti a me!”
Signore, perché non gli hai dato del bugiardo? Dicendogli, e dicendo a noi, che non è vero, che non tutto è suo, che la città non è il suo regno, che ci sono giusti e bambini e innamorati e poeti.
Lascia che ti mostri una cosa, Signore, proprio a Te che non hai reagito. Nella città, che il Nemico dice sua, ci sono luoghi dove per tutto il giorno si asciugano lacrime, dove donne e uomini intercedono per la città, la collegano al cielo, e altri che provano a fare del loro poco qualcosa che serva a qualcuno.
Ci sono madri che danno la vita per i figli e gente onesta perfino nelle piccole cose; ci sono padri che trasmettono rettitudine ai figli e occhi diritti.
C’è il grido del male, lo sento forte, e mi stordisce a giorni, ma più ancora c’è il silenzioso lievitare del bene.
Signore, se guardi bene nella città che il diavolo dice sua, non c’è solo competizione, puoi incontrare la passione per la giustizia, il sottovoce dell’onestà, gente limpida senza secondi fini. E se vieni ancora un po’ più vicino, puoi incontrare anche me, perché ci sono anch’io e sono tra quelli che credono ancora nell’amore, e non si consultano con le loro paure ma con i sogni.
Buttati, ti ha detto, verranno gli angeli a portarti sulle mani! Io lo so che verranno, quando con l’ultimo, con il più grande atto di fede, mi butterò in Te nel giorno della mia morte, fidandomi.
Se c’è un angelo nel cielo sopra Milano, chiedo che mi accompagni nell’ultimo viaggio, tenendomi per mano, perché ho un po’ paura, e mi dica in quell’ultimo tratto di cielo solo questo: “Vieni, hai tentato di amare, il tuo desiderio di amore era già amore”!
Non chiedo altro, ma che lo dica con un sorriso.

Fb 19 febbraio 23 – VII dom
Mt 5,38-48
La catena rotta
Vi fu detto: occhio per occhio… Ma io vi dico: se uno ti dà uno schiaffo tu porgigli l’altra guancia. Sii disarmato, mostra che non hai nulla da difendere. Riallaccia tu la relazione, fai tu il primo passo e l’altro capirà.
Il cristianesimo non è una religione di servi che non reagiscono; non è «la morale dei deboli che nega la gioia di vivere» (Nietzsche). Ma la religione dei re, degli uomini liberi padroni delle proprie scelte anche davanti al male, capaci di disinnescare la spirale della vendetta, di inventare reazioni nuove attraverso l’amore, che non ripaga con la stessa moneta, scombina le regole ma poi rende felici.
Siate perfetti come il Padre (Mt 5,48), siate santi perché io, il Signore, sono santo (Lev19,2). Santità, perfezione, parole che ci paiono lontane, per gente che fa un’altra vita. E invece quale concretezza nella Bibbia! “Non coverai nel cuore odio verso tuo fratello, non gli serberai rancore, lo amerai come te stesso” (Lev 19,17-18). Niente di astratto, ma il quotidiano, santità che profuma di casa, di pane, di gesti.
E di cuore, perché vediamo il Maestro indignarsi, e quante volte, per un’ingiustizia, per un bambino scacciato, per il tempio fatto mercato, per il cuore di pietra dei pii e dei devoti.
Non passività né sottomissione; quello che Gesù propone è una presa di posizione che crede all’incredibile: amate i vostri nemici perché violenza produce violenza in una catena infinita, e io scelgo di spezzarla, di non replicare su altri ciò che ho subito, di non far proliferare il male. Ed è così che inizio a liberare me stesso.
Allora siate perfetti come il Padre… non quanto, una misura impossibile che ci schiaccerebbe; ma come il Padre, con il suo stile di combattiva tenerezza.
A seguire, una serie di verbi difficili: ad amici e nemici voi porgete, prestate, fate, benedite, amate e pregate. E fatelo perché – senso ultimo del vivere – perché siate figli del Padre vostro che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.
Noi siamo più della storia che ci ha partorito. Siamo come il Padre. Io che non farò mai sorgere o tramontare nessun sole, ma posso far spuntare un grammo di luce, una minima stella a indicare la strada.
È straordinario, verrà il giorno in cui il nostro cuore, che con fatica ha imparato l’amore, sarà il cuore stesso di Dio, e allora ameremo con il suo cuore, con un amore che sarà la nostra anima, per sempre.
Amate i vostri nemici. Ancora una volta Gesù va contro la legge, intende eliminare il concetto stesso di nemico, ancora una volta va contro ogni logica. Tutto il Vangelo è qui: «Amatevi, altrimenti vi distruggerete» (D.M. Turoldo). Amatevi, e la catena infinita di violenza che si nutre di violenza si romperà.

 

Avvenire VII DOMENICA Matteo 5,38-48
Da tre domeniche camminiamo sui crinali da vertigine del discorso della montagna. Vangeli davanti ai quali non sappiamo bene come stare: se tentare di edulcorarli, oppure relegarli nel repertorio delle pie illusioni.
Ci soccorre un elenco di situazioni molto concrete che Gesù mette in fila: schiaffo, tunica, miglio, denaro in prestito. E le soluzioni che propone, in perfetta sintonia: l’altra guancia, il mantello, due miglia. Molto semplice, niente che un bambino non possa capire, nessuna teoria complicata, solo gesti quotidiani, una santità che sa di abiti, di strade, di gesti, di polvere. “Gesù parla della vita con le parole proprie della vita” (C. Bobin).
Fu detto occhio per occhio. Ma io vi dico: Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra. Quello che Gesù propone non è la sottomissione dei paurosi, ma una presa di posizione coraggiosa: “tu porgi”, fai tu il primo passo, tocca a te ricominciare la relazione, rammendando tenacemente il tessuto dei legami continuamente lacerato.
Sono i gesti di Gesù che spiegano le sue parole: quando riceve uno schiaffo nella notte della prigionia, Gesù non risponde porgendo l’altra guancia, ma chiede ragione alla guardia: se ho parlato male dimostramelo. Lo vediamo indignarsi, e quante volte, per un’ingiustizia, per un bambino scacciato, per il tempio fatto mercato, per le maschere e il cuore di pietra dei pii e dei devoti. E collocarsi così dentro la tradizione profetica dell’ira sacra.
Non ci chiede di essere lo zerbino della storia, ma di inventarsi qualcosa – un gesto, una parola – che possa disarmare e disarmarci. Di scegliere, liberamente, di non far proliferare il male, attraverso il perdono “che strappa dai circoli viziosi, spezza la coazione a ripetere su altri ciò che hai subito, strappa la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt). Perché noi siamo più della storia che ci ha partorito e ferito. Siamo come il Padre: “Perché siate figli del Padre che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni”. Addirittura Gesù inizia dai cattivi, forse perché i loro occhi sono più in debito di luce, più in ansia.
Io che non farò mai sorgere o tramontare nessun sole, posso però far spuntare un grammo di luce, una minima stella. Quante volte ho visto sorgere il sole dentro gli occhi di una persona: bastava un ascolto fatto col cuore, un aiuto concreto, un abbraccio vero! Agisci come il Padre, o amerai il contrario della vita: dona un po’ di sole, un po’ d’acqua, a chiunque, senza chiederti se lo meriti o no. Perché chi ha meritato un giorno di abbeverarsi all’oceano della Vita, merita di bere oggi al tuo ruscello.

Fb 5 febbraio 23 – V dom
Mt 5,13-16
Vita disciolta (di p.Ermes Ronchi)
Voi nel mondo siete luce e sale. Sale per conservare le cose, minima e umile eternità disciolta. Luce per accarezzare, a risvegliare colori e bellezza dentro la notte del mondo.
Gesù non dice «voi siete il miele della terra», con generico buonismo, ma il sale, che è forza e istinto di vita che penetra le scelte, che si oppone al degrado delle cose e rilancia ciò che merita futuro. E lo annuncia alla mia anima bambina, a quella parte di me che sa ancora incantarsi.
La faccenda è seria, perché essere sale e luce del mondo vuol dire che dalla buona riuscita della mia avventura, umana e spirituale, dipende la qualità del resto del mondo.
Come fare per vivere questa comune responsabilità, così seria e impegnativa? Come mettere la lampada sul candelabro? Isaia suggerisce meno parole e più gesti: «Spezza il tuo pane», verbo asciutto, concreto, fattivo. E poi è un incalzare di gesti: «accogli in casa, vesti il nudo, non distogliere gli occhi. Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà in fretta».
E senti l’impazienza di Dio e dell’aurora che sorge, della fame che grida; senti l’urgenza dell’uomo sofferente che ha fretta di pane e di salute. La luce viene attraverso il mio pane quando diventa pane nostro, condiviso, e non possesso geloso.
Ma se il sale perde sapore, se la luce è messa sotto al tavolo, a che cosa servono? A nulla. Così noi, se perdiamo il vangelo, se smussiamo la Parola e la riduciamo a uno zuccherino, se abbiamo occhi senza luce e parole senza bruciore di sale, allora corriamo il rischio mortale dell’insignificanza, di non significare più nulla per nessuno.
Io sono luce spenta quando non evidenzio bellezza e bontà negli altri, ma mi inebrio dei loro difetti: allora sto spegnendo la fiamma delle cose, sono un cembalo che tintinna (parola di Paolo), un trombone di latta.
Ma “chi vive secondo il vangelo è una manciata di luce in faccia al mondo” (Gigi Verdi). Tu puoi compiere opere di luce! E sono quelle semplici dei miti, dei puri, dei giusti, dei poveri, le opere alternative alle scelte del mondo, la differenza evangelica offerta alla fioritura della vita. Quando tu segui come unica regola l’amore, allora sei Luce e Sale per chi ti incontra. Quando due sulla terra si amano diventano luce nel buio, lampada ai passi di molti. In ogni luogo dove ci si vuol bene viene sparso il sale che dà sapore buono alla vita.
La luce non illumina se stessa, il sale non serve a se stesso. Così ogni credente deve ripetersi: a partire da me, ma non per me. Perché una religione che serva solo a salvarsi l’anima non è quella del Vangelo. La luce non è un dovere, ma il frutto naturale in chi ha respirato Dio.
L’umiltà della luce e del sale, il perdersi dentro le cose. Mi inebria questo perdersi dentro la vita, ci sto bene. La sento casa.

 

11 Avvenire V domenica A Mt 5, 13-16

Voi siete il sale, voi siete la luce. Siete come un istinto di vita che penetra nelle cose, come il sale, si oppone al loro degrado e le fa durare.
Siete un istinto di bellezza, che si posa sulla superficie delle cose, le accarezza, come la luce, e non fa violenza mai, ne rivela invece forme, colori, armonie e legami. Così il discepolo-luce è uno che ogni giorno accarezza la vita e rivela il bello delle persone, uno dai cui occhi emana il rispetto amoroso per ogni vivente.
Voi siete il sale, avete il compito di preservare ciò che nel mondo vale e merita di durare, di opporvi a ciò che corrompe, di far gustare il sapore buono della vita.
Voi siete la luce del mondo. Una affermazione che ci sorprende, che Dio sia luce lo crediamo; ma credere che anche l’uomo sia luce, che lo sia anch’io e anche tu, con i nostri limiti e le nostre ombre, questo è sorprendente. E lo siamo già adesso, se respiriamo vangelo: la luce è il dono naturale di chi ha respirato Dio.
Chi vive secondo il vangelo è una manciata di luce gettata in faccia al mondo (Luigi Verdi). E non impalcandosi a maestro o giudice, ma con i gesti: risplenda la vostra luce nelle vostre opere buone. Sono opere di luce i gesti dei miti, di chi ha un cuore bambino, degli affamati di giustizia, dei mai arresi cercatori di pace, i gesti delle beatitudini, che si oppongono a ciò che corrompe il cammino del mondo: violenza e denaro. Quando due sulla terra si amano compiono l’opera: diventano luce nel buio, lampada ai passi di molti, piacere di vivere e di credere. In ogni casa dove ci si vuol bene, viene sparso il sale che dà sapore buono alla vita.
Mi sembra impossibile, da parte di Gesù, riporre tanta stima e tanta fiducia in queste sue creature! In me, che lo so bene, non sono né luce né sale. Eppure il vangelo mi incoraggia a prenderne coscienza: Non fermarti alla superficie di te, al ruvido dell’argilla di cui sei fatto, cerca in profondità, verso la cella segreta del cuore, scendi nel tuo santuario e troverai una lucerna accesa, una manciata di sale: frammento di Dio in te.
L’umiltà della luce e del sale: la luce non illumina se stessa, nessuno mangia il sale da solo. Così ogni discepolo deve apprendere la loro prima lezione: a partire da me, ma non per me. La povertà del sale e della luce è perdersi dentro le cose, senza fare rumore né violenza, e risorgere con loro. Come suggerisce il profeta Isaia: Illumina altri e ti illuminerai, guarisci altri e guarirà la tua ferita (Isaia 58,8). Non restare curvo sulle tue storie e sulle tue sconfitte, chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. Tu occupati della terra e della città, e la tua luce sorgerà come un meriggio di sole.

 

Fb 22 gennaio 2023
Mt 4,12-23
Gente della strada (di p.Ermes Ronchi)

Il Battista è appena stato arrestato. Un fatto che, anziché rendere prudente Gesù, lo fa uscire allo scoperto, per dare il cambio a Giovanni. Lascia così famiglia, casa, lavoro, Nazaret per Cafarnao. Non porta niente con sé, solo un annuncio che riparte da là dove Giovanni si era fermato: convertitevi, il regno è vicino.
Convertitevi. Non è un «pentitevi», è l’invito a rovesciare la vita: cambiate logica, spostatevi, non vedete dove vi porta questa strada? Venite dove il cielo è più blu, il sole più caldo, le persone più sane, la vita più vera! Cambiate visione delle cose, cambiate direzione, la strada che vi hanno fatto imboccare porta tristezza e buio.
La conversione non è la causa ma l’effetto della mia «notte toccata dall’allegria della luce» (Maria Zambrano). Immaginavo la conversione come il luogo dove trovare Dio a ricompensa del mio impegno. Ma che buona notizia sarebbe un Dio che dà secondo le prestazioni? Il movimento è esattamente l’inverso: è lui che mi raggiunge, è lui che mi abita. Gratuitamente. Prima che io faccia qualsiasi cosa. Allora io cambio vita, e il modo di intendere le cose.
Gesù cammina lungo il mare di Galilea e guarda. Vede solo due coppie di fratelli, due barche, un lavoro? No, vede molto di più: in Simone bar Jona vede Kefa’, Pietro, la roccia; in Giovanni colui che ci folgorerà definendo Dio “amore”; Giacomo sarà il «figlio del tuono», abitato dalle sue vibrazioni e la sua potenza. Un giorno nell’adultera risveglierà la sposa, amante e fedele; e nel pauroso Nicodemo l’impavido che reclamerà da Pilato il corpo del giustiziato.
Lo sguardo di Gesù è profezia. Mi guarda, e vede in me un tesoro sepolto, nel mio inverno vede grano che matura e strade nel sole. Nei suoi occhi vedo per me la luce di orizzonti più grandi, una melodia che non udivo, fame di nascere. E mi dice: seguimi!
I quattro pescatori scoprono d’avere dentro non le rotte del lago o la strada di casa, ma la mappa del cielo, del mondo, del cuore dell’uomo. E’ la conversione. E seguono Gesù senza sapere dove, e neppure se lo chiedono: hanno scoperto le strade del mondo nel cuore di Dio, e tanto basta.
Gesù camminava per la Galilea, passava libero e regale fra le cose, e guariva la vita. Mostrando che “la nostra tristezza infinita si cura soltanto con un infinito amore” (Evangelii gaudium).
Allora ti seguirò, Gesù, perché ti lasci dietro nient’altro che luce. Come i tuoi quattro amici, lascio le barche e le piccole reti per qualcosa di più grande. Mi prenderò cura di chi cerca e soffre ed è solo; e poi più di ogni cosa custodirò il mio cuore, anche le sue parti fragili e malate, perché “da esso scaturisce la vita” (Pro 4,23).

 

Avvenire III domenica A

Tace la voce potente del deserto, ma si alza una voce libera sul lago di Galilea. Esce allo scoperto, senza paura, un imprudente giovane rabbi, e va ad affrontare, solo, problemi di frontiera, di vita e di morte, nella meticcia Galilea, crogiolo delle genti. A Cafarnao, sulla via del mare: una delle strade più battute da mercanti ed eserciti, zona di contagio, di contaminazioni culturali e religiose, e Gesù la sceglie. Non è il monte Sion degli eletti, ma Cafarnao che accoglie tutti. C’è confusione sulla Via Maris, e insieme ombra, dice il profeta, come la nostra esistenza spesso confusa, come il cuore che ha spesso un’ombra…, e Gesù li sceglie.
Cominciò a predicare e a dire: convertitevi perché il regno dei cieli è vicino. Sono le parole sorgive, il messaggio generativo del vangelo: Dio è venuto, è all’opera, qui tra le colline e il lago, per le strade di Cafarnao, di Magdala, di Betsaida. E fa fiorire la vita in tutte le sue forme. Lo guardi, e ti sorprendi a credere che la felicità è possibile, è vicina.
Gesù non darà una definizione del Regno, dirà invece che questo mondo porta un altro mondo nel grembo; questa vita ha Dio dentro, una luce dentro, una forza che penetra la trama segreta della storia, che circola nelle cose, che le spinge verso l’alto, come seme, come lievito.
Allora: convertitevi! Cioè: celebriamo il bello che ci muove, che ci muove dal di dentro. Giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Non una ingiunzione, ma una offerta: sulla via che vi mostro il cielo è più azzurro, il sole più bello, la strada più leggera e più libera, e cammineremo insieme di volto in volto. La conversione è appunto l’effetto della mia «notte toccata dall’allegria della luce» (Maria Zambrano).
Gesù cammina, ma non da solo. Ama le strade e il gruppo, e subito chiama ad andare con lui. Che cosa mancava ai quattro pescatori per convincerli a mollare barche e reti e a rischiare di perdere il cuore dietro a quel giovane rabbi? Avevano il lavoro, anzi una piccola azienda di pesca, una casa, la famiglia, la sinagoga, la salute, la fede, tutto il necessario per vivere, eppure mancava qualcosa. E non era un codice morale migliore, dottrine più profonde o pensieri più acuti. A loro mancava un sogno. Gesù è venuto per la manutenzione dei sogni dell’umanità, per sintonizzarli con la salute del vivere.
I pescatori sapevano a memoria le migrazioni dei pesci, le rotte del lago. Gesù offre la mappa del mondo e del cuore, cento fratelli, il cromosoma divino nel nostro DNA, una vita indistruttibile e felice. Gli ribalta il mondo: “sapete che c’è? non c’è più da pescare pesci, c’è da toccare il cuore della gente”. C’è da aggiungere vita.

 

Gesù rilancia l’Isaia della prima lettura, riprende l’esultanza del suo verbo centrale: hai moltiplicato la vita. Gesù è, nella vita dei quattro, donatore di vita.

Che cosa si fa subito? Ciò che piace, ciò che è bello, ciò che attrae, ciò che prende.
Gesù sta proponendo una cosa bella. Non una rinuncia, ma una fioritura di vita, una addizione di vita.
Lasciano subito le reti, non le riprendono nemmeno, le lasciano in acqua; come gli altri due che lasciano la piccola azienda, il padre, i garzoni, le barche, una vita sicura. Perché lo seguono?
Perché Cristo ha cose belle da dire.
La Parola ci mette in movimento perché ci dice qualcosa di bello, non perché ci fustiga, non perché ci da i voti come una maestra, ma perché ci tira fuori dalle nostre piccole prospettive, fuori dal laghetto, dal cortile di casa, per portarci a un’opera bella, grande, luminosa, che abbraccia il mondo.

 

III domenica dell’anno, d’ora in poi: Domenica della Parola.
La comunità ha deciso di celebrarla mettendo le bibbie a disposizione di tutti, sui banchi.
La Parola di Dio ci è posta fra le mani. Perché familiarizziamo con questo libro, che è la nostra sorgente. Più si ritorna alle fonti, più si è nuovi, creativi, liberi, perfino rivoluzionari.
Mi viene in mente lo scrittore biblico Neemia, quando racconta del ritorno dall’esilio, terribile momento, senza casa, senza il campo da coltivare per sfamarsi, senza il tempio per essere popolo ancora…da dove ripartire?
Tutto il popolo è radunato, come fosse un sol uomo, in piazza, un giorno di intero di preghiera e di ascolto della Parola ritrovata, fino a scoppiare in lacrime di commozione. Ecco il punto di partenza. Mettersi n ascolto.
Vorrei dirlo con una battuta, riprendendo il titolo di una trasmissione TV: C’è posta per te. Apri quel libro, sfoglia, leggi: dentro c’è posta per te.
Qualcuno si rivolge proprio a te.
Oggi nelle letture è perfetto il passaggio tra A.T. e N.T. , a indicare quasi visivamente l’unità dei 73 libri della bibbia, un arcobaleno storico, un arco voltaico che congiunge la profezia di Isaia e Gesù, compimento del sogno di Dio.

La bella notizia non è “convertitevi”, cioè “cambiate direzione”; la parola nuova e potente sta in quel piccolo vocabolo “è vicino”: il regno è vicino, e non lontano; il cielo è vicino e non perduto in lontananze siderali; Dio è vicino e non smarrito nell’alto dei suoi cieli.
La traduzione esatta sarebbe: il regno è venuto vicino, è quel sogno che viene incontro, che adesso cammina sulla via del mare che pullula di vita. C’è polline divino nel vento del mondo, là dove c’è umanità, tanta umanità, come a Cafarnao.
Dio viene, forza di vicinanza dei cuori, “forza di coesione degli atomi, forza di attrazione delle costellazioni” (Turoldo). Cos’è questa passione di vicinanza che corre nel mondo? Che brucia lontananze? Amore, in tutta la potenza e varietà del suo fuoco.
“L’amore è passione di unirsi all’amato” (Tommaso d’Aquino), passione di comunione, di Dio con l’umanità lungo la Via del Mare, di Adamo con Eva sulla via dei corpi, il luogo dove è detto il cuore; le vie della madre con il figlio, dell’amico con l’amico, delle stelle con altre stelle.
.

Ma tutto questo può restare un discorso astratto, e allora il vangelo racconta una storia concreta, la chiamata dei primi discepoli.
Dove si racconta di qualcuno che fa un salto fuori dall’ombra, esce da una vita in ombra: da una vita che è lavorare, mangiare, dormire, e poi ancora lavorare mangiare, dormire… e un giorno morire. Tutto qua? Tutto questo il futuro?
Riascoltiamo il vangelo: mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli che gettavano le reti in mare. Gesù li vede mentre iniziano il loro lavoro, li chiama, e gli cambia la prospettiva, li chiama ad osare, ad essere un po’ folli, come lui.
Sapete che facciamo, che non c’è più da pescare pesci, c’è da toccare il cuore della gente. C’è da salvare e illuminare vite. Volete farlo con me?
E loro lo fanno subito. Notate: subito!
Perché lo fanno? Perché sono degli eroi? Uomini pieni di coraggio e insieme di incoscienza? Io allora non ce la farò mai, non ha questi slanci eroici.
Domandiamoci: che cosa si fa subito?
Immaginate: state facendo un lavoro, chiedete l’aiuto di un figliolo che sta nella sua stanza, di un marito davanti alla tv, e gli dite: dai, vieni c’è questo e quest’altro da fare. E in risposta sentite: E aspetta, dai, ancora un momento…
Se invece gli dici: c’è qui un tuo amico, è già lì.
Non possiamo pensare di consegnare agli uomini una parola che è un richiamo morale. Per pescare gli uomini dobbiamo consegnare non una Parola che suona come un richiamo morale, ma la bellezza che conosciamo, la libertà che conosciamo, la luce bella che conosciamo, il regno…
Il vangelo non è una morale ma una sconvolgente liberazione.
Celebriamo il bello che ci muove, che ci muove dal di dentro.
Ci conceda il Signore di godere oggi e di celebrare la sua Parola,
che illumina, libera, sorride,
che mette tanta voglia di vivere e tanta voglia di bellezza.
Questo è ciò che ci vuole dare il Regno:
voglia di vivere, voglia di bellezza.
Passa per tutta la Galilea uno che è il guaritore dell’uomo.
Passa uno che sa reincantare la vita.
E dietro gli vanno uomini e donne senza doti particolari,
e dietro oggi gli andiamo anche noi,
affascinati da qualcosa che lui solo ha
e nessun altro sa dare.

Pescatore di uomini, di Helder Camara.

Per amore di Dio rispondetemi:
Dove sono i bambini
per raccontarmi i loro giochi,
i poeti
per raccontarmi i loro sogni
i pazzi
per raccontarmi i loro deliri,
i malati
per raccontarmi le loro sofferenze,
e i felici e gli infelici
i santi e peccatori
i bambini e i vecchi
i morti e i vivi
i credenti e gli increduli
gli uomini e gli angeli
gli animali e le piante
le creature tutte
di tutti i mondi?
Povero me
se salissi da solo
all’altare di Dio!…

Dom Helder Camara, da “Mille ragioni per vivere”

Abbiamo un debito di memoria e di gratitudine verso fra Germano,
lo ricordiamo, oggi, insieme a voi, a sette giorni dalla morte.

A te, Germano,
ultimo di quella splendida razza evangelica
Dei cercatori, dei mendicanti per amore
Dalle tue mani ho ricevuto pane.
Grazie.
Dai tuoi occhi ho ricevuto luce.
Grazie.
Noi preghiamo per te Germano, fratello caro,
cuore libero e occhi di luce,
ma tu prega per noi, perché conquistiamo
il tuo cuore bambino e grande
il tuo sguardo gioioso sulla vita,
la tua carità instancabile.
Perché le cose che per te furono vere e grandi
Siano vere e grandi anche per noi,
che continuiamo più poveri e più soli il nostro cammino.
Arrivederci, fratello amato, amico della vita,
sulle vie del cielo.
Mandi.

 

 

Fb 15 gennaio 2023
Gv 1,29-34
Il comando fontale (di p.Ermes Ronchi)

«Viene uno che era prima di me». Vedo, con gli occhi di Giovanni, il venire infaticato di Dio, incamminato lungo il fiume dei giorni, carico di ogni lontananza; viene negli occhi di tutti gli uccisi come agnelli, viene nei luoghi dove ancora si gioca il mio destino e quello del mondo.
Giovanni vedendo Gesù venire… Avere, come lui, occhi di profeta è possibile, perché «vi è un pizzico di profeta nei recessi di ogni esistenza umana» (A.J. Heschel).
Ecco l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Ecco il piccolo animale sacrificato, il sangue sparso, la vittima. Ma di cosa è vittima Gesù?
Dell’ira di Dio da placare con il sangue? Ma Dio aveva già detto per bocca di Isaia: sono stanco dei tuoi sacrifici senza numero. Io non bevo il sangue dei tuoi agnelli, io non mangio la loro carne (cf. Isaia 1, 11).
Ecco apparire invece il capovolgimento di Gesù: in ogni religione l’uomo sacrifica qualcosa per Dio, ora è Dio che sacrifica se stesso per l’uomo, e non chiede in cambio la vita del peccatore, ma dà la sua anche a chi gliela toglie. Di cosa è vittima allora l’Agnello di Dio?
Gesù è vittima d’amore. Scrive Origene: «Dio prima ha sofferto, poi si è incarnato. Ha sofferto perché ‘caritas est passio’». Gesù è vittima della violenza, padrona e signora della terra, che lui ha smascherato con l’amore. E la violenza non ha sopportato l’unico che ne era totalmente libero, e, convocati i suoi adepti, ha ucciso l’agnello, il mite, voce e sogno di Dio.
Il peccato del mondo è scegliere la morte: «io ti ho posto davanti la vita e la morte: scegli. Ma scegli la vita!» (Deut 30,19). È questo il comando originario, fontale, sorgente di tutti i comandi. Legge di Dio è che l’uomo scelga. Dio è un imperativo di libertà. Legge di Dio è che l’uomo viva. Dio è addizione di vita, supplemento d’umano.
Nel Vangelo il peccato è presente e insieme assente; Gesù ne parla solo per dirci: è perdonato, è tolto, è perdonabile sempre. E il cristiano testimonia il Dio capace di dimenticarsi dietro una pecora smarrita, un bambino, un’adultera, capace d’amare fino a morire, fino a risorgere. Testimonia il Dio che per vincere la notte soffia sulla luce del giorno, per vincere il gelo accende il suo sole, per demolire la menzogna passa libero e disarmato fra le creature.
Ecco Colui che toglie. Il verbo è al declinato al presente: instancabilmente, giorno per giorno, continua a togliere, a raschiare via, il male dell’uomo, il disamore che ci minaccia tutti, che è incapacità di amare bene, chiusure, fratture, vite spente. Gesù, che sapeva amare come nessuno, guarisce il disamore del mondo.
Ecco vi mando come agnelli… a togliere, con mitezza, il male: braccia aperte donate al mondo. Agnelli in mezzo a lupi, inermi e più forti di ogni Erode.

AVVENIRE

III domenica A

Il mondo ci prova, ha tentato, ma non ce la fa a fiorire secondo il sogno di Dio: gli uomini non ce la fanno a raggiungere la felicità. Dio ha guardato l’umanità, l’ha trovata smarrita, malata, sperduta e se n’è preso cura. È venuto, e invece del ripudio o del castigo, ha portato liberazione e guarigione.
Lo afferma il profeta roccioso e selvatico, Giovanni delle acque, quando dichiara: ecco l’agnello che toglie il peccato del mondo. Sono parole di guarigione, eco della profezia di Isaia, rilanciata dalla prima Lettura: ecco il mio servo, per restaurare le tribù di Giacobbe. Anzi, è troppo poco: per portare la mia salvezza fino all’estremità della terra.
Giovanni parlava in lingua aramaica, come Gesù, come la gente del popolo, e per dire “ecco l’agnello” ha certamente usato il termine “taljah”, che indica al tempo stesso “agnello” e “servo”. E la gente capiva che quel giovane uomo Gesù, più che un predestinato a finire sgozzato come un agnello nell’ora dei sacrifici nel cortile del tempio, tra l’ora sesta e l’ora nona, era invece colui che avrebbe messo tutte le sue energie al servizio del sogno di Dio per l’umanità, con la sua vita buona, bella e felice.
Servo-agnello, che toglie il peccato del mondo. Al singolare. Non i peccati, ma piuttosto la loro matrice e radice, la linfa vitale, il grembo che partorisce azioni che sono il contrario della vita, quel pensiero strisciante che si insinua dovunque, per cui mi importa solo di me, e non mi toccano le lacrime o la gioia contagiosa degli altri, non mi importano, non esistono, non ci sono, non li vedo.
Servo-agnello, guaritore dell’unico peccato che è il disamore.
Non è venuto come leone, non come aquila, ma come agnello, l’ultimo nato del gregge, a liberarci da una idea terribile e sbagliata di Dio, su cui prosperavano le istituzioni di potere in Israele. Gesù prende le radici del potere, le strappa, le capovolge al sole e all’aria, capovolge quella logica che metteva in cima a tutto un Dio dal potere assoluto, compreso quello di decretare la tua morte; e sotto di lui uomini che applicavano a loro volta questo potere, ritenuto divino, su altri uomini, più deboli di loro, in una scala infinita, giù fino all’ultimo gradino.
L’agnello-servo, il senza potere, è un ‘no!’ gridato in faccia alla logica del mondo, dove ha ragione sempre il più forte, il più ricco, il più astuto, il più crudele. E l’istituzione non l’ha sopportato e ha tolto di mezzo la voce pura, il sogno di Dio.
Ecco l’agnello, mitezza e tenerezza di Dio che entrano nelle vene del mondo, e non andranno perdute, e porteranno frutto; se non qui altrove, se non oggi nel terzo giorno di un mondo che sta nascendo.

 

 

 

Fb 1 gennaio 2023
Piccole cose in alto silenzio 8di p. Ermes Ronchi)
Lc 2,16-21

Otto giorni dopo Natale, lo stesso racconto: Natale non è facile da capire, è una lenta conquista. Ci disorienta quella nascita, che nella notte divenne un passare di voci che raccontavano una storia incredibile. Da stropicciarsi gli occhi. È venuto il Messia ed è nel giro di poche fasce, nella ruvida paglia di una mangiatoia. Chi va a cercarlo nei sacri palazzi non lo trova.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette dai pastori. E’ lo stupore semplice della fede, mistero di un Dio che sa di stelle e di latte, di infinito e di casa.
Dimentichiamo tutta la liturgia senz’anima che presiede a questi giorni: regali, botti, auguri, sms clonati, luci, per conservare ciò che vale davvero: la capacità di sorprenderci per un bimbo indifeso. Impariamo da Maria e dal suo silenzio. Da lei che medita nel cuore fatti e parole, da lei impariamo a prenderci del tempo per aver cura dei nostri sogni.
E impariamo il Natale anche dai pastori, che non ce la fanno a trattenere la gioia e lo stupore, ma se ne tornano cantando, leggeri di una felicità mai provata.
Con lei e i pastori, salviamo questo stupore piccolo: il Verbo è un neonato che non sa parlare, l’Eterno è appena il mattino di una vita, l’Onnipotente è un bimbo che sa solo piangere. Dio ricomincia sempre così, con piccole cose e in alto silenzio.
In questo giorno di auguri, le prime parole della Bibbia sono: Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne dicendo: voi benedirete i vostri fratelli.
Per prima cosa, che lo meritino o no, voi benedirete. Dio ci chiede di benedire uomini e storie, il blu del cielo e il giro degli anni, il cuore dell’uomo e il volto di Dio.
Benedire è invocare una forza che accresca la vita e la faccia risorgere; vuol dire alzarsi, cercare, trovare, riconoscere il bene che c’è in ogni fratello, per una vita felice, per una vita di pace.
La benedizione non è salute, denaro, fortuna, prestigio, ma è la semplice luce di Dio che ci benedice ponendoci accanto persone dal volto e dal cuore luminosi.
Il Signore ti faccia grazia. Cosa ci riserverà l’anno che viene? Io non lo so, ma so che il Signore mi farà grazia, si chinerà su di me e mi farà grazia di tutti gli sbagli e di tutti gli abbandoni; mi camminerà a fianco, e nelle mie prove si abbasserà verso di me. Qualunque cosa accadrà quest’anno, Dio sarà chino su di me.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto. Che cosa è un volto che risplende? Poca cosa, eppure essenziale. Perché il volto è la finestra del cuore, e racconta cosa ti abita.
Scopri allora che Dio è luminoso, ritrova nell’anno che viene un Dio solare, ricco non di troni e di leggi, ma il cui più vero tabernacolo è un volto luminoso, una finestra di cielo.
Brilli per te il volto di Dio. Un Dio dalle grandi braccia e dal cuore di luce.

 

Maria Madre di Dio Ottava del Natale (p.Ermes Ronchi)
Nm 6,22-27; Lc 2, 16-21

Otto giorni dopo Natale, il Vangelo ci riporta alla grotta di Betlemme, all’unica visita riferita da Luca, quella dei pastori odorosi di latte e di lana, sempre dietro ai loro agnelli, mai in sinagoga, che arrivano di notte guidati da una nuvola di canto. E Maria, vittima di stupore, tutto custodiva nel cuore! Scavava spazio in sé per quel bambino, figlio dell’impossibile e del suo grembo; e meditava, cercava il senso di parole ed eventi, di un Dio che sa di stelle e di latte, di infinito e di casa. Non si vive solo di emozioni e di stupori, e lei ha tempo e cuore per pensare in grande, maestra di vita che ha cura dei suoi sogni.
All’inizio dell’anno nuovo, quando il tempo viene come messaggero di Dio, la prima parola della Bibbia è un augurio, bello come pochi: il Signore disse: Voi benedirete i vostri fratelli (Nm 6,22)
Voi benedirete…: è un ordine, è per tutti. In principio, per prima cosa anche tu benedirai, che lo meritino o no, buoni e meno buoni, prima di ogni altra cosa, come primo atteggiamento ‘tu benedirai i tuoi fratelli’.
Dio stesso insegna le parole: Ti benedica il Signore: scenda su di te come energia di vita e di nascite. E ti custodisca, sia con te in ogni passo che farai, in ogni strada che prenderai, sia sole e scudo.
Faccia risplendere per te il suo volto. Dio ha un volto di luce, perché ha un cuore di luce. La benedizione di Dio per l’anno che viene non è né salute, né ricchezza, né fortuna, né lunga vita ma, molto semplicemente, la luce. Luce interiore per vedere in profondità, luce ai tuoi passi per intuire la strada, luce per gustare bellezza e incontri, per non avere paura. Vera benedizione di Dio, attorno a me, sono persone dal volto e dal cuore luminosi, che emanano bontà, generosità, bellezza, pace.
Il Signore ti faccia grazia: di tutti gli sbagli, di tutti gli abbandoni, di qualche viltà e di molte sciocchezze. Lui non è un dito puntato, ma una mano che rialza.
Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace. Rivolgere il volto a qualcuno è come dire: tu mi interessi, mi piaci, ti tengo negli occhi. Cosa ci riserverà l’anno che viene? Io non lo so, ma di una cosa sono certo: il Signore si volterà verso di me, i suoi occhi mi cercheranno.
E se io cadrò e mi farò male, Dio si piegherà ancora di più su di me. Lui sarà il mio confine di cielo, curvo su di me come una madre, perché non gli deve sfuggire un solo sospiro, non deve andare perduta una sola lacrima.
Qualunque cosa accada, quest’anno Dio sarà chino su di me.
E ti conceda pace: la pace, miracolo fragile, infranto mille volte, in ogni angolo della terra. Ti conceda Dio quel suo sogno, che sembra dissolversi ad ogni alba, ma di cui Lui stesso non ci concederà di stancarci.

 

 

 

Fb 25 dicembre – Natale (notte) del Signore

Lc 2,1-14

Nuvola di ali veglianti

Dio nella piccolezza, ecco il grande stupore del Natale. L’uomo vuole salire, comandare, prendere. Dio desidera scendere, servire, dare. Questo per voi il segno: troverete un bambino. È il nuovo ordinamento delle cose e del cuore.
Ogni bambino vuole essere uomo. Ogni uomo vuole essere re e ogni re vuole essere “dio”. Solo Dio vuole essere bambino (L Boff).
A Natale non celebriamo un ricordo, ma una profezia. Quella notte il senso delle cose ha preso un’altra direzione: Dio verso l’uomo, dal cielo verso il basso, da una città verso una grotta, dal tempio a un campo di pastori. La storia ricomincia dalla dai margini e dalla piccolezza.
Mentre le legioni di Roma mantengono la pace con la spada, nel meccanismo oliato della grande storia cade un granellino di sabbia, solo un bambino, ma sufficiente a mutare la direzione del tempo, e che porta la nuova capitale del mondo a Betlemme.
C’erano là alcuni pastori. Erano già là, come in attesa di qualcosa, vegliando su ogni rumore nella notte. Una nuvola di ali, di canto e di parole li avvolge.
Unica presenza, un gruppo di pastori odorosi di lana, di latte e di silenzio. Un tutt’uno con gli angeli?
Bella notizia per i poveri, gli ultimi, gli anonimi, i dimenticati. Dio ricomincia da loro con una lieta notizia: non temete! Dio non deve fare paura mai, altrimenti non è Lui che bussa alla tua vita, alla tua capanna. Dio entra nel mondo dal punto più basso perché nessuna creatura sia più esclusa dal suo abbraccio che guarisce. “Dio si è fatto uomo per imparare a piangere” (Turoldo).
Lì Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia… nella greppia degli animali, che Maria nel suo bisogno legge come una culla. La stalla e la mangiatoia sono un ‘no’ alla fame di potere, un ‘no’ al “così vanno le cose”, è poco ma è anche tutto ciò che serve alla giovane coppia.
Natale è il più grande atto di fede di Dio, che affida il figlio ad una ragazza inesperta che si prende cura del neonato, lo nutre di latte, di carezze e di sogni. Lo fa vivere con il suo sorriso, e allo stesso modo, Dio vivrà sulla terra solo se noi ci prenderemo cura di lui ogni giorno, come una madre.
Allora prego:
Mio Dio bambino, povero come l’amore, piccolo come un piccolo d’uomo, umile come la paglia dove riposi, mio piccolo Dio che impari a vivere questa nostra piccola vita. Mio Dio piccolo incapace di aggredire e di fare del male, insegnami che non c’è altro senso per noi, non c’è altro destino che diventare come Te.
Solo allora sulla terra ci sarà pace. Ci può essere pace, ci sarà di sicuro. I violenti la distruggono, ma la pace tornerà, come primavera che non teme gli inverni dell’uomo.

 

5 Avvenire NATALE GV 1,1-18

Un Vangelo immenso ascoltiamo oggi, che ci obbliga a pensare in grande. Giovanni comincia con un inno, un canto, che ci chiama a volare alto, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo. In principio era il Verbo e il Verbo era Dio. Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori dal tempo. Un mito? No, perché il volo d’aquila plana fra le tende dell’accampamento umano: e venne ad abitare, piantò la sua tenda in mezzo a noi.
Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che esistono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui (v 3). Nulla di nulla senza di lui. ‘In principio’, ‘tutto’, ‘nulla’, ‘Dio’, parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con il cosmo, in una straordinaria visione che abbraccia tempo, cose, spazio, divinità.
Senza di lui nulla di ciò che esiste è stato fatto. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il pettirosso di stamattina, tutta la vita è fiorita dalle sue mani. Nessuno e niente nasce da se stesso…
Natale: veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Ogni uomo, ogni donna, ogni bambino e ogni anziano, ogni malato e ogni migrante, tutti, nessuno escluso; nessuna esistenza è senza un grammo di quella luce, nessuna storia senza lo scintillio di un tesoro, abbastanza profondo perché nessun peccato possa mai spegnerlo. E allora c’è un frammento di Verbo in ogni carne, un pezzetto di Dio in ogni uomo, c’è santità in ogni vita.
La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno vinta!
Le tenebre non vincono la luce. Non la vincono mai. La notte non sconfigge il giorno. Ripetiamolo a noi e agli altri, in questo mondo duro e triste: il buio non vince.
“In principio era il Verbo e il Verbo era Dio…”. Che vorrei tradurre: in principio era la tenerezza / e la tenerezza era Dio. E la tenerezza di Dio si è fatta carne.
Natale è il racconto di Dio caduto sulla terra come un bacio (B. Calati).
Natale è il brivido del divino nella storia (papa Francesco). Per questo siamo più felici a Natale, perché ascolti il brivido, rallenti il tempo, guardi di più tuo figlio, gli dai una carezza…
Gesù è il racconto della tenerezza di Dio (Ev. Ga.), porta la rivoluzione non della onnipotenza o della perfezione, ma della tenerezza e della piccolezza: Dio nell’umiltà, il segreto del Natale. Dio nella piccolezza, forza dirompente del Natale. Dio adagiato sulla povera paglia come una spiga nuova.
Noi non stiamo aspettando Qualcuno che verrà all’improvviso, ma vogliamo prendere coscienza di Qualcuno che, come una luce, già abita la nostra vita.

Guardo il Bambino, lo vedo che cerca il seno della Madre e penso: il Verbo si è fatto fame. Non gli angeli, ma una ragazza inesperta e generosa si occupa di Lui.
Penso agli abbracci che ha imparato a dare e ad accogliere, da bambini e amici e donne con il profumo, e dico: il Verbo si è fatto carezza.
E poi il pianto di Gesù davanti alla tomba dell’amico e dico: il Verbo si è fatto lacrime.
Ricordo quel petalo di fango che Gesù mette sugli occhi del cieco nato e dico: il Verbo si è fatto polvere, mano e saliva e occhi nuovi.
Sulla croce: il Verbo si è fatto agnello in cui grida il dolore di tutti.
E con me che piango, anche Lui imparerà a piangere;
e se tu devi morire, anche Lui conoscerà la morte.
E allora c’è un frammento di Verbo, un grammo di luce in ogni carne, un pezzetto di Dio in ogni uomo, c’è santità in ogni vita.
La nostra umanità è un fiume che porta tutto, fango e pagliuzze d’oro. Ma in fondo non dev’essere poi così male questa nostra vita, se anche Dio l’ha voluta per sé. Non solo delitto e castigo, nel mondo, ma nascite e amori.
Il mondo non è una trappola dove siamo caduti.
Siamo qui per diventare ogni giorno più vivi.
Lo dico perché mi hanno raccontato, e ci credo, che Dio ha preso per sé questa vita, questo cuore, ha imparato a piangere, a camminare, ad abbracciare, a morire. Per risorgere. E allora c’è luce.
A Natale non celebriamo un ricordo,, ma riscriviamo un progetto, il sogun altro modo di abitare la terra. Il mondo non appartiene a chi è più forte e accumula più denaro, quella è una storia piena di rumore e di furore, ma che non significa nulla. La storia appartiene alla bontà senza clamore, all’amore senza vanto, al servizio senza interesse.
In principio era la Tenerezza… e la tenerezza si è fatta volto di bambino, occhi di donna e sorriso.
Nella tenerezza non c’è paura.
Gesù è il racconto della tenerezza di Dio, di quella tenerezza che ha salvato il mondo.

A Natale si può ripartire, ripartire altrimenti: lasciamoci sorprendere, cogliere di sorpresa, da questa notte popolata di angeli, mai tanti angeli insieme come su quel fazzoletto di terra e di cielo a Betlemme: pace in terra!
ma ci sono 149 conflitti armati in atto nel mondo; in Somalia la guerra dura da 30 anni, ebbene: pace in terra! Possibile? Sì. A portata di mano? No. è solo un embrione, ma c’è.
Pace in terra: non è un semplice augurio, che venga, che ci sia. È una affermazione: c’è pace, pace nascente in chi comincia, in chi è gentile, in chi si disarma, in chi perdona, in chi soccorre.
E poi l’angelo continuano: vi annuncio una grande gioia, che è per tutto il popolo, tutto, adulti e bambini. Non solo per i più bravi, ma anche i più feriti, i più complicati.
Non è vero, dice in me una vocina. C’è una malinconia profonda, un senso di stanchezza, secondo Natale di pandemia, siamo con le ruote a terra. Dopo mesi di trauma, di spegnimento dei sogni e della voglia di fare.
Ma io credo agli angeli. E oggi rafforzo la mia radicale fiducia nell’uomo.
Radicale fiducia, sai perché? Perché Dio continua ad amare l’umanità. Nonostante tutto, ama. Pace in terra agli uomini che Dio ama. C’è un gancio in mezzo al cielo. Dio ama questi uomini, queste donne, questi volti, ci attacchiamo a quel gancio in mezzo al cielo.
Se c’è stato lui, posso starci anch’io, in questo mondo.
È venuto ed ha fatto risplendere la vita (1 Tim 1,10) Una parola di Paolo al suo amico Timoteo che è come un vulcano, un incendio: ha fatto risplendere la vita, ha dato bellezza, intensità, futuro, fuoco, splendore a questa vita. Ha messo canzoni nuove in gola.
Si può ripartire, verso più pace, più gentilezza, più speranza.
Ripartiamo dalle cose semplici, dalla gentilezza, per esempio. Essere gentile è sentirsi appartenenti al genere umano, a quelli che ogni giorno fanno il proprio dovere, al lavoro, in famiglia, ascoltando gli altri, aiutando chi ha bisogno. E sono molti. E magari sono fragili, ma non si arrendono. Artigiani di relazioni buone. Seminiamo relazioni buone. Non è tempo di raccolti, questo, ma di semine. Se guardi bene il Natale capisci tante cose: l’essenziale è poco, e non è il denaro: un riparo, due che si amano, qualche fascia e una montagna di affetto, due mani che ti accolgono, un bambino che non vuole essere grande, sopra, più degli altri.
La stalla e la mangiatoia di Gesù sono un ‘no!’ gridato da Dio al nostro “beh le cose vanno così, non c’è niente da fare…”. C’è molto da fare, invece, e da cambiare
Il Presepio non è una favola che ci raccontiamo ogni anno, è la chiave di un mondo che non esiste ancora;
A Natale non celebriamo un ricordo, il compleanno di Gesù, ma riscriviamo un progetto, il sogno di Dio, un altro modo di abitare la terra. Il mondo non appartiene a chi è più forte e accumula più denaro, quella è una storia piena di rumore e di furore, ma che non significa nulla. La storia appartiene alla bontà senza clamore, all’amore senza vanto, al servizio senza interesse.

Mio Dio, mio Dio bambino,
povero come l’amore,
piccolo come un piccolo d’uomo,
umile come la paglia dove sei nato,
mio piccolo Dio che impari a vivere
questa nostra stessa vita,
che domandi attenzione e protezione.
Mio Dio incapace di aggredire e di fare del male,
che vivi soltanto se sei amato,
insegnami che non c’è altro senso per noi,
non c’è altro destino che diventare come Te,
carne intrisa di cielo, sillaba di Dio,
come te che cingi per sempre in un abbraccio
ogni creatura malata di solitudine. Amen

 

p.Ermes Ronchi

IV di AVVENTO A
di p. Ermes Ronchi

Tra i testimoni che ci accompagnano al Natale appare Giuseppe, mani callose e cuore sognante, il mite che parla amando. Dopo l’ultimo profeta dubbioso, Giovanni Battista, di domenica scorsa, ora un altro credente, un giusto anche lui dubbioso e imperfetto, l’ultimo patriarca di una storia mai semplice e lineare. Giuseppe che non parla mai, silenzioso e coraggioso, concreto e sognatore: le sorti del mondo sono affidate ai suoi sogni. E lì sono al sicuro, perché l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio.
La sua casa è pronta, il matrimonio è già contratto, la ragazza abita i suoi pensieri, tutto racconta una storia d’amore vero con Maria. Improvvisamente, succede: Maria si trovò incinta e Giuseppe pensò di ripudiarla in segreto, insieme a quel figlio non suo. L’uomo “tradito” cerca comunque un modo per salvare la sua ragazza che rischia la vita come adultera; il giusto “ingannato” non cerca ritorsioni contro di lei, vuole ancora proteggerla, perché così fa chi ama.
Ripudiarla… Ma Giuseppe è insoddisfatto della decisione presa. Si dibatte dentro un conflitto emotivo e spirituale: da un lato l’obbligo di denuncia e dall’altro la protezione della donna amata. A metà strada tra l’amore per la legge di Mosè: toglierai di mezzo a te il peccatore (cfr Deut 22,22), e l’amore per la ragazza di Nazaret.
E accade un secondo imprevisto, bello e sorprendente. Giuseppe ha un sogno, in cui il volto di Maria si mescola a quello degli angeli. Prima decide, poi arriva da Dio un sogno, arriva solo dopo, senza esimerlo dalla fatica e dalla libertà: Non temere di prendere con te Maria. Tu vuoi già prenderla con te, solo che hai paura. Non temere di amarla, Giuseppe, chi ama non sbaglia.
Dio non interviene a risolvere i problemi con una bacchetta magica, non ci salva dai conflitti ma è con noi dentro i problemi, e opera in sinergia con la nostra testa e il nostro cuore, con l’intelligenza e l’empatia, ma insieme anche con la nostra capacità di immaginare e di ipotizzare soluzioni nuove. E’ l’arte divina dell’accompagnamento, che cammina al passo con noi, verso l’unica risposta possibile: proteggere delle vite con la propria vita.
Da chi ha imparato Gesù a ribaltare la legge antica, a mettere la persona prima delle regole, se non ascoltando da Giuseppe il racconto di come si sono conosciuti con Maria, di come è stato il loro fidanzamento e poi il matrimonio, ai figli piace sentire queste storie. Da chi ha capito il piccolo Gesù che l’amore viene prima di tutto, che è sempre un po’ fuorilegge?
Maria e Giuseppe, poveri di tutto, ma Dio non ha voluto che fossero poveri d’amore, perché sarebbero stati poveri di Lui.

Il vangelo riferisce quattro sogni di Giuseppe, sogni di parole. E ogni volta si tratta di un annunzio parziale, incompleto, ogni volta una profezia breve, troppo breve, senza un futuro chiaro, senza la data del ritorno. Eppure sufficiente per mettersi in viaggio verso l’Egitto e un giorno per riprendere la strada di casa.
Guidami Tu, Luce gentile, / attraverso il buio che mi circonda,/ sii Tu a condurmi! /La notte è oscura/ e sono lontano da casa,/ sii Tu a condurmi!/ Sostieni i mie passi /io non chiedo di vedere/ ciò che mi attende all’orizzonte,/ un passo solo mi sarà sufficiente.
Anche noi tutti avremo tanta luce quanta ne basta a un solo passo, e poi la luce si rinnoverà, come i sogni di Giuseppe. Avremo tanto coraggio quanto ne serve ad affrontare la prima notte. Poi il coraggio si rinnoverà, come gli angeli e i sogni del giusto Giuseppe.

e: le sorti del mondo sono affidate ai suoi sogni. E lì sono al sicuro, perché l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio.
La sua casa è pronta, il matrimonio è già contratto, la ragazza abita i suoi pensieri, tutto racconta una storia d’amore vero con Maria. Improvvisamente, succede: Maria si trovò incinta e Giuseppe pensò di ripudiarla in segreto, insieme a quel figlio non suo. L’uomo “tradito” cerca comunque un modo per salvare la sua ragazza che rischia la vita come adultera; il giusto “ingannato” non cerca ritorsioni contro di lei, vuole ancora proteggerla, perché così fa chi ama.
Ripudiarla… Ma Giuseppe è insoddisfatto della decisione presa. Si dibatte dentro un conflitto emotivo e spirituale: da un lato l’obbligo di denuncia e dall’altro la protezione della donna amata. A metà strada tra l’amore per la legge di Mosè: toglierai di mezzo a te il peccatore (cfr Deut 22,22), e l’amore per la ragazza di Nazaret.
E accade un secondo imprevisto, bello e sorprendente. Giuseppe ha un sogno, in cui il volto di Maria si mescola a quello degli angeli. Prima decide, poi arriva da Dio un sogno, arriva solo dopo, senza esimerlo dalla fatica e dalla libertà: Non temere di prendere con te Maria. Tu vuoi già prenderla con te, solo che hai paura. Non temere di amarla, Giuseppe, chi ama non sbaglia.
Dio non interviene a risolvere i problemi con una bacchetta magica, non ci salva dai conflitti ma è con noi dentro i problemi, e opera in sinergia con la nostra testa e il nostro cuore, con l’intelligenza e l’empatia, ma insieme anche con la nostra capacità di immaginare e di ipotizzare soluzioni nuove. E’ l’arte divina dell’accompagnamento, che cammina al passo con noi, verso l’unica risposta possibile: proteggere delle vite con la propria vita.
Da chi ha imparato Gesù a ribaltare la legge antica, a mettere la persona prima delle regole, se non ascoltando da Giuseppe il racconto di come si sono conosciuti con Maria, di come è stato il loro fidanzamento e poi il matrimonio, ai figli piace sentire queste storie. Da chi ha capito il piccolo Gesù che l’amore viene prima di tutto, che è sempre un po’ fuorilegge?
Maria e Giuseppe, poveri di tutto, ma Dio non ha voluto che fossero poveri d’amore, perché sarebbero stati poveri di Lui.

Il vangelo riferisce quattro sogni di Giuseppe, sogni di parole. E ogni volta si tratta di un annunzio parziale, incompleto, ogni volta una profezia breve, troppo breve, senza un futuro chiaro, senza la data del ritorno. Eppure sufficiente per mettersi in viaggio verso l’Egitto e un giorno per riprendere la strada di casa.
Guidami Tu, Luce gentile, / attraverso il buio che mi circonda,/ sii Tu a condurmi! /La notte è oscura/ e sono lontano da casa,/ sii Tu a condurmi!/ Sostieni i mie passi /io non chiedo di vedere/ ciò che mi attende all’orizzonte,/ un passo solo mi sarà sufficiente.
Anche noi tutti avremo tanta luce quanta ne basta a un solo passo, e poi la luce si rinnoverà, come i sogni di Giuseppe. Avremo tanto coraggio quanto ne serve ad affrontare la prima notte. Poi il coraggio si rinnoverà, come gli angeli e i sogni del giusto Giuseppe.

 

Fb 18 dicembre – IV di Avvento

Mt 1,18-24
Il coraggio di un sogno

Ci vuole coraggio per sognare, e non solo fantasia, per non accontentarsi del mondo così com’è. La materia di cui sono fatti i sogni è la speranza (Shakespeare).
Tra i testimoni d’Avvento che rendono «testimonianza alla luce» (Gv 1,7.8), entra Giuseppe, uomo giusto che sogna e ama, non parla ma agisce.
Cuore puro e mani callose, l’ultimo patriarca d’Israele, sigillo di una storia gravida di contraddizioni e promesse: la sua casa e i suoi sogni narrano una storia d’amore, i suoi dubbi e il cuore ferito raccontano storie di attese e di crisi.
Prima che andassero a vivere insieme Maria si trovò incinta, allora Giuseppe pensò di ripudiarla in segreto. Di nascosto. Con l’unico modo trovato per salvare Maria. Basta che la corazza della legge venga appena scalfita dall’amore, ed ecco lo Spirito irrompere e agire.
Mentre pensava a tutto questo, arriva in sogno un angelo… Giuseppe sa ascoltare i sogni che lo abitano, sono gli stessi di Dio, che gli dice: non temere di prendere con te Maria.
Non temere, Dio interviene sempre in favore della vita. Nel Vangelo di Matteo gli angeli vengono sempre per lo stesso motivo: per annunciare la vita di Gesù, per proteggerne la vita da Erode, a Pasqua per annunciare che quella vita ha vinto la morte.
Giuseppe tra la legge e l’amore sceglie Maria, perché «mettere la legge prima della persona è l’essenza della bestemmia» (Simone Weil). E così facendo diventa profeta che anticipa le scelte di Gesù, quando infrangerà la legge di Mosè per guarire il dolore dell’uomo.
Eccoli i giusti! «La nostra unica regola è l’amore; lasciate la regola ogni volta che essa contrasta con l’amore» (sorella Maria di Campello).
Maria e Giuseppe, poveri di certezze ma ricchi d’amore, aperti al mistero perché se c’è una cosa che apre la via all’assoluto questa è l’amore, luogo infinito dove arrivano angeli.
Il Vangelo per Giuseppe riporta ben quattro sogni di parole. E ogni volta è un annuncio parziale, (prendi il bambino e sua madre e fuggi…) senza un orizzonte chiaro, senza la data del ritorno. Ma sufficiente per stringerli a sé e via in fretta verso l’Egitto, per poi riprendere la strada di casa. È la via imperfetta dei giusti e dei profeti, e di ogni credente.
Giuseppe parte con Maria e quel figlio che non ha generato, di cui però sarà vero padre perché lo amerà, lo farà crescere, lo farà felice, gli insegnerà ad essere uomo e a sognare l’impossibile; a credere nell’amore.
Come a Giuseppe un sogno di parole è offerto anche a noi: è il Vangelo. E ci sono offerti angeli mandati da Dio: portatori di belle notizie, nelle nostre case come in quella di Maria; messaggeri di sogni e progetti, come in quella di Giuseppe.
I nostri angeli non hanno ali e dividono con noi pane e amore; vivono nella nostra casa come annunciatori d’infinito: angeli che nella loro voce ci fecondano della Parola di Dio.

 

 

Fb 4 dicembre – II di Avvento
Mt 3,1-12

Nella casa del fuoco (di p. Ermes Ronchi)

Due voci nel deserto di Giuda: Giovanni e la fede a caro prezzo, Isaia e la poesia di un mondo incantato; Giovanni e l’impegno necessario, Isaia e il dono immeritato. Come i due profeti, ogni cristiano vive di grazia e di impegno, di realtà e di poesia.
Con le sue immagini irruenti Giovanni non vuole lanciare minacce sulla nostra fatica di credere, né seminare paure. Il profeta sa bene che la paura non libera dal male, lo capirà bene, rinchiuso a Macheronte; sa che non sarà la paura a fare del leone un mangiatore di erba, a edificare la casa comune per il lupo e per l’agnello. È altra la forza che cambia il cuore, mai la paura.
Il vangelo tratta di tre annunci in uno e, tra tutte, la parola più calda di speranza è l’aggettivo «vicino». Dio è vicino, è qui; la prima buona notizia è che il Pellegrino eterno ha camminato, ha consumato il suo Esodo e ora è vicinissimo a te.
Dio è accanto, si stringe a tutto ciò che vive, rete che raccoglie insieme il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente (parola di Isaia); ucraino e russo, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, per una nuova architettura dei rapporti umani. Il regno dei cieli è la terra come Dio la sogna. Non si è ancora realizzata? Non importa, il sogno di Dio è più vero della realtà, la contesta e la attraversa, forza che fa partire.
Convertitevi, ossia osate la vita, mettetela in cammino, e non per eseguire un comando, ma per una bellezza, per una seduzione. Ciò che converte il freddo in calore non è un ordine, ma la vicinanza del fuoco: stare vicino a me è stare vicino al fuoco (Vangelo apocrifo di Tommaso). Ciò che toglie le ombre dal cuore non è un divieto, ma una lampada che si accende, un raggio, una stella, uno sguardo. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui.
E noi, noi che proclamiamo la pace, in realtà la cerchiamo per amore della pace o per paura della guerra?
Solo là dove sono le mie radici, dov’è il mio fuoco, là dove io decido, dove la vita è più vita, viene il Signore. Egli non è solo l’ultima risorsa quando non ho più risorse. Viene nella bellezza, nella passione d’amore, nella fedeltà al dovere, nel coraggio di sperare, quando accetto la sproporzione tra ciò che mi è promesso (il lupo e l’agnello che dimorano insieme) e ciò che tengo tra le mani.
Convertitevi, dice l’ultimo profeta, Giovanni. E fa appello non alla forza di volontà, ma alla nostra capacità di ascoltare l’altro profeta, il seminatore di sogni, Isaia. Ma soprattutto fa appello al venire di Cristo. Non si torna indenni dall’incontro con il Signore, che è vento, luce, falce nei prati, radice, spirito, fuoco, grazia a caro prezzo, conversione. Davvero impossibile amarlo impunemente (Turoldo), senza pagarne il prezzo in moneta di vita. Non si torna indenni dall’incontro col fuoco.

 

Avvenire II di Avvento A

Nel deserto della Giudea e sulle rive attorno al lago di Galilea, per Giovanni e per Gesù le parole generative sono le stesse : “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2).
Tre annunci in uno:
• esiste un regno, cieli nuovi e terra nuova, un mondo nuovo che preme per venire alla luce..
• Un regno incamminato. I due profeti non dicono cos’è il Regno, ma dove è. Lo fanno con una parola calda di speranza “vicino”. Dio è vicino, è qui. Seconda buona notizia: il Pellegrino eterno ha camminato molto, il suo esodo approda qui, alla radice del vivere, non ai margini della vita, si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore portata dal respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il soffio e il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra.
c) Convertitevi, ossia mettetela in cammino la vostra vita, non per una imposizione da fuori ma per una seduzione. La vita non cambia per decreto-legge, ma per una bellezza almeno intravista: sulla strada che io percorro, il cielo è più vicino e più azzurro, la terra più dolce di frutti, ci sono più sorrisi e occhi con luce.
Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Infatti Viene uno che è più grande di me. I due profeti usano lo stesso verbo e sempre al tempo presente: «Dio viene». Non: verrà, un giorno; oppure sta per venire, sarà qui tra poco. E ci sarebbe bastato. Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia, piccolo buco bianco che ingoia il nero della notte.
Giorno per giorno, continuamente, Dio viene. Anche se non lo vedi, viene; anche se non ti accorgi di lui, è in cammino su tutte le strade. È bello questo mondo immaginato colmo di orme di Dio.
Isaia, il sognatore, annuncia che Dio non sta non solo nell’intimo, in un’esperienza soggettiva, ma si è insediato al centro della vita, come un re sul trono, al centro delle relazioni e delle connessioni tra i viventi, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uomo e donna, arabo ed ebreo, mussulmano e cristiano, bianco e nero, russo e ucraino, per il fiorire della vita in tutte le sue forme.
Dio viene. Io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù. Lo credo non per un facile ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella più positiva o probabile. Io scelgo il Regno per un atto di fede: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, ha le mani impigliate nel folto di questa vita, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino al legno di una mangiatoia e di una croce.

 

 

 

Fb 13 novembre
Lc 21,5-19
La beatitudine degli oppositori (p.Ermes Ronchi)

Dov’è la buona notizia su Dio e sull’uomo in questo Vangelo di catastrofi, in questo balenare di spade e di pianeti che cadono?
Siamo sopra il crinale ripido della storia: da un lato il versante oscuro della violenza, il cuore di tenebra che distrugge; dall’altro versante la tenerezza che salva, terra di pace dove “neppure un capello” andrà perduto.
Un Vangelo così denso non anticipa le cose ultime, svela il senso ultimo delle cose. Dopo ogni crisi ecco un punto di rottura, un tornante che apre una breccia di speranza. Verranno guerre e attentati, rivoluzioni e disinganni brucianti, ansie e paure. Sarete traditi da chi amate di più, ma voi alzate il capo e risollevatevi.
Ma voi… bellissimo questo «ma»: una disgiunzione, una resistenza a ciò che incombe oggi nel mondo. Ma voi, voi alzatevi: agite, non rassegnatevi, non omologatevi, non arrendetevi.
È la beatitudine degli oppositori.
Ringrazio il mio Signore, perché nel caos della storia il suo sguardo è fisso su di me, custode memore di ogni mio frammento. E nulla di me è troppo piccolo, per lui. È l’infinita cura di Dio per l’infinitamente fragile, amante anche di un solo unico capello del mio capo. Cosa c’è più affidabile di un Dio che si perde a contarti i capelli in capo? Che ama l’uomo nella sua interezza, uno solo dei capelli e tutto il suo mistero?
Dentro a tutto questo Gesù ci indica come camminare: con perseveranza. «Nella perseveranza salverete le vostre anime», vale a dire salverete le vostre vite. La vita si salva non nel disimpegno, ma nel tenace, umile, quotidiano lavoro che si prende cura della terra e delle sue ferite. Senza cedere allo scoraggiamento né alle seduzioni dei falsi profeti.
Restare saldi nella perseveranza poiché il cristiano non evade, non si toglie, sta in mezzo al mondo e alle sue piaghe, prendendosene cura. Vicino alle croci non per caso, se capita, fortuitamente, ma nella perseveranza della vita, che sarà salva.
Ogni volta che vai fino in fondo a un’idea, a una intuizione, a un servizio sfoci nella verità della vita. Ogni atto umano perseverante nel tempo, si avvicina all’assoluto di Dio.
Cadono molti punti di riferimento, ogni giorno di più, ma questo mondo ne porta un altro nel grembo, come in una danza felice. Per ogni mondo che ogni giorno muore, ce n’è uno nuovo che ogni giorno rinasce.
La violenza alla fine si autodistruggerà. Noi lo crediamo. Ciò che deve restare inciso negli occhi del cuore è l’ultima riga di questo vangelo: risollevatevi, perché la vostra liberazione è vicina.
Che cosa posso fare? Usare la tattica del contadino. Rispondere alla grandine piantando nuovi frutteti, per ogni raccolto di oggi perduto impegnarmi a prepararne uno nuovo per domani. Seminare, piantare, attendere, perseverare vegliando su ogni germoglio di vita che, inarrestabile, nasce.

 

XXX III

Il vangelo adotta linguaggio, immagini e simboli da fine del mondo; evoca un turbinare di astri e di pianeti in fiamme, l’immensità del cosmo che si consuma: eppure non è di questo che si appassiona il discorso di Gesù. Come in una ripresa cinematografica, la macchina da presa di Luca inizia con il campo largo e poi con una zoomata restringe progressivamente la visione: cerca un uomo, un piccolo uomo, al sicuro nelle mani di Dio. E continua ancora, fino a mettere a fuoco un solo dettaglio: neanche un capello del vostro capo andrà perduto.
Allora non è la fine del mondo quella che Gesù fa intravvedere, ma il fine del mondo, del mio mondo. C’è una radice di distruttività nelle cose, nella storia, in me, la conosco fin troppo bene, ma non vincerà: nel mondo intero è all’opera anche una radice di tenerezza, che è più forte. Il mondo e l’uomo non finiranno nel fuoco di una conflagrazione nucleare, ma nella bellezza e nella tenerezza.
Un giorno non resterà pietra su pietra delle nostre magnifiche costruzioni, delle piramidi millenarie, della magnificenza di San Pietro, ma l’uomo resterà per sempre, frammento su frammento, nemmeno il più piccolo capello andrà perduto.
È meglio che crolli tutto, comprese le chiese, anche le più artistiche, piuttosto che crolli un solo uomo, questo dice il vangelo. L’uomo resterà, nella sua interezza, dettaglio su dettaglio. Perché il nostro è un Dio innamorato.
Ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura, dove tutto cambia; ad ogni tornante di distruttività appare una parola che apre la feritoia della speranza: non vi spaventate, non è la fine; neanche un capello andrà perduto…; risollevatevi….
Che bella la conclusione del vangelo di oggi, quell’ultima riga lucente: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
In piedi, a testa alta, occhi alti, liberi, profondi: così vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, e guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che appare: viene continuamente qualcuno il cui nome è Liberatore, esperto in nascite. Mentre il creato ascende in Cristo al Padre/ nell’arcana sorte / tutto è doglia di parto: /quanto morir perché la vita nasca! (Clemente Rebora). Il mondo è un immenso pianto, ma è anche un immenso parto. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo.
Ma quando il Signore verrà, troverà ancora fede sulla terra? Sì, certamente. Troverà molta fede, molti che hanno perseverato nel credere che l’amore è più forte della cattiveria, che la bellezza è più umana della violenza, che la giustizia è più sana del potere. E che questa storia non finirà nel caos, ma dentro un abbraccio. Che ha nome Dio.

 

L’unica magia che rimane

I sadducei sottopongono a Gesù una storiella ingannevole, quella della donna sette volte vedova e mai madre, caricatura della fede nella risurrezione in cui non credono.
La piccola unica eternità che essi riconoscono è quella biologica, così importante da trattare quella donna come un oggetto di scambio. Non si lasciano neppure sfiorare dall’idea dell’amore, riducendo la carne dolorante e luminosa della vita a strumento, a proprio uso e consumo. Una specie di utero in affitto ante litteram.
Gesù non ci sta, e alla loro domanda subdola (di quale dei sette fratelli sarà moglie quella donna?) contrappone un mondo nuovo: quelli che risorgono non prendono né moglie né marito.
Attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affetti. I risorti non si sposano, ma danno e ricevono amore ancora, finalmente capaci di amare bene, e per sempre.
Non è facile credere nella vita eterna, perché il sadduceo in noi la misura ancora col metro della durata indefinita, anziché con quello dell’intensità profonda.
Dio di Abramo, di Isacco, di Gesù, Dio di mio padre, di mia madre…
In questo «di» ripetuto 5 volte è racchiuso il segreto dell’eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma forte del legame che significa: Dio appartiene a loro, e loro appartengono di Dio. Legando la sua eternità alla nostra, mostra che ciò che vince la morte non è la vita, ma l’amore. Il Dio dei miei padri vive solo se Isacco e Abramo, solo se tu e io, vivremo. Se quei nomi non esistono più è Dio stesso che non esiste. Se quel legame si dissolve è il nome di Dio che si spezza.
I risorti saranno come angeli. Come le gentili creature evanescenti, incorporee e asessuate del nostro immaginario? O non piuttosto, biblicamente, annuncio di Dio (Gabriele), forza di Dio (Michele), medicina di Dio (Raffaele)? Occhi che vedono Dio faccia a faccia (Mt 18,10)?
Nella Bibbia gli angeli hanno la potenza di Dio, dinamismo che trapassa, sale, penetra, che vola nella luce e nella bellezza per custodire, illuminare, reggere, rendere bello l’amore.
Con l’immagine degli angeli Gesù ci indica una realtà di faccia a faccia con Dio, e poiché la risurrezione rimane un tema cruciale della nostra fede, il Risorto dirà: non sono uno spirito, un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho (Lc 24,36).
L’eternità non è durata, è intensità, e soltanto la nostra risurrezione farà di Dio il Padre per sempre, perché essa non cancella il corpo, non cancella gli affetti. Non fa morire nulla dell’uomo. Lo trasforma. Ogni nostro amore si sommerà agli altri nostri vissuti, senza gelosie ed esclusioni, per farci capaci di intensità profonda, grati dell’infinita scoperta di amare con il cuore stesso di Dio.
L’unica cosa che rimane per sempre, ciò che rimane quando non rimane più nulla, quando tutto si dissolve, è l’amore (1 Cor 13,8).

 

Avvenire XXXII a
Luca 20,27-38

Sono gli ultimi giorni di Gesù. I gruppi di potere, sacerdoti, anziani, farisei, scribi, sadducei sono uniti nel rifiuto di quel rabbì di periferia, sbucato dal nulla, che si arroga il potere di insegnare, senza averne l’autorità, senza nessuna carta in regola, un laico qualsiasi. Lo contestano, lo affrontano, lo sfidano, un cerchio letale che gli si stringe intorno.
In questo episodio adottano una strategia diversa: metterlo in ridicolo. La storiella paradossale di una donna, sette volte vedova e mai madre, è adoperata dai sadducei come caricatura della fede nella risurrezione dei morti: di quale dei sette fratelli che l’hanno sposata sarà moglie quella donna?
Gesù, come è solito fare quando lo si vuole imprigionare in questioni di corto respiro, ci invita a pensare altrimenti e più in grande: Quelli che risorgono non prendono moglie né marito. La vita futura non è il prolungamento di quella presente. Coloro che sono morti non risorgono alla vita biologica ma alla vita di Dio. La vita eterna vuol dire vita dell’Eterno.
Io sono la risurrezione e la vita, ha detto Gesù a Marta Notiamo la successione: prima la risurrezione e poi la vita, con una sorta di inversione temporale, e non, come ci saremmo aspettati: prima la vita, poi la morte, poi la risurrezione. La risurrezione inizia in questa vita. Risurrezione dei vivi, più che dei morti, sono i viventi che devono alzarsi e destarsi: risorgere.
Facciamo attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affetti. “Se nel tuo paradiso non posso ritrovare mia madre, tieniti pure il tuo paradiso” (David. M. Turoldo). Bellissimo il verso di Mariangela Gualtieri: io ringraziare desidero per i morti nostri che fanno della morte un luogo abitato. L’eternità non è una terra senza volti e senza nomi.
Forte come la morte è l’amore, tenace più dello sheol (Cantico). Non è la vita che vince la morte, è l’amore; quando ogni amore vero si sommerà agli altri nostri amori veri, senza gelosie e senza esclusioni, generando non limiti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità, di profondità, di vastità. Un cuore a misura di oceano.
Anzi: “non ci verrà chiesto di abbandonare quei volti amati e familiari per rivolgerci a uno sconosciuto, fosse pure Dio stesso. Il nostro errore non è stato quello di averli amati troppo, ma di non esserci resi conto di che cosa veramente stavamo amando” (Clive Staples Lewis). Quando vedremo il volto di Dio, capiremo di averlo sempre conosciuto: faceva parte di tutte le nostre innocenti esperienze d’amore terreno, creandole, sostenendole, e muovendole, istante dopo istante, dall’interno. Tutto ciò che in esse era autentico amore, è stato più suo che nostro, e nostro soltanto perché suo. Inizio di ogni risurrezione.

 

Fb 16 ottobre
Lc 18,1-8

Riattaccando la terra al cielo (di p. Ermes Ronchi)

Il Vangelo ci porta a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna forte e dignitosa, che non si arrende. Ha subito ingiustizia e non abbassa la testa, nonostante i soprusi.
Lungo tutto il Vangelo Gesù ha una predilezione particolare per le donne sole, perché rappresentano l’intera categoria dei senza difesa: vedove, orfani, forestieri; essi sono i difesi da Dio.
C’era un giudice corrotto, dal quale la vedova si recava ogni giorno, chiedendogli: fammi giustizia contro il mio avversario! Avanti e indietro, continuamente a pregarlo.
Pregare è come voler bene, c’è sempre tempo per voler bene: se ami, tu ami giorno e notte, senza smettere mai. Così con Dio: pensi a lui, lo chiami, e da te qualcosa si mette in viaggio all’indirizzo dell’eterno. Ma come è possibile lavorare, incontrare, studiare, mangiare, dormire e nello stesso tempo pregare sempre? Eppure qualcuno c’è riuscito: «Alla fine della sua vita frate Francesco non pregava più, era diventato lui stesso preghiera» (Tommaso da Celano).
Una donna che non si lascia schiacciare ci rivela che, oltre a tutto questo, la preghiera è un “no” gridato al “così vanno le cose”, primo vagito di una storia nuova che nasce.
Quante volte «le nostre preghiere sono volate via come uccelli e nessuna è tornata a portare una risposta» (G. Von le Fort). È l’esperienza di questa vedova, povera come la speranza, indifesa come l’innocenza. Ma con una forza vincente: fede nella giustizia, nonostante tutto. Il miracolo vero è già accaduto, è la fame di giustizia che non si arrende all’inerzia, che non cede al lungo silenzio del giudice. Questo è il modo originale con cui Dio «fa giustizia prontamente».
Con l’immagine della vedova mai arresa Gesù sostiene la nostra fiducia: se un giudice, che è in tutto l’opposto di Dio, alla fine ascolta, Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano a lui, prontamente? Ma a volte la sensazione è proprio questa, che Dio non risponda e che ci faccia aspettare a lungo.
Ma quel prontamente di Gesù non vuol dire «subito», ma «sicuramente». Il primo miracolo della preghiera è rinsaldare la fede, farla poggiare sulla certezza che Dio è presente nella nostra storia, che non siamo abbandonati. Dio interviene, e non m’importa se il “come” mi è sconosciuto, o se non sarà come io vorrei. So che lo farà, e tanto basta.
Ma perché pregare sempre? È come chiedere: perché respirare? Per vivere! Non si prega per ottenere, ma per essere trasformati; per ricevere in dono il Suo sguardo, per amare con il Suo cuore. Per riattaccare continuamente la terra al cielo.
Pregate sempre: non perché la risposta tarda, ma perché la risposta è infinita. Perché Dio è un dono che non ha termine, mai finito. Canale aperto in cui scorre ossigeno per ogni mio respiro, sorgente che si rinnova ad ogni mio “ho sete”.

 

48 avvenire XXIX C Luca 18,1-8

Disse una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Molte volte ci siamo stancati! Le preghiere si alzavano in volo dal cuore, come colombe dall’arca del diluvio, e nessuna tornava indietro a portare una risposta. E mi sono chiesto molte volte: ma Dio esaudisce le nostre preghiere, si o no? Bonhoeffer risponde: “Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste, bensì le sue promesse”.
Pregate sempre… Pregare non equivale a dire preghiere. Mi sono sempre sentito inadeguato di fronte alle preghiere prolungate. E anche un pochino colpevole. Per la stanchezza e le distrazioni che aumentano in proporzione alla durata. Finché ho letto, nei Padri del deserto, che Evagrio il Pontico diceva: «Non compiacerti nel numero dei salmi che hai recitato: esso getta un velo sul tuo cuore. Vale di più una sola parola nell’intimità, che mille stando lontano».
Perché pregare è come voler bene. C’è sempre tempo per voler bene; se ami qualcuno, lo ami sempre, qualsiasi cosa tu stia facendo. “Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre” (S. Agostino). Quando uno ha Dio dentro, non occorre che stia sempre a pensarci. La donna incinta, anche se il pensiero non va in continuazione al bimbo che vive in lei, lo ama sempre, e diventa sempre più madre, ad ogni battito del cuore.
Davanti a Dio non conta la quantità, ma la verità: mille anni sono come un giorno, gli spiccioli della vedova più delle offerte dei ricchi. Perché dentro c’è tutto il suo dolore, e la sua speranza.
Gesù ha una predilezione particolare per le donne sole: rappresentano la categoria biblica dei senza difesa, vedove orfani forestieri, i difesi da Dio. E oggi ci porta a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna, fragile e indomita, che ha subìto ingiustizia ma non cede al sopruso. E traduce bene la parola di Gesù: senza stancarsi mai. Verbo di lotta, di guerra: senza arrendersi. Certo che ci si stanca, che pregare stanca, che Dio stanca: il suo silenzio stanca. Ma tu non cedere, non lasciarti cadere le braccia. Nonostante il ritardo: il nostro compito non è interrogarci sul ritardo del sole, ma forzare l’aurora, come lei, la piccola vedova.
Una donna che non tace ci rivela che la preghiera è un ‘no’ gridato al ‘così vanno le cose’, è come il primo vagito di una storia nuova che nasce.
Perché pregare? È come chiedere: perché respirare? Per vivere! “Io prego perché vivo e vivo perché prego” (R. Guardini). Pregare è aprire un canale in cui scorre l’ossigeno dell’infinito, riattaccare continuamente la terra al cielo, la bocca alla fontana. Come, per due che si amano, il loro bacio.

 

 

Fb 9 ottobre
Affrettiamoci ad amare (di p.Ermes Ronchi)
Lc 17,11-19

Dieci lebbrosi «fermi a distanza»; mani lontane, cui non è più lecito neppure accarezzare un figlio. Solo occhi, solo voce: “Gesù, abbi pietà!” E appena lui li vede, subito, perché troppo a lungo hanno sofferto malattia e umiliazioni, li manda dai sacerdoti.
Davanti al dolore a Gesù scatta un’urgenza, un’ansia di bene: non devono soffrire neanche un secondo di più. E mi ricorda un verso bellissimo di Ian Twardowski: affrettiamoci ad amare, le persone se ne vanno così presto! L’amore vero ha sempre fretta.
“Andate, siete già guariti, anche se ancora non lo sapete. Il futuro è entrato in voi con il primo passo, come un seme, come una profezia”.
E mentre andavano furono guariti.
Partono per un viaggio che era loro vietato: la lebbra è ancora evidente, ma più evidente è la speranza, più forte di piaghe e di paure.
Si mettono in cammino tutti e dieci, tutti hanno fede nella parola di Gesù, partono e il vento sulla pelle è già guarigione, la strada, già una promessa.
Ma uno solo passa da semplice guarito a salvato, l’unico che ritorna, cui Gesù dice: «la tua fede ti ha salvato». Il Vangelo è pieno di guariti, un corteo gioioso che accompagna l’annuncio di Gesù. Eppure quanti di questi guariti sono anche salvati? A quanti il rifiorire della carne fa fiorire relazioni nuove con Dio, con gli uomini, con se stessi?
Ancora una volta il Vangelo propone un samaritano, uno straniero, un eretico come modello di fede, fede che salva.
Dell’unico guarito che torna non è tanto importante il gesto, a Dio non interessa il nostro grazie; il lebbroso di Samaria non è salvo perché paga il pedaggio della gratitudine, ma perché entra in comunione. La sua pienezza consiste nell’entrare in contatto stretto con il Donatore, che gli dona se stesso. Nulla di meno, vita nella vita.
Ai nove che non tornano è invece sufficiente la guarigione. Non tornano, forse perché smarriti nel vortice della felicità, negli abbracci ritrovati. E Dio prova gioia per la loro legittima gioia, come prima aveva provato dolore per il loro dolore. Non tornano forse perché sentono la salute come qualcosa di dovuto, non come un dono; come un diritto, non come un miracolo quotidiano.
Non tornano perché ubbidiscono a Gesù: andate dai sacerdoti. Ma Gesù non voleva essere obbedito, perché alle volte l’obbedienza formale è un tradimento più profondo. «Talvolta bisogna andare contro la legge, per esserle fedeli in profondità» (Bonhoeffer).
I nove che non tornano dicono che la fede è la libera risposta dell’uomo al corteggiamento di Dio, che ama a prescindere.
Domattina farò anch’io come quello straniero, tornerò a Dio con tutto il mio cuore, senza formule vane. Gli donerò solo una parola di lode, un grazie dal profondo. E lo stesso farò con quelli di casa. In silenzio, ma con il sorriso dentro di me.

 

Avvenire XXVIII Luca 17,11-19

E mentre andavano furono guariti. Il Vangelo è pieno di guariti, sono come il corteo gioioso che accompagna l’annuncio di Gesù: Dio è qui, è con noi, coinvolto prima nelle piaghe dei dieci lebbrosi, e poi nello stupore dell’unico che torna cantando.
Mentre vanno sono guariti… i dieci lebbrosi si sono messi in cammino ancora malati, ed è il viaggio ad essere guaritore, il primo passo, la terra di mezzo dove la speranza diventa più potente della lebbra, spalanca orizzonti e porta via dalla vita immobile.
Il verbo all’imperfetto (mentre andavano) narra di una azione continuativa, lenta, progressiva; passo dopo passo, un piede dietro l’altro, a poco a poco. Guarigione paziente come la strada.
Al samaritano che ritorna Gesù dice: La tua fede ti ha salvato! Anche gli altri nove hanno avuto fede nella parole di Gesù, si sono messi in strada per un anticipo di fiducia. Dove sta la differenza?
Il lebbroso di Samaria non va dai sacerdoti perché ha capito che la salvezza non deriva da norme e leggi, ma dal rapporto personale con lui, Gesù di Nazaret. È salvo perché torna alla sorgente, trova la fonte e vi si immerge come in un lago.
Non gli basta la guarigione, lui ha bisogno di salvezza, che è più della salute, più della felicità. Altro è essere guariti, altro essere salvati: nella guarigione si chiudono le piaghe, nella salvezza si apre la sorgente, entri in Dio e Dio entra in te, raggiungi il cuore profondo dell’essere, l’unità di ogni tua parte. Ed è come unificare i frammenti, raggiungere non i doni, ma il Donatore, il suo oceano di luce.
L’unico lebbroso ‘salvato’ rifà a ritroso la strada guaritrice, ed è come se guarisse due volte, e alla fine trova lo stupore di un Dio che ha i piedi anche lui nella polvere delle nostre strade, e gli occhi sulle nostre piaghe.
Gesù si lascia sfuggire una parola di sorpresa: Non si è trovato nessuno che tornasse a rendere gloria a Dio? Sulla bilancia del Signore ciò che pesa (l’etimologia di ‘gloria’ ricorda il termine ‘peso’) viene da altro, Dio non è la gloria di se stesso: “gloria di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo). E chi è più vivente di questo piccolo uomo di Samaria? Il doppiamente escluso che si ritrova guarito, che torna gridando di gioia, ringraziando “a voce grande” dice Luca, danzando nella polvere della strada, libero come il vento?
Come usciremo da questo vangelo, dalla eucaristia di domenica prossima? Io voglio uscire aggrappato, come un samaritano dalla pelle di primavera, a un ‘grazie’, troppe volte taciuto, troppe volte perduto.
Aggrappato, come un uomo molte volte guarito, alla manciata di polvere fragile che è la mia carne, ma dove respira il respiro di Dio, e la sua cura.

 

Fb 25 settembre

Nessun miracolo vale il brusìo dei poveri

La storia del ricco e del povero Lazzaro ini­zia con il tono di una favola, e si snoda con il sapore di un a­pologo morale: c’è uno che si gode la vita, al quale ben pre­sto la vita stessa presenta il conto.

Il cuore della parabo­la sta nella pa­rola posta sulla bocca di A­bramo: ‘abisso’, un grande abisso è stabilito tra noi e voi.

Questo baratro separava i due personaggi già in terra: uno affamato e l’altro sazio, uno in salute e l’altro coperto di piaghe. Il ricco banchetta e spreca, Lazzaro guarda con occhi tristi e affamati, a gara con i cani, se sotto la tavola è caduta una briciola.

Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Ma perché il ricco è condannato nell’abisso di fuoco? Di quale peccato si è macchiato? Per lui Lazzaro semplicemente non c’era, non esisteva, era un nulla. Doveva scavalcarlo sulla soglia ogni volta che entrava nella sua villa, ma neppure lo vedeva! Senza fargli del male, lo annientava.

Gesù non denuncia una mancanza o una qualche trasgressione ai precetti. Mette in evidenza il nodo di fondo: un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo, anche se non trasgredisce nessuna legge.

Gesù crea una storia, e mentre racconta prima di tutto vede una realtà profondamente malata, da dove sale uno stridore, un conflitto, un orrore che avvolge tutto. E che ci fa provare vergogna, perché il vero contrario dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza per cui l’altro neppure esiste, è solo un’ombra fra i cani. Lazzaro è così vicino da inciampar­ci, ma il ricco neppure lo vede.

Un mondo così, dove uno vive da re e uno da rifiuto, è quello sognato da Dio?

Il male più grande che noi possiamo fare è di non fare il bene. Allora ca­piamo che l’eternità è già iniziata ora, che l’inferno è solo il prolungamento delle nostre scelte.

Padre Abramo, mandalo dai miei fratelli perché li ammonisca, ho paura per loro! Ma non serve che un morto ritorni: non la morte ammaestra, ma la vita stessa. Chi non si è posto il problema davanti al mistero magnifico e dolente che è la vita, non se lo porrà davanti al mistero ben più piccolo che è la morte. Non è la morte che converte, ma la vita vissuta nel bene, perché non c’è miracolo così grande che valga il brusìo dei poveri. 

Nella parabola Dio non è mai nominato, eppure era presente, vicino al suo amico Lazzaro, pronto a contargli una ad una ogni briciola ricevuta, e a custodirla per sempre. Egli non vive in casa del ric­co egoista; vive con il piccolo, lo straniero, il più piagato. È lì dove un uomo non ha at­torno nessuno, se non dei cani. Lì dove io ho pau­ra di finire.

La terra è piena di Lazza­ri. E se Gesù dà al povero il nome del suo amico Lazzaro, ogni povero abbia da ora, anche per me, un no­me d’amico.

 

Avvenire XXVI C Luca 16,19-31

Storia di un ricco, di un mendicante e di un ‘grande abisso ’ scavato tra le persone. Che cosa scava fossati tra noi e ci separa? Come si scavalcano? Storia da cui emerge il principio etico e morale decisivo: prendersi cura dell’umano contro il disumano.

Primo tempo: due protagonisti che si incrociano e non si parlano, uno è vestito di piaghe, l’altro di porpora; uno vive come un nababbo, in una casa lussuosa, l’altro è malato, abita la strada, disputa qualche briciola ai cani. È questo il mondo sognato da Dio per i suoi figli?

Un Dio che non è mai nominato nella parabola, eppure è lì: non abita la luce ma le piaghe di un povero; non c’è posto per lui dentro il palazzo, perché Dio non è presente dove è assente il cuore. Forse il ricco è perfino un devoto e prega: “ o Dio tendi l’orecchio alla mia supplica” , mentre è sordo al lamento del povero. Lo scavalca ogni giorno come si fa con una pozzanghera. Di fermarsi, di toccarlo neppure l’idea: il povero è invisibile a chi ha perduto gli occhi del cuore. Quanti invisibili nelle nostre città, nei nostri paesi! Attenzione agli invisibili, vi si rifugia l’eterno.

Il ricco non danneggia Lazzaro, non gli fa del male. Fa qualcosa di peggio: non lo fa esistere, lo riduce a un rifiuto, a un nulla. Nel suo cuore l’ha ucciso. “Il vero nemico della fede è il narcisismo, non l’ateismo” (K. Doria). Per Narciso nessuno esiste.

Invece un samaritano che era in viaggio, lo vide, fu mosso a pietà, scese da cavallo, si chinò su quell’uomo mezzo morto. Vedere, commuoversi, scendere, toccare, verbi umanissimi, i primi affinché la nostra terra sia abitata non dalla ferocia ma dalla tenerezza. Chi non accoglie l’altro, in realtà isola se stesso, è lui la prima vittima del “grande abisso” , dell’esclusione.

Secondo tempo: il povero e il ricco muoiono, e la parabola li colloca agli antipodi, come già era sulla terra. “Ti prego, padre Abramo, manda Lazzaro con una goccia d’acqua sulla punta del dito. Una gocciolina per varcare l’abisso.

Che ti costa, padre Abramo, un piccolo miracolo! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è il ritorno di un morto che convertirà qualcuno, è la vita e i viventi. Non sono i miracoli a cambiare la nostra traiettoria, non apparizioni o segni, la terra è già piena di miracoli, piena di profeti: hanno i profeti, ascoltino quelli; hanno il Vangelo, lo ascoltino! Di più ancora: la terra è piena di poveri Lazzari, li ascoltino, li guardino, li tocchino. “Il primo miracolo è accorgerci che l’altro esiste” (S. Weil). Non c’è evento soprannaturale che valga il grido dei poveri. O il loro silenzio.

La cura delle creature è la sola misura dell’eternità.

: chi non ama è omicida (1 Gv).

non distogliere il cuore da chi è a terra.

toccarlo, fa ribrezzo quel mucchietto magro di piaghe e stracci.

Tre gesti sono assenti dalla sua storia: vedere, fermarsi, toccare. Tre verbi umanissimi, le prime tre azioni del Buon Samaritano.

La seconda parte della parabola.

Forse ora il ricco comincia a capire: il senso della vita è avvicinare, sconfinare, passare porte, abbattere distanze tra le persone.

La parabola racconta un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo. Un mondo così, dove uno vive da nababbo e uno da rifiuto, è quello sognato da Dio? E’ umano che una creatura sia ridotta in condizioni disumane per sopravvivere, come un cane, come una bestiolina?

La cura delle creature è la sola misura dell’eternità.

E parla:

Cosa ha fatto

Il ricco non odia il povero Lazzaro, non gli fa del male. Verso di lui non fa nulla:

Non lo ha fatto esistere. L’ha ridotto a un rifiuto, a un nulla. Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’uomo, un mucchietto d’immondizia fra i cani. Nel suo cuore l’ha ucciso.

Che cosa risolve una goccia d’acqua sulla punta del dito? Non spegne i fuochi, non estingue l’arsura della sete, ma…

Il vangelo non vuole minacciare, ma ci avverte che il rischio di fallire la vita la vita è reale. Ma è reale anche la possibilità di un mondo migliore.

L’inferno è il prolungamento delle voragini che abbiamo scavato in vita.

Padre, una goccia d’acqua sopra l’abisso!

Che cosa risolve una goccia d’acqua sulla punta del dito? Non spegne i fuochi, non estingue l’arsura della sete, ma… attraversa l’abisso. Forse ora il ricco comincia a capire:

Non è la morte o la punizione che ammaestra, ma la vita reale, ascoltino quella.

Una parabola dura e dolce, con la morte a fare da spartiacque tra due scene: nella prima il ricco e il povero sono contrapposti in un confronto impietoso; nella seconda, si intreccia, sopra il grande abisso, un dialogo mirabile tra il ricco e il padre Abramo.

Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Una domanda si impone con forza a questo punto: perché il ricco è condannato nell’abisso di fuoco? Di quale peccato si è macchiato?

Gesù non denuncia una mancanza specifica o qualche trasgressione di comandamenti o precetti. Mette in evidenza il nodo di fondo: un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo, anche se non trasgredisce nessuna legge.

Prima ancora che sui comandamenti, lo sguardo di Gesù si posa su di una realtà profondamente malata, da dove sale uno stridore, un conflitto, un orrore che avvolge tutta la scena. E che ci fa provare vergogna.

Di quale peccato si tratta? Se mi chiudo nel mio io, anche adorno di tutte le virtù, ma non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi dischiudo agli altri, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato” (Giovanni Vannucci).

Doveva scavalcarlo sulla soglia ogni volta che entrava o usciva dalla sua villa, e, impassibile, neppure lo vedeva! Non gli ha fatto del male, no. Semplicemente Lazzaro non c’era, non esisteva, lo ha ridotto a un rifiuto, a nulla.

Ora Lazzaro è portato in alto, accolto nel grembo di un Abramo più materno che paterno, che proclama il diritto di tutti i poveri ad essere trattati come figli. Ma “figlio” è chiamato anche il ricco, nonostante l’inferno, anche lui figlio per sempre di un Abramo dalla dolcezza di madre.

Padre, una goccia d’acqua sopra l’abisso! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è la morte che converte, ma la vita.

Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la voce e la carne di un Dio che si identifica con loro (ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, è a me che l’avete fatto). Si tratta allora di prendere, come Gesù, il punto di vista dei poveri, di “scegliere sempre l’umano contro il disumano” (David Turoldo), con quel suo sguardo amoroso e forte davanti al quale ogni legge diventa piccina, perfino quella di Mosè (R. Virgili).

Commento Ermes fb 29 settembre

Il ricco che isola se stesso

C’era una volta un ricco… La parabola ini­zia come una favola dal sapore di un apologo morale: c’è uno – senza nome – che si gode la vita, un superficiale spensierato al quale ben presto però la vita stessa presenta il conto. Il povero invece ha il nome dell’amico di Gesù, Lazzaro. Felice anomalia che lascia percepire i battiti del cuore di Gesù.

Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Perché il ricco è condannato? Per il lusso, gli abiti firmati, gli eccessi di gola? Il ricco non ha neppure infierito sul povero, non lo ha umiliato, forse era perfino uno che osservava tutti e dieci i comandamenti.

No. Il suo peccato è l’indifferenza: non un gesto, una briciola, una parola. Lazzaro gli è così vicino da inciamparci, ma il ricco neppure lo vede. E’ questo lo sbaglio della sua vita. L’altro neppure esiste, Lazzaro è solo un’ombra sulla soglia, che lui non vede e non tocca. Non lo riguarda, perché Lazzaro non c’è.

Il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza! Nessuno ha il diritto all’indifferenza, a non fare nulla per il povero, a ridurre l’uomo a un’ombra fra i cani!

Giovanni chiama questo, senza giri di parole, omicidio: chi non ama è omicida (1 Gv 3,15).

Anche se non è mai nominato, si intuisce la presenza di Dio, che conterà una a una tutte le briciole date a Lazzaro, con quello sguardo così attento che scruta perfino gli abiti del povero e del ricco: vede l’uomo vestito di porpora, vede un non-uomo vestito di piaghe. Guarda come mangia, dove dorme; guarda i cani pietosi sulla porta. Tutto porterà con sé nell’eterno. È a questo Dio fedele e memore che possiamo affidare tutti i poveri della terra. E tutti i ricchi.

Perché l’eternità inizia nel tempo e ci mostra che l’inferno è già qui, nutrito dalle nostre scelte.

Tre gesti sono assenti nel ricco: vedere, fermarsi, toccare. Mancando questi, tra le persone si scavano abissi e si innalzano muri. Ma chi erige muri, isola se stesso.

Ti prego, manda Lazzaro dai miei fratelli..” No: non è la morte che converte, ma la vita stessa! Chi non si è posto il problema davanti al mistero grande che è la vita, non se lo porrà nemmeno davanti a quello ben più piccolo che è la morte.

Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, corri da lui. Il Dio che lasci è meno sicuro del Dio che trovi” (San Vincenzo de Lellis). La terra è piena di Lazzari. E Dio è nel piccolo, nel piagato. È lì dove un uomo ha paura e non ha nessuno attorno a sé se non dei cani.

Dio abita una luce inaccessibile, dice Paolo (1 Tim 6,16).

Dio abita nelle piaghe del povero, dice Luca.

E dalle piaghe alla luce corre l’infinito sentiero del Vangelo e della storia.

Con queste domande iniziamo chiedendo perdono per l’attenzione negata, il pane negato, il cuore negato.

Signore, una cosa vorrei essere: mai indifferente, risveglia il mio profondo, Kyrie eleison

Signore, non ho gli occhi del cuore, occhi che sappiano commuoversi, aprili in me, ti prego, Kyrie eleison

Signore, se il mio mondo finisce sulla soglia di casa mia, dammi il senso della casa comune, della casa grande che è la terra, Kyrie eleison

OMELIA

C’era una volta un uomo ricco…

avrebbe contato una ad una tutte le briciole date a Lazzaro; avrebbe inciso una per una tutte le parole rivoltegli, con quel suo sguardo così attento, che vede e ricorda perfino come sono vestiti il povero e il ricco, uno vestito di porpora, l’altro vestito di piaghe. Guarda cosa mangia il suo amico Lazzaro e dove dorme; guarda i cani sulla porta e le carezze pietose della loro lingua. E non dimentica.

Il ricco è senza nome perché spesso il denaro cambia l’identità stessa di una persona, ne domina la coscienza, ispira i pensieri.

Il povero, invece, ha un nome, anzi ha il nome dell’amico di Gesù, Lazzaro di Betania. Luca non usa mai nomi propri nelle parabole, solo qui fa eccezione. Allora è importante quel nome, è una felice anomalia, una feritoia che lascia intravedere per chi batteva d’amicizia il cuore di Gesù, per i poveri e i sofferenti.

Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Perché il ricco è condannato? Per il lusso, gli abiti firmati, gli eccessi della gola? No. Il suo peccato è l’indifferenza totale verso il povero: non uno sguardo, non una briciola, non una parola. Il contrario dell’amore non è l’odio, l’odio è una variante impazzita dell’amore, ma l’indifferenza, per cui l’altro neppure esiste, e Lazzaro è lasciato fra i cani.

Questo è l’abisso grande, scavato in vita, la separazione che Abramo vede e patisce.

semplicemente non fa nulla per lui, il più grande peccato dei cristiani è il nulla, il male è non fare il bene, il peccato di omissione si diceva una volta.

Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’uomo, un’ombra fra i cani, di ometterlo, dimenticarlo, metterlo fuori. Il peccato del ricco è non avere gli occhi del cuore. Lazzaro è così vicino da inciampargli addosso e non lo vede; magari

Chi non sa accogliere, è lui che si mette fuori dalla comunione. Questo è il comportamento che san Giovanni chiama, senza giri di parole, omicidio: chi non ama è omicida. Tocchiamo qui uno dei cuori del vangelo, il cui battito arriva fino al giorno del giudizio finale :

Avevo fame, avevo freddo, ero solo, abbandonato, l’ultimo, e tu hai spezzato il pane, hai asciugato una lacrima, mi hai regalato un sorso di vita. E tu invece non hai fatto niente. L’indifferenza è la linfa del male.

È tempo di capovolgere i nostri esami di coscienza negativi e domandarci in positivo: a chi oggi ho fatto del bene? Chi ho aiutato?

E cercare di colmare l’abisso di ingiustizia che ci separa. Il povero non esiste per permettere a noi ricchi di fare buone azioni, per meritarci il paradiso! È un principe del Regno di Dio. Che inizia lì, da lui.

Morì il povero e morì anche il ricco“. Il povero è portato in alto; il ricco è sepolto in basso: ai due estremi della società in questa vita, ai due estremi dopo. Tra noi e voi è posto un grande abisso, dice Abramo, perdura la grande separazione già creata in vita.

Perché l’eternità inizia nel tempo, si insinua nell’istante, mostrando che l’inferno è già qui, generato da noi oggi, nutrito in noi dalle nostre scelte senza cuore:

L’inferno è solo il prolungamento degli abissi che abbiamo scavato.

Il peccato dell’uomo ricco è di essere un morto-vivo, uno che ha occhi e non vede, uno che ha orecchie e non ascolta, uno che ha molto denaro e non ne condivide un centesimo, uno che sfama molti cani ogni giorno e non sa sfamare per una volta un povero. È già morto, lo dice san Giovanni nella Prima Lettera: Chi non ama rimane nella morte. Emana morte.

Il miracolo della goccia d’acqua è di diventare una corda tesa tra due abissi, di creare una minima comunione.

E poi, la seconda richiesta: Manda Lazzaro perché avvisi i miei cinque fratelli! E Abramo risponde: “Neanche se vedono un morto tornare si convertiranno!”

Non è la morte che converte, non è la morte che ammaestra ma la vita stessa. Chi non si è posto il problema di Dio, e dei fratelli davanti al mistero grande e dolente che è la vita, non se lo porrà nemmeno davanti al mistero ben più piccolo che è la morte.

Nella loro fame è Dio che ha fame, nelle loro piaghe è Dio che è piagato, e poi anche consolato dai tuoi gesti d’amicizia.

Non c’è preghiera a Dio che conti più della preghiera di un povero a te: “Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, corri da lui. Il Dio che lasci è meno sicuro del Dio che trovi” (San Vincenzo de Paoli).

Questa è la Nuova Alleanza, follia e scandalo per i farisei di sempre. Dio non è nel ricco.

E’ lì dove un uomo non ha attorno a sé più nessuno, se non dei cani.

E’ là da dove io fuggo, lì dove io non vorrei mai trovarmi.

Dalle piaghe alla luce va il suo cammino;

comincia dalla cura delle piaghe del povero e sfocia in un cuore di luce.

PREGHIERA ALLA COMUNIONE

Vuoi dare onore al corpo di Cristo?

Dopo averlo onorato in chiesa,

non disprezzarlo quando è coperto di stracci

fuori della porta della chiesa.

Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo»

ha detto anche: «Questa è la mia fame».

Che importa che la mensa del Signore

scintilli di calici d’oro mentre lui muore di fame?

Che senso ha offrirgli porpora e oro

e rifiutargli un bicchiere d’acqua?

Rendi bella la casa del Signore

ma non disprezzare il mendicante,

perché il tempio di carne di tuo fratello

è più prezioso del tempio di pietre!

(Giovanni Crisostomo)

E il grande Basilio Magno rivolto ai cristiani di Cappadocia:

Il pane che si spreca sulla tua tavola, è pane sottratto all’affamato;

a chi è scalzo spettano le scarpe allineate nei tuoi armadi;

a chi è nudo spettano i vestiti che le tarme consumano nei tuoi bauli;

è del povero il denaro che si svaluta nei tuoi forzieri, o nelle banche.

XXVI – Anno C 19

Lc 16, 19-31

Basilio Magno rivolto ai cristiani di Cappadocia:

Il pane che si spreca sulla tua tavola, è pane sottratto all’affamato;

a chi è scalzo spettano le scarpe allineate nei tuoi armadi;

a chi è nudo spettano i vestiti che le tarme mangiano nei tuoi bauli;

è del povero il denaro che si svaluta nella cassaforte delle banche.

Dalla nostra indifferenza, liberaci Signore

Dal non saper più piangere, Liberaci Signore

Dal non saper condividere, liberaci Signore

OMELIA

Una parabola dura e dolce, con la morte a fare da spartiacque tra due scene.

Prima scena: C’era una volta un uomo ricco… e uno povero. In questo avvio, con il sapore di una favola, c’è già il messaggio: il mondo è spaccato, ci sono due mondi e in mezzo una voragine. È così che la vogliamo questa terra? Con uno avvolto di porpora, uno vestito di piaghe; uno che si rimpinza ogni giorno e spreca; uno con occhi tristi e affamati, a gara con i cani, a vedere se è caduta a terra qualche briciola? Ricordo una struggente canzone di Branduardi con due versi che dicono:

e si mangiava come due fratelli, una briciola l’uomo ed una il cane.

Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Una domanda si impone con forza a questo punto: perché il ricco è condannato nell’abisso di fuoco? Per il lusso, gli abiti firmati, gli eccessi della gola? No. Il suo peccato è l’indifferenza totale verso il povero: non uno sguardo, non una briciola, non una parola.

Lazzaro è così vicino, sulla soglia di casa, che inciampa in quel fagotto e il ricco neppure lo vede; magari va e torna dal tempio tutti i sabati, canticchia i salmi e non lo vede, legge Mosè e i profeti, e non lo vede.

Manca però l’essenziale. Mancano tre verbi: vedere, fermarsi, toccare. Tre verbi umanissimi, i primi tre gesti del Buon Samaritano. Mancano, e allora tra le persone si scavano baratri, si innalzano muri.

Questo è il comportamento che san Giovanni chiama, senza giri di parole, omicidio: chi non ama è omicida.

Lo sguardo di Gesù non si posa sui comandamenti e le regole, ma sulla evidenza della realtà, che è malata, da cui sale un disagio, uno stridore, un conflitto, un orrore che avvolge tutta la scena. E che ci fa provare vergogna.

La realtà viene prima della legge, la legge è piccola cosa davanti al cuore di Dio.

Di quale peccato si è macchiato il ricco? Che male ha fatto al povero Lazzaro?

Chiaro:

Il male è questo: “Se mi chiudo nel mio io, anche adorno di tutte le virtù, ma non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi dischiudo agli altri, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato” (Giovanni Vannucci).

È tempo di smetterla con i nostri esami di coscienza negativi a sfogliare la margheritina delle regolette, e domandarci invece nella lingua del vangelo: non che male ho fatto? Ma che bene ho fatto? Chi ho aiutato, ieri, oggi, adesso?

Prendersi cura delle creature è la sola misura dell’eternità.

Seconda scena. Morì il povero e fu portato in alto. Morì anche il ricco e fu sepolto nell’inferno. Lazzaro è portato sulle mani degli angeli, accolto nel grembo di un Abramo più materno che paterno,

Questa parola materna: grembo, seno, è usata per proclamare il diritto di tutti i poveri ad essere trattati come figli. Ma “figlio” è chiamato anche il ricco, anche lui con la dignità di figlio per sempre, nonostante l’inferno, figlio di un Abramo dalla dolcezza di madre.

Tra noi e voi è posto un grande abisso, dice Abramo, rimane la grande separazione già creata in vita.

Perché l’eternità inizia qui, l’inferno è già qui, nutrito dalle nostre scelte senza cuore:

Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la voce e la carne di un Dio, che sono i principi del Regno. Prendete il loro punto di vista come faceva Gesù, con quel suo sguardo amoroso e forte davanti al quale ogni legge diventa piccina, e piccina è perfino quella di Mosè (R. Virgili).

Che ti costa, padre Abramo, un piccolo miracolo! Ma non sono i miracoli a cambiare la nostra storia, non sono le apparizioni a cambiare la vita, la terra è già piena di miracoli, la terra è già piena di profeti: hanno i Profeti, ascoltino quelli, hanno il Vangelo, ascoltino! Di più ancora: la terra è piena di poveri Lazzari, li ascoltino, li guardino, li tocchino. Non c’è miracolo che valga il grido dei poveri.

Il primo miracolo è accorgerci che l’altro esiste (S. Weil).

nelle loro piaghe è Dio che è piagato,

ogni volta che avete fame sono io che ne sento i morsi nel ventre;

ogni volta che vi trattano con dolcezza sono io che ne sento la carezza; ogni volta che avete fatto del bene a uno dei miei fratelli più piccoli è a me che l’avete fatto.

Se l’altro ha sete, e tu gli dai da bere aceto o disprezzo, invece è il Golgota, il Calvario del mondo, con te protagonista del male.

Due giorni fa leggevamo una lettera di San Vincenzo de Paoli che dice: “Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, corri da lui. Il Dio che lasci è meno sicuro del Dio che trovi” . Il Dio che lasci in chiesa è meno sicuro del Dio che trovi nel povero Lazzaro.

PREGHIERA ALLA COMUNIONE

Vuoi dare onore al corpo di Cristo?

Dopo averlo onorato in chiesa,

non disprezzarlo quando è coperto di stracci

fuori della porta della chiesa.

Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo»

ha detto anche: «Questa è la mia fame».

Che importa che la mensa del Signore

scintilli di calici d’oro mentre lui muore di fame?

Che senso ha offrirgli porpora e oro

e rifiutargli un bicchiere d’acqua?

Rendi bella la casa del Signore

ma non disprezzare il mendicante,

perché il tempio di carne di tuo fratello

è più prezioso del tempio di pietre!

(Giovanni Crisostomo)

XXVI – Anno C

Lc 16, 19-31

Basilio Magno rivolto ai cristiani di Cappadocia:

Il pane che si spreca sulla tua tavola, è pane sottratto all’affamato;

a chi è scalzo spettano le scarpe allineate nei tuoi armadi;

a chi è nudo spettano i vestiti che le tarme mangiano nei tuoi bauli;

è del povero il denaro che si svaluta nella cassaforte delle banche.

Dalla nostra indifferenza, liberaci Signore

Dal non saper più piangere, Liberaci Signore

Dal non saper condividere, liberaci Signore

OMELIA

Una parabola dura e dolce, con la morte a fare da spartiacque tra due scene.

Prima scena: C’era una volta un uomo ricco… e uno povero. In questo avvio, con il sapore di una favola, c’è già il messaggio: il mondo è spaccato, ci sono due mondi e in mezzo una voragine. È così che la vogliamo questa terra? Con uno avvolto di porpora, uno vestito di piaghe; uno che si rimpinza ogni giorno e spreca; uno con occhi tristi e affamati, a gara con i cani, a vedere se è caduta a terra qualche briciola. Ricordo una struggente canzone di Branduardi con due versi che dicono:

e si mangiava come due fratelli, una briciola l’uomo ed una il cane.

Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell’inferno. Una domanda si impone con forza a questo punto: perché il ricco è condannato nell’abisso di fuoco? Per il lusso, gli abiti firmati, gli eccessi della gola? No. Il suo peccato è l’indifferenza totale verso il povero: non uno sguardo, non una briciola, non una parola.

Lazzaro è così vicino, sulla soglia di casa, che inciampa in quel fagotto e il ricco neppure lo vede; magari va e torna dal tempio tutti i sabati, canticchia i salmi e non lo vede, legge Mosè e i profeti, e non lo vede.

Manca però l’essenziale. Mancano tre verbi: vedere, fermarsi, toccare. Tre verbi umanissimi, i primi tre gesti del Buon Samaritano. Mancano, e allora tra le persone si scavano baratri, si innalzano muri.

Questo è il comportamento che san Giovanni chiama, senza giri di parole, omicidio: chi non ama è omicida.

La parabola racconta un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo. Un mondo così, dove uno vive da dio e uno da rifiuto, è quello sognato da Dio? E’ umano che una creatura sia ridotta in condizioni disumane per sopravvivere, come un cane, come una bestiolina?

Lo sguardo di Gesù non si posa sui comandamenti e le regole, ma sulla evidenza della realtà, che è malata, da cui sale un disagio, uno stridore, un conflitto, un orrore che avvolge tutta la scena. E che ci fa provare vergogna.

La realtà viene prima della legge, la legge è piccola cosa davanti al cuore di Dio.

Di quale peccato si è macchiato il ricco? Che male ha fatto al povero Lazzaro?

Chiaro: non lo ha fatto esistere. L’ha ridotto a un rifiuto, a un nulla, una carta per terra. Nel suo cuore l’ha ucciso. Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’uomo, un’ombra fra i cani,

Quanti invisibili delle nostre città, e anche dei paesi! Attenzione agli invisibili, vi si rifugia l’eterno.

Il male è questo: “Se mi chiudo nel mio io, anche adorno di tutte le virtù, ma non partecipo all’esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi dischiudo agli altri, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato” (Giovanni Vannucci).

È tempo di smetterla con i nostri esami di coscienza negativi a sfogliare la margheritina delle regolette, e domandarci invece nella lingua del vangelo: non che male ho fatto? Ma che bene ho fatto? Chi ho aiutato, ieri, oggi, adesso?

Prendersi cura delle creature è la sola misura dell’eternità.

Seconda scena. Morì il povero e fu portato in alto. Morì anche il ricco e fu sepolto nell’inferno. Lazzaro è portato sulle mani degli angeli, accolto nel grembo di un Abramo più materno che paterno,

Questa parola materna: grembo, seno, è usata per proclamare il diritto di tutti i poveri ad essere trattati come figli. Ma “figlio” è chiamato anche il ricco, anche lui con la dignità di figlio per sempre, nonostante l’inferno, figlio di un Abramo dalla dolcezza di madre.

Tra noi e voi è posto un grande abisso, dice Abramo, rimane la grande separazione già creata in vita.

Perché l’eternità inizia qui, l’inferno è già qui, nutrito dalle nostre scelte senza cuore:

L’inferno è il prolungamento delle voragini che abbiamo scavato in vita.

Padre, una goccia d’acqua sopra l’abisso!

Che cosa risolve una goccia d’acqua sulla punta del dito? Non spegne i fuochi, non estingue l’arsura della sete, ma… attraversa l’abisso. Forse ora il ricco comincia a capire: il senso della vita è avvicinare, sconfinare, passare porte, abbattere distanze tra le persone.

Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è un morto che converte, ma la vita. Non è la morte o la punizione che ammaestra, ma la vita reale, ascoltino quella.

Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la voce e la carne di un Dio, che sono i principi del Regno. Prendete il loro punto di vista come faceva Gesù, con quel suo sguardo amoroso e forte davanti al quale ogni legge diventa piccina, e piccina è perfino quella di Mosè (R. Virgili).

Che ti costa, padre Abramo, un piccolo miracolo! Ma non sono i miracoli a cambiare la nostra storia, non sono le apparizioni a cambiare la vita, la terra è già piena di miracoli, la terra è già piena di profeti: hanno i Profeti, ascoltino quelli, hanno il Vangelo, ascoltino! Di più ancora: la terra è piena di poveri Lazzari, li ascoltino, li guardino, li tocchino. Non c’è miracolo che valga il grido dei poveri.

Il primo miracolo è accorgerci che l’altro esiste (S. Weil).

nelle loro piaghe è Dio che è piagato,

ogni volta che avete fame sono io che ne sento i morsi e l’ululato nel ventre;

ogni volta che vi trattano con dolcezza sono io che ne sento la carezza; ogni volta che avete fatto del bene a uno dei miei fratelli più piccoli è a me che l’avete fatto.

Se l’altro ha sete, e tu gli dai da bere aceto o disprezzo, invece è il Golgota, il Calvario del mondo, con te protagonista del male.

Due giorni fa leggevamo una lettera di San Vincenzo de Paoli che dice: “Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, corri da lui. Il Dio che lasci è meno sicuro del Dio che trovi” (San Vincenzo de Paoli). Il Dio che laasci in chiesa è meno sicuro del Dio che trovi nel povero Lazzaro.

PREGHIERA ALLA COMUNIONE

Vuoi dare onore al corpo di Cristo?

Dopo averlo onorato in chiesa,

non disprezzarlo quando è coperto di stracci

fuori della porta della chiesa.

Colui che ha detto: «Questo è il mio corpo»

ha detto anche: «Questa è la mia fame».

Che importa che la mensa del Signore

scintilli di calici d’oro mentre lui muore di fame?

Che senso ha offrirgli porpora e oro

e rifiutargli un bicchiere d’acqua?

Rendi bella la casa del Signore

ma non disprezzare il mendicante,

perché il tempio di carne di tuo fratello

è più prezioso del tempio di pietre!

(Giovanni Crisostomo)

Fb XIX C Non temere, piccolo gregge (di p. Ermes Ronchi)
Lc 12,32-48

Perché il vero tesoro sono le persone, non le cose.
La parabola del padrone e dei servi è scandita in tre momenti. Tutto parte con l’assenza del signore, che se ne va e affida la casa ai suoi servi. Così Dio ha consegnato a noi il creato, come fece con Adamo. Ci ha affidato la casa comune che è il mondo, perché ne siamo custodi. E se ne va.
Dio, il grande assente, che crea e poi si ritira. La sua assenza ci pesa, ma è la vera garanzia della nostra libertà. Se fosse qui, visibile, inevitabile, incombente, chi si muoverebbe più? Un Dio che si impone sarà anche obbedito, ma non sarà amato da liberi figli.
Secondo momento: nella notte i servi vegliano e attendono il padrone; hanno cinti i fianchi, in trepidante attesa. Hanno le lucerne accese, perché è notte.
Anche quando è notte e la fatica è tanta, quando la paura preme sul cuore, tu continua a lavorare per la famiglia, la comunità, il tuo Paese, la madre terra. Con quel che hai, come puoi, meglio che puoi. Vale di più accendere una piccola lampada nella notte che imprecare contro tutto il buio circostante.
Tenetevi pronti, perché anche per quei servi, poi, arriva il terzo momento. E se giungendo prima dell’alba, il padrone li troverà svegli, beati loro: egli passerà a servirli. Perché è rimasto incantato.
Beati noi, se il nostro Signore si intenerisce di fronte al nostro desiderio di lui. Beati noi perché lo vedremo faccia a faccia, incantato, proclamare: “non temere, piccolo gregge”.
Che i servi veglino fino all’alba, non è richiesto; si attende così solo se si ama, nella speranza di un abbraccio: «dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore». Un padrone-tesoro verso cui punta dritta la freccia del cuore, come nel Cantico: dormo, ma il mio cuore veglia (5,2).
Per quel servo che invece ha posto il tesoro nelle cose, l’incontro con il suo signore sarà la dolorosa scoperta di avere mortificato se stesso nel momento in cui mortificava gli altri; la triste sorpresa di avere fra le mani solo cocci di una vita sbagliata. E non un tesoro che spera nel prossimo, motore della vita.
Siamo vivi se coltiviamo tesori di passione per il bene possibile, per il sorriso possibile, per l’amore possibile, per un mondo migliore possibile. La nostra vita è viva quando tende ad un tesoro per cui valga la pena mettersi in viaggio, altrimenti il cuore deperisce.
Mio tesoro è il Dio pastore di costellazioni e di cuori, che viene, chiude le porte della notte e apre quelle della luce. Ci farà mettere a tavola e passerà a servirci, le mani colme di doni.
Mio tesoro è un padrone che non nutre sospetti, che mi affida la casa, le chiavi, le persone. Che viene e si pone a servizio della mia felicità! Dio che così mi conquista, mi commuove, e ad esso rispondo.
Dov’è il tuo tesoro proprio lì è il tuo cuore, e non mi posso sbagliare.

 

Avvenire XIX C Luca 12 32-48

Il fondale unico su cui si stagliano le tre parabole (i servi che attendono il loro signore, l’amministratore messo a capo del personale, il padrone di casa che monta la guardia) è la notte, simbolo della fatica del vivere, della cronaca amara dei giorni, di tutte le paure che escono dal buio dell’anima in ansia di luce.
È dentro la notte, nel suo lungo silenzio, che spesso capiamo che cosa è essenziale nella nostra vita. Nella notte diventiamo credenti, cercatori di senso, rabdomanti della luce.
L’altro ordito su cui sono intesse le parabole è il termine “servo”, l’autodefinizione più sconcertante che ha dato di se stesso. I servi di casa, ma più ancora un signore che si fa servitore dei suoi dipendenti, mostrano che la chiave per entrare nel regno è il servizio. L’idea-forza del mondo nuovo è nel coraggio di prendersi cura. Benché sia notte. Non possiamo neppure cominciare a parlare di etica, tanto meno di Regno di Dio, se non abbiamo provato un sentimento di cura per qualcosa.
Nella notte i servi attendono. Restare svegli fino all’alba, con le vesti da lavoro, le lampade sempre accese, come alla soglia di un nuovo esodo (cf Es 12.11) è “un di più”, un’eccedenza gratuita che ha il potere di incantare il padrone.
E mi sembra di ascoltare in controcanto la sua voce esclamare felice: questi miei figli, capaci ancora di stupirmi! Con un di più, un eccesso, una veglia fino all’alba, un vaso di profumo, un perdono di tutto cuore, gli ultimi due spiccioli gettati nel tesoro, abbracciare il più piccolo, il coraggio di varcare insieme la notte.
Se alla fine della notte lo troverà sveglio. “Se” lo troverà, non è sicuro, perché non di un obbligo si tratta, ma di sorpresa; non dovere ma stupore.
E quello che segue è lo stravolgimento che solo le parabole, la punta più rifinita del linguaggio di Gesù, sanno trasmettere: li farà mettere a tavola, si cingerà le vesti, e passerà a servirli. Il punto commovente, il sublime del racconto è quando accade l’impensabile: il padrone che si fa servitore. “Potenza della metafora, diacona linguistica di Gesù nella scuola del regno” (R. Virgili).
I servi sono signori. E il Signore è servo.
Un’immagine inedita di Dio che solo lui ha osato, il Maestro dell’ultima cena, il Dio capovolto, inginocchiato davanti agli apostoli, i loro piedi nelle sue mani; e poi inchiodato su quel poco di legno che basta per morire.
Mi aveva affidato le chiavi di casa ed era partito, con fiducia totale, senza dubitare, cuore luminoso. Il miracolo della fiducia del mio Signore mi seduce di nuovo: io credo in lui, perché lui crede in me. Questo sarà il solo Signore che io servirò perché è l’unico che si è fatto mio servitore.

 

Fb 31 luglio
Lc 12,13-21
Senza nome, senza abbracci
Un uomo ricco aveva avuto un raccolto abbondante. Quell’anno la sua campagna era stata generosa, ed egli ragionava tra sé: «Come faccio? Ho troppo! Demolirò i miei magazzini e ne ricostruirò di più grandi».
Scrive san Basilio: E poi cosa farai? Demolirai ancora e ancora ricostruirai? Con cura costruire, poi con cura demolire: cosa c’è di più insensato, di più inutile?
Demolire per ricostruire, è la logica delle guerre.
L’uomo senza nome si era avvicinato alla giusta intuizione: ho troppo. Ma poi la sua mente ha preso la strada sbagliata, che punta dritto in seno alla solitudine. Come i due fratelli da cui nasce la parabola, che avviano la contesa, il conflitto sulla base della proprietà. “Dì a mio fratello che divida con me l’eredità”. Gesù si rifiuta di fare l’arbitro, essere fratelli è un’altra cosa.
Un ricco si illude di avere in tasca la felicità, che invece dipende da due cose: non può essere solitaria e ha a che fare con il dono.
Non c’è nessuno attorno a quest’uomo. Nessun nome, nessun volto, nessuno nella casa, nessuno nel cuore. Solo in mezzo al deserto a ripetere ossessivamente un unico aggettivo: mio. Miei i raccolti, miei i magazzini, miei i beni, mia la vita, mia l’anima. Davvero la sua vita dipende dai suoi beni, ruota attorno ad essi.
Stregoneria dell’io, dove nessun altro esiste; nessun affetto che sia sincero.
Si vive così solo per abbracciare la propria solitudine, il denaro si è mangiato il nome e l’anima. Nessuno entra nel suo orizzonte senza aperture, senza brecce e senza abbracci. Con le sue scelte è già morto agli altri, e gli altri per lui.
Stolto, lo chiama Gesù, non perché cattivo, ma perché poco intelligente. Ha investito sul prodotto sbagliato, sul possesso e non sulle persone. Stolto! Questa notte dovrai restituire la tua vita.

Tristezza che Gesù prova per l’uomo della parabola, la cui morte è solo il prolungamento di azioni senza saggezza. Morte che ha già fatto il nido nella sua casa, nel suo cuore indifferente.

 

XVIII DOMENICA – Anno C

La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante: una doppia benedizione secondo la bibbia, eppure tutto è corroso da un tarlo micidiale. Ascolti la parabola e vedi che il fondale di quella storia è vuoto. L’uomo ricco è solo, chiuso nel cerchio murato del suo io, ossessionato dalla logica dell’accumulo, con un solo aggettivo nel suo vocabolario: “mio”, i miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni, la mia vita, anima mia.
Nessun altro personaggio che entri in scena, nessun nome, nessun volto, nessuno nella casa, nessuno alla porta, nessuno nel cuore. Vita desolatamente vuota, dalla quale perfino Dio è assente, sostituito dall’idolo dell’accumulo. Perché il ricco non ha mai abbastanza. Investe in magazzini e granai e non sa giocare al tavolo delle relazioni umane, sola garanzia di felicità. Ecco l’innesco del dramma: la totale solitudine.
L’accumulo è la sua idolatria. E gli idoli alla fine divorano i loro stessi devoti. Ingannandoli: “Anima mia hai molti beni per molti anni, divertiti e goditi la vita”. È forse questo, alla fin fine, l’errore che rovina tutto? Il voler godere la vita? No. Anche per il Vangelo è scontato che la vita umana sia, e non possa che essere un’incessante ricerca di felicità. Ma la sfida della felicità è che non può mai essere solitaria, ed ha sempre a che fare con il dono.
L’uomo ricco è entrato nell’atrofia della vita, non ha più allenato i muscoli del dono e delle relazioni: Stolto, questa notte stessa… Stolto, perché vuoto di volti, vive soltanto un lungo morire Perché il cuore solitario si ammala; isolato, muore. Così si alleva la propria morte. Infatti: questa notte stessa ti sarà richiesta indietro la tua vita…. Essere vivo domani non è un diritto, è un miracolo. Rivedere il sole e i volti cari al mattino, non è né ovvio né dovuto, è un regalo. E che domani i miliardi di cellule del mio corpo siano ancora tutte tra loro connesse, coordinate e solidali è un improbabile prodigio.
E quello che hai accumulato di chi sarà? La domanda ultima, la sola che rimane quando non rimane più niente, suona così: dopo che tu sei passato, dietro di te, nel tuo mondo, è rimasta più vita o meno vita? Unico bene.
La parabola ricorda le semplici, sovversive leggi evangeliche dell’economia, quelle che rovesciano le regole del gioco, e che si possono ridurre a due soltanto: 1. non accumulare; 2. se hai, hai per condividere.
Davanti a Dio noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo condiviso; siamo ricchi di uno, di molti bicchieri di acqua fresca dati; di uno, di cento passi compiuti con chi aveva paura di restare solo; siamo ricchi di un cuore che ha perdonato per sette volte, per settanta volte sette.

 

 

Fb 5 giugno – Pentecoste
Nostra lingua nativa, l’amore

Nei Balcani si racconta che la Bora, vento limpido e freddo, ha il potere di pulire il cervello. Il vento infuocato che quel giorno si abbatté sugli apostoli e su Maria ripulì allo stesso modo il cuore dalle paure svegliando il coraggio di ciascuno.
Potenza dello spirito di Dio che si abbatte gagliardo sul nostro bisogno di scosse, oppure fruscio di brezza leggera che si ode solo con “ le orecchie del cuore” (papa Francesco).
Secondo il vangelo di Giovanni, lo Spirito viene leggero e quieto come un respiro: «Alitò su di loro e disse: ricevete lo Spirito» (Gv 20,22). Nel racconto di Luca, esso irrompe come coraggio che spalanca le porte e, come energia dalle parole di fuoco (Atti 2,2). Nell’esperienza di Paolo, è dono, bellezza, genio diverso per ciascuno (Gal 5,22).
Tre modi per dire che lo Spirito feconda le strade della vita, rompendo gli schemi come forza imprudente, e che il discepolo non dipende dalla storia, ma dal suo vento libero e liberante.
Per la liturgia ambrosiana lo Spirito è “effusione ardente della vita divina”, il debordare di un amore che preme, dilaga, si apre la strada verso il cuore dell’uomo. E’ Dio che effonde vita, che non ha creato l’uomo per reclamarla, ma per risvegliarne la sorgente sommersa.
Effusione ardente: lo Spirito porta in dono il bruciore del cuore ai discepoli di Emmaus, l’alta temperatura dell’anima che si oppone all’apatia del cuore.
E, meraviglia del primo giorno: «com’è che li sentiamo parlare la nostra lingua nativa?» E’ l’amore divino che si rivolge alla parte profonda, nativa, originaria che è in ciascuno, che viene prima di tutte le divisioni di razza, ricchezza, cultura, età.
La lingua nativa di ogni uomo è l’amore. Lo Spirito non solo ricompone la frattura di Babele, ma parla la lingua comune, di festa e di dolore, di stanchezza e di forza, di pace e sogno. La Parola di Dio allora diventa mia lingua, mia passione, mia vita, mio fuoco. Ci fa tutti vento nel Vento.
Nella Messa di Pentecoste, ripeteremo parole tra le più belle e rivoluzionarie della Bibbia: “del tuo Spirito Signore è piena la terra” (sal 103). È piena. Tutta la terra è gravida. Ogni creatura è come incinta. Anche se non è evidente, anche se la terra ci appare ubriaca di ingiustizia, di sangue, di follia.
Eppure Egli è qui. Sentilo entrare dalle porte chiuse; coglilo, attraverso fessure quasi invisibili, suscitare energie. Guardati attorno, ascolta gli abissi del cosmo e il respiro del cuore: la terra è piena di Dio. Cerca la sua bellezza, scova l’amore in ogni amore. Piena ne è la terra! Assapora quel Vento che scompiglia le vite, sollevandole in alto con polvere di cielo, per farci cambiare prospettiva sul mondo e il modo di abitare la vita.

 

Avvenire pentecoste 2022

Lo Spirito Santo, il misterioso cuore del mondo, il vento sugli abissi, l’Amore in ogni amore, è Dio in libertà, un vento che porta pollini dove vuole primavere, che non lascia dormire la polvere, che si abbatte su ogni vecchia Gerusalemme.
Dio in libertà, che non sopporta statistiche, che nella vita e nella Bibbia non segue mai degli schemi. Libero e liberante come lo è il vento, la cosa più libera che ci sia, che alle volte è una brezza leggera, alle volte un uragano che scuote la casa; che è voce di silenzio sottile, ma anche fuoco ardente chiuso dentro le ossa del profeta (Ger 20,9).
Pentecoste è una festa rivoluzionaria di cui non abbiamo ancora colto appieno la portata. Lo Spirito “vi insegnerà ogni cosa”: lui ama insegnare, accompagnare oltre, far scoprire paesaggi inesplorati, portare i credenti a vivere in “modalità esplorativa”, non come esecutori di ordini, ma come inventori si strade. Lo Spirito è creatore e vuole discepoli geniali e creatori, a sua immagine. Vento che non tace mai, per cui ogni credente ne è avvolto e intriso, così che ognuno ha tanto Spirito Santo quanto ne hanno i pastori. Infatti “il popolo di Dio, per costante azione dello Spirito, evangelizza continuamente se stesso” (Evangelli Gaudium 139). Parole come un vento che apre varchi, porta sentori di nuove primavere. Il popolo di Dio evangelizza se stesso, continuamente. Una visione di potente fiducia, in cui ogni uomo e ogni donna hanno dignità di profeti e di pastori, ognuno un proprio momento di Dio, ognuno una sillaba del Verbo, tutti evangelisti di un proprio ‘quinto evangelio’, sotto l’ispirazione dello Spirito.
Verrà lo Spirito, vi riporterà al cuore tutto di Gesù, di quando passava e guariva la vita, e diceva parole di cui non si vedeva il fondo. Ma non basta, lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera: apre uno spazio di conquiste e di scoperte; vi insegnerà nuove sillabe divine e parole mai dette ancora. Sarà la memoria accesa di ciò che è accaduto ‘in quei giorni irripetibili’ e insieme sarà la genialità, per risposte libere e inedite, per oggi e per domani.
Lévati o remoto Spirito/ candida già freme/ alta/ la vela (Davide M. Montagna). Una vela e il mare cambia, non è più un vuoto in cui perdersi o affondare. Basta che sorga una vela, alta a catturare il soffio dello Spirito, per iniziare una avventura verso nuovi mari, verso isole intatte, dimenticando il vuoto.
E da là dove ti eri fermato, lo Spirito libero e liberante di Dio ti farà ripartire, mentre continua a compiere nella chiesa la stessa opera che ha compiuto con Marco, Luca, Matteo, Giovanni: continua a far nascere evangelisti. E a farli navigare nel suo Vento.

 

 

 

Perché cercate tra i morti colui che è vivo?

C’è, esiste, vive, ma non qui. Va cercato altrove, diversamente, è in giro per le strade, è il Dio da cogliere dovunque, eccetto che fra le cose morte.

Perché Cristo è risorto? Perché un amore come il suo è più forte della morte, perché una vita come la sua non può andare perduta. Il vero nemico della morte, il vincitore, non è la vita, ma l’amore.

Nell’alba di Pasqua non a caso chi si reca alla tomba è chi ha vissuto e patito di più l’amore di Gesù: le donne, la Maddalena, il discepolo amato, sono loro i primi a capire che l’amore vince la morte.

E anche noi siamo nella vita per fare cose che meritano di non morire, per ricordare a noi e agli altri che nessun gesto d’amore andrà mai perduto.

Così anch’io correrò come Maria di Magdala e le altre donne, ad annunciare che Lui è vivo. Lo dirò “con trepidazione e gioia grande”, nella casa e per le strade, lo dirò con la mia vita da salvato. Poi non dirò più niente.
(p.Ermes Ronchi)

 

 

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Fb 3 aprile – V di Quaresima

Scambiare il passato con il futuro (di p,Ermes Ronchi)

Gesù si chinò a scrivere col dito per terra. “Mosè ordina di uccidere quelle così. E tu, cosa dici?” Il maestro si inginocchia sulle pietre del cortile e scrive. Davanti a quella donna abbassa gli occhi, preso da un pudore santo, che si carica anzitempo sulle spalle il peso di tutte il dolore delle vittime.
Gesù evita perfino di guardarci in faccia, se ci lasciamo prendere dal delirio dell’ accusa per farci giustizia; evita il nostro sguardo, se questo ha come obiettivo la morte.
Chi è senza peccato scagli la pietra … Gesù non rinnega la legge, ma chiede che chi la difende sia il primo a praticarla; ma se ne andarono tutti, a partire dai più importanti. Tutti: per dire che l’onestà non condanna.
Gesù rimane solo con lei, e si alza come si fa con la persona importante, non con una donna; dal selciato di pietra, agli occhi. Cosa hai visto Signore in quegli occhi? La paura del giudizio, la rabbia scura dell’abbandono, il baratro nero della morte; o un lampo di speranza?
Le parla. Nessuno lo aveva fatto prima, lei era solo una cosa trascinata là in mezzo, con la sua storia amara. Il suo tormento non interessava nessuno, ma Gesù la chiama Donna, dignitoso nome dato a sua Madre. Non è più l’adultera, la trascinata: è la creatura.
Gesù non vede in lei la peccatrice, vede la donna che vuole vivere e amare. Lei non è il suo errore; non appartiene al suo passato, ma al futuro, ai semi da seminare, alle persone che amerà, ai progetti in attesa. Gesù non banalizza la colpa, lui fa ripartire la vita.
Dove sono? I giudici armati che seppelliscono di pietre, dove sono? Non qui! Gesù vuole che accusatori e ipocriti scompaiano dalle case, dai cortili, dalle piazze e dalle chiese.
“Dove sono? Neppure io ti condanno. Io non giudico, io salvo”.
Con il dito per terra Gesù scriveva di un Dio più grande del nostro cuore, la cui legge è che l’uomo viva. Così non le chiede da dove viene, ma dove va; non più cosa ha fatto, ma cosa farà. Si rivolge alla sua luce profonda, le incide nel cuore la parola “futuro”. Donna, tu puoi amare bene, amare molto. Questo tu farai… Ciò che conta ora è andare, con la promessa di guardare avanti.
Gesù strappa le sbarre dalle nostre celle, e i patiboli su cui trasciniamo noi e gli altri. E sulla croce metterà se stesso al posto di quella donna e di tutti i condannati, spezzando la catena malefica che regge una terribile, terribilmente sbagliata idea di un Dio punitore.
Non darmi, Signore, l’innocenza, miracolo che non so portare. A me concedi la grazia di vederti alzato davanti a me; parlami, dammi la sapienza e il coraggio di lasciar cadere le pietre che avevo preparato. Non lancerò mai più pietre, contro nessuno, perché mi avrai disarmato il cuore.

 

Avvenire. L’adultera. V di QUARESIMA
Gli scribi e i farisei gli condussero una donna… la posero in mezzo, quasi non fosse una persona ma una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene, anche a morte. Sono scribi che mettono Dio contro l’uomo, il peggio che possa capitare alla fede, lettori di una bibbia dimezzata, sordi ai profeti (“ dice il Signore: io non godo della morte di chi muore”, Ez.18,32).
La posero in mezzo. Sguardi di pietra su di lei. La paura che le sale dal cuore agli occhi, ciechi perché non hanno nessuno su cui potersi posare. Attorno a lei si è chiuso il cerchio di un tribunale di soli maschi, che si credono giusti al punto di ricoprire al tempo stesso tutti i ruoli: prima accusatori, poi giudici e infine carnefici.
Chiedono a Gesù: È lecito o no uccidere in nome di Dio? Loro immaginano che Gesù dirà di no e così lo faranno cadere in trappola, mostrando che è contro la Legge, un bestemmiatore.
Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra… nella furia di parole e gesti omicidi, introduce una pausa di silenzio; non si oppone a viso aperto, li avrebbe fatti infuriare ancora di più.
Poi, spiazza tutti i devoti dalla fede omicida, dicendo solo: chi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei.
Peccato e pietre? Gesù scardina con poche parole limpide lo schema delitto/castigo, quello su cui abbiamo fondato le nostre paure e tanta parte dei nostri fantasmi interiori. Rimangono soli Gesù e la donna, e lui ora si alza in piedi davanti a lei, come davanti a una persona attesa e importante. E le parla. Nessuno le aveva parlato: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno, vai. E non le chiede di confessare la colpa, neppure le domanda se è pentita. Gesù, scrive non più per terra ma nel cuore della donna e la parola che scrive è: futuro.
Va’ e d’ora in poi non peccare più. Sette parole che bastano a cambiare una vita. Qualunque cosa quella donna abbia fatto, non rimane più nulla, cancellato, annullato, azzerato. D’ora in avanti: ‘Donna, tu sei capace di amare, puoi amare ancora, amare bene, amare molto. Questo tu farai…’. Non le domanda che cosa ha fatto, le indica che cosa potrà fare. Lei non appartiene più al suo sbaglio, ma al suo futuro, ai semi che verranno seminati, alle persone che verranno amate.
Il perdono è qualcosa che non libera il passato, fa molto di più: libera il futuro. E il bene possibile, solo possibile, di domani, conta di più del male di adesso. Nel mondo del vangelo è il bene che revoca il male, non viceversa.
Il perdono è un vero dono, il solo dono che non ci farà più vittime, che non farà più vittime, né fuori né dentro noi.

 

Gli alberi lo sanno di p. Ermes Ronchi
Lc 6,39
Dal buon tesoro del suo cuore, l’uomo buono non può che trarne il bene.
Il buon tesoro del cuore: definizione così bella e piena di speranza, di ciò che siamo nel nostro intimo mistero. Abbiamo tutti un tesoro buono custodito in vasi d’argilla; tutti, oro fino da distribuire. E il primo tesoro è il nostro cuore stesso: «un uomo vale quanto vale il suo cuore» (Gandhi).
Il cuore è tesoro da coltivare e custodire. La nostra esistenza è viva se abbiamo coltivato tesori di speranza e di passione per il bene possibile, per una buona politica possibile, per una casa comune dove sia possibile stare meglio tutti. La nostra realtà è viva quando è vivo il cuore. Infatti Gesù porta a compimento la sua rivoluzione su due direttrici: la linea della persona, che viene prima della legge e della stessa fede, e la linea del cuore, che muove tutto in noi.
Accade come per gli alberi. Gesù ci conduce oggi alla loro scuola: un albero buono non produce frutti guasti.
La legge dell’albero è semplice: vivere, crescere, dare frutto. La legge perfetta è quella della fecondità. Ed è la stessa legge che ispira la morale evangelica: un’etica del frutto buono, della fecondità creativa, del gesto che fa bene davvero, della parola che consola guarendo, del sorriso autentico.
Il giudizio finale (Matteo 25) non sarà l’aula di un tribunale, ma la rivelazione della verità ultima del vivere; il dramma non saranno le nostre mani sporche, ma le mani desolatamente vuote, senza frutti buoni offerti alla fame d’altri.
Invece gli alberi sanno, nella loro natura, che non si vive in funzione di se stessi, ma al servizio della vita. Ed ecco che ad ogni autunno ci incanta lo spettacolo dei rami gonfi di frutti, un eccesso, uno scialo, uno spreco di semi, che sono per gli uccelli del cielo, per gli animali della terra, per gli insetti brulicanti, per i figli dell’uomo.
Le leggi profonde che reggono la vita sono le stesse della realtà spirituale. Il cuore del cosmo non dice sopravvivenza; la legge che orienta tutto ciò che vive è dare, crescere e fiorire, creare e donare. Come alberi buoni.
Ma abbiamo anche una radice di male in noi. Perché guardi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello? Perché ti perdi a cercare fuscelli, a sprecare energia guardando l’ombra anziché la luce di quel volto?
Non è così lo sguardo di Dio, lui non si spreca così. Il Creatore vide che l’uomo e la donna erano cosa molto buona! È lui il primo che trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore di luce, e lo proietta sulle creature.
L’occhio buono non cerca travi o pagliuzze, occhi feriti o cattivi tesori, ma si posa su un Eden di cui nessuno è privo. Invece l’occhio cattivo trae fuori dal proprio cuore oscurità ed emana ombre.
«Con ogni cura veglia sul tuo cuore, perché è la sorgente della vita» (Proverbi 4,23).

 

Avvenire VIII C Luca 6,39-42

Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello? Notiamo la precisione del verbo: perché ‘guardi’, e non semplicemente ‘vedi’; perché osservi, fissi lo sguardo su pagliuzze, sciocchezze, piccole cose storte, scruti l’ombra anziché la luce di quell’occhio? Con una sorta di piacere maligno a ricercare ed evidenziare il punto debole dell’altro, a godere dei suoi difetti. Quasi a giustificare i tuoi.
Un motivo c’è: chi non vuole bene a se stesso, vede solo male attorno a sé;
chi non sta bene con sé, sta male anche con gli altri.
Invece colui che è riconciliato con il suo profondo,
guarda l’altro con benedizione. Con sguardo benedicente.
Dio guardò e vide che tutto era cosa molto buona (Gen 1,31). Il Dio biblico è un Dio felice, che non solo vede il bene, ma lo emana, perché ha un cuore di luce e il suo occhio buono è come una lampada, dove si posa diffonde luce (Mt. 6,22). Un occhio cattivo invece emana oscurità, moltiplica pagliuzze, diffonde amore per l’ombra. Alza una trave davanti al sole.

Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi. La morale evangelica è un’etica della fecondità, di frutti buoni, di sterilità vinta e non di perfezione. Dio non cerca alberi senza difetti, con nessun ramo spezzato dalla bufera o contorto di fatica o bucato dal picchio o dall’insetto. L’albero ultimato, giunto a perfezione, non è quello senza difetti, ma quello piegato dal peso di tanti frutti gonfi di sole e di succhi buoni.
Così, nell’ultimo giorno, quello della verità di ogni cuore (Mt 25), lo sguardo del Signore non si poserà sul male ma sul bene; non sulle mani pulite o no, ma sui frutti di cui saranno cariche, spighe e pane, grappoli, sorrisi, lacrime asciugate.
La legge della vita è dare. È scritto negli alberi: non crescono tra terra e cielo per decine d’anni per se stessi, semplicemente per riprodursi: alla quercia e al castagno basterebbe una ghianda, un riccio ogni 30 anni. Invece ad ogni autunno offrono lo spettacolo di uno scialo di frutti, uno spreco di semi, un eccesso di raccolto, ben più che riprodursi. È vita a servizio della vita, degli uccelli del cielo, degli insetti affamati, dei figli dell’uomo, di madre terra.
Le leggi della realtà fisica e quelle dello spirito coincidono. Anche la persona, per star bene, deve dare, è la legge della vita: deve farlo il figlio, il marito, la moglie, la mamma con il suo bambino, l’anziano con i suoi ricordi. Ogni uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore. Noi tutti abbiamo un tesoro, è il cuore: da coltivare come un Eden; da spendere come un pane, da custodire con ogni cura perché è la fonte della vita (Proverbi, 4, 23). Allora, non essere avaro del tuo cuore: donalo.

Fb 20 febbraio

Lc 6,27-38

Aspettando Abele (di p. Ermes Ronchi)

Amate i vostri nemici. «È impossibile amare i nemici», assicura Freud. A questa sapienza del mondo, il discepolo ribatte: è impossibile, quindi lo farò. Perché nulla è impossibile presso Dio (Lc 1,37).
Lo farai subito, senza aspettare; non perché così vanno le cose, ma per cambiarle. Amerai senza aspettarti null’altro che l’amore stesso. Amerai perfino l’inamabile. Come fa Dio.
Nell’equilibrio del dare e avere, Gesù introduce il disequilibrio: date; magnificamente, dissennatamente date; porgete, benedite, prestate per primi, ad amici e nemici. Amatevi, altrimenti vi distruggerete.
«Porgi l’altra guancia»: abbassa le difese, disàrmati, mostra che non hai da difendere neppure te stesso, e l’altro sentirà l’assurdo di esserti nemico. Non chiudere, riallaccia il legame, fai tu il primo passo. Ricomincia, senza voltarti indietro. Amore di mani, quello di Gesù, di tuniche, di prestiti, di verbi concreti.
Se tutti porgessero l’altra guancia, non ci sarebbero più guance da colpire. Perché la notte non si vince aggiungendo la tenebra di altre armi, perché l’odio non si spezza inventandosi altro odio.
L’umano dentro noi dice: fuggi da Caino, allontanalo, rendilo innocuo. Poi viene Gesù e ci spiazza chiedendoci di convertire la paura in cura e custodia. Perché la paura non libera dal male.
All’inizio della storia, Dio disse a Caino: cosa hai fatto di tuo fratello Abele? Nell’ultimo giorno, dirà ad Abele: cosa hai fatto di tuo fratello Caino? (Berdiaev). Abele risorgerà non per la vendetta, ma per custodire quello che sarà ancora e per sempre suo fratello. Quando le vittime si prenderanno cura dei loro carnefici, allora la terra sarà nuova, sarà viva. Quando Abele si farà prossimo al suo uccisore, allora il Regno di Dio sarà davvero nel cuore d’ogni uomo.
Gesù non cerca eroi di fuoco e roccia, ma uomini: ciò che volete per voi, fatelo voi agli altri. E indica otto semplici gradini dell’amore, fatti di azioni concrete; quattro rivolti a tutti: amate, fate, benedite, pregate; e quattro indirizzate al singolo, a me: offri, non rifiutare, da’, non chiedere indietro.
Grande semplificazione della legge: io saprò ciò che devo fare ascoltando il mio desiderio. E ciò che voglio è questo: essere amato, e che qualcuno mi benedica e preghi per me; che mi sia reso bene per male, e poter contare sul mantello di un amico; che si abbia fiducia in me e mi si perdoni ancora; che mi si incoraggi, si abbia in stima ciò che ho di buono e come cosa di poco conto ciò che non lo è. Questo voglio per me! Questo cercherò di dare agli altri.
Legge che allarga il cuore, misura pigiata, colma e traboccante, che versa gioia nel grembo della vita.
«Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo» (Gandhi). La salvezza viene dal basso, e vive nella penombra.

 

VII domenica C Luca 6,26-37

Domenica scorsa Gesù aveva proiettato nel cielo della pianura umana un sogno: beati voi poveri, guai a voi ricchi; oggi sgrana un rosario di verbi esplosivi. Amate è il primo; e poi fate del bene, benedite, pregate.
E noi pensiamo: fin qui va bene, sono cose buone, ci sta. Ma quello che mi scarnifica, i quattro chiodi della crocifissione, è l’elenco dei destinatari: amate i vostri nemici, i vostri odiatori, gli infamanti, gli sparlatori. Gli inamabili.
Poi Gesù, per sgombrare il campo da ogni equivoco, mi guarda negli occhi, si rivolge a me, dice al singolare: “tu”, dopo il “voi” generico. E sono altre quattro cicatrici da togliere il fiato: porgi l’altra guancia, non rifiutare, da’, non chiedere indietro. Amore di mani, di tuniche, di pelle, di pane, di gesti. E di nuovo ti costringe a guardare, a cercare chi non vuoi: chi ti colpisce, chi ruba il tuo, il petulante furbo che chiede sempre e non dà mai.
Nell’equilibrio mondano del dare e dell’avere, Gesù introduce il disequilibrio divino: date; magnificamente, dissennatamente, illogicamente date; porgete, benedite, prestate, ad amici e nemici, fate il primo passo. Come fa Dio.
Questo vangelo rischia di essere un supplizio, la nostra tortura, una coercizione a tentare cose impossibili. E così si apre la strada a quell’ipocrisia che ci demolisce. Nessuno vivrà questo vangelo a colpi di volontà, neppure i più bravi tra noi. Ma solo attingendo alla sorgente: siamo nel cuore di Dio, questa è la vita di Dio. In cui radicarsi. Di cui essere figli.
Poi Gesù indica la seconda origine di tutti questi verbi di fuoco: ciò che volete che gli uomini facciano a voi, fatelo voi a loro. Come una capriola logica, rispetto a ciò che ha appena detto, ma che è bellissima: non volare lontano, torna al cuore, al desiderio, a tutto ciò che vuoi per te: abbiamo tutti un disperato bisogno di essere abbracciati, di essere perdonati, di uno almeno che ci benedica, di una casa dove sentirci a casa, di contare sul mantello di un amico. Ho bisogno di aprire le braccia senza paura e senza misura. Ciò che desideri per te, donalo all’altro. Altrimenti saprai solo prendere, possedere, violare, distruggere.
L’amore non è un optional. È necessario per vivere, e per farlo insieme. In quelle parole, penetranti come chiodi, è nascosta la possibilità perché un futuro ci sia per il mondo.
Nell’ultimo giorno il Padre domanderà ad Abele: cosa hai fatto di tuo fratello Caino?
Ho perdonato, gli ho dato il mantello, ho spezzato il mio pane.
La vittima che si prende cura del violento e insieme forzano l’aurora del Regno. Solo un sogno? Vedrai, verranno a mangiare dalle tue mani il pane dei sogni di Dio. È già accaduto. Accadrà ancora.

 

Fb 13 febbraio 2022
Scommesse controcorrente  (p. Ermes Ronchi)
Lc 6,17.20-26

Le beatitudini raccontano Dio che scommette su coloro sui quali la storia mai scommetterebbe: i piccoli, gli affamati, i piangenti, i rifiutati. Come Gesù nella sinagoga di Nazaret, quando rivela la lieta notizia a poveri, oppressi, ciechi, prigionieri.
L’uomo è così, un mendicante di felicità che ad essa soltanto vorrebbe obbedire. Gesù lo sa, e incontrando il nostro desiderio profondo, gli risponde.
Beati voi poveri. Beati voi che piangete. Parole che mi lasciano disarmato. Che scendono come una spada, come rovente linea di fuoco nel mio cuore diviso.
Il luogo dove risiede la felicità è Dio. Ma il luogo dove Dio risiede è sempre la croce, dentro le infinite croci dell’uomo. E ancora una volta Dio fa ripartire il suo Adamo da un pugno di polvere.
Beati, perché? Perché è cosa buona soffrire? No. Beati voi, perché vostro è il Regno, qui e adesso, perché avete più spazio per Dio, perché avete il cuore libero, da gettare al di là delle cose. Perché c’è più futuro in voi, perché il vostro è un cuore affamato di oltre.
Beati i poveri, che non avendo cose non hanno nulla da perdere, e donano se stessi; che sono al tempo stesso mano che chiede e mano tesa che dona, in un circuito pulsante di vita. Beati, perché è con voi che Dio cambierà la storia, e non con i potenti! Con voi, piccole anfore piene di pezzi di cielo e di futuro.
Ma guai a voi, ricchi. Mi sembra di vedere Gesù girarsi lentamente verso di loro. Mi inquieta, quel suo “guai”. Ma Dio non maledice, la sua è la tristezza del padre in ansia per la sua creatura. Guai è un lamento, il compianto su quelli che confondono superfluo ed essenziale, che si aggrappano alle cose rubando spazio all’eterno e all’infinito, che sono senza sentieri nel cuore.
È un appello accorato, quello di Gesù: la vostra vita è senza frutto.
Il mondo non avanzerà per chi accumula, la terra non fiorirà dalle mani di chi non offre almeno un po’ di sé. Chi è sazio non crea, si difende, e dalle sue mani fiorirà solo altra fame.
Attenti voi ricchi, state sbagliando strada perché le cose sono tiranne, idoli che divorano pensieri e affetti. Diceva Madre Teresa: ciò che non serve, pesa! E la gioia non viene dal possesso, ma dai volti.
E io? Io ho capito che un uomo vale non per il suo successo, ma per il suo cuore? «Io ho commesso un solo peccato serio, quello di non essere felice» (A. Merini).
La beatitudine di chi si mette al seguito di Gesù, sarà fare come Dio: donare e sfamare, consolare e accogliere, smascherare l’idolo della ricchezza. Sarà una vita sempre povera, affamata d’oltre e marginale; eppure, al contempo, sempre ricca, piena, vibrante, appassionata. Un modo controcorrente di essere uomini.

 

Avvenire SESTA DOMENICA – Anno c
Lc 6,20-26

Se non siamo come sonnambuli, questo vangelo ci dà la scossa.
“Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri”, aveva detto nella sinagoga, eco della voce di Isaia. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri, Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio è la croce, le infinite croci degli uomini. E aggiunge un’antitesi abbagliante: non sono i poveri il problema del mondo, ma i ricchi: guai a voi ricchi.
Sillabe sospese tra sogno e miracolo, che erano state osate, prima ancora che da Gesù, da Maria nel canto del Magnificat: ha saziato gli affamati di vita, ha rimandato i ricchi a mani vuote. (Lc 1,53).
Se Gesù avesse detto che la povertà è ingiusta, e quindi semplicemente da rimuovere, il suo sarebbe stato l’insegnamento di un uomo saggio attento alle dinamiche sociali (R. Virgili). Ma quell’oracolo profetico, anzi più-che-profetico, quel “beati” che contiene pienezza, felicità, completezza, grazia, incollato a persone affamate e in lacrime, a poveracci, disgraziati, ai bastonati dalla vita, si oppone alla logica, ribalta il mondo, ci obbliga a guardare la storia con gli occhi dei poveri, non dei ricchi, altrimenti non cambierà mai niente.
E ci saremmo aspettati: beati voi perché ci sarà un capovolgimento, un’alternanza, diventerete ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo. Il mondo non sarà reso migliore da coloro che hanno accumulato più denaro. “Il vero problema del mondo non è la povertà, è la ricchezza! La povertà vuol dire libertà del cuore dai possessi; libertà come pace con le cose, pace con la terra, fonte di ogni altra pace. Il ricco invece è un uomo sempre in guerra con gli elementi, un violento, un usurpatore, il primo soggetto di disordine del mondo.
Non sono i poveri i colpevoli del disordine, non è la povertà il male da combattere; il male da combattere è la ricchezza. È l’economia del mondo ad esigerlo: senza povertà non c’è salvezza rispetto al consumo delle fonti energetiche, non c’è possibilità di pane per tutti, non rapporto armonioso con la vita, non fraternità, non possibilità di pace. Appunto, non c’è beatitudine e felicità per nessuno. Perché non v’è pace con la terra, con le cose, con la natura. Non c’è rispetto per le creature” (David Maria Turoldo).
Beati voi…Il vangelo più alternativo che si possa pensare. Manifesto stravolgente e contromano; e, al tempo stesso, vangelo amico. Perché le beatitudini non sono un decreto, un comando da osservare, ma il cuore dell’annuncio di Gesù: sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, Dio regala gioia a chi costruisce pace.
In esse è l’inizio della guarigione del cuore, perché il cuore guarito sia l’inizio della guarigione del mondo.

 

 

Fb 30 gennaio 22

Un buco bianco di p. Ermes Ronchi

La sinagoga è incantata davanti al sogno di un mondo nuovo che Gesù ha evocato. Poi, quasi senza spiegazione, lo conducono sul ciglio del monte per gettarlo giù. Nazaret passa di colpo dalla fierezza, dalla festa per questo figlio che torna circondato di fama, potente in parole ed opere, ad una sorta di furore omicida. Dalla meraviglia alla furia.
L’entusiasmo passa in fretta, i compaesani hanno già catalogato Gesù: non è costui il figlio di Giuseppe? Che un profeta sia un uomo straordinario, siamo pronti ad accettarlo. Ma che la profezia sia nella casa del falegname, in uno che non è neanche sacerdote o scriba, che ha le mani segnate dalla fatica come me, che ha più o meno i problemi che ho io, con quella famiglia così così, ci pare impossibile.
L’hanno chiuso nei loro preconcetti e, con l’abitudine, hanno spento il mistero e la sorpresa, così l’altro, invece di essere una finestra di cielo, una benedizione che cammina, è solo il figlio di Giuseppe, o il falegname, l’idraulico, il postino, la maestra… Dico di conoscerlo, ma cosa so, io, del mistero di quella persona?
C’è profezia nel quotidiano, profezia di casa mia, ma come tutta Nazaret non riesco a vederla.
Perché la folla passa rapidamente dall’entusiasmo all’odio? Difficile dirlo, ma la storia biblica insegna che la persecuzione rivela sempre l’autenticità del profeta. Essi non cercano Dio, ma un taumaturgo che intervenga nei loro naufragi, uno che dirotti la forza di Dio fra i vicoli del loro paese. Ma questo non è il Dio dei profeti.
Infatti Gesù risponde parlando di un Dio padre anche delle vedove di Sidone e dei lebbrosi di Siria. “Non farò miracoli qui”, dice Gesù. Li ho fatti a Cafarnao, li ho fatti a Sarepta e nel corpo del lebbroso.
Il mondo è pieno di miracoli, eppure non bastano, perché voi li preferite alla Parola di Dio.
Gesù sa che con il pane e i miracoli non si liberano le persone, piuttosto ci si impossessa di loro, e Dio non si impossessa, Dio non invade.
Quando lo condussero sul monte per gettarlo giù, improvvisamente si verifica uno strappo nel racconto, un buco bianco, un “ma”. Ma Gesù passando in mezzo a loro si mise in cammino. Un finale a sorpresa: non fugge, passa in mezzo aprendosi un solco come di seminatore, mostrando che si può ostacolare la profezia, ma non bloccarla. «Non puoi fermare il vento, gli fai solo perdere tempo» (F. De Andrè).
Bellissimo Spirito che accende il suo roveto all’angolo di ogni strada, che disperde la Parola nelle sillabe di ogni volto.
Non sprechiamo i nostri profeti! Anche la nostra Chiesa e il nostro Paese traboccano di mistici, profeti, sognatori coraggiosi. A mancare sono solo gli ascoltatori; noi, che fatichiamo a vedere l’infinito all’angolo della strada, il mistero rannicchiato sulla soglia della nostra casa.

 

Avvenire IV domenica C

Nazaret passa in fretta dallo stupore all’indignazione, dagli appalusi a un raptus di violenza. Tutto parte da una richiesta: “Fai anche qui i miracoli di Cafarnao!” . Quello che cercano è un bancomat di miracoli fra i vicoli del villaggio, un Dio che stupisca con effetti speciali, che risolva i problemi e non uno che cambi il cuore.
Non farò miracoli qui; li ho fatti a Cafarnao e a Sidone e sulla pelle del lebbroso: il mondo è pieno di miracoli, eppure non bastano mai.
Li aveva appena incantati con il sogno di un mondo nuovo, lucente di libertà, di occhi guariti, di poveri in festa, e loro lo riconducono alle loro attese, a un Dio da adoperare a proprio profitto, nei piccoli naufragi quotidiani.
Ma il Dio di Gesù non si sostituisce a me, non occupa, non invade, non si impossessa. È un Dio di sconfinamenti, la sua casa è il mondo: e la sinagoga si popola di vedove forestiere e di generali nemici.
Inaugurando così un confronto tra miracolo e profezia, tra il Dio spiazzante della Parola e il Dio comodo dei problemi risolti. Eppure, che cosa c’è di più potente e di più bello di uno, di molti profeti, uomini dal cuore in fiamme, donne certe di Dio?
Come gli abitanti di Nazaret, siamo una generazione che ha sperperato i suoi profeti, che ha dissipato il miracolo di tanta profezia che lo Spirito ha acceso dentro e fuori la Chiesa. I nomi sono tanti, li conoscete tutti.
‘Non è costui il figlio di Giuseppe?’ Che la profezia abbia trovato casa in uno che non è neanche un levita o uno scriba, che ha le mani callose, come le mie, uno della porta accanto, che ha più o meno i problemi che ho io; che lo Spirito faccia del quotidiano la sua eternità, che l’infinito sia alla latitudine di casa, questo ci pare poco probabile.
Belli i profeti, ma neanche la profezia basta. Ciò che salverà il mondo non sono Elia o Eliseo. Non coloro che hanno una fede da trasportare le montagne, ma coloro che sanno trasportare il loro cuore verso gli altri e per loro. Non i profeti, ma gli amanti. E se la profezia è imperfetta, se è per pochi, l’amore è per tutti. L’unica cosa che rimane quando non rimane più nulla.
Allora lo condussero sul ciglio del monte per gettarlo giù. Ma come sempre negli interventi di Dio, improvvisamente si verifica nel racconto lo strappo di una porta che si apre, di una breccia nel muro, un “ma”: ma Gesù passando in mezzo a loro si mise in cammino. Non fugge, non si nasconde, passa in mezzo; aprendosi un solco come di seminatore o di mietitore, mostrando che si può ostacolare la profezia, ma non bloccarla. “Non puoi fermare il vento, gli fai solo perdere tempo” (F. De Andrè). Non facciamo perdere tempo al vento di Dio.

 

 

 

Fb 23 gennaio ‘22 – III C

Si chiudono libri e si apre la vita (di Ermes Ronchi)
Luca ci racconta la scena delle origini, una scena da stampare nel cuore. Lo fa quasi al rallentatore, a sottolineare l’estrema importanza di questo momento. Gesù arrotola il volume, lo consegna, si siede. Tutti gli occhi sono fissi su di lui. Risuonano nella stanza le sue prime parole ufficiali: «oggi la parola di Isaia diventa carne».
Si chiudono i libri e si apre la vita. Dalla carta scritta al respiro vivo. Dall’antico profeta a un rabbi che non impone pesi, ma li toglie, che non porta precetti, ma libertà.
Non di un nuovo profeta si tratta, e neppure del più grande: Gesù realizza la Parola di Dio perché è lui la Parola. È lui l’uomo sognato da Isaia, libero come nessuno, dall’occhio luminoso e penetrante, povero e gioioso, e i suoi giorni sono grazia, puro bene e accoglienza. È lui il Dio che ha posto il proprio fine al di fuori di se stesso, nell’uomo; è lui il Dio la cui passione ultima e urgente siamo noi.
L’umanità è descritta con quattro aggettivi: povera, prigioniera, cieca, oppressa. E Dio diventa Adamo con quattro desideri: portare gioia, liberazione, occhi nuovi, respiro. E poi con un quinto spalanca il cielo, e rivela uno dei tratti più belli del suo volto: «proclamare l’anno di grazia del Signore», un anno, un secolo, mille anni, una storia intera di benevolenza, perché Dio non solo è buono, ma esclusivamente buono, incondizionatamente buono.
I primi destinatari sono i poveri, veri principi del Regno, e Dio sta alla loro ombra. È importante. Infatti, nel Vangelo ricorre di più la parola poveri, che la parola peccatori. La Buona Notizia non è una morale più esigente o più elastica, ma Dio che si china come madre sul figlio che soffre, ricominciando la sua creazione dai sotterranei della storia, da coloro che non ce la fanno. Si china perché nasca un Adamo nuovo, veggente e felice, perché la terra sia libera dai prigionieri e dagli oppressi. Solo la tenerezza combattiva di Dio ha questo potere.
Il regno di Dio è rivolto direttamente agli uomini, questo sta a cuore a Gesù. E’ un Dio che dimentica se stesso, che non di sé si ricorda, ma di noi. Per ogni povertà, per la fame di pane e quella di senso, perché l’uomo preferisce morire di fame, che morire di assurdo.
Dio che non offre libertà in cambio di ossequio, ma ama per primo, ama in perdita, non si volta per vedere se ne ha un contraccambio. Ama e guarda oltre.
La parola chiave del sogno di Gesù è quindi libertà, ripetuta due volte. Ma come mi libera? «Cristo è dentro me come energia implacabile, fintanto che il mio essere non diventa luminoso; dentro me come germe che va maturando. Come un sogno di pienezza, indomabile e attivo, come desiderio di libertà» (G. Vannucci).
Come lievito mite e possente egli trasforma il mio pianto in danza, il mio sacco logoro in veste di gioia.

Avvenire

III domenica C

Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Erano appena risuonata la voce di Isaia: parole così antiche e così amate, così pregate e così desiderate, così vicine e così lontane.
Gesù ha cercato con cura quel brano nel rotolo: conosce bene le Scritture, ci sono mille passi che parlano di Dio, ma lui sceglie questo, dove l’umanità è definita con quattro aggettivi: povera, prigioniera, cieca, oppressa. Allora chiude il libro e apre la vita. Ecco il suo programma: portare gioia, libertà, occhi guariti, liberazione. Un messia che non impone pesi, ma li toglie; che non porta precetti, ma orizzonti.
E sono parole di speranza per chi è stanco, è vittima, non ce la fa più. Dio riparte dagli ultimi della fila, raggiunge la verità dell’umano attraverso le sue radici ammalorate. Adamo è povero più che peccatore; è fragile prima che colpevole; siamo deboli ma non siamo cattivi, è che abbiamo le ali tarpate e ci sbagliamo facilmente. Nel vangelo mi sorprende e mi emoziona sempre scoprire che in quelle pagine accese si parla più di poveri che di peccatori; più di sofferenze che di colpe. Non è moralista il vangelo, è liberatore.
Dio ha sofferto vedendo Adamo diventare povero, cieco, oppresso, prigioniero, e un giorno non ha più potuto sopportarlo, ed è sceso, ha impugnato il seme di Adamo, ha intrecciato il suo respiro con il nostro respiro, i suoi sogni con i nostri. È venuto ed ha fatto risplendere la vita, ha messo canzoni nuove nel cuore, frantumi di stelle corrono nelle nostre vene. Perché Dio non ha come obiettivo se stesso, siamo noi lo scopo di Dio. Il catechismo sovversivo, stravolgente, rivoluzionario di Gesù: non è l’uomo che esiste per Dio ma è Dio che esiste per l’uomo. E considera ogni povero più importante di se stesso. Io sono quel povero. Fiero per fierezza d’amore: nessuno ha un Dio come il nostro.
E poi Gesù spalanca ancora di più il cielo, delinea uno dei tratti più belli del volto del Padre: “Sono venuto a predicare un anno di grazia del Signore”, un anno di grazia, di cui Gesù soffia le note negli inferi dell’umanità (R. Virgili); un anno, un secolo, mille anni, una storia intera fatta solo di benevolenza, a mostrare che Dio non solo è buono, ma è soltanto buono.
“Sei un Dio che vivi di noi” (Turoldo). E per noi: “Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano. Un divino cui non corrisponda la fioritura dell’umano non merita che ad esso ci dedichiamo.” (D. Bonhoffer).
Forse Dio è stanco di devoti solenni e austeri, di eroi dell’etica, di eremiti pii e pensosi, forse vuole dei giullari felici, alla san Francesco, felici di vivere. Occhi come stelle. E prigionieri usciti dalle segrete che danzano nel sole. (M. Delbrêl).

 

 

 

(P.Ermes Ronchi)

Fb 9 gennaio 2022 – Battesimo del Signore

Un graffio d’azzurro
Vangelo che sembra esaltare la forza e la potenza, che in realtà scaturiscono dal silenzioso raccoglimento interiore.
Gesù stava in preghiera, il cielo si aprì e venne una voce: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Al centro del brano non è il battesimo di Gesù, raccontato quasi come un inciso, ma l’aprirsi del cielo: «Gesù, ricevuto il battesimo, stava in preghiera ed ecco il cielo si aprì». Come si apre una breccia nel muro, come quando si aprono le braccia agli amici, all’amato, ai figli, ai poveri.
Il cielo si apre sotto l’urgenza dell’amore di Dio, sotto l’impazienza di Adamo, e nessuno lo rinchiuderà più.
Bellezza suprema in questo particolare: un cielo che si apre. Basta raccogliersi in preghiera ed ecco che l’orizzonte si squarcia con la potenza della speranza. Il respiro vitale e il fuoco di Dio entrano in me, a poco a poco mi modellano, trasformano pensieri, affetti, progetti, speranze, secondo la legge dolce, esigente e rasserenante del vero amore. E poi mi incalzano a camminare sul mondo portando a mia volta vento e fuoco, elargendo libertà e calore, energia e luce. Noi, che invece a volte agiamo come se i cieli fossero rinchiusi sul nostro universo… Ma i cieli sono invece aperti, e tu puoi interagire sempre con Dio: alzi gli occhi e lo puoi ascoltare, gli parli e sei ascoltato.
Guardo spesso il cielo chiuso sopra di me, lo guardo con le sue stelle appassite, e cerco un pertugio come quello sul Giordano, un graffio d’azzurro, uno strappo nel grigio, per leggere, da là, dalla luce, tutto ciò che è accaduto e che accadrà ancora nella mia vita.
Ma anche l’aprirsi del cielo è secondario: scese su di Lui lo Spirito Santo con la sua forza generatrice liberante e creativa, come un fuoco che dona un calore insperato. Egli «vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco», vi immergerà nel vento e nel fuoco di Dio.
Bella definizione del cristiano: tu sei uno “immerso” nel vento e nel fuoco, ricco di libertà e calore, di energia e luce. Sei ricco di Dio.
Così il vangelo parla di me: Spirito e Voce sono accaduti anche su me, sono scesi anche sul mio battesimo. La vita di Dio è venuta come dilatazione del cuore, incarnazione che non si arresta; anch’io amato come lui, come Gesù; il nostro Dio che preferisce ciascuno, per cui ognuno è il figlio prediletto.
Se ogni mattina vedessi il cielo azzurro aperto su di me come un abbraccio; e sentire il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio mio, mio compiacimento, ti guardo e sono felice! Sarei come un bambino sollevato da terra che si abbandona felice fra le braccia dei genitori. Sarei sereno, sicuro che la mia piccola preziosa vita poggia sulle sue mani forti, sicuro che mai mi lascerà cadere mai.

 

Avvenire Luca 3.15-16;21-22 Battesimo C

Il popolo era in attesa e tutti si domandavano, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo. Siamo così, creature di desiderio e di attesa, con dentro, sulla via del cuore, questo “tendere-a”, appassionato e attento, dato che il presente non basta a nessuno.
L’attesa è così forte che fa nascere sentieri, e la gente è spinta fuori, sulla strada. Lascia il tempio e Gerusalemme dalle belle pietre, per cercare un luogo di sabbia e acqua, a decine di chilometri, dove si alzava una voce libera come il vento del deserto.
Sei tu il Messia? E Giovanni scende dall’altare delle attese della gente per dire: no, non sono io. “Viene dopo di me colui che è più forte di me”. In che cosa consiste la sua forza? Lui è il più forte perché ha il fuoco, perché parla al cuore del popolo, come aveva profetizzato Osea: la condurrò al deserto e là parlerò al suo cuore.
Due soli versetti raccontano il battesimo di Gesù, quasi un inciso, in cui però il grande protagonista è lo Spirito Santo.
Sul Giordano la colomba del cielo cerca il suo nido, e il suo nido è Gesù.
Lo Spirito ancora adesso cerca il suo nido, e ognuno di noi è nido della colomba di Dio.
Gesù stava in preghiera, e il cielo si aprì. Bellissima questa dinamica causa-effetto. Gesù sta in preghiera, e la meravigliosa risposta di Dio è di aprire il cielo. E non è vuoto e non è muto. Per ogni nostra preghiera la dinamica è sempre la stessa: una feritoia, una fenditura che si apre nel cielo chiuso e ne scende un volo di parole: Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento.
Ogni preghiera non fa che ripetere incessantemente questo: “Parlami / aspetto a carne aperta / che mi parli./ Noi non siamo qui per vivere / ma perché qualcuno / deve parlarci” (Franco Arminio).
E la prima parola è ‘Figlio’. La “parola” scende e si fa, nel deserto, e qui, un “figlio”. Dio è forza di generazione, che come ogni essere genera secondo la propria specie. Siamo specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro. Posta in principio a tutte, “figlio” è parola che sta all’inizio perché sta anche alla fine di tutto.
‘Tu sei amato’ è la seconda parola. Di immeritato amore, asimmetrico, unilaterale, incondizionato Qui è posto il fondamento di tutta la legge. “Tu sei amato” è il fondamento; “tu amerai” è il compimento. Chi esce da questo, amerà il contrario della vita.
Mio compiacimento è la terza parola, l’ultima. Un termine che non ci è abituale, eppure parola lucente, pulsante: c’è in Dio una vibrazione di gioia, un fremito di piacere; non è un essere freddo e impersonale, senza emozioni, ma un Padre apritore di cieli, felice di essere padre, in festa davanti a ognuno dei suoi figli.

 

 

Termine che non ci è abituale, ma che nella sua radice contiene una vibrazione di gioia, un fremito di piacere che Dio dà e riceve dai suoi figli. Come a dire: “ti guardo e sono felice. Sono felice di avere un figlio come te, felice di essere tuo padre”.

 

Cielo e terra abbracciati

Vangelo immenso che ci impedisce piccoli pensieri, uno sfondamento verso l’eterno, verso «l’in principio», verso il «per sempre». Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Per assicurarci che c’è un senso, un progetto che ci supera, che non viviamo i nostri giorni solo attorno al breve giro del sole o dei nostri desideri. Ma che c’è un’onda immensa che viene a infrangersi sui nostri promontori per parlarci di un Altro, che è Primo e Ultimo, vita e luce del creato.
In principio, tutto, nulla; parole che ci mettono in rapporto con l’assoluto e con l’eterno. Un racconto grandioso che si acquieta dentro la parola semplice e bella “accogliere”, che sa di porte che si aprono, di mani che accettano, di cuori che fanno spazio alla vita. Parola semplice come la mia libertà, e che dice: Dio non si merita, si accoglie! Se tu accogli vanità diventerai vuoto; se accogli disordine avrai disordine attorno a te. Ma se accogli luce darai luce.
«E il Verbo si fece carne». L’Eterno ricomincia da Betlemme. Il miracolo è che Dio non plasma più l’uomo con polvere del suolo, ma si fa lui stesso polvere plasmata nel bambino di Betlemme. Da allora c’è un po’ di Dio in ogni uomo, e santità di luce in ogni vita. Dio accade nella concretezza dei miei gesti, nei miei occhi, nelle mie parole, nelle mie mani. E se tu devi piangere, anche lui imparerà a piangere. E se tu devi gioire anche lui conoscerà la gioia.
Dio è amore; come assomigliare all’amore? Non c’è amore più grande che dare la vita; questa parola contiene tutto ciò che possiamo desiderare: gioia, libertà, coraggio, perdono, generosità, pane, luce, leggerezza, energia.
E oggi Dio ci meraviglia! Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia! Non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio! Come potresti?
Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, alla luce. Cerchi luce? «Ama la vita, la vita è luce, prenditene cura, è la tenda del Verbo». Amala, con le sue tempeste e con il suo sole. E poi vai là dove lei chiede aiuto, sentendo in te la ferita di ogni ferita. La domanda ultima sarà solo una: “dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?”.
È venuto e ha fatto risplendere la vita, ma i suoi non l’hanno accolto.
Io non rifiuto Dio, ma neppure lo accolgo. Anch’io forse rimango a mezza strada, perché so che Lui in me brucia come fuoco. Ma se Dio fosse nato anche mille volte a Betlemme, ma non nasce in te, se non lo accolgo allora è nato invano.
Si è fatto carne… e allora nessuno potrà più dire, né ora né mai: qui finisce la terra, qui comincia il cielo, perché ormai terra e cielo si sono abbracciati. Non si potrà più dire: qui finisce l’uomo, qui comincia Dio, perché creatore e creatura si sono abbracciati in quel neonato a Betlemme. Uomo e Dio, terra e cielo, una cosa sola.

 

Avvenire II dopo Natale Gv 1,1-18

Giovanni, unico tra gli evangelisti, comincia il Vangelo non con un racconto, ma con un inno che opera uno sfondamento dello spazio e del tempo: in principio era il Verbo e il Verbo era Dio.
In principio ‘bereshit’, prima parola della Bibbia, punto sorgivo da cui tutto ha inizio e senso. Un principio che non è solo cronologico, ma fondamento, base e destino. Senza di di lui nulla di ciò che esiste è stato fatto. Un’esplosione di bene, e non il caos, ha dato origine all’universo. Non solo gli esseri umani, ma anche la stella e il filo d’erba e la pietra e lo scricciolo appena uscito dal bosco, tutto è stato plasmato dalle sue mani.
Siamo da forze buone miracolosamente avvolti, scaturiti da una sorgente buona che continua ad alimentarci, che non verrà mai meno, fonte alla quale possiamo sempre attingere. E scoprire così che in gioco nella nostra vita c’è sempre una vita più grande di noi, e che il nostro segreto è oltre noi. Mettere Dio ‘in principio’, significa anche metterlo al centro e alla fine. Veniva nel mondo la luce vera quella che illumina ogni uomo. Ogni uomo, e vuol dire davvero così: ogni uomo, ogni donna, ogni bambino, ogni anziano è illuminato; nessuno escluso, i buoni e i meno buoni, i giusti e i feriti, sotto ogni cielo, nella chiesa e fuori dalla chiesa, nessuna vita è senza un grammo di quella luce increata, che le tenebre non hanno vinto, che non vinceranno mai.
In Lui era la vita… Cristo non è venuto a portare una nuova teoria religiosa o un pensiero più evoluto, ma a comunicare vita, e il desiderio di ulteriore vita. Qui è la vertigine del Natale: la vita stessa di Dio in noi. Profondità ultima dell’Incarnazione..
Il verbo si è fatto carne. Non solo si è fatto uomo, e ci sarebbe bastato; non solo si è fatto Gesù di Nazaret, il figlio della bellissima, e sarebbe bastato ancor di più; ma si è fatto carne, creta, fragilità, bambino impotente, affamato di latte e di carezze, agnello inchiodato alla croce, in cui grida tutto il dolore del mondo.
Venne fra i suoi ma i suoi non l’hanno accolto. Dio non si merita, si accoglie. Parola bella che sa di porte che si aprono, parola semplice come la mia libertà, parola dolce di grembi che fanno spazio alla vita e danzano: si accoglie solo ciò che da gioia.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. Il potere, l’energia felice, la potenza gioiosa di diventare ciò che siamo: figli dell’amore e della luce, i due più bei nomi di Dio.
Cristo, energia di nascite, nasce perché io nasca. Nasca nuovo e diverso. La sua nascita vuole la mia nascita a figlio. Perché non c’è altro senso, non c’è altro destino, per noi, che diventare come lui.

 

Fb 26 dicembre
Lc 2,41-52
Beata la casa dove si impara a sconfinare (di p.Ermes Ronchi)

 

Maria e Giuseppe cercano per tre giorni il loro ragazzo, avanti e indietro per la città. Quel padre e quella madre angosciati ci sono vicini in questa fragilità che conosciamo bene.
Maria più che rimproverare il figlio, vuole capire: perché ci hai fatto questo? Perché una spiegazione c’è sempre, e forse più bella e semplice di quanto temevi. Un dialogo senza accuse: di fronte ai genitori, che ci sono e si vogliono bene – le due cose che importano ai figli – c’è un ragazzo che ascolta e risponde.
Grande cosa il dialogo, anche faticoso! Se le cose sono difficili a dirsi, a non dirle si scavano buie gallerie. Non sapevate che devo occuparmi d’altro da voi? I figli non sono nostri, appartengono a Dio, al mondo, alla loro vocazione, ai loro sogni. Un figlio non deve impostare la propria vita in funzione dei genitori, si fermerebbe così la ruota della creazione.
Non lo sapevate? Ma come, me lo avete insegnato voi il primato di Dio! Madre, tu mi hai insegnato ad ascoltare angeli! Padre, tu mi hai raccontato che talvolta la vita dipende dai sogni!
Ma essi non compresero. Famiglia santa per definizione, eppure in cammino. Santi e profeti che non capiscono neppure la loro stessa casa. Ma ecco il tesoro nascosto: «sua madre conservava con cura tutte queste cose», serbava attenta le parole di Dio e i fatti della vita, li teneva nel cuore perché si dipanasse un giorno, dal loro confronto, il filo d’oro che li avrebbe spiegati e illuminati, legandoli assieme.
Gesù lascia i maestri della Legge e torna a casa con i genitori, suoi maestri di vita. Per anni impara l’arte di essere uomo guardandoli vivere: lei teneramente forte, mai passiva; lui padre non autoritario, che sa anche tirarsi indietro. Come poteva altrimenti trattare le donne con quel suo modo sovranamente libero? E inaugurare relazioni nuove tra uomo e donna, paritarie e senza paure?
Le beatitudini Gesù le ha viste tutte in quella casa, le ha imparate da loro: erano poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pace, con viscere di misericordia per tutti. E il loro parlare era: sì, sì; no, no. Stava così bene con loro, che con Dio adotta il linguaggio di casa, e lo chiama: abbà, papà. Un amore vivo e potente, incarnato e quotidiano, che vive nella carezza, nel cibo preparato, nel nomignolo affettuoso, nella parola scherzosa che scioglie le tensioni, nella pazienza di ascoltare, nel desiderio di abbracciarsi.
A questo vangelo non chiederò consigli spiccioli per vivere, chiederò invece le cose di Dio: non vantare diritti di possesso sui figli, conservando nel cuore ciò che oggi non si capisce, perché un giorno la risposta verrà, e sarà luce.
Beata la famiglia dove si impara a sconfinare, verso gli uomini e verso Dio. Beata la casa dove i figli imparano l’arte più importante quella di amare, l’arte che li farà felici.

 

Avvenire.

SANTA FAMIGLIA

La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza, ma anche con la forza della vita che continua (Amoris Laetitia,1).
La Bibbia è una biblioteca sull’arte e sulla fatica di amare, è il racconto dell’amore, vivo e potente, incarnato e quotidiano, visibile o segreto. Lo è anche nel vangelo di oggi: storia di una crisi familiare, di un adolescente difficile, di due genitori che non riescono a capire che cosa ha in testa.
Figlio, perché ci hai fatto stare in angoscia? E’ il racconto di una famiglia che alterna giorni sereni tranquilli e altri drammatici, come accade in tutte le famiglie, specie con i figli adolescenti. Ma che sa fare buon uso delle crisi, attraverso un dialogo senza risentimenti e senza accuse. Figlio perché? L’interesse di Maria non è rivolto al rimprovero, non accusa, non giudica, non si deprime perché il figlio l’ha fatta soffrire, ma cerca di capire, di comprendere, di accogliere una diversità difficile.
Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio? I nostri figli non sono nostri, appartengono al Signore, al mondo, alla loro vocazione, ai loro sogni. Un figlio non può, non deve strutturare la sua vita in funzione dei genitori. È come fermare la ruota della creazione.
Ma essi non compresero… e tuttavia nessun dramma o ricatto emotivo, nessuna chiusura del dialogo.
Un figlio non è sempre comprensibile, ma è sempre abbracciabile.
Scesero insieme a Nazaret. Si riparte, anche se non tutto è chiaro; si persevera dentro l’eco di una crisi, meditando e custodendo nel cuore gesti, parole e domande finché un giorno non si dipani il filo d’oro che tutto illuminerà e legherà insieme.
Gesù partì con loro, tornò a casa e stava loro sottomesso. C’è incomprensione, c’è un dolore che pesa sul cuore, eppure Gesù torna con chi non lo capisce. E cresce dentro quella famiglia santa ma non perfetta, santa e limitata. Sono santi, sono profeti, eppure non si capiscono tra loro. E noi ci meravigliamo di non capirci, qualche volta, nelle nostre case? Tutte diversamente imperfette, ma tutte capaci di far crescere.
Gesù lascia i maestri della Legge va con Giuseppe e Maria, maestri di vita: al tempio Dio preferisce la casa, luogo del primo e più importante magistero, dove i figli imparano l’arte di essere felici: l’arte di amare.
Lì Dio si incarna, mi sfiora, mi tocca; lo fa nel volto, nei gesti, nello sguardo di ognuno che mi vuole bene, e quando so dire loro: non avere paura, io ci sono e mi prenderò cura della tua felicità.
È Lui regala gioia a chi produce amore.

Fb 12 dicembre – III di Avvento

L’Amore danzante (p.Ermes Ronchi)

«Esulterà, si rallegrerà, griderà di gioia per te, come nei giorni di festa!»
Sofonia racconta un Dio felice il cui grido di festa attraversa questo tempo d’avvento, Dio che esulta e salta di gioia come un bimbo, Dio che: «Griderà di gioia per te»!
Mai nella Bibbia Dio aveva gridato. Aveva parlato, sussurrato, tuonato, con la potente voce interiore dei sogni. Solo qui, solo per amore, Dio grida, ma per amare di più, non certo per minacciare. Il profeta intona allora il canto dell’amore felice, l’amore danzante che da solo rende nuova la vita.
Lui griderà proprio per me? Io che pensavo di essere una palla al piede per il Regno di Dio, un freno tirato sul suo meccanismo perfetto. Invece il Signore mi lancia l’invito a un intreccio gioioso di passi e di parole, abbracciati sui rami alti dell’albero della vita.
Mentre il profeta intuisce la danza della vita nei cieli, il Battista risponde alla domanda più feriale, che sa di mani e fatica incise nei giorni: «Che cosa dobbiamo fare?» E l’uomo che non possiede nemmeno una veste risponde con la sua vita, con le sue parole: chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ce l’ha. Colui che si nutre di quasi nulla, cavallette e miele selvatico, risponde: chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha. E’ la nuova legge di un altro mercato. Invece dell’accumulo, il dono; al posto dello spreco, la sobrietà. Perché tu vali almeno quanto me, anzi, di più, perché senza te io non sono.
Arrivano pubblicani e soldati, con ruoli di autorità e forza, pilastri del potere romano: «e noi cosa faremo?» Giovanni, l’uomo senza cose, si ripete, ma al negativo: non prendete a nessuno, non estorcete nulla, non accumulate e non maltrattate. Non approfittate del ruolo per umiliare; non abusate della vostra forza per far piangere.
Sempre lo stesso principio: prima le persone, prima il rispetto guardando negli occhi l’altro. La bestemmia è mettere le cose prima delle persone.
Viene uno più forte di me e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. È il più forte, Gesù, perché è l’unico che parla al cuore, che «battezza nel fuoco» con la sua forza che trasforma le cose, che le fa morire per poi risorgerle, nella luce e nel calore.
Gesù ha acceso milioni e milioni di vite, le ha accese e rese felici, come la mia.
E noi cosa dobbiamo fare? Giovanni suggerisce che non conta ciò che fai, ma come lo fai. Puoi essere parlamentare o casalinga, docente o militare, non importa quale lavoro, conta solo la qualità del tuo agire: con quanta giustizia, impegno, umanità, con quanta passione e autenticità svolgi il tuo compito. È la tua profezia. Allora, a cominciare da te, si riprende a tessere il tessuto buono del mondo.
Restiamo profeti, piccoli, e riprendiamo a raccontare di un Dio che danza attorno ad ogni creatura, con la tenerezza di una giovane madre innamorata.

 

Avvenire III Avvento C

Le folle interrogavano Giovanni. Va da lui la gente che non frequenta il tempio, gente qualunque, pubblicani, soldati; vanno da quell’uomo credibile con un’unica domanda, che non tocca teologia o dottrina, ma va diritta al cuore della vita: che cosa dobbiamo fare?
Perché la vita non può essere solo lavorare, mangiare, dormire, e poi di nuovo lavorare… Tutti sentiamo che il nostro segreto è oltre noi, che c’è una vita ulteriore, come appello o inquietudine, come sogno o armonia. Una fame, una voglia di partire: profeta del deserto, tu conosci la strada?
Domandano cose di tutti i giorni, perché il modo con cui trattiamo gli uomini raggiunge Dio, il modo con cui trattiamo con Dio raggiunge gli uomini.
Giovanni risponde elencando tre regole semplici, fattibili, alla portata di tutti, che introducono nel mio mondo l’altro da me. Il profeta sposta lo sguardo: da te alle relazioni attorno a te.
Prima regola: chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto. Regola che da sola basterebbe a cambiare la faccia e il pianto del mondo. Quel profeta moderno che era il Mahatma Gandhi diceva: ciò che hai e non usi è rubato ad un altro.
Giovanni apre la breccia di una terra nuova: è vero che se metto a disposizione la mia tunica e il mio pane, io non cambio il mondo e le sue strutture ingiuste, però ho inoculato l’idea che la fame non è invincibile, che il dolore degli altri ha dei diritti su di me, che io non abbandono chi ha fatto naufragio, che la condivisione è la forma più propria dell’umano.
Vengono ufficiali pubblici, hanno un ruolo, un’autorità: Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato. Una norma così semplice da sembrare perfino realizzabile, perfino praticabile: una insurrezione di onestà, la semplice rivolta degli onesti: almeno non rubate!
Vengono anche dei soldati, la polizia di Erode: hanno la forza dalla loro, estorcono pizzi e regalie; dicono di difendere le legge e la violano: voi non maltrattate e non estorcete niente a nessuno. Non abusate della forza o della posizione per offendere, umiliare, far piangere, ferire, spillare soldi alle persone. Niente di straordinario. Giovanni non dice “lascia tutto e vieni nel deserto”; semplici cose fattibili da chiunque: non accumulare; se hai, condividi; non rubare e non usare violenza.
Il brano si conclude con Giovanni che alza lo sguardo: Viene uno più forte di me e vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. È il più forte non perché si impone e vince, ma perché è l’unico che parla al cuore, l’unico che “battezza nel fuoco”. Ha acceso milioni e milioni di vite, le ha accese e le ha rese felici. Questo fa di lui il più forte. E il più amato.

 

 

Fb 5 dicembre – II di Avvento
Lc 3,1-6

Piana e immensa come la voce (p.Ermes Ronchi)

Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio…
La grande storia è riassunta da Luca nell’elenco dei sette nomi propri che tracciano la mappa del potere politico e religioso.
Alla geografia dei potenti sfuggono però un deserto, un uomo, una parola. Il quasi nulla, quanto basta a mutare la direzione della storia. Mentre a Roma si decidevano le sorti dei popoli, mentre Pilato, Erode, Anna e Caifa si spartivano il potere su quella terra assolata e passionale, su questo meccanismo perfettamente oliato, cade un granello di sabbia del deserto, piccolo granello di profezia: la Parola discese, a volo d’aquila, sopra la sua preda: Giovanni, figlio di Zaccaria e del miracolo.
Scese nel deserto, dove un uomo vale solo quanto il suo cuore pulito, dove è senza maschere. Solo nel deserto la goccia di fuoco della profezia può accendersi e avvampare.
«La parola fu su Giovanni». Metto il mio nome al posto di quello del profeta, e so per certo che molte volte la Parola è venuta inutilmente sopra di me. Metto il mio nome, e sento che ancora viene a cercarmi per i burroni, i colli, le valli del mio quotidiano, con l’assedio implacabile dell’amore, che di me mai si stanca. Metto il mio nome, e voglio essere granello di sabbia nel meccanismo di questa storia sbagliata.
Verrà. Su tutti e su ciascuno può scendere la Parola, perché nessuno ha meno di Giovanni, nessuno ha meno del deserto. Verrà, purché tu sia libero come lui, mai succube o cortigiano del potere di turno. La parola di Dio è sempre in volo in cerca di uomini e donne dove porre il suo nido, di gente vera che voglia diventare “sillaba del Verbo” (Turoldo).
Raddrizzate, appianate, colmate… diventate semplici e diritti. Se non sarò una superstrada non mi importa, mi basterà essere un piccolo sentiero nel sole.
E allora, non resistere, non trattenerti più. Viene Dio e spiana, dice Baruc, il groviglio dei tuoi monti, e sta ad ognuno, dice Giovanni, aprire la mappa delle ferite mai guarite, il labirinto dei suoi burroni, degli abbandoni patiti o inflitti.
Noi resistiamo alla Parola perché è esigente. Arrendersi significa fermarsi, ricevere un battesimo di fuoco, diventare voce che dice con la vita. Ma ancora di più è gioire, perché la Parola è diritta come la luce, piana come la voce che ti parla al cuore, immensa da colmarti la vita.
Chi conta davvero nella storia? Erode sarà ricordato solo perché ha tentato di uccidere quel bambino; Pilato perché l’ha condannato. Conta davvero chi lascia il sogno di Dio abitare la sua carne.
Allora sii come il profeta che vede burroni colmati e monti spianati nel viaggio infinito dell’uomo verso il suo cuore. E poi, nel tuo eremo interiore, con perseveranza, rendi continuo come il respiro, normale come il pane, il dialogo del cielo.

 

Avvenire II Avvento C Luca 3,1-6

Una pagina solenne, quasi maestosa, dà avvio a questo vangelo. Da un luogo senza nome il racconto si lancia fino al cuore dell’impero romano, sconfina dal Giordano fino al trono di Tiberio Cesare.
Il vangelo attraversa le frontiere politiche, sociali, etniche, religiose, per introdurre Gesù, l’uomo senza frontiere, l’asse attorno al quale ruotano i secoli e i millenni, mendicanti e imperatori. Traccia la mappa del potere politico e religioso, e poi, improvvisamente, introduce il dirottamento: nell’anno 15° dell’impero di Tiberio Cesare, la parola di Dio venne… su chi? Sull’imperatore? Sul sommo sacerdote? Su un piccolo re? Su nessuno di questi, ma su di un giovane, un asceta senza tetto, che viveva mangiando il nulla che il deserto gli offriva: insetti e miele faticoso.
La Parola di Dio vola via dal tempio, lontano dalle stanze del potere, e raggiunge un povero nel deserto, amico del vento senza ostacoli, del silenzio vigile, dove ogni sussurro raggiunge il cuore.
La parola discese a volo d’aquila sopra Giovanni, figlio di Zaccaria nel deserto. La nuova capitale del mondo è un luogo senza nome, nelle steppe di Giuda. Là dove l’uomo non può neppure vivere, lì scende la parola che fa vivere.
E percorreva tutta la regione del Giordano. Portava un annuncio, anzi era portato da un annuncio: Raddrizzate, appianate, colmate… C’è del lavoro da fare, un lavoro enorme: spianare e colmare, per diventare semplici e diritti e senza barriere.
Quel giovane profeta un po’ selvatico dipinge un paesaggio aspro, che ha i tratti duri e violenti della nostra storia, irta di barriere e burroni, dove ogni violenza apre un baratro da colmare, tronca strade, non permette il cammino degli uni verso gli altri e, insieme, verso Dio. E le strade su cui Dio sceglie di venire sono sempre le nostre strade…
L’ultima riga del vangelo è bellissima: ogni uomo vedrà la salvezza. Ogni uomo? Sì, letteralmente: ogni donna, ogni anziano, ogni straniero. Dio vuole tutti salvi, e in qualche modo misterioso raggiungerà tutti, e non si fermerà davanti a burroni o montagne, né davanti alla tortuosità del mio passato o ai cocci della mia vita. Ogni uomo vedrà la salvezza: “ogni uomo che fa esperienza dell’amore, viene in contatto con il Mistero di Cristo in un modo che noi non conosciamo” (Conc. Vat. II, G S 22). Ogni persona, di ogni razza e religione, di ogni epoca, sotto ogni cielo, che fa esperienza dell’amore, sfiora e tocca il Mistero diDio. È da brividi la bellezza e la potenza di questa parola.
Tu sei in contatto con il mistero, se ami. Ognuno di noi, se ama, confina con Dio ed entra nel pulsare stesso, profondo, potente e generativo, della vita di Dio.

 

 

 

Signore, la tua Parola percorre ancora la terra,
e la storia si inchina ai tuoi voli.
molte volte la tua Parola è venuta su di me
e so che ancora verrà a cercarmi
per tutti i burroni, per tutti i colli,
per le valli del mio contorto cuore.
Donami un cuore che ascolta
e potrò diventare una voce libera,
voce nel sole e nel vento
un granello di sabbia
dentro il meccanismo di una storia sbagliata.
Un granello di giustizia e di misericordia,
un piccolo granello di pace.
Fa’ o Signore che ogni uomo, ogni uomo, ogni uomo
possa vedere il tuo amore
limpido e diritto come la luce,
forte e gioioso come un vento
che non lasci più dormire la polvere sul cuore.
Amen

Fb 21 novembre 2021
XXXIV
Cristo Re.
…e sia bello come un sogno
Uno di fronte all’altro. L’uomo del potere e l’uomo della libertà.
Pilato incarna il fascino del potere e della paura insieme, tanto che per paura consegnerà Gesù alla morte. Gesù invece incarna sulla sua pelle quella libertà che scaturisce dalle risposte, così nitide e franche. Allora chi è più uomo?
Un prigioniero e il governatore, i due estremi della scala del potere; colui che detiene nella mano la bilancia della giustizia e la spada, e colui che invece è solo un po’ di polvere sulla bilancia. Essi si misurano su ciò che più li rende lontani e opposti.
“Dunque, tu sei re?” Ed è il prigioniero, inerme e mitissimo, a lanciare una sfida al cuore del potere. «Io sono re, ma non in questo mondo». Come per dire: un’altra è la verità della storia, e tu non la conosci.
Le parole greche originarie suonano così: io sono il martire della verità. E che cos’è la verità? Non un’idea, ma una vita.
La verità non si racconta, non si dimostra come fosse un teorema; si mostra, con scelte e rifiuti, con gesti e martirio. A volte con silenzi, con i soli e solitari esempi di cui anche la bibbia trabocca.
Gesù è un re che non ha mai abitato nelle regge. Una sola volta ci è andato, e per essere condannato a morte. Non ha mai portato armi né arruolato eserciti.
Non manda a morte nessuno per lui, ma muore lui per tutti. Il suo primo trono fu una greppia, l’ultimo, la croce, dalla quale non ha voluto scendere anche se lo poteva fare. È stato tentato dal potere e da tutte le mie stesse tentazioni, e ha detto di no. E’ l’unico che ha detto di no.
I regni di quaggiù si combattono ancora oggi, e l’essenziale è sempre vincere, ma Lui cambia rotta: nel mio Regno l’essenziale è dare. Il dono, e non la rapina, è il perno della storia.
“Metti via la spada!”, ha detto a Pietro, altrimenti la ragione sarà sempre del più forte. Sono venuto a portare libertà ai prigionieri, luce ai ciechi, ai poveri che sono i principi del mondo; gioia ai costruttori di vita, sono loro i veri signori della terra.
«Per questo sono nato, per testimoniare il volto d’amore di Dio». Cristo è re per questa verità, e non dispone di terre e di eserciti, non dirige tempeste, stelle od oceani, ma possiede e comanda con una sola legge: amatevi.
Un re che non ha mai ingannato nessuno, il suo parlare era sì, sì; no, no. È l’unico re che ha detto la verità, e anche per questo il suo Regno non può essere di questo mondo. E’ re perché genera umanità; perché innesta bisogni inediti, crea una tensione a fiorire, perché sta dalla parte dell’umano contro il disumano imperante.
Venga il tuo Regno, Signore, e sia bello come i sogni, sia intenso come le tue lacrime versate per costruirlo.

 

Avvenire

Cristo Re 2021
Pilato, l’uomo che detiene il maggior potere in Gerusalemme, e il giovane rabbi disarmato: l’uno di fronte all’altro, di fronte alla storia del mondo.
Tu sei il re dei giudei? Possibile che quel galileo dallo sguardo limpido e diritto sia a capo di una rivolta, che ne nasca un pericolo per Roma? No, quell’uomo inerme è un pericolo per i complotti del sinedrio, per i giochi dei politici: ti hanno consegnato a me, vogliono ucciderti. Cosa hai fatto?
Gesù mi commuove con il suo coraggio, con la sua statura interiore, mentre fa alzare sul pretorio un vento regale di libertà e fierezza. E adesso apre il mondo di Pilato, lo dilata, fa irrompere un’altra dimensione, un’altra latitudine del cuore: il mio regno non è di questo mondo, dove si combatte, si fa violenza, si abusa, si inganna, ci si divora. Nel mio regno non ci sono legioni, né spade, né predatori. Per i regni di quaggiù, per il cuore di quaggiù, l’essenziale è vincere, nel mio Regno la cosa più importante è servire. Il mio regno appartiene ai poveri, ai limpidi, ai liberi, agli artigiani della pace e della giustizia… Sono venuto per far sorgere i re di domani tra i piccoli di oggi.
“Sono venuto nel mondo, per testimoniare un’altra verità” . La parola di Gesù è vera proprio perché disarmata, non ha altra forza che la sua luce. È lì davanti, la verità; è quell’uomo in cui le parole più belle del mondo sono diventate carne e sangue, sono diventate vere.
Oggi non celebriamo la salita al trono del padrone del mondo, Gesù non è questo: lui è l’autore e il servitore della vita. Che ci cambia la logica della storia attraverso la rivoluzione della tenerezza, parola ultima sul senso della nostra esistenza e, insieme, sul cuore di Dio. Allora, chi è il mio re? Chi il mio Signore? Chi da ordini al mio futuro?
Io scelgo lui, ancora lui, il nazareno, con la certezza che il nostro contorto cuore, questa storia aggrovigliata, stanno percorrendo, nonostante tutte le smentite, un cammino di salvezza. Perché Dio è coinvolto, è qui, ha le mani impigliate per sempre nel folto di ogni vita.
Pilato prende l’affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l’iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei. Voleva deriderlo, e invece è stato profeta: il re è visibile là, sulla croce, con le braccia aperte, dove dona tutto di sé e non prende niente di nostro. Potere vero, quello che cambia il mondo, è la capacità di amare così, di disarmato amore, fino all’ultimo, fino all’estremo, fino alla fine.
Venga il tuo Regno, Signore, e sia bello come tutti i sogni, sia intenso come tutte le lacrime di chi visse e morì nella notte per forzarne l’aurora.

 

 

 

COMPLIMENTI PER LA TUA CREAZIONE, SIGNORE!

Se ci pensiamo bene raramente ci soffermiamo a cercare di essere consapevoli delle meraviglie del Signore e del suo Creato.

Nella preghiera gli domandiamo molte cose e Lui ci dona sempre quelle che sa meglio di noi che ci faranno bene.

A volte recitiamo qualche lode o gloria al Padre.

Ma fare i complimenti al Signore è un po’ diverso perché essi provengono più facilmente da un cuore disinteressato: complimenti che sgorgano dallo stupore per la sua grandezza, onnipotenza, benevolenza e misericordia.

In quei momenti non gli chiediamo nulla, né grazie particolari, né misericordia, né alcunché che possa servire al nostro ego.

Facendogli i complimenti ammiriamo Dio in sé, per quello che é. Un’attenzione da parte nostra, povere creature che dipendono completamente da Lui, che Egli non rifiuta e che raccoglie nel fondo del suo purissimo Cuore con esultanza.

Non dimentichiamoci, quindi, di esternare al Signore i nostri complimenti, dimostrandogli un frammento di amore puro, che Lui purificherà quando sarà il momento opportuno. Egli esulta sempre per la nostra evoluzione spirituale!

 

In questo video il famoso teologo biblista p.Ermes Ronchi interviene per sottolineare la gioia e la preghiera..

 

 

Se volete essere aggiornati sui nuovi video che realizzo (quasi 5000) iscrivetevi al mio canale youtube “UNIVERSO INTERIORE piaipier”: http://www.youtube.com/user/piaipier

Chi desidera può diventare membro della confraternita “COMUNIONE DEI SANTI” (può così ricevere e dare solidarietà nella preghiera tra i membri).

Basta iscriversi al canale “UNIVERSO INTERIORE piaipier”: https://www.youtube.com/channel/UCEvG…

 

 

 

Fa tenerezza un Dio che chiede: «Ascoltami, ti prego! Io ti voglio bene! Puoi amarmi anche tu?» Cuore del comando è un’invocazione accorata, non un dovere. Dio prega solo di essere amato.
Ma amare come? Mettendosi in gioco, sempre. Amerai con tutto, con tutto, con tutto… Il tutto di cuore, mente, anima, forza.

Noi pensiamo che la santità stia nella moderazione delle passioni. Ma dov’è mai questa moderazione nella Bibbia? L’unica misura dell’amore è amare senza misura. Gesù sa che solo facendo questo, sarà pace per l’uomo. Perché chi ama così ritrova l’unità di se stesso e la sua pienezza.
“Questi sono i comandi di Dio… Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice” (Dt 6,1-3). Non c’è altra risposta al desiderio profondo di felicità, nessun’altra, al male del mondo, che non sia questa: amare.
Come te stesso: ama anche te, insieme a Dio e al tuo prossimo. E come per te vuoi libertà e giustizia, così sarà per tuo fratello, sulle orme di Dio. Come per te desideri amicizia e dignità, questo vorrai anche per chi ti cammina a fianco.

Ama questa polifonia della vita e la Sua immagine entrerà in te, perché l’amore trasforma, e ognuno diventa simile a ciò che ama.

Per raccontare l’amore verso il prossimo Gesù regala la parabola del samaritano buono (Lc 10,29-37). Per indicare come amare Dio con tutto il cuore, non sceglie né una parabola né un’immagine, ma una donna, Maria di Betania «che seduta ai piedi del Maestro, ascoltava la sua parola» (Lc 10, 38).

Gesù sa che il modo di ascoltare di Maria è la «scelta migliore», perfetto per spiegare come si ami Dio: come un’amica che siede sotto la cupola d’oro dell’amicizia, che lo ascolta, rapita, e che non lascia cadere neppure una delle sue parole, ma le raccoglie in un vaso profumato.

Amare Dio è ascoltarlo, come bambini innamorati. Se Lo amerai così, sarai con Lui creatore di vita, perché «Dio non fa altro che questo, tutto il giorno: sta sul lettuccio della partoriente e genera» (M. Eckhart). Che cosa genera? Amore che è vita.

Così anche tu amerai, per tutto il tuo tempo. E darai vita, nella gioia.

Testo di p.Ermes Ronchi

 

 

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Mc 12,28-34

Tutto il giorno con Te (di p. Ermes Roonchi)

Cosa c’è al centro della fede? Qual è il più grande comandamento? Lo sapevano tutti in Israele: è il terzo, quello che prescrive di santificare il Sabato come aveva fatto Dio (Gn 2,2). E quello che più di ogni cosa dona felicità all’uomo: amare. Non regole né riti, ma semplicemente, meravigliosamente: amare.
Nulla di nuovo rispetto alla legge antica, il primo e il secondo decreto sono già nel Libro. Ma ora Gesù regala un comando diverso. La novità sta nel fatto che le due parole si fondono nell’unico precetto, e l’averli separati si rivela l’origine assoluta dei nostri mali.
Qual è il primo dei comandamenti? La risposta di Gesù inizia con “shemà Israel”, ascolta popolo mio.
Fa tenerezza un Dio che chiede: «Ascoltami, ti prego! Io ti voglio bene! Puoi amarmi anche tu?» Cuore del comando è un’invocazione accorata, non un dovere. Dio prega solo di essere amato.
Ma amare come? Mettendosi in gioco, sempre. Amerai con tutto, con tutto, con tutto…  Il tutto di cuore, mente, anima, forza. Noi pensiamo che la santità stia nella moderazione delle passioni. Ma dov’è mai questa moderazione nella Bibbia? L’unica misura dell’amore è amare senza misura. Gesù sa che solo facendo questo, sarà pace per l’uomo. Perché chi ama così ritrova l’unità di se stesso e la sua pienezza.
“Questi sono i comandi di Dio… Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice” (Dt 6,1-3). Non c’è altra risposta al desiderio profondo di felicità, nessun’altra, al male del mondo, che non sia questa: amare.
Come te stesso: ama anche te, insieme a Dio e al tuo prossimo. E come per te vuoi libertà e giustizia, così sarà per tuo fratello, sulle orme di Dio. Come per te desideri amicizia e dignità, questo vorrai anche per chi ti cammina a fianco.
Ama questa polifonia della vita e la Sua immagine entrerà in te, perché l’amore trasforma, e ognuno diventa simile a ciò che ama.
Per raccontare l’amore verso il prossimo Gesù regala la parabola del samaritano buono (Lc 10,29-37). Per indicare come amare Dio con tutto il cuore, non sceglie né una parabola né un’immagine, ma una donna, Maria di Betania «che seduta ai piedi del Maestro, ascoltava la sua parola» (Lc 10, 38).
Gesù sa che il modo di ascoltare di Maria è la «scelta migliore», perfetto per spiegare come si ami Dio: come un’amica che siede sotto la cupola d’oro dell’amicizia, che lo ascolta, rapita, e che non lascia cadere neppure una delle sue parole, ma le raccoglie in un vaso profumato.
Amare Dio è ascoltarlo, come bambini innamorati. Se Lo amerai così, sarai con Lui creatore di vita, perché «Dio non fa altro che questo, tutto il giorno: sta sul lettuccio della partoriente e genera» (M. Eckhart). Che cosa genera? Amore che è vita.
Così anche tu amerai, per tutto il tuo tempo. E darai vita, nella gioia.

 

Avvenire XXXI Domenica Mc 12,28-34

Qual è, fra tutti, il più grande comandamento? Aiutaci a ritornare al semplice, al principio di tutto… Gesù lo fa, esce dagli schemi, risponde con una parola che tra i comandamenti non c’è. Che bella la libertà, l’intelligenza anti conformista di Gesù, lui l’icona limpidissima della libertà e dell’immaginazione.
La risposta comincia con un verbo: amerai, al futuro, a indicare una storia infinita, perché l’amore è il futuro del mondo, perché senza amore non c’è futuro: vi amerete, altrimenti vi distruggerete. E poi per vivere bene, perché la bilancia su cui si pesa la felicità di questa vita è dare e ricevere amore.
Prima ancora però c’è un ‘comandamento zero’: shemà, ascolta, ricordati, non dimenticare, tienilo legato al polso, mettilo come sigillo sul cuore, come gioiello davanti agli occhi… Fa tenerezza un Dio che chiede: “Ascoltami, per favore”. Amare Dio è ascoltarlo.
Amerai con tutto il cuore; non da sottomesso ma da innamorato. Qualcuno ha proposto un’altra traduzione: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Come a dire: con il tuo cuore di luce e con il cuore d’ombra, amalo con il cuore che crede e anche con il cuore che dubita; come puoi, come riesci, magari col fiatone, quando splende il sole e quando si fa buio, e a occhi chiusi quando hai un po’ paura, anche con le lacrime. Santa Teresa d’Avila in una visione riceve questa confidenza dal Signore: “Per un tuo ‘ti amo’ rifarei di nuovo l’universo”.
Con tutta la tua mente. Amore intelligente deve essere; che significa: conoscilo, leggi, parla, studia, pensa, cerca di capire di più, godi di una carezza improvvisa, scrivi una preghiera, una canzone, una poesia d’amore al tuo amore…
Ma con questo, cosa ha detto di nuovo Gesù? In fondo le stesse parole le ripetono i mistici di tutte le religioni, i cercatori di Dio di tutte le fedi, da millenni. La novità evangelica è nell’aggiunta inattesa di un secondo comandamento, che è simile al primo… Il genio del cristianesimo: amerai l’uomo è simile all’amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio. Il prossimo ha volto e voce, fame d’amore e bellezza, simili a Dio. Cielo e terra non si oppongono, si abbracciano. Vangelo strabico, verrebbe da dire: un occhio in alto, uno in basso, testa nel cielo e piedi per terra.
Ma chi è il mio prossimo? Gli domanderà un altro dottore. C’è una risposta che mi ha allargato il cuore, quella di Gandhi: “il mio prossimo è tutto ciò che vive con me sulla terra”, la natura, l’acqua, l’aria, le piante, gli animali. Ama la terra, allora, come te stesso, amala come l’ama Dio. Vivere è convivere, esistere è coesistere. Non già obbedire a comandamenti o celebrare liturgie, ma semplicemente, meravigliosamente, felicemente: amare.

 

Mc 10,46-52

Mendicando luce (di p.Ermes Ronch)i

Siamo tutti, come Bartimeo, dei mendicanti di luce seduti ai bordi della strada, mentre la vita ci scorre a fianco. Seduti, perché tanto ogni strada si equivale, e molte non portano da nessuna parte.
Un mendicante cieco. Cosa c’è di più perduto e inutile alla storia, di più naufrago nella vita?
Un ritratto tracciato con tre drammatiche pennellate: cieco, mendicante, solo. Con la folla a fare muro sul suo grido: taci! Il tuo dolore è fuori luogo!
Terribile pensare che davanti a Dio la sofferenza sia inopportuna, che il grido sia una nota stonata.
La folla lo sgrida, perché i poveri disturbano, sempre: ci fanno un po’ paura, sono là dove noi non vorremmo mai essere, sono il lato doloroso della vita, ciò che temiamo di più come una malattia. Ma è proprio sulla povertà dell’uomo che si posa sempre il primo sguardo di Gesù; non sulla moralità di una persona, ma sul suo dolore che quindi grida ancora di più.
Solo e al buio, grida la sua disperata speranza. Un grido viscerale, che sale da ciò che ognuno ha di più profondo e carnale. Il grido è più che parola, ha dentro corpo, energia, dolore, bisogno. È del bambino che nasce, del morente in croce che urla al cielo e alla terra il buio che ha nel cuore.
Finché c’è un grido, la speranza ha la sua casa.
Ed ecco dalla folla sorgere tre parole: coraggio, alzati, ti chiama. E tutto sembra eccessivo, esagerato. Coraggio! Il Bartimeo guarito si fa irruente e balza in piedi, getta il mantello, lascia ogni sostegno, le mani avanti, verso quella voce che lo chiama, guidato, stregato da quella Parola che ancora vibra nell’aria. E come lui anche noi ci orientiamo al buio, andiamo avanti senza certezze assolute fidandoci solo della sua Voce, captata con ansia e finezza di cuore.
Che cosa vuoi che io ti faccia? Signore, che io veda!
E che cosa mai vuole vedere? Non i paesaggi o la polvere dorata della Palestina, il mendicante di luce vuole una strada.
La fede è questo: un eccesso, un di più illogico e meravigliosamente bello, una strada costellata di luce nel buio della notte.
Bartimeo vede l’uomo Gesù, vede il suo Vangelo che sarà per lui come «Un sole che sorge dall’alto» (Luca 1, 78), una via cui affidarsi. E guarisce come uomo, prima che come cieco. Guarisce nella voce che lo accarezza. Qualcuno si è accorto di lui, qualcuno lo ama e lo tocca con la voce, e lui esce grondante e felice dal suo naufragio umano.
L’ultimo comincia a riscoprirsi uno come gli altri, e la sua vita si riaccende perché è l’amore a chiamarlo.
Sentire che qualcuno ci ama rende fortissimi.
Anche noi, brancolanti nel buio, almeno una volta, dietro a una parola di Vangelo, abbiamo lasciato i nostri angoli bui, la vita seduta, le vecchie strade e forse, quando ci siamo buttati in volo, si sono aperte strade di luce, sotto ali che non sapevamo di avere.

Avvenire XXX domenica
Vangeli di strade e di incontri, in queste settimane.
Mentre partiva da Gerico… siamo alle porte della città, dove le carovane dei pellegrini si ricompongono, dove si aggirano i mendicanti, sperando in una monetina tra i tanti che si danno appuntamento alle porte.
Un cieco, seduto, a terra, immobile, sta lì a mendicare la sua sopravvivenza da chi passa. Ma ecco che “sentendo che era Gesù il Nazareno” Bartimeo è come investito da un brivido, da una scossa: alza la testa, si rianima, comincia a gridare il suo dolore. Non si vergogna di essere il più povero di tutti, anzi è la sua forza. Siamo tutti come lui, mendicanti di affetto o di amore o di luce. La mendicanza è la sorgente della preghiera: “Kyrie eleison”, grida. Tra tutte, la preghiera più cristiana ed evangelica, la più antica e la più umana. Che nelle nostre liturgie abbiamo confinato all’atto penitenziale, mentre è la richiesta di nascere di nuovo. La ripetono lebbrosi, donne, ciechi e non è richiesta di perdono per i peccati, ma di luce per gli occhi spenti, di una pelle nuova che riceva carezze ancora.
Come un bambino che grida alla madre lontana, chiedono a Dio: mostrati padre, sentiti madre di questo figlio naufrago, fammi nascere di nuovo, ridammi alla luce! Bartimeo cerca un Dio che si intrecci con la sua vita a pezzi, con i suoi stracci.
Ma la folla attorno fa muro al suo grido: taci! disturbi! Terribile pensare che la sofferenza possa disturbare. Disturbare Dio! Bartimeo allora fa l’unica cosa che si può fare in questi casi: grida più forte. È il suo combattimento, con le tenebre e con la folla.
Il Nazareno ascolta il grido e risponde in un modo tutto nuovo: coinvolge la folla che prima voleva zittire il mendicante, si fida della folla, anche se è così facile a cambiare di umore: chiamatelo!
E la folla va, portavoce di Cristo, e si rivolge al cieco con parole bellissime, da brivido, dove è custodito il cuore dell’annuncio evangelico. Parole facili e che vanno diritte al cuore, da imparare, da ripetere, sempre, a tutti: “coraggio, alzati, ti chiama”.
Coraggio, la virtù degli inizi.
Alzati, dipende da te, lo puoi fare, riprendi in mano la tua vita.
Ti chiama, è qui per te, non sei solo, il cielo non è muto.
Ed ecco che si libera l’energia compressa, e fioriscono gesti quasi eccessivi:
non parla, grida;
non si toglie il mantello, lo getta;
non si alza da terra, ma balza in piedi.
Guarisce in quella voce che lo accarezza, lo chiama e diventa la strada su cui cammina.
Noi, che siamo al tempo stesso mendicanti e folla, nelle nostre Gerico, lungo le nostre strade, ad ogni persona a terra, portiamo in dono, senza stancarci mai, queste tre parole generanti: coraggio, alzati, ti chiama!

 

 

Fb 17 ottobre 2021
Mc 10,35-45

Lo scettro nella brocca (di p. Ermes Ronchi)

Vangelo dei paradossi perenni, nella più sorprendente autodefinizione di quel Gesù «venuto per servire». Tutto nasce dal fatto che Giovanni il teologo, l’aquila, il mistico, il discepolo amato, chiede di essere al primo posto.
L’ansia del primo posto è una passione così forte che avvolge e penetra il cuore di tutti. Pericolosamente.
Gesù prende le radici del potere e le capovolge al sole e all’aria: Non sapete quello che chiedete! Non avete ancora capito a cosa andate incontro, quali argini rompete con questa domanda, che cosa scatenate con questa fame assurda.
Adesso non solo i due figli di Zebedeo (i boanerghes, i figli del tuono, irruenti e autoritari come indica il soprannome datogli da Gesù), ma tutti e dodici vengono chiamati di nuovo dal maestro, che spalanca loro l’alternativa cristiana: tra voi non sia così.
I grandi della terra dominano sugli altri, si impongono; credono di governare con la forza… ma voi no, non siate così!
I potenti del mondo costruiscono imperi di oppressi, di conquistati, di uccisi, ma Dio non è così. Non ha troni, solo un asciugamano. S’inginocchia davanti a te, e il suo impero è quel poco spazio che basta a lavarti i piedi. Da lì, da terra, cerca gli occhi tuoi di figlio, e le ferite del mondo, per fasciarle con bende di luce.
Essere sopra l’altro è stare alla massima distanza da lui, ma qui Dio capovolge la storia e si pone alla massima vicinanza, ai tuoi piedi.
Vanno a pezzi le vecchie idee sul Signore padrone dell’universo, sul Re dei re che ora diventa servo di tutti. Non tiene il mondo ai suoi piedi, ma si inginocchia lui davanti a me, creatura. Come sarebbe l’umanità se avessimo l’uno per l’altro la premura umile di Dio? Se ognuno si inchinasse non davanti al potente, ma all’ultimo?
Noi non abbiamo ancora capito cosa significhi davvero un Dio nostro servitore. Il padrone fa paura, il servo no. Il padrone giudica e punisce, il servo non lo farà mai: non spezza la canna incrinata, la fascia come fosse un cuore ferito; non spegne lo stoppino dalla fiamma smorta, lo lavora affinché ne sgorghi di nuovo il fuoco.
Dio non pretende che siamo già luminosi, lui opera in noi, con noi, perché lo diventiamo. Se Egli è nostro servitore, chi sarà nostro padrone? Il cristiano non ne ha! Nessun padrone a tenerci legati, ma servi di ogni frammento di vita, perché l’unico modo affinché non ci siano più padroni è essere tutti a servizio di tutti, con grandissimo coraggio.
Ma io tremo se penso alla brocca e all’asciugamano. È così duro servire ogni giorno, custodire germogli, vegliare sui passi della luce, benedire ciò che nasce. Il cuore dubita, ed è subito stanco.
Non resta che lasciarsi abitare da lui, non resta che affidarsi ancora al vangelo. Se Dio è il nostro servitore, servizio è il nome nuovo della storia, il nome più umano della civiltà.

 

Avvenire XXIX domenica Marco 10, 35-45

Tra voi non è così! Bellissima espressione che mette a fuoco la differenza cristiana. Gli altri dominano, non così tra voi. Voi vi metterete a fianco delle persone, o ai loro piedi, e non al di sopra.
Gli altri opprimono. Voi invece solleverete le persone, le tirerete su per un’altra luce, altro sole, altro respiro.
La storia gloriosa di ciascuno non è scritta da chi ha avuto la capacità di dominarci, ma da chi ha avuto l’arte di amarci: gloria della vita.
Sono venuto per dare la mia vita in riscatto per la moltitudine… Gesù riscatta l’umano, ridipinge l’icona di cosa sia la persona, cosa sia vita e cosa no, tira fuori un tesoro di luce, di sole, di bellezza da ciascuno. Libera il volto nuovo dell’umanità, riscatta l’umano dagli artigli del disumano; riscatta il cuore dell’uomo dal potere mortifero della indifferenza. Gesù è il guaritore del peccato del mondo, che ha un solo nome: disamore.
Giacomo e Giovanni, i “figli del tuono”, gli avevano chiesto, con quel tono da bambini: vogliamo che tu ci faccia quello che vogliamo noi…
Gli altri apostoli si indignano, lo fanno per rivalità, per gelosia, perché i due fratelli hanno tentato di manipolare la comunità. Ma Gesù non li segue, va avanti, salva la domanda dei due e anche l’indignazione degli altri: li chiama a sé, nell’intimità, cuore a cuore, e spiega, argomenta. Perché dietro ad ogni desiderio umano, anche i più storti, c’è sempre una matrice buona, un desiderio di vita, di bellezza, di armonia. Ogni desiderio umano ha sempre dietro una parte sana, piccolissima magari. Ma quella è la parte da non perdere.
Gli uomini non sono cattivi, sono fragili e si sbagliano facilmente.
“Anche il peccato è spesso un modo sbagliato per cercarti” (D. M. Turoldo).
L’ultima frase del vangelo è di capitale importanza: sono venuto per servire. La più spiazzante autodefinizione di Gesù. La più rivoluzionaria e contromano. Ma che illumina di colpo il cuore di Dio, il senso della vita di Cristo, e quindi della vita di ogni uomo e ogni donna.
Un Dio che, mentre nel nostro immaginario è onnipotente, nella sua rivelazione è servo. Da onnipotente a servo. Novità assoluta.
Perché Dio ci ha creati? Molti ricordiamo la risposta del catechismo: Per conoscere, amare e servire Dio in questa vita, e goderlo nell’altra… Gesù capovolge la prospettiva, le dà una bellezza e una profondità che stordiscono: siamo stati creati per essere amati e serviti da Dio, qui e per sempre. Dio esiste per te, per amarti e servirti, dare per te la sua vita, per essere sorpreso da noi, da questi imprevedibili, liberi, splendidi, creativi e fragili figli. Dio considera ogni figlio più importanti di se stesso.

 

 

 

Fb 26 settembre 2021

Cicatrici luminose (di p.Ermes Ronchi)

Mc 9,38-43.45.47-48

«Maestro, quell’uomo non è dei nostri… Non importa se è bravo, fa miracoli e dalle sue mani germogliano vita e luce. Ci oscura! Ci toglie pubblico. Viene da un’altra storia, e noi dobbiamo difendere la nostra».

L’istituzione prima di tutto, l’appartenenza prima del miracolo, l’ideologia prima della verità.

Non era, non sono dei nostri. Tutti lo ripetono: gli apostoli di allora, le chiese, le nazioni, i partiti davanti ai flussi migratori. Separano. Invece noi vogliamo seguire quest’uomo senza barriere, quel Gesù che ha un’altra intuizione capace di cambiare il corso della storia: non glielo impedite, perché chi non è contro di noi è per noi.

La persona viene sempre prima della legge, prima anche della verità.

Chiunque aiuta il mondo a fiorire è mio discepolo.

Si possono incarnare sogni di Vangelo anche senza essere cristiani, il Regno è molto più vasto e profondo di tutte le istituzioni messe insieme. Si può essere uomini di Dio anche senza essere uomini della Chiesa, e il Regno è infinitamente più grande di tutte le chiese.

Chiunque fa del bene, chiunque dà un sorso d’acqua, un sorso di miracolo, è dei nostri. L’uomo tutto è dei nostri, e “l’uomo” siamo tutti. Quanti sono di Cristo e neppure lo sanno! Lottano contro i demoni di ingiustizia, violenza, soprusi; sono capaci dei miracoli dell’amore, sanno dare vita e libertà e futuro a uno solo o a tanti fratelli. Fuori dall’accampamento, eppure profeti di luce.

«Fossero tutti profeti», esclama Mosé. Allora impariamo a godere e a ringraziare del bene, da chiunque sia fatto.

Tante volte di fronte al male ci sentiamo frustrati e impotenti. Gesù dice: tu porta il tuo bicchiere d’acqua, fidati, il peggio non prevarrà. Così ti porta a gettarti dentro lo Spirito dei profeti e a vivere molte vite, a vivere storie d’altri come fossero le tue. Se tutti i miliardi di persone portassero il loro bicchiere d’acqua, quale oceano d’amore si stenderebbe a coprire il mondo.

E termina con parole dure: «Se la tua mano, il tuo piede, il tuo occhio ti scandalizzano, tagliali, gettali via». Vangelo delle cicatrici luminose, perché le parole di Gesù non sono l’invito a un’inutile automutilazione, ma un linguaggio figurato, incisivo, che trasmette la serietà con cui si deve pensare alle cose essenziali. Anche perdere ciò che ti è prezioso, come la mano e l’occhio, non è paragonabile al danno che deriva dall’aver sbagliato la vita.

Non dare sempre la colpa agli altri, alla società, all’infanzia, alle circostanze. Se il male si è annidato dentro di te, nel tuo occhio, nella tua mano, nel tuo cuore, tu scava, cerca il tuo mistero d’ombra, e convertilo. Dio ci invita a temere di più una vita fallita che non le ferite dolorose della vita stessa.

La soluzione non è una mano tagliata, ma una mano convertita, mano felice nel dono di sè.

 

XXVI DOMENICA B  Mc 9,38-43.45.47-48 (Avvenire)

Maestro, quell’uomo non è dei nostri. Quel forestiero che fa miracoli, ma che non è iscritto al gruppo; che migliora la vita delle persone, ma forse è un po’ eretico o troppo libero, viene bloccato. E a capo dell’operazione c’è Giovanni, il discepolo amato, il teologo fine, ‘il figlio del tuono’, ma che è ancora figlio di un cuore piccolo, morso dalla gelosia.

“Non ti è lecito rendere migliore il mondo se non sei dei nostri!” La forma prima della sostanza, l’iscrizione al gruppo prima del bene, l’idea prima della realtà!

Invece Mosè, nella prima lettura, dà una risposta così liberante a chi gli riferisce di due che non sono nell’elenco eppure profetizzano: magari fossero tutti profeti…

La risposta di Gesù, l’uomo senza frontiere, è molto articolata e molto alla Mosè: Lascialo fare! Non tracciare confini. Il nostro scopo non è aumentare il numero di chi ci segue, ma far crescere il bene; aumentare il numero di coloro che, in molti modi diversi, possano fare esperienza del Regno di Dio, che è gioia, libertà e pienezza.

È grande cosa vedere che per Gesù la prova ultima della bontà della fede non sta in una adesione teorica al “nome”, ma nella sua capacità di trasmettere umanità, gioia, salute, vita. Chiunque regala un sorso di vita, è di Dio. Questo ci pone tutti, serenamente e gioiosamente, accanto a tanti uomini e donne, diversamente credenti o non credenti, che però hanno a cuore la vita e si appassionano per essa, che sono capaci di inventarsi miracoli per far nascere un sorriso sul volto di qualcuno. Il vangelo ci chiama a  “stare accanto a loro, sognando la vita insieme” (Evangelii Gaudium74).

Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua…non perderà la sua ricompensa. Un po’ d’acqua, il quasi niente, una cosa così semplice e povera che nessuno ne è privo.

Gesù semplifica la vita: tutto il vangelo in un bicchiere d’acqua. Di fronte all’invasività del male, Gesù conforta: al male opponi il tuo bicchiere d’acqua; e poi fidati: il peggio non prevarrà.

Mosè e Gesù, maestri della fede, ci invitano a non piantare paletti ma ad amare gli orizzonti, a guardare oltre il cortile di casa, a tutto l’accampamento umano, a tutta la strada da percorrere: alzate gli occhi, non vedete quanti semi dello Spirito volano dappertutto? Quante persone lottano per la vita dei fratelli contro i démoni moderni: inquinamento, violenza, fake news, corruzione, economia che uccide? E se anche sono fuori dal nostro accampamento, sono comunque profeti. Sono quelli che ascoltano il grido dei mietitori non pagati (Giacomo 5,4) e ridanno loro parola, perché tutto ciò che riguarda l’avventura umana riguarda noi. Perché tutti sono dei nostri e noi siamo di tutti.

 

«Chi accoglie un bambino, accoglie il Padre» (p. Ermes Ronchi)

Proporre il bambino come modello di fede è far entrare nella religione l’inedito.
Cosa sperimenta un bambino? La tenerezza degli abbracci, l’emozione delle corse, il vento sul viso… Non sa di filosofia né di leggi. Ma conosce come nessuno la fiducia, e si affida.
Un bambino non basta a se stesso, e riceve tutto restituendo così poco; improduttivo eppure in pace davanti al futuro, sicuro non di sé, ma dei genitori; forte non della propria forza, ma di quella con cui lo sollevano le braccia del padre. Un bambino porta festa nel quotidiano! Lui sa aprire la bocca in un sorriso quando ancora non ha smesso di asciugarsi le lacrime.
Nessuno ama la vita più appassionatamente di un bambino.
Averlo come riferimento, per il cammino del credente, significa entrare in un mondo grande appena quanto lo spazio del grido con cui egli chiama la madre. Ma “se non diventerete come loro”, se non ritroverete lo stupore di essere figli piccolini che sanno piangere imparando a ridere, non entrerete mai nel Regno, perché non sapete cos’è la gioia!
Parole mai dette prima, scandalo per i giudei, follia per i greci, ma parole finalmente liberate come uccelli, come angeli sui confini infiniti dell’anima e del tempo. Solo i bambini danno ordini al futuro.
«Chi accoglie un bambino, accoglie il Padre». Mi commuove l’ottimismo di Dio: non tanto l’uomo è sua immagine, ma lo è il bambino, l’eterno che si abbrevia nel frammento. Per Gesù, Dio è il padre buono che scorge il figlio da lontano e gli si butta al collo, è il pastore che trova la pecorella e se la pone sulle spalle.

 

Grazie alla preziosa ed importante collaborazoine di Fabio L. e della sua famiglia

 

 

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Fb 19 settembre 2021

Solo essi danno ordini al futuro

Mc 9, 30-37

Gesù oggi ci offre tre definizioni di sé, una più contromano dell’altra, valide per ogni epoca; ultimo, servitore, piccolo, mettendo al centro non se stesso ma colui che è il più inerme e il più amato: un bambino.

Mette i dodici, e noi, di fronte a un limpidissimo e stravolgente pensiero: chi vuol essere il primo sia l’ultimo, il servo di tutti. Così Gesù ci disarma e sguinzaglia il nostro lato giocoso, fanciullesco.

Proporre il bambino come modello di fede è far entrare nella religione l’inedito.

Cosa sperimenta un bambino? La tenerezza degli abbracci, l’emozione delle corse, il vento sul viso… Non sa di filosofia né di leggi. Ma conosce come nessuno la fiducia, e si affida.

Un bambino non basta a se stesso, e riceve tutto restituendo così poco; improduttivo eppure in pace davanti al futuro, sicuro non di sé, ma dei genitori; forte non della propria forza, ma di quella con cui lo sollevano le braccia del padre. Un bambino porta festa nel quotidiano! Lui sa aprire la bocca in un sorriso quando ancora non ha smesso di asciugarsi le lacrime.

Nessuno ama la vita più appassionatamente di un bambino.

Averlo come riferimento, per il cammino del credente, significa entrare in un mondo grande appena quanto lo spazio del grido con cui egli chiama la madre. Ma “se non diventerete come loro”, se non ritroverete lo stupore di essere figli piccolini che sanno piangere imparando a ridere, non entrerete mai nel Regno, perché non sapete cos’è la gioia!

Parole mai dette prima, scandalo per i giudei, follia per i greci, ma parole finalmente liberate come uccelli, come angeli sui confini infiniti dell’anima e del tempo. Solo i bambini danno ordini al futuro.

«Chi accoglie un bambino, accoglie il Padre». Mi commuove l’ottimismo di Dio: non tanto l’uomo è sua immagine, ma lo è il bambino, l’eterno che si abbrevia nel frammento. Per Gesù, Dio è il padre buono che scorge il figlio da lontano e gli si butta al collo, è il pastore che trova la pecorella e se la pone sulle spalle.

Dio abbraccia il più piccolo perché nessuno sia perduto; non la briciola di pane, non l’agnellino in fondo al gregge, non due spiccioli di un tesoro. «Neppure un capello del vostro capo, neppure un passero che cade a terra». E come potrebbe mai andare perduto un bambino?

Accogliere, verbo che plasma il mondo come Dio lo sogna. Ci sarà futuro se l’accoglienza, tema bruciante oggi più che mai sui confini d’Europa, sarà il nuovo nome della civiltà. Un invito per tutti a farsi madri di Dio, con Maria; che nella vita non ha fatto nient’altro di speciale che accogliere Dio nel suo bambino, e con questo ha fatto tutto. E a noi non resta che farci prendere in braccio.

La Chiesa, o è madre accogliente per tutti, o non è, perché accogliere l’ultimo è accogliere Dio, e non si può abbandonare Dio sulla strada.

 

Avvenire 25° Marco 9,30

Un’alternanza di strade e di case: i tre anni di Galilea sono raccontati così da Marco. Sulla strada si cammina al ritmo del cuore; si avanza in gruppo; qualcuno resta un po’ indietro, qualcun’altro condivide chiacchiere leggere con un amico, lasciando fiorire parole autentiche e senza maschere. Gesù ha lasciato liberi i discepoli di stare tra loro, per tutto il tempo che vogliono, con i pensieri che hanno, con le parole che sanno, senza stare loro addosso, controllare tutto, come un genitore ansioso.

Poi il vangelo cambia ambientazione: giungono in casa, e allora cambia anche la modalità di comunicazione di Gesù: “sedutosi, chiamò i dodici e disse loro (sedette, chiamò, disse sono tre verbi tecnici che indicano un insegnamento importante): di cosa stavate parlando? Di chi è il più grande. Questione infinita, che inseguiamo da millenni, su tutta la terra. Questa fame di potere, questa furia di comandare è da sempre un principio di distruzione nella famiglia, nella società, nella convivenza tra i popoli. Gesù si colloca a una distanza abissale da tutto questo:  se uno vuol essere il primo sia il servo.

Ma non basta, c’è un secondo passaggio: “Servo di tutti”, senza limiti di gruppo, di famiglia, di etnìa, di bontà o di cattiveria. Non basta ancora: “Ecco io metto al centro un bambino”, il più inerme e disarmato, il più indifeso e senza diritti, il più debole e il più amato!

Proporre un bambino come modello del credente è far entrare nella religione l’inaudito Cosa sa un bambino? Il gioco, il vento delle corse, la dolcezza degli abbracci. Non sa di filosofia, di teologia, di morale. Ma conosce come nessuno la fiducia, e si affida. Gesù ci propone un bambino come padre nella fede. ‘Il bambino è il padre dell’uomo’ (Wordsworth). I bambini danno ordini al futuro, danno gioia al quotidiano.

La casa ha offerto il suo tesoro, un cucciolo d’uomo, parabola vivente, piccola storia di vita che Gesù fa diventare storia di Dio: Chi lo abbraccia, abbraccia me! Gesù offre il suo tesoro: il volto di un Dio che è non onnipotenza ma abbraccio: ci si abbraccia per tornare interi (A. Merini), neanche Dio può stare solo, non è “intero” senza noi, senza i suoi amati.

Chi accoglie un bambino accoglie Dio! Parole mai dette prima, mai pensate prima. I discepoli ne saranno rimasti sconcertati: Dio come un bambino! Vertigine del pensiero. L’Altissimo e l’Eterno in un bambino? Se Dio è come un bambino significa che devi prendertene cura, va accudito, nutrito, aiutato, accolto, gli devi dare tempo e cuore (E. Hillesum). Non puoi abbandonare Dio sulla strada. Perché Dio non sta dappertutto, sta soltanto là dove lo si lascia entrare (M. Buber).

Fb 12 settembre 2021

Un bacio sulla fronte (di p. Ermes Ronchi)

Mc 8,27-35

Silenzio, solitudine, preghiera: è un momento carico di intimità per questo gruppetto di uomini. È una di quelle ore speciali in cui l’amore si fa tangibile, lo senti sopra, sotto, intorno a te, come un manto luminoso; momenti in cui ti senti «docile fibra dell’universo» (Ungaretti).

In quest’ora importante, Gesù pone una domanda che sarà un bivio per le scelte di fede e di vita dei suoi amici: ma voi, chi dite che io sia? Le sue domande sono sempre scintille che accendono, impazienti di partire. Gesù vuole i suoi poeti incamminati nella vita.

La domanda inizia con un “ma voi”, una avversativa in opposizione a ciò che dice la gente: non accontentatevi di una fede “per sentito dire”. Ma voi con le barche abbandonate, voi che avete camminato con me per tre anni, voi miei amici, che ho scelto a uno a uno, chi sono io per voi?

Gesù insegna attraverso domande. Parole aperte che rompono i recinti, forse le prime parole assetate e affamate attraverso le quali respiriamo, mangiamo, baciamo ed esprimiamo desideri.

Con questa domanda, Gesù si comporta come fanno gli innamorati: che cosa ti è successo quando mi hai incontrato? Quanto posto ho nella tua vita, quanto conto per te? E l’altro risponde: tu sei la mia vita! Sei la mia donna, il mio uomo, il mio amore.

Gesù non ha bisogno di Pietro per sapere se è più bravo dei profeti di prima, ma vuole sapere se Pietro è innamorato, se l’ha accolto nel cuore, che può essere la culla o la tomba di Dio, che può fare grande o piccolo l’Immenso nella misura in cui gli fa spazio, gli da tempo e passione.

La gente, chi dice che io sia? Che sei un profeta, una creatura di fuoco e roccia, come Elia e il Battista; voce e respiro di Dio. Ma Gesù non è una persona di ieri, non è un ricordo di cose passate fossero pure i profeti. Non si attarda sui sondaggi d’opinione e pone la grande domanda: ma voi, chi dite che io sia?

Un salmo lo chiama «roccia e nido» (84,4); un altro «sole e scudo» (5,13), ma è ancora e sempre ciò che la gente dice. Gesù vuole di più. C’è un ultimo nome, quello che gli dà il mio patire e il mio gioire, la mia croce e il mio sapore di Dio, per averlo molto cercato, qualche volta sentito, in qualche modo sfiorato con le dita dell’anima.

Poi continua il suo annuncio: Volete sapere davvero qualcosa di me e di voi? Vi do un appuntamento: un uomo in croce. E prima ancora, uno che si china a lavare i piedi ai suoi. Amore che dà tutto.

E io, cosa posso dire di te? Ti faccio la mia dichiarazione con le parole più belle che ho: tu sei stato l’affare migliore della mia vita; sei per me quello che è la primavera per i fiori e il vento per l’aquilone.

Sei venuto con il soffio di un bacio sulla fronte, e hai fatto risplendere la mia vita.

 

Avvenire XXIV domenica  Marco 8, 27-35

E per la strada interrogava: un’azione continuativa, prolungata, uno stile di vita: strada e domande. Gesù non è la risposta, lui è la domanda; non il punto di arrivo, ma la forza che fa salpare la vita, smontare le tende al levar delle sole.

Le tante domande del vangelo funzionano come punto di incontro tra lui e noi. La gente, chi dice che io sia? Non un semplice sondaggio per misurare la sua popolarità, Gesù vuole capire che cosa del suo messaggio ha raggiunto il cuore. Si è accorto che non tutto ha funzionato nella comunicazione, si è rotto qualcosa in quella crisi galilaica che tutti gli evangelisti riferiscono.

Infatti, la risposta della gente, se può sembrare gratificante, rivela invece una percezione deformata di Gesù: per qualcuno è un maestro moralizzatore di costumi (“dicono che sei Giovanni il Battista”); altri hanno percepito in lui la forza che abbatte idoli e falsi profeti (“dicono che sei Elia”); altri ancora non colgono nulla di nuovo, solo l’eco di vecchi messaggi già ascoltati  (“dicono che sei uno dei profeti”).

Ma Gesù non è niente fra le cose di ieri. È novità in cammino.

E il domandare continua, si fa diretto: ma voi chi dite che io sia?

Per far emergere l’ambiguità che abita il cuore di tutti, Gesù mette in discussione se stesso. Non è facile sottoporsi alla valutazione degli altri, costa molta umiltà e libertà chiedere: cosa pensate di me? Ma Gesù è senza maschere e senza paure, libero come nessuno.

Tu sei il Cristo, si espone Pietro, il senso di Israele, il senso della mia vita.

A questo punto il registro cambia e il racconto si fa spiazzante: Gesù cominciò a insegnare che il Cristo doveva molto soffrire e venire ucciso e il terzo giorno risorgere. Come fa Pietro ad accettare un messia perdente? “Tu sei il messia, l’atteso, che senso ha un messia sconfitto?”

Allora lo prende in disparte e comincia a rimproverarlo. Lo contesta, gli indica un’altra storia e altri sogni. E la tensione si alza, il dialogo si fa concitato e culmina in parole durissime: va dietro di me, satana. Il tuo posto è seguirmi.

Pietro è la voce di ogni ambiguità della vita, questo fiume che trasporta tutto, fango e pagliuzze d’oro, e attraversa macchie di sole e zone d’ombra; dà voce a quell’ambiguità senza colpa (G. Piccolo), per cui le cose non ci sono chiare, per cui nelle nostre parole sentiamo al tempo stesso il suono di Dio (non la carne o il sangue te l’hanno rivelato) e il sussurro del male (tu pensi secondo il mondo). La soluzione è quella indicata a Pietro (“va dietro di me”).  Gesù ha dato una carezza alle mie ferite, ha attraversato le mie contraddizioni e mi fa camminare proprio lì, lungo la “linea incerta che addividi la luci dallo scuru” (A. Camilleri).

Fb 5 settembre 2021

Dentro il canto del suono (di p. Ermes Ronchi)

Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Il percorso tracciato da Marco racconta la lunga deviazione di Gesù attraverso la Galilea, passando per le città fenice Tiro e Sidone e arrivando alla Decapoli pagana. Uomo senza confini, è la sutura vivente che cuce i lembi di una ferita, alla ricerca della parte umana che viene prima delle frontiere e di ogni divisione politica, di genere, culturale, religiosa o razziale.

E gli condussero un sordomuto. Uomo prigioniero del silenzio, una vita accartocciata su se stessa come la sua lingua. Un non-uomo. Gesù lo prende, per mano probabilmente, e lo porta via con un dialogo fatto solo di sguardi.

Seguono gesti molto corporei e delicati, trasmessi con il solo calore delle mani e con una carezza sugli orecchi, sulla bocca.

Il mio volto fra le sue mani! A tenere tutto il dolore del mondo che non ce la fa a sfuggire all’ombra dell’assurdo. Fanno piaga in Gesù tutti i silenzi ostili della terra, tutte le relazioni spezzate, quelle senza un perchè.

E pose le dita negli orecchi del sordo, poi con la saliva gli toccò la lingua. Un’intimità senza parole: ti dono qualcosa di mio, di solo mio per te.

Con quel volto fra le sue mani l’uomo comincia a guarire, diventa uomo davvero. E la sua fame di risposte si placa.

Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico era vitale, per Gesù. I corpi diventano luogo santo di incontro, i sensi sono “divine tastiere” (D.M. Turoldo). Prigioniero con quell’uomo impedito, Gesù lo invita: apriti! Come si apre uno scrigno. Come si apre la porta all’ospite, la finestra al sole, le braccia all’amore. Come il cielo dopo la pioggia.

Apriti agli altri e ascolta Dio che viene! Che le tue ferite di prima diventino feritoie attraverso le quali entra ed esce il vento della vita, come il canto del mare ci attraversa e passa oltre.

Per guarire abbandona chiusure, rigidità, blocchi. Esci dalla solitudine dove ti senti al sicuro; non solo è pericolosa, è mortale. Effatà! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua di tua madre. In quante famiglie si parla tra sordi, culle di silenzio e di solitudini. Quanti figli perduti nelle nostre case, e bastava forse solo ascoltarli.

Così ripete anche a me: Effatà! Esci dal tuo nodo di silenzi e paure; accogli vite nella tua vita, spalanca la tua porta! Altrimenti non scoprirai mai, diceva un tormentato scrittore, «un Dio che gioisce e ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del sole e del mare» (Pasolini), ma solo distanza e solitudine.

Se apri la tua porta, la vita viene. Potente come onda improvvisa.

Tanti guariti del Vangelo sembrano poi sparire nel nulla rapiti nel gorgo della gioia, invece stanno fecondando in silenzio la storia. Capaci, ora, di relazioni vere.

Gesù non guarisce i malati per avere credenti al seguito, ma perché siano uomini pieni, uomini liberi. Uomini in piedi affamati di futuro.

 

Avvenire XXIII

Portarono a Gesù un sordomuto. Un uomo prigioniero del silenzio, una vita senza parole e senza musica, ma che non ha fatto naufragio, perché accolta dentro un cerchio di amici che si prendono cura di lui: e lo condussero da Gesù. La guarigione inizia quando qualcuno mette mano all’umanissima arte dell’accompagnamento.

E lo pregarono di imporgli la mano. Ma Gesù fa molto di più, non gli basta imporre le mani in un gesto ieratico, vuole mostrare l’eccedenza e la vicinanza di Dio: lo prese in disparte, lontano dalla folla:Io e te soli, ora conti solo tu e, per questo tempo, niente è più importante di te’. Li immagino occhi negli occhi, e Gesù che prende quel volto fra le sue mani.

Seguono gesti molto corporei e delicati: Gesù pose le dita sugli orecchi del sordo. Le dita: come lo scultore che modella delicatamente la creta che ha plasmato. Come una carezza. Non ci sono parole, solo la tenerezza dei gesti.

Poi con la saliva toccò la sua lingua. Gesto intimo, coinvolgente: ti do qualcosa di mio, qualcosa che sta nella bocca dell’uomo, insieme al respiro e alla parola, simboli della vita.

Vangelo di contatti, di odori, di sapori. Il contatto fisico non dispiaceva a Gesù, anzi. E i corpi diventano luogo santo d’incontro con il Signore, laboratorio del Regno. La salvezza non è estranea ai corpi, passa attraverso di essi, che non sono strade del male ma “scorciatoie divine” (J.P.Sonnet),

Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro

Un sospiro non è un grido che esprime potenza, non è un singhiozzo, ma il respiro della speranza, calma e umile, il sospiro del prigioniero (Sal 102,21), e Gesù è anche lui prigioniero con quell’uomo.

E gli disse: Effatà, apriti! In aramaico, nel dialetto di casa, nella lingua della madre, ripartendo dalle radici: Apriti, come si apre una porta all’ospite, una finestra al sole, le braccia all’amore. Apriti agli altri e a Dio, anche con le tue ferite, attraverso le quali vita esce e vita entra. Se apri la tua porta, la vita viene.

Una vita guarita è quella che si apre agli altri: e subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. Prima gli orecchi. Perché il primo servizio da rendere a Dio e all’uomo è sempre l’ascolto. Se non sai ascoltare, perdi la parola, diventi muto o parli senza toccare il cuore di nessuno. Forse l’afasia della chiesa dipende oggi dal fatto che non sappiamo più ascoltare, Dio e l’uomo. Dettaglio eloquente: sa parlare solo chi sa ascoltare.

Dono da chiedere instancabilmente, per il sordomuto che è in noi: donaci, Signore, un cuore che ascolta (cfr 1Re 3,9). Allora nasceranno pensieri e parole che sanno di cielo.

Mc 7,1-8.14-15.21-23

Silenzi coltivati 8p.Ermes Ronchi)

Gesù è duro con gli ipocriti. Eri sicuro di trovarlo sempre sulle frontiere dell’uomo, in ascolto del grido della terra e degli ultimi. Dove giungeva, in villaggi o città o campagne, portava negli occhi il dolore dei corpi e delle anime e l’esultanza incontenibile dei guariti. E ora farisei e scribi vorrebbero rinchiuderlo dentro piccolezze come mani lavate o no, questioni di stoviglie e di oggetti!

Si capisce come la replica di Gesù sia dura: ipocriti! Voi avete il cuore lontano!

Il rischio del cuore lontano ci porta tutti alla falsa religione: emozionarsi per le folle oceaniche ai raduni religiosi, e non saper pregare; amare la liturgia dei fiori, l’incenso, i marmi antichi e non «soccorrere il dolore di orfani e vedove»; volere segni esterni del cristianesimo e non viverlo.

Per Gesù il Regno inizia con l’analisi del cuore, luogo dove si ama la verità, dove nascono le azioni, dove si sceglie la vita o la morte. Dove Dio seduce.

La polemica è costruita su una coppia di contrari, fuori e dentro: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che entrando possa contaminarlo». Lui propone la religione dell’interiorità che scardina ogni pregiudizio riguardo il puro o l’impuro.

Il suo messaggio è che il mondo è buono, che ogni cosa è illuminata! Che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che hai il sacro dovere di custodire con cura il tuo cuore, perché è la sola fonte della vita. Via le sovrastrutture, i formalismi vuoti, tutto ciò che è cascame culturale.

Apri il Vangelo ed ecco una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, ovvii discorsi: ogni cosa è pura, sempre. Io e te, il cielo, la terra, ogni essere, il corpo dell’uomo e della donna. E solo il cuore può rendere pure o impure le cose, solo lui può sporcarle o illuminarle.

Ma dentro l’uomo c’è di tutto, radici di veleno e frutti di luce, campi seminati di buon grano ed erbe malate, oceani che minacciano la vita e che la generano.

Che cosa, io, ne farò uscire? Decisivo è rompere le zolle di durezza, le intolleranze, le linee oscure, le maschere vuote. Io evangelizzo il mio intimo quando a un pensiero dico: tu sei secondo Cristo, e ti accolgo, anzi ti benedico; a un altro invece dico: tu non lo sei e non ti accolgo, non ti do la mia casa, non ti lascio sedere sul trono del mio cuore.

Nell’arte di coltivare se stessi, l’istintività va’ conosciuta e incanalata. Se fai uscire segnali di morte non sei «spontaneo e autentico» come ti illude una falsa psicologia, ma avveleni le tue relazioni. Non far uscire «prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, inganno, invidia, calunnia, superbia, stupidità». Non dare loro libertà, non permettere loro di abitare la terra! Manda attorno solo segnali di vita, e, nel silenzio, sentirai il tuo cuore vicino. È necessario molto cuore per ascoltare i silenzi di Dio.

 

AVVENIRE XXII B

Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano. Gesù indirizza oggi la nostra attenzione verso il cuore, quegli oceani interiori che ci minacciano e che ci generano; che ci sommergono talvolta di ombre e di sofferenze ma che più spesso ancora producono isole di generosità, di bellezza e di luce: siate liberi e sinceri.

Gesù veniva dai campi veri del mondo dove piange e ride la vita, E ora che cosa trova? Gente che collega la religione a macchioline, mani e piatti lavati, a pratiche esteriori.

Gesù, anziché scoraggiarsi, diventa eco del grido antico dei profeti: vera religione è illimpidire il cuore a immagine del “Padre della luce” (I lettura, Gc 1,17):  è dal cuore degli uomini che escono le intenzioni cattive…

E’ la grande svolta: il ritorno al cuore. Passando da una religione delle pratiche esteriori ad una religione dell’interiorità, perché l’io esiste raccogliendosi non disperdendosi, e perché quando ti raccogli fai la scoperta che Dio è vicino: “fuori di me ti cercavo e tu eri dentro di me” (s. Agostino).

Ritorna al tuo cuore: per quasi mille volte nella Bibbia ricorre il termine cuore, che non indica la sede dei sentimenti o dell’affettività, ma è il luogo dove nascono le azioni e i sogni, dove si sceglie la vita o la morte, dove si è sinceri e liberi, dove fa presa l’attrazione di Dio, e seduce e brucia, come a Emmaus.

Il ritorno al cuore è un precetto antico quanto la sapienza umana (“conosci te stesso” era scritto sul frontone del tempio di Delfi), ma non basta a salvare, perché nel cuore dell’uomo c’è di tutto: radici di veleno e frutti di luce; campi di buon grano ed erbe malate. L’azione decisiva sta nell’evangelizzare il cuore, nel fecondare di vangelo le nostre zolle di durezza, le intolleranze e le chiusure, i desideri oscuri e i nostri idoli mascherati…

Gesù, maestro del cuore, esegeta e interprete del desiderio, pone le sue mani sante nel tessuto più profondo della persona, sul motore della vita, e salva il desiderio dalle sue pulsioni di morte: dal di dentro, cioè dal cuore dell’uomo escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità… e segue un elenco impressionante di dodici cose cattive, che rendono impura e vuota la vita.

Ma tu non dare loro cittadinanza, non legittimarle, non farle uscire da te, non permettere loro di galoppare sulle praterie del mondo, perché sono segnali di morte.

Evangelizzare significa poi far scendere sul cuore un messaggio felice. L’annuncio gioioso che Gesù porta è questo: è possibile vivere meglio, per tutti, e io ne conosco il segreto: un cuore libero e incamminato, che cresce verso più amore, più coscienza, più libertà.

Fb 15 agosto 2021 – Assunzione di Maria

Lc 1, 39-56

Icona del nostro futuro (p. Ermes Ronchi)

Il Vangelo presenta l’unica pagina in cui sono protagoniste due donne. Nessun’altra presenza, che non sia quella del mistero di Dio pulsante nel grembo. Nel Nuovo Testamento profetizzano per prime le madri: ogni nascita è infatti profezia.

La festa dell’Assunta ci rassicura sull’esito buono della storia: la terra non finirà fra le spire della violenza; il futuro è minacciato, ma la bellezza e la vitalità della Donna sono più forti di ogni drago rosso, di ogni malattia, violenza, depressione, solitudine, sconforto.  Un’ impennata di senso su tutto ciò che accade.

“Vidi una donna vestita di sole, che era incinta”: immagine bellissima della Chiesa, di Maria, di me, piccola ombra sul mondo. Che guida tutti ad essere come quella Donna: portatori di vita, sempre in lotta contro tutto ciò che uccide, vigili contro il grande drago affamato che divora la luce in noi. Ma che non vincerà, perché il mondo è gravido, e non di morte ma di vita.

L’Assunzione di Maria al cielo in anima e corpo è l’icona del nostro futuro, del destino che ci attende; essa intona il canto del corpo annunciando che il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche il corpo è santo e avrà, trasfigurato, lo stesso destino dell’anima. Perché l’uomo è uno.

Questo corpo così fragile e caro, così dolente e gioioso, nido d’amore e talvolta di violenza, sarà, un giorno, trasparenza di cristallo, sacramento dell’incontro perfetto.

Vergine, anello d’oro del tempo e dell’eterno,    tu porti la nostra carne in paradiso
e Dio nella nostra carne (D. M. Turoldo).

Anello d’oro, dove il tempo e l’eternità si innestano l’uno nell’altra. Sconfinamento: carne di donna in paradiso, carne di Dio sulla terra.

Il vangelo racconta che “Maria si mise in viaggio, in fretta, verso la montagna”. Donna dell’amore che ha sempre fretta e non sopporta ritardi; corre, portata dal futuro che si compie ora, ma guarda già a domani.

Donna in viaggio, sulle tracce di Dio nel prossimo.

In viaggio verso altri, Maria non è mai sola nel Vangelo, è creatura di comunione continua, è nodo di incontri. In viaggio da casa a casa, lascia Nazaret e va: a Ein Karem, dagli sposi di Cana, a Cafarnao, alla camera alta a Gerusalemme, quasi che la sua casa si fosse moltiplicata seguendo il crescere del cuore.

Donna in viaggio, nella gioia e nella trepidazione. Gioia che con Elisabetta si fa abbraccio e danza dei grembi: “Benedetta tu…” Prima parola che prolunga l’irrevocabile promessa di Dio quando in principio “li benedisse” (Gn 1,28). L’inizio di ogni dialogo fecondo è quando dici nel cuore: Dio mi benedice con la tua presenza, possa Egli benedire te con la mia presenza.

Il corpo di Maria si fa salmo e canto e danza: l’anima canta! Lo spirito esulta!

Perché la gioia, come la pace, come l’amore, si vivono appieno solo condividendoli; con il corpo, con gli occhi e le mani, con la voce e le parole.

Maria è la sorella che è andata avanti, danzando. E il suo destino è il nostro, già da ora.

“Poiché il tuo corpo è nella luce

Spera, Maria, la nostra carne oscura…”

 

Avvenire.

Assunzione di santa Maria.

Luca ci offre, in questa festa dell’Assunzione di Maria, l’unica pagina evangelica in cui protagoniste sono le donne. Due madri, entrambe incinte in modo ‘impossibile’, sono le prime profetesse del Nuovo Testamento. Sole, nessun’altra presenza, se non quella del mistero di Dio pulsante nel grembo.

Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! Elisabetta ci insegna la prima parola di ogni dialogo vero: a chi ci sta vicino, a chi condivide strada e casa, a chi mi porta luce, a chi mi porta un abbraccio, ripeto la sua prima parola: che tu sia benedetto; tu sei benedizione scesa sulla mia vita!

Elisabetta ha introdotto la melodia, ha iniziato a battere il ritmo dell’anima, e Maria è diventata musica e danza, il suo corpo è un salmo: L’anima mia magnifica il Signore!

Da dove nasce il canto di Maria? Ha sentito Dio entrare nella storia, venire come vita nel grembo, intervenire non con le gesta spettacolari di comandanti o eroi, ma attraverso il miracolo umile e strepitoso della vita: una ragazza che dice sì, un’anziana che rifiorisce, un bimbo di sei mesi che danza di gioia all’abbraccio delle madri. Viene attraverso il miracolo di tutti quelli che salvano vite, in terra e in mare.

Il Magnificat è il vangelo di Maria, la sua bella notizia che raggiunge tutte le generazioni. Per dieci volte ripete: è lui che ha guardato, è lui che fa grandi cose, che ha dispiegato, che ha disperso, che ha rovesciato, che ha innalzato, che ha ricolmato, che ha rimandato, che ha soccorso, che si è ricordato….è lui, per dieci volte. La pietra d’angolo della fede non è quello che io faccio per Dio, ma quello che Dio fa per me; la salvezza è che lui mi ama, non che io lo amo. E che io sia amato dipende da lui, non dipende da me. Maria vede un Dio con le mani impigliate nel folto della vita.

E usa i verbi al passato, con uno stratagemma profetico, come se tutto fosse già accaduto. Invece è il suo modo audace per affermare che si farà, con assoluta certezza, una terra e un cielo nuovi, che il futuro di Dio è certo quanto il passato, che questo mondo porta un altro mondo nel grembo.

Pregare il Magnificat è affacciarsi con lei al balcone del futuro.

Santa Maria, assunta in cielo, vittoriosa sul drago, fa scendere su di noi una benedizione di speranza, consolante, su tutto ciò che rappresenta il nostro male di vivere: una benedizione sugli anni che passano, sulle tenerezze negate, sulle solitudini patite, sul decadimento di questo nostro corpo, sulla corruzione della morte, sulle sofferenze dei volti cari, sul nostro piccolo o grande drago rosso, che però non vincerà, perché la bellezza e la tenerezza sono, nel tempo e nell’eterno, più forti della violenza.

Gv 6,41-51

Tuffo nel mistero

«Ora basta, Signore!». Elia, il più grande dei profeti, vuole morire. Lui, così grande che Gesù stesso gli fu paragonato, è talmente scoraggiato, così disperato da dire: ora basta Signore, prenditi la mia vita.

La parabola di Elia è quella di ogni cristiano. Quante volte gli eventi ci fanno dire “non ce la faccio più, non serve a niente essere buoni, non cambia nulla, non vale la pena vivere il vangelo”. Troppo cammino, troppo deserto, troppo dolore.

Ma Dio interviene. Non per offrire ad Elia un cavallo bardato per divorare le distanze desolate del deserto; non per togliere fatica, ma solo un po’ di pane, un po’ d’acqua. Il quasi niente. Lo stile di Dio, che interviene con la forza delle cose quotidiane, con l’umiltà e la povertà delle cose essenziali; il pane, l’acqua, l’aria, la luce, un amico.

La nervatura del vangelo di oggi è il verbo mangiare. Mentre le religioni orientali si concentrano sul respiro, il cristianesimo ha come gesto centrale il mangiare: Dio che entra in me come Pane buono. Dio vicino a me, Dio sotto la mia pelle, che si insedia al centro della mia povertà, come un re sul trono.

I giudei si misero a mormorare contro Gesù. Ma come? Pretendi di essere il pane piovuto dal cielo? Ma sei venuto come tutti da tua madre e da tuo padre. Tu vuoi cambiarci la vita con il tuo pane? No, il Dio onnipotente dovrebbe fare ben altro: miracoli potenti, definitivi, evidenti, solari.

Ma Dio non fa spettacolo. Ed è la stessa critica che mormoriamo anche noi: che pretese ha su di me quest’uomo di duemila anni fa? Lui pensa davvero di farci vivere meglio?

Non mormorate tra voi! Non sprecare parole a discutere di Dio, puoi fare di meglio: tuffati nel suo mistero, nel suo segreto: è cibo che sazia la tua fame di vita e di felicità, ed esiste. Cerca pane vivente per la tua fame, per cambiare la qualità della vita, per darle un colore divino. Non accontentarti di altri bocconi, tu sei figlio di Dio, figlio di Re. Prepàrati allo stupore dell’inedito: un rapporto d’amore al centro del tuo essere.

Mangiare la carne e il sangue di Cristo, non si riduce però al rito della Messa. Cristo non sta solo sull’altare, del suo Spirito è piena la terra! Mangiare il pane di Dio è nutrirsi di Vangelo, respirare aria pulita, affacciarsi al sole, continuamente.

Domandiamoci allora: di cosa nutro anima e pensieri? Sto mangiando generosità, bellezza, profondità? Oppure mi nutro di intolleranza, miopia dello spirito, insensatezza del vivere, paure?

Se accogliamo pensieri degradati, questi ci fanno come loro. Se accogliamo pensieri di Vangelo e di bellezza, essi faranno come il pane fa nel nostro corpo: si nasconderanno per sparire nell’intimo, senza fare rumore. Ma ci trasformeranno in custodi di tenerezza, di gioia. E saremo pane umano per la fame del mondo.

 

XIX B Giovanni 6,41-51

Io sono il pane disceso dal cielo. In una sola frase Gesù raccoglie e intreccia tre immagini: pane, cielo, discendere. Potenza della scrittura creativa dei vangeli, e prima ancora del linguaggio pieno di immaginazione e di sfondamenti proprio del poeta di Nazaret.

Io sono pane, ma non come lo è un pugno di farina e di acqua passata per il fuoco: pane perché il mio lavoro è nutrire il fondo della vita.

Io sono cielo che discende sulla terra. Terra con cielo è giardino. Senza, è polvere che non ha respiro.

Nella sinagoga si alza la contestazione: ma quale pane e quale cielo! Sappiamo tutto di te e della tua famiglia…

E qui è la chiave del racconto. Gesù ha in sé un portato che è oltre. Qualcosa che vale per tutta la realtà: c’è una parte di cielo che compone la terra; un oltre che abita le cose; il nostro segreto non è in noi, è oltre noi.

Come il pane, che ha in sé la polvere del suolo e l’oro del sole, le mani del seminatore e quelle del mietitore; ha patito il duro della macina e del fuoco; è germogliato chiamato dalla spiga futura; si è nutrito di luce e ora può nutrire. Come il pane, Gesù è figlio della terra e figlio del cielo.

E aggiunge una frase bellissima: nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato. Ecco una nuova immagine di Dio: non il giudice, ma la forza di attrazione del cosmo, la forza di gravità celeste, la forza di coesione degli atomi e dei pianeti, la forza di ogni comunione.

Dentro ciascuno di noi è al lavoro una forza instancabile di attrazione divina, che chiama ad abbracciare bellezza e tenerezza. E non diventeremo mai veri, mai noi stessi, mai contenti, se non ci incamminiamo sulle strade dell’incanto per tutto ciò che chiama all’abbraccio.

Gesù dice: lasciate che il Padre attiri, che sia la comunione a parlare nel profondo, e non il male o la paura.

Allora sì che “tutti saranno istruiti da Dio”, istruiti con gesti e parole e sogni che ci attraggono e trasmettono benessere, perché sono limpidi e sani, sanno di pane e di vita.

Il pane che io darò è la mia carne data per la vita del mondo. Sempre la parola ‘vita’, martellante certezza di Gesù di avere qualcosa di unico da dare affinché possiamo vivere meglio.

Ma non dice il mio “corpo”, bensì la mia “carne”. Nel vangelo di Giovanni carne indica l’umanità originaria e fragile che è la nostra: il verbo si è fatto carne.

Vi do questa mia umanità, prendetela come misura alta e luminosa del vivere. Imparate da me, fermate l’emorragia di umanità della storia. Siate umani, perché più si è umani più si manifesta il Verbo, il germe divino che è nelle persone.

Se ci nutriamo così di vangelo e di umanità, diventeremo una bella notizia per il mondo.

Fb 25 luglio 21

Gv 6, 1-15

Primizie sul mondo  (di p. Ermes Ronchi)

Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità.

Poco pane condiviso tra tutti, ed è misteriosamente sufficiente! Quando invece tengo stretto il mio pane solo per me, comincia la fame.

Il racconto è pieno di simboli bellissimi, e il miracolo del pane racconta qualcosa di molto più grande che non la semplice moltiplicazione di cinque pani e due pesci.

E’ ormai primavera, tempo di Pasqua; c’è il monte, grande simbolo della casa di Dio; c’è molta erba che richiama i pascoli; ci sono i numeri: cinque pani e due pesci formano il sette, simbolo della pienezza; c’è il pane d’orzo, pane di primizia perché l’orzo è il primo dei cereali che matura, primo pane nuovo; e c’è un ragazzo, neppure un uomo adulto, una primizia d’uomo.

Un Vangelo pieno d’inizi, pieno di gemme che fioriscono per grazia. Modello del discepolo oggi è il ragazzo senza nome né volto, che con la sua generosità innesca la spirale della condivisione, il vero grande miracolo.

Giovanni riassume l’agire di Gesù nei tre verbi «prese, rese grazie e distribuì», che, richiamando l’Eucaristia, fanno dell’intera mia vita un sacramento, della tua vita un vangelo.

L’uomo può solo prendere e ricevere la vita, il creato, le persone, i bocconi di pane. Può solo ringraziare e benedire per ogni cosa, anche per le sacre briciole avanzate, grande tesoro da custodire.

Per una misteriosa regola divina, quando il mio pane diventa il nostro pane accade il miracolo. La fame finisce non quando mangi a sazietà, ma quando condividi fosse anche il poco che hai!

Perché la vita è come il respiro, che non puoi trattenere o accumulare; come una manna che per domani non dura.

Allora ricevi, ringrazia, dona! Tu sei ricco solo di ciò che hai donato. Infatti il vangelo neppure parla di moltiplicazione, ma di divisione di pane eterno, pane infinito. Vangelo che non è venuto a risolvere i problemi, ma a indicare la direzione, dritta come freccia; che alla tavola dell’umanità non assicura beni economici, ma profezia di giustizia.

Bellissimo Gesù che fugge lontano da tutto ciò che circonda il nome di re; fugge lontano dal potere, ma non rifiuta l’acclamazione a profeta, perché la profezia gli si addice: è bocca di Dio e bocca dei poveri.

Non il potere, dunque, per me cristiano e per l’intera Chiesa, ma una profezia: come lui, essere voce di Dio e voce del povero, essere lievito buono di un mondo nuovo.

Noi siamo fatti per la felicità, ma in questa corsa della vita, in questa furia di vivere che ci prende tutti, spesso non pensiamo a moltiplicare dentro noi le sorgenti interiori, le sole forze capaci di dare felicità. Per questo oggi chiedo al Signore di donare sì pane a chi ha fame, ma, su tutto, di accendere fame di Lui, fame di cose grandi, in chi è sazio di solo pane.

 

Avvenire Gv 6.1-15

Domenica del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste, che sembra non finire mai. E mentre lo distribuivano, non veniva a mancare; e mentre passava di mano in mano, restava in ogni mano.

C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci… Un pane d’orzo, il primo cereale che matura; un ragazzo, in cui matura un uomo. Quella primizia d’umanità ha capito tutto, nessuno gli ha chiesto nulla e il ragazzo mette tutto a disposizione. È questa la prima scintilla della risposta alla fame della folla.

Ma cosa sono cinque pani per 5000: uno a mille. Il vangelo sottolinea la sproporzione tra il poco di partenza e la fame innumerevole che assedia.

Sproporzione però è anche il nome della speranza, che ha ragioni che la ragione non conosce. E il cristiano non può misurare le sue scelte solo sul ragionevole, sul possibile. Perché dovremmo credere a un Risorto, se siamo legati al possibile?

La stessa sproporzione la sentiamo di fronte ai problemi immensi del nostro mondo. Io ho solo cinque pani, e i poveri sono legioni. Eppure Gesù non bada alla quantità, ne basta anche meno, molto meno, una briciola. E la follia della generosità.

E infatti, non appena gli riferiscono la poesia e il coraggio di questo ragazzo, sente scattare dentro come una molla: Fateli sedere! Adesso sì che è possibile cominciare ad affrontare la fame!

Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie li diede… Giovanni non riferisce come accade. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Sono perfino troppi. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità: poco pane spezzato con gli altri è misteriosamente sufficiente; il nostro pane tenuto gelosamente  per noi è l’inizio della fame: “Nel mondo c’è pane sufficiente per la fame di tutti, ma insufficiente per l’avidità di pochi” (Gandhi).

Prese i pani e dopo aver reso grazie li diede…Tre verbi benedetti: prendere, ringraziare, donare. Gesù non è il padrone del pane, lo riceve, ne è attraversato, semplice luogo di passaggio. Quando noi ci consideriamo i padroni delle cose, ne profaniamo l’anima, roviniamo l’aria, l’acqua, la terra, il pane. Niente è nostro, noi riceviamo e doniamo, siamo attraversati da una vita, che viene da prima di noi e va oltre noi.

Rese grazie: al Padre e al ragazzo senza nome, alla suolo e alla pioggia d’autunno, alla macina e al fuoco, madre e padre del pane.

Tutto ci viene incontro, è vita che ci ospita, dono che viene “da un divino labirinto di cause ed effetti” (M. Gualtieri). Che fa della vita un sacramento di comunione.

“E li diede”. Perché la vita è come il respiro, che non puoi trattenere o accumulare; è come una manna che per domani non dura. Dare è vivere.

“Io ringraziare desidero il divino labirinto delle cause e degli effetti” (M. Gualtieri). Come per il pane del miracolo, ogni dono chiede cura, un canto di gratitudine,  e infine mani che si aprono nel gesto del seme, della nuvola, del solco che si apre nella terra. Il gesto definitivo delle mani aperte sul legno.

Non intende realizzare una moltiplicazione di beni materiali, ma dare un senso, una direzione a quei beni, perché diventino sacramenti di Dio.

Fb 18 luglio 21

Mc 6,30-34

Non un luogo ma un tempo  (di p. Ermes Ronchi)

Partiti due a due, i discepoli tornano carichi d’umanità toccata e guarita. E attorno a loro così tanta gente che non avevano più il tempo per mangiare, per vivere.

Tutto questo può essere esaltante, può sembrare la benedizione di Dio sulla missione. Invece Gesù vede più lontano. Il successo non lo esalta, l’insuccesso non lo deprime: queste cose sono solo la superficie mobile delle onde, e non la corrente profonda degli eventi.

E allora si preoccupa di riportare i suoi all’essenziale: venite in disparte! Riposatevi un po’. Parola bella come un miracolo, filo saldo che corre nel racconto: è in ansia per i suoi amici!

C’è tanto da annunciare, c’è tanto da guarire. Israele è pieno di vedove di Naim che piangono figli morti, e di pietre pronte a lapidare adultere prostrate. E Gesù, invece di lanciare i discepoli dentro il frullatore dell’apostolato, li porta via con sé, in disparte. Quasi a perdere tempo.

Ma nella bibbia, il deserto vuole sempre e solo parlare al cuore (Osea 2).

A Lui interessa ciò che sei, non ciò che fai. Non chiede ai dodici di pregare affinando il metodo per nuove missioni, ma di prendersi del tempo per essere.

È il gesto d’amore di chi ti ama e ti vuole felice.

C’è un tempo per agire e un tempo per ritrovare i motivi del fare. Se vuoi fare bene tutte le cose, ogni tanto smetti di farle (S. Ambrogio). E come loro anch’io ho il dovere di accogliere il mio bisogno di riposo e di attenzioni, quando si affaccia sulla mia fatica.

Stare “in disparte” è molto di più che riprendere fiato. È rivivere il giorno del Signore quando vide che tutto era bello, e si riposò. La vera terra promessa non è un luogo, ma un tempo, e questo tempo è il settimo giorno. Là Egli parlerà al cuore, lo attirerà a sé: sarà rivelazione e presenza.

Sbarcando tra la folla, si commosse per loro. Gesù è preso fra due compassioni in conflitto: la stanchezza degli amici e lo smarrimento della folla. E sceglie di insegnare agli apostoli, e a noi, l’arte difficile del dimenticarsi.

Partiti per restare soli, i Dodici imparano ad essere a disposizione dell’uomo, sempre. Gesù dice: prenditi del tempo. E subito aggiunge: ma il tuo tempo non è per te, è per l’uomo! E cambia i suoi programmi, insegnando loro molte cose, e partendo dalla compassione per il dolore del mondo.

Il tesoro che i Dodici porteranno con sé dalla riva del lago è lo sguardo di Gesù che si commuove e non lo nasconde.

Stai con Gesù, lo guardi e impari a a guardare, prima ancora di agire. Come fa ogni  cucciolo osservando la madre vivere. Poi, solo dopo, le parole verranno e sapranno di cielo. Lo saranno quando saprai commuoverti, lasciando così il mondo innestarsi nella tua anima.

Gesù sa che ad annullare la speranza non è il dolore, ma l’essere senza conforto. Sa che l’arcobaleno della compassione è un ponte lanciato nel cielo.

 

Avvenire XVI B Marco 6,30-34

Venite in disparte e riposatevi un po’.

I suoi sono ritornati felici da quell’invio a due a due, da quella missione in cui li aveva lanciati, un pellegrinaggio di Parola e di povertà.

I Dodici hanno incontrato tanta gente, l’hanno fatto con l’arte appresa da Gesù: l’arte della prossimità e della carezza, della guarigione dai demoni del vivere. Ora è il tempo dell’incontro con se stessi, di riconnettersi con ciò che accade nel proprio spazio vitale. C’è un tempo per ogni cosa, dice il sapiente d’Israele, un tempo per agire e un tempo per interrogarsi sui motivi dell’agire. Un tempo per andare di casa in casa e un tempo per “fare casa” tra amici e con se stessi.

C’è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove di Nain, lacrime, eppure Gesù, invece di buttare i suoi discepoli dentro il vortice del dolore e della fame, li porta via con sé e insegna loro una sapienza del vivere.

Viviamo oggi in una cultura in cui il reddito che deve crescere e la produttività che deve sempre aumentare ci hanno convinti che sono gli impegni a dare valore alla vita. Gesù ci insegna che la vita vale indipendentemente dai nostri impegni (G. Piccolo).

La gente ha capito, e il flusso inarrestabile delle persone li raggiunge anche in quel luogo appartato. E Gesù anziché dare la priorità al suo programma, la dà alle persone. Il motivo è detto in due parole: prova compassione. Termine di una carica bellissima, infinita, termine che richiama le viscere, e indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro. La prima reazione di Gesù: prova dolore per il dolore del mondo.

E si mise a insegnare molte cose. Forse, diremmo noi, c’erano problemi più urgenti per la folla: guarire, sfamare, liberare; bisogni più immediati che non mettersi a insegnare. Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi che continuiamo a mortificare, ad affamare, a disidratare. A questa Gesù si rivolge, come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via.

Questo Gesù che si mette a disposizione, che non si risparmia, che lascia dettare agli altri l’agenda, generoso di sentimenti, consegna qualcosa di grande alla folla: “Si può dare il pane, è vero, ma chi riceve il pane può non averne bisogno estremo. Invece di un gesto d’affetto ha bisogno ogni cuore stanco. E ogni cuore è stanco” (Sorella Maria di Campello).

È il grande insegnamento ai Dodici: imparare uno sguardo che abbia commozione e tenerezza. Le parole nasceranno. E vale per ognuno di noi: quando impari la compassione, quando ritrovi la capacità di commuoverti, il mondo si innesta nella tua anima, e diventiamo un fiume solo.  Se ancora c’è chi sa, tra noi, commuoversi per l’uomo, questo mondo può ancora sperare.

Fb 4 luglio 21 Mc 6,1-6

Non è tuo fratello?  (p.Ermes Ronchi)

Gesù tornò al suo paese, con i discepoli. E «percorreva i villaggi insegnando».Dapprima la gente si stupiva, nell’ascoltarlo; parole e prodigi immettono un «di più», alla normalità della vita. Poi l’ordinario instaura di nuovo la sua dittatura, e la gente passa in fretta dallo slancio alla diffidenza: da dove gli vengono queste cose? Non da Nazaret. Non da qui! Qui tutto dice: hai il tuo clan, una madre, fratelli e sorelle; questo è il tuo mondo, non ce n’è un altro. Hai un lavoro, la sinagoga e il Libro, questo basta a dare senso alla vita. Cosa cerchi, con il cuore fra le nuvole?

Né la sapienza né i miracoli fecondano la fede; è vero semmai il contrario, è la fede che fa fiorire miracoli.

Che un profeta sia una persona piena di carisma, ce lo aspettiamo. Ma che sia senza cultura né titoli, che vada per botteghe e villaggi, fuori dal magistero ufficiale e al limite del consentito, questo non va bene. Nessun profeta è ben accolto in casa sua, perché l’insegnamento che porta è “diverso”; il figlio di Dio non può avere mani callose. Lì non c’è nulla di sublime, nulla di divino.

Ma lo Spirito vuol fare di ogni casa un tempio. Noi cerchiamo il Dio delle costellazioni nell’infinito dei cieli, quando invece è inginocchiato a terra con le mani nel catino, per lavarci i piedi.

È il figlio del falegname, dicono. Ma la persona non è il suo lavoro, nessuno coincide con esso, il nostro segreto è oltre noi: abbiamo radici di cielo! Gesù cresce in bottega, le sue mani diventano forti e qualche volta si feriscono, il suo naso fiuta la resina, sa riconoscere ogni tipo di legno. Ma al paese scandalizza un Dio dal volto d’uomo, un Verbo nella forma di un corpo sudato. Mentre lo Spirito è creatore, non sai da dove viene e dove va, riempie le vecchie forme e passa oltre, spinge il Maestro a inginocchiarsi ai tuoi piedi, con la brocca in mano; gli mette in bocca parole spiazzanti e mai udite: amate i vostri nemici; tu lascia andare i morti, vieni e seguimi; felici i poveri, sono i principi del Regno; guardate i fiori e non preoccupatevi; guai a voi farisei; se non tornerete piccoli…

Gesù al rifiuto dei suoi, svela il suo candido cuore fanciullo: «Non vi poté operare prodigi, solo impose le mani a pochi malati e li guarì». Il nostro Dio non nutre rancori, mai! Il Dio respinto si fa guarigione anche solo di pochi. L’amante tradito continua ad amare, anche fosse uno solo. L’amore non è stanco dei suoi: è solo stupito.

Come gli abitanti di Nazaret, anche noi rischiamo di sprecare i nostri profeti, livellando tutto verso il basso: è solo un falegname, è il fratello di Ioses, conosco lui e i suoi difetti uno per uno. E così ci precludiamo lo splendore all’epifania del quotidiano, all’eterno che si insinua in ogni creatura. Salviamo lo stupore! E ci scopriremo circondati di  profeti.

 

Avvenire XIV Marco 6,1-6

“Ma non è il falegname, il fratello di Giacomo, Joses, Giuda e Simone?” Poche pagine prima questi stessi fratelli sono scesi a Cafarnao per riportarselo a casa, il loro cugino strano, perché dicevano: è andato, è fuori di testa; lo danno per eretico, dobbiamo proteggerlo anche da se stesso.

E adesso a Nazaret, dove si conoscono tutti, dove si sa tutto di tutti (o almeno così si crede), la gente si stupisce di discorsi mai sentiti, di parole che sembrano venire non dalla sacra scrittura, come l’hanno sempre ascoltata in sinagoga, e forse neppure da Dio: da dove mai gli vengono queste cose?

Ed era per loro motivo di scandalo. Che cosa li scandalizza? L’umanità, la familiarità di un Dio che abbandona il tempio ed entra nell’ordinarietà di ogni casa, diventando il “God domestic” (Giuliana di Norwich, sec. XIII), il Dio di casa. Gesù, rabbi senza titoli e con i calli alle mani, si è messo a raccontare Dio con parabole che sanno di casa, di terra, di orto, dove un germoglio, un grano di senape, un fico a primavera diventano personaggi di una rivelazione. Scandalizza l’umiltà di Dio. Non può essere questo il nostro Dio. Dov’è la gloria e lo splendore dell’Altissimo?

E i suoi discepoli, questi ragazzi di fuori, pratici solo di barche, cos’hanno di più di Joses, Giacomo, Giuda e Simone? Non erano meglio i giovani del paese?

Un profeta non è disprezzato che in casa sua… Osservazione che ci raggiunge tutti, circondati come siamo da sillabe di Dio, gocce di profezia sulla bocca e nei gesti di mille persone, in casa, per strada, al lavoro, o in un’altra parte del mondo.

Ma noi: non sono all’altezza, diciamo; e li misuriamo, li soppesiamo, diamo loro i voti, troviamo scuse, anziché aprirci. E Dio si stupisce, ma non desiste e ripete: “ascoltino o non ascoltino, sappiano che un profeta almeno si trova in mezzo a loro” (Ez. 2,5). Siamo circondati da profeti, magari piccoli, magari minimi, ma continuamente inviati. E noi, come gli abitanti di Nazaret, dilapidiamo e sperperiamo i nostri profeti, senza ascoltare l’inedito di Dio.

Anche Gesù al rifiuto dei suoi compaesani si stupisce, ma non desiste. La sua risposta non è né rancore, né condanna, tanto meno depressione, ma una meraviglia che rivela come Dio ha un cuore di luce: “Non vi poté operare nessun prodigio”. Ma subito si corregge: “Solo impose le mani a pochi malati e li guarì”. Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’innamorato respinto continua ad amare, anche senza ritorno. Di noi Dio non è stanco: è solo stupito. E allora

“manda ancora profeti, uomini certi di Dio, uomini dal cuore in fiamme, e Tu a parlare dai loro roveti” (Turoldo).

Fb 27 giugno 21

Il sole rubato (p. Ermes Ronchi)

 

Gesù cammina accanto al dolore di Giairo, padre di una bambina morta a 12 anni, l’età in cui è d’obbligo fiorire, non soccombere.

Come è possibile non temere quando la morte è entrata in casa mia, e si è portata via il mio sole?

Così una donna che aveva molto sofferto, ma che si ribella al suo dolore, si avvicina a Gesù, e come mezzo per guarire vuole credere nel tocco della mano. L’emorroissa, la donna impura, condannata a non essere toccata da nessuno – mai una carezza, mai un abbraccio – scardina la regola con il gesto più tenero e umano: un tocco, una carezza per dire: ci sono anch’io! L’esclusa scavalca la legge perché crede in una forza più grande della legge. Si illude?

La fanciulla non è morta, ma dorme. E lo deridono. Tu credi nella vita dopo la morte? Sei un illuso. E Gesù a ripetere: “tu abbi fede”, lascia che la Parola salga alle labbra con l’ostinazione degli innamorati. Dio è il Dio dei vivi e non dei morti.

Allora Gesù cacciò tutti fuori di casa. Bellissimo e tremendo questo “cacciare” ciò che non vive, ciò che non crede alla vita. Costoro resteranno fuori, con i loro flauti inutili, fuori dal miracolo, con tutto il loro realismo. La morte è evidente, ma l’evidenza della morte è una illusione, perché Dio inonda di vita proprio le strade più nere.

Gesù prende il padre e la madre, i due che amano di più, e non ordina cose da fare, ma li prende con sé; crea comunità e vicinanza. Ricrea il cerchio degli affetti attorno alla bambina, perché ciò che vince la morte non è la vita, è l’amore. E il tempo dell’amore è infinitamente più lungo del tempo della vita.

E mentre si avvia a un corpo a corpo con la morte ed entra nel suo mistero silenzioso, Gesù porta i suoi tre discepoli alla scuola dell’esistenza, vuole che si addossino, anche solo per un’ora, il dolore di una famiglia, per acquisire quella sapienza del vivere che viene dalla ferite vere, dalla sapienza sulla vita e sulla morte, sull’amore e sul dolore che non avrebbero mai potuto apprendere dai libri: c’è molta più “Presenza”, molto più “Cielo” presso un corpo o un’anima nel dolore che presso tutte le teorie dei teologi.

Ed entrò dove era la bambina. Una stanzetta interna, un lettino, una sedia, un lume, sette persone in tutto, e il dolore che prende alla gola. Quella non è solo la stanza interna della casa di Giairo, ma è la stanza più intima del mondo, la più oscura, quella senza luce.

Gesù entrerà nella morte perché là va ogni suo amato. E non spiega il male, ci entra, lo invade con la sua presenza, dice: io ci sono.

Su ciascuno di noi, qualunque sia la porzione di dolore che portiamo dentro, qualunque sia la nostra porzione di morte, il Signore fa scendere la benedizione di quelle antiche parole: Talità kum. Giovane vita alzati, riprendi la fede, la lotta, la scoperta, la vita.

 

Avvenire Marco 5,21-43

C’è una casa, a Cafarnao, dove la morte ha messo il nido; una casa importante, quella del capo della sinagoga. Casa potente, eppure incapace di garantire la vita di una bambina. Giairo ne è uscito, ha camminato in cerca di Gesù, lo ha trovato, si è gettato  ai suoi piedi: La mia figlioletta sta morendo, vieni!  Ha dodici anni, età in cui è d’obbligo fiorire, non soccombere!

Gesù ascolta il grido del padre, interrompe quello che stava facendo, cambia i suoi programmi, e si incamminano insieme, il libero Maestro delle strade e l’uomo dell’istituzione. Il dolore e l’amore hanno cominciato a battere il ritmo di una musica assoluta, e Gesù vi entra: sono le nostre radici, e lui ci raggiunge, con passo di  madre,  proprio attraverso le radici.

Dalla casa vennero a dire: tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il maestro? La tempesta definitiva è arrivata. Caduta l’ultima speranza. E allora Gesù si gira, si avvicina, si fa argine al dolore: non temere, soltanto abbi fede.

Giunti alla casa, Gesù prende il padre e la madre con sé, ricompone il cerchio vitale degli affetti, il cerchio dell’amore che fa vivere. “Amare è dire: tu non morirai” (Gabriel Marcel).

Prende con sé anche i suoi tre discepoli preferiti, li mette alla scuola dell’esistenza.  Non spiega loro perché si muore a dodici anni, perché esiste il dolore, ma li porta con sé nel corpo a corpo con l’ultima nemica.

“Prese la mano della bambina”. Gesù una mano che ti prende per mano. Bellissima immagine: Dio e una bambina, mano nella mano. Non era lecito per la legge toccare un morto, si diventava impuri, ma Gesù profuma di libertà. E ci insegna che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare.

Una storia di mani: in tutte le case, accanto al letto del dolore o a quello della nascita, il Signore è sempre una mano tesa, come lo è per Pietro quando sta affondando nella tempesta. Non un dito puntato, ma una mano forte che ti afferra. Talità kum. Bambina alzati. Lui può aiutarla, sostenerla, ma è lei, è solo lei che può risollevarsi: alzati. E subito la bambina si alzò e camminava, restituita all’abbraccio dei suoi, a una vita verticale e incamminata.

“Ordinò ai genitori di darle da mangiare” Dice a quelli che la amano: custodite questa vita con le vostre vite, fatela crescere, incalzatela a diventare il meglio di ciò che può diventare. Nutrite di sogni, di carezze e di fiducia il suo rinato cuore bambino.

E allora Dio ripete su ogni creatura, su ogni fiore, su ogni uomo, su ogni donna, su ogni bambino e su ogni bambina, la benedizione di quelle antiche parole: “Talità kum. Giovane vita, dico a te: alzati, sorgi, rivivi, risplendi. Torna agli abbracci.

Gesù prima Li prende con sé, non gli spiega la sofferenza, non gli spiega la morte, ma la riempie con la sua presenza, dice: Io ci sono. Non offre spiegazioni ma un abbraccio.

7. Il settimo momento

“Tu porti salvezza

Si incamminano senza parole,  il dolore non domanda spiegazioni, ma condivisione; non cerca un maestro sapiente che ne spieghi il senso – in tutta la bibbia, per quanto lo cerchi, non troverai il perché del male – , ma uno che faccia strada insieme, su cui appoggiare le ferite del cuore.

Fb 20 giugno 21

Mc 4, 35-41

Ascoltami

Poche cose sono bibliche come questa lite con Dio, che nasce dalla passione per la vita, dall’arroganza di un amore che non accetta di finire.

Una notte di tempesta e di paura sul lago, e Gesù dorme. Anche il nostro mondo è in piena tempesta, geme di dolore con le vene aperte, e Dio sembra dormire.

Nessuna esistenza sfugge all’assurdo e alla sofferenza, e Dio non parla, rimane muto. Così per noi. Notte e basta.

È nel buio profondo che nascono le grandi domande: non ti importa niente di me? Vienimi in aiuto! Anche solo un po’…

I Salmi traboccano di questo grido che riempie la bocca di Giobbe; lo ripetono profeti, apostoli e re, come Saul. Poche cose sono vere come l’urlo sul silenzio di Dio, poche esperienze sono umane come questa paura di morire o di vivere, nell’attesa di un di più.

L’intera nostra esistenza è una traversata pericolosa, un passare all’altra riva, quella della vita adulta, responsabile, buona. Una traversata è iniziare un matrimonio; una traversata è il futuro che si apre davanti al bambino; una traversata burrascosa è tentare di ricomporre lacerazioni, ritrovare persone, vincere paure, accogliere poveri e stranieri.

Perché avete così tanta paura? C’è tanto da attraversare, tanta paura anche motivata. Ma troppo spesso la religione si è ridotta a una gestione della paura. Dio non vuole entrare in questo gioco. Lui non è altrove e non dorme. È già qui.

Sta nel sale più amaro delle tue lacrime, nelle braccia dei marinai forti sui remi, sta nella presa sicura del timoniere, nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; sta negli occhi che scrutano la riva e in quelli che dalla riva cercano il mare; vive nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora, scacciando la paura dell’abbandono.

Le barche non sono fatte per restare ormeggiate al sicuro nei porti, e Dio vigila, anche se a modo suo; vuole salvarmi, ma mi chiede di mettere in campo tutte le mie capacità, tutto il mio cuore e il mio ingegno. La sua risposta è la forza che sento al primo colpo di remo. Colpo d’ala che ad ogni colpo lui rinnoverà.

Io però vorrei che il Signore gridasse adesso, all’uragano: taci; e alle onde: calmatevi; e alla mia angoscia ripetesse: è finita. Vorrei essere esentato dalla lotta, vorrei che fosse tutto più facile, invece Dio risponde chiamandomi alla perseveranza, moltiplicandomi le energie.

Non ti importa che moriamo? La risposta, muta, è raccontata dai gesti: mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante.

Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro.

Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e vedo tutta la paura che stagna dentro il tuo cuore. Paura che alla fine sarà ingoiata dalla morte, sua gemella. Ma noi ne saremo liberati, perché Gesù è vita.

 

 

XII DOMENICA B Mc 4, 35-41

Le piccole barche sono al sicuro, ormeggiate nel porto, ma non è per questo che sono state costruite. Sono fatte per navigare, e anche per affrontare burrasche.

Noi siamo naviganti su fragili legni nel mare della vita, su gusci di noci. Eppure ci raggiunge la parola di Gesù: passiamo all’altra riva, andiamo oltre. C’è un oltre che abita le cose.

Non è nel segno del vangelo restarsene al sicuro, attraccati alla banchina o fermi all’ancora. Il nostro posto non è nei successi, ma in una barca in mare, mare aperto, dove prima o poi durante la navigazione della vita verranno acque agitate e vento contrario. Vera pedagogia è quella di Gesù: trasmettere non paura la passione per il mare aperto, il desiderio di navigare avanti, la gioia del mare alto e infinito.

Nella breve navigazione Gesù si addormenta, sfinito.

Io non so perché si alzano tempeste nella vita. Non lo sanno Luca, Marco, Matteo: raccontano tempeste sempre uguali e tutte senza perché. Vorrei anch’io un cielo sempre sereno e luci chiare a indicare la navigazione, un porto sicuro e vicino. Ma intanto la barca, simbolo di me, della mia vita fragile, della grande comunità, intanto resiste. E non per il morire del vento, non perché finiscono i problemi, ma per il miracolo umile dei rematori che non abbandonano i remi, che sostengono ciascuno la speranza dell’altro.

A noi invece pare di essere abbandonati appena si alza il vento di una malattia, di una crisi familiare, di relazioni che dolgono, di questa pandemia. Ci sentiamo naufraghi in una storia dove Dio sembra dormire, anziché intervenire subito, ai primi segni della fatica, al primo morso della paura, appena il dolore ci artiglia come un predatore

Allora ecco il grido: Non ti importa che moriamo? Eloquenza dei gesti: si destò, minacciò il vento e il mare…, perché sì, mi importa di voi. Mi importano i passeri del cielo e voi valete più di molti passeri; mi importano i gigli del campo e voi siete più belli di tutti i fiori del mondo.

Mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore. E sono con te, a farmi argine al buio, luce nel riflesso più profondo delle tue lacrime. Nelle mie notti Dio è con me; intreccia il suo respiro con il mio, e “non mi salva “dalla” tempesta ma “nella” tempesta. Non protegge dal dolore ma nel dolore. Non salva il Figlio dalla croce ma nella croce” (D. Bonhoeffer).  

Lui è con noi, a salvarci da tutti i nostri naufragi, è qui da prima del miracolo: è nelle braccia forti degli uomini sui remi; nella presa salda del timoniere; nelle mani che svuotano il fondo della barca. Lui è in tutti coloro che, insieme, compiono i gesti esatti e semplici che proteggono la vita.

 

Fb 13 giugno 21

Mc 4,26-34

All’ombra del tuo seme. Com’è pacificante il nostro Dio!  (di p. Ermes Ronchi)

La parabola del granello di senape racconta la sua costante preferenza per i mezzi poveri; sottolinea un miracolo di cui non ci stupiamo più: che tu dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce.

Dice che il Regno cresce per la misteriosa forza del buono; che le cose di Dio fioriscono per la straordinaria energia segreta che hanno le azioni buone, vere e belle. E nessuno può sapere di quanta esposizione al sole della vita, abbia bisogno il buon grano di Dio per maturare: nelle persone, nei figli, in coloro che mi appaiono distratti, che a volte giudico vuoti o senza germogli.

La seconda parabola mostra la sproporzione tra il granello di senape, il più piccolo tra tutti i semi, e il grande albero che ne nascerà.

Senza voli retorici: il granello non salverà il mondo, proprio come noi.

Un altro è il nostro compito: gli uccelli verranno come in un sogno e vi faranno il nido. Ma prima, l’albero è solo un piccolo seme accolto nel cavo della mano, che diresti un grumo di materia inerte. Invece, quel granello è un piccolo vulcano di vita, pronto a esplodere nonostante le nostre resistenze e distrazioni. E alla tua ombra le persone troveranno riposo e conforto; nel mondo e nel cuore il seme di Dio germoglia e si arrampicherà verso la luce.

Un seme deposto dal vento nelle fenditure di una muraglia è capace di viverci e aprirsi una strada nel duro dell’asfalto. Gesù sa di aver immesso nel mondo un germe di bontà divina che, con il suo assedio dolce e implacabile, spezzerà la crosta arida di tutte le epoche, per donarsi quando sarà pronto.

Consegnarsi, verbo stesso con cui Gesù si consegna alla sua passione, e anche l’uomo, per star bene, deve dare un po’ di sè. È la legge della vita, a ricordare all’uomo che è maturo solo quando è pronto a donarsi, a diventare anche lui pezzo di pane buono per la fame di qualcuno.

Nelle parabole, il Regno di Dio è presentato come un contrasto, energia che viene come lotta vitale, come dinamica che si insedia al centro; un salire, un evolvere verso sempre più vita. Quando Dio entra in gioco, tutto entra in una dinamica di crescita, anche se parte da semi microscopici.

Accade nel Regno ciò che accade nell‘intimo di ogni essere. Una sconosciuta e divina potenza che è all’opera, instancabile, che non dipende da noi e che non si deve forzare, ma attendere con la fiducia in Gesù, che ha una bellissima visione del mondo: tutto è in cammino, tutto un fiume di vita che scorre, in movimento perenne.

E’ il paradigma della pienezza, a reggere la nostra fede.

Mietiture fiduciose, abbondanti. Gioia del raccolto. Sogni di pane e di pace. Positività.

Tutta la nostra fiducia è in questo: occhi profondi per vedere Dio all’opera, in seno alla storia e in me, in alto silenzio e con piccole cose.

 

Avvenire Marco 4,26-34

 

Due piccole parabole (il grano che spunta da solo, il seme di senape): storie di terra che Gesù fa diventare storie di Dio. Con parole che sanno di casa, di orto, di campo, ci porta alla scuola dei semi e di madre terra, cancella la distanza tra Dio e la vita.

Siamo convocati davanti al mistero del germoglio e delle cose che nascono, chiamati  a decifrare la nostra sacralità, esplorando quella del mondo” (P. Ricoeur).

Nel vangelo, la puntina verde di un germoglio di grano e un minuscolo semino diventano personaggi di un annuncio, una rivelazione del divino (Laudato si’), una sillaba del messaggio di Dio. Chi ha occhi puri e meravigliabili, come quelli di un bambino, può vedere il divino che traspare dal fondo di ogni essere (Theilard de Chardin). La terra e il Regno sono un appello allo stupore, a un sentimento lungo che diventa atteggiamento di vita.

È commovente e affascinante leggere il mondo con lo sguardo di Gesù, a partire non da un cedro gigante sulla cima del monte (come Ezechiele nella prima lettura) ma dall’orto di casa. Leggero e liberatorio leggere il Regno dei cieli dal basso, da dove il germoglio che spunta guarda il mondo, raso terra., anzi: “raso le margherite” come mi correggeva un bambino, o i gigli del campo.

Il terreno produce da sé, che tu dorma o vegli: le cose più importanti non vanno cercate, vanno attese (S. Weil), non dipendono da noi, non le devi forzare. Perché Dio è all’opera, e tutto il mondo è un grembo, un fiume di vita che scorre verso la pienezza.

Il granellino di senape è incamminato verso la grande pianta futura che non ha altro scopo che quello di essere utile ad altri viventi, fosse anche solo agli uccelli del cielo. È nella natura della natura di essere dono: accogliere, offrire riparo, frescura, cibo, ristoro. È nella natura di Dio e anche dell’uomo. Dio agisce non per sottrazione, mai, ma sempre per addizione, aggiunta, intensificazione, incremento di vita: c’è come una dinamica di crescita insediata al centro della vita.

  La incrollabile fiducia del Creatore nei piccoli segni di vita ci chiama a prendere sul serio l’economia della piccolezza ci porta a guardare il mondo, e le nostre ferite, in altro modo. A cercare i re di domani tra gli scartati e i poveri di oggi, a prendere molto sul serio i giovani e i bambini, ad aver cura dell’anello debole della catena sociale, a trovare meriti là dove l’economia della grandezza sa vedere solo demeriti.

Splendida visione di Gesù sul mondo, sulla persona, sulla terra: il mondo è un immenso parto, dove tutto è in cammino, con il suo ritmo misterioso, verso la pienezza del Regno. Che verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme.

verso la fioritura della vita, Il Regno è presentato come un contrasto, non uno scontro, bensì un contrasto di crescita, di vita. Dio come un contrasto vitale. Una dinamica che si insedia al centro della vita.

verso il paradigma della pienezza e fecondità. Il vangelo sogna mietiture fiduciose, frutto pronto, pane sulla tavola. Positività. Gioia del raccolto.

non tanto per la piccolezza del seme in sé, ma per la sproporzione tra il seme e la pianta matura. Il viaggio va dal piccolo al grande: verso una grandezza – qui sta il focus – che

E vedi che è proprio di ogni vivente essere crescita, mai immobili o stagnanti.  Tutto è in cammino con il suo ritmo misterioso verso una pienezza che chiama.

parte di quel vangelo della terra in cui Gesù racchiude il Regno. La terra per dire il cielo.

– Gli ascoltatori di Gesù devono essere rimasti sconvolti all’idea di paragonare il Regno di Dio/dei cieli a un granello di senape. A loro deve sicuramente essere parso blasfemo associare il regno dei cieli al più piccolo tra i semi.

Gesù sottolinea il più piccolo degli inizi da cui matura la pienezza.

Il contrasto piccolo-grande innerva di sé tutto il vangelo, anzi tutta la Bibbia, come una delle caratteristiche che rivelano l’azione di Dio:– E tu Betlemme non sei il più piccolo tra i villaggi di Giuda, da te mi uscirà un grande, un salvatore (Mt 2,6);

– Nazaret, mai nominata prima nella Bibbia: cosa può venire di buono da quel pugno di case? (Gv 7,52);

La parabola della senape porta in primo piano una delle strutture portanti del vangelo, la preferenza del piccolo: Il Signore scommette su coloro sui quali la storia non scommette. Punta sui piccoli, i perdenti, gli ultimi della fila, i prigionieri, gli ammalati, i poveri.

Tra il piccolo e il grande si colloca il mistero di Dio. Nell’incongruenza, nella sproporzione tra il poco che abbiamo fra le mani e il tanto che aspettiamo, è posta la casa della fiducia e della speranza.

Quante volte ci siamo chiesti con un filo di angoscia: non siamo più capaci di trasmettere il vangelo, di convincere e commuovere… non abbiamo più le parole per dire Dio.

Gesù, il grande comunicatore, risponde con le parabole.

Dove sceglie sempre parole di casa, di orto, di lago, di strada: parole di tutti i giorni, dirette e immediate, laiche.

imparate dal fico, dice, dalla sapienza degli alberi…

Il vangelo di Marco riassume gran parte dell’insegnamento di Gesù in immagini di terra e di semi, di vigne e di orti, nei quali i contadini si affaticano nell’arte di far nascere, fiorire, fruttificare.

Il contadino nel vangelo è l’anello mancante tra l’uomo e Dio.

Contadino, pastore, vignaiolo sono immagini del volto di Dio. Un Dio con le mani sporche di terra, che suda e si affatica attorno a me

I semi e le vigne che riempiono le parabole non sono puri pretesti per parlare d’altro, per insegnare teologia e morale.

Ezechiele aveva parlato del Dio giardiniere che pianta un cedro del Libano. Gesù invece parla di un semino di senape.

Gesù sta dialogando con Ezechiele: ripete e innova. Tutta sua, infatti, la novità della senape, pianta mai nominata nel Primo testamento, nonostante fosse un ortaggio di uso comune.  Fedele e infedele al tempo stesso alla tradizione scritturale, Gesù punta in basso: mette la senape al posto del cedro del Libano e l’orto al posto del monte.

Ci sono altri luoghi del Vangelo in cui usa la stessa strategia, in particolare Lc 13,31-35 (e Mt 23,37-39), dove cita un’immagine biblica (Dio come un grande uccello che protegge la sua nidiata sotto le ali) introducendo una variante di sua invenzione, mettendo una gallina al posto dell’aquila:

«Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!».

Ci affascina e commuove vedere come Gesù sia riuscito grazie a un’umilissima gallina e a un semino di senape e a cancellare la distanza tra Dio e la terra, quell’aura di minacciosa potenza che circondava il divino nelle religioni.

Una gallina per dire Dio e un seme di senape per parlare del suo regno d’amore: il linguaggio teologico portato al registro più basso e semplice.

Il Vangelo della terra sovverte le norme.

– Gli ascoltatori di Gesù devono essere rimasti sconvolti all’idea di paragonare il Regno di Dio/dei cieli a un granello di senape. A loro deve sicuramente essere parso blasfemo associare il regno di Dio al più piccolo tra i semi.

Ma Gesù si concentra sulla crescita del seme. È questa crescita dal minuscolo al grande ad assomigliare al regno di Dio. Mentre con ogni probabilità i suoi ascoltatori si aspettavano che il regno di Dio fosse presentato in modo possente, anche drammatico, un imporsi di qualcosa, Gesù sottolinea che dal più piccolo degli inizi matura la pienezza.

C’è un appello alla meraviglia dentro questa parabola: il Regno è un mistero davanti al quale stupirsi.

Il vangelo della terra di Gesù sovverte le norme, racchiude il grande nel piccolo, l’alto nel basso, i contenuti della fede nel linguaggio laico, il cielo nella terra.

Ci porta alla scuola delle piante, della vite, del filo d’erba, della loro misteriosa potenza di vita, che ha una sorgente nell’infinito:

perché le leggi dello spirito e le leggi profonde della natura coincidono;

le norme che reggono il venire del Regno di Dio e quelle che alimentano la vita delle creature sono le stesse.

Dalle parabole di Gesù emerge una visione emozionante del mondo: questa nostra storia è tutto un seminare, germinare, spuntare, accestire, granire, maturare: tutto è fiducia incamminata, con il suo ritmo misterioso, verso la fruttificazione, un consegnarsi gioioso a più vita.

Quando Dio entra in gioco, tutto entra in una dinamica di crescita, anche se parte da semi microscopici:

Dio ama racchiudere

il grande nel piccolo:

l’universo nell’atomo

l’albero nel seme

l’uomo nell’embrione

la farfalla nel bruco

l’eternità nell’attimo

l’amore in un cuore

se stesso in noi.

    Il centro del vangelo della terra è la sconosciuta – divina – potenza del più piccolo seme. Se riesci ad ogni primavera a stupirti di questo allora avrai chiaro che nel mondo sono all’opera forze buone che crescono perché Qualcuno si cura di moltiplicarle, nonostante sassi e spine. E quello che avviene nella terra, avviene nei cuori. Una sorgente buona al centro di me e delle cose, che sgorga incessantemente, a cui posso sempre attingere, che è sempre disponibile e che non verrà mai meno.. È la mia fede gioiosa e fiduciosa.

 

 

PICCOLO, BIANCO e SILENZIOSO (p.Ermes Ronchi)

Da molti anni faccio la comunione, camminando verso l’altare, a volte un po’ distratto e inaffidabile, eppure Dio non si nega.

Sull’altare, un piccolo pane bianco che non ha sapore, che è silenzio, profondissimo silenzio. Che cosa mi può dare questo po’ di pane, lieve come un’ala, povero e così piccolo da non saziare neppure il più piccolo bambino?

Per un istante mi affaccio sull’enormità di Dio che mi cerca, Dio che è arrivato, che mi assedia, che entra e trova casa. La mia processione verso l’altare è solo un pallido simbolo del suo eterno venire verso l’uomo, verso me. L’amore cerca casa. La comunione, più che un mio bisogno, è un bisogno di Dio.

Sono colmo di Dio. E non riesco a dire parole, non ho doni da offrire, non ho progetti alti, non coraggio. Ma dentro qualcosa si apre, perché vi si depositi l’orma lieve di Dio.

Faccio la comunione e Dio mi abita, sono la sua casa. L’incredibile Dio si accontenta di quel groviglio di paure, di quel nodo di desideri che io sono. E cerco di spremere pensieri e parole da dedicargli, ma finisco per regalargli il silenzio. Eppure Lui non mi ha mai lasciato. Mai siamo stati lasciati.

E’ tempo di pensare a Dio non solo come Padre che sostiene, ma come Madre presente, che nutre di sé i figli al suo petto, con il suo corpo. A Dio come Sposo, amore esuberante che cerca risposta. E l’incontro con lui è quello degli amanti nel Cantico: dono e gioia, intensità e tenerezza, fecondità e fedeltà.

«Ecco il mio corpo», e non, come ci saremmo aspettati: «ecco la mia mente, la mia volontà, la mia divinità, ecco il meglio di me», ma semplicemente, poveramente, il corpo.  Il sublime dentro il dimesso, lo splendore dentro l’argilla, il forte dentro il debole.

Il Signore non ha portato solo salvezza, ma redenzione, che è molto di più. Salvezza è togliere qualcuno dalle acque che lo sommergono, redenzione è trasformare la debolezza in forza, la maledizione in benedizione, il tradimento di Pietro in atto d’amore, il pianto in danza, la veste di lutto in abito di gioia, la carne in casa di Dio.

Prendete questo corpo, vuol dire che Gesù ci consegna la sua storia: mangiatoia, strade, lago, volti, il duro della Croce, il sepolcro vuoto e la vita che fioriva al suo passaggio. E con il suo sangue versa il rosso della passione, il coraggio della fedeltà fino all’estremo.

Stupendo Dio, che non spezza nessuno, che spezza e sparge se stesso.

Prendete tutto di me… e con un balzo rivedo la piccola Rut: «Non insistere con me perché ti abbandoni; dove andrai tu andrò anch’io; il tuo popolo sarà il mio e il tuo Dio sarà il mio; dove morirai, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te».

L’amore scavalca anche Dio, se quel Dio non è l’amore stesso.

Prendete me… e non saprei come altro amarvi.

 

Avvenire Corpus Domini B

Marco 14,12-16.22-26

Prendete, questo è il mio corpo. Nei vangeli Gesù parla sempre con verbi poveri, semplici, diretti: prendete, ascoltate, venite, andate, partite; “corpo e sangue”. Ignote quelle mezze parole la cui ambiguità permette ai potenti o ai furbi di consolidare il loro predominio.

Gesù è così radicalmente uomo, anche nel linguaggio, da raggiungere Dio e da comunicarlo attraverso le radici, attraverso gesti comuni a tutti.

Seguiamo la successione esatta delle parole così come riportata dal vangelo di Marco: prendete, questo è il mio corpo… Al primo posto quel verbo, nitido e preciso come un gesto concreto, come mani che si aprono e si tendono.

Gesù non chiede agli apostoli di adorare, contemplare, venerare quel pane spezzato, chiede molto di più: ‘io voglio essere preso dalle tue mani come dono, stare nella tua bocca come pane, nell’intimo tuo come sangue, farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita’.

Qui è il miracolo, il batticuore, lo scopo: prendete. Per diventare ciò che ricevete. Quello che sconvolge sta in ciò che accade nel discepolo più ancora che in ciò che accade nel pane e nel vino: lui vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, che ci incamminiamo a vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta lui.

Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola, una stessa vocazione: non andarcene da questo mondo senza essere diventati pezzo di pane buono per la fame e la gioia e la forza di qualcuno.

Dio si è fatto uomo per questo, perché l’uomo si faccia come Dio.

Gesù ha dato ai suoi due comandi semplici, li ha raddoppiati, e in ogni eucaristia noi li riascoltiamo: prendete e mangiate, prendete e bevete. A che serve un Pane, un Dio, chiuso nel tabernacolo, da esporre di tanto in tanto alla venerazione e all’incenso? Gesù non è venuto nel mondo per creare nuove liturgie. Ma figli liberi e amanti. Vivi della sua vita.

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”. Corpo e sangue indicano l’intera sua esistenza, la sua vicenda umana, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno e il foro dei chiodi, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, i piedi intrisi di nardo e poi di sangue, e la casa che si riempie di profumo e parole che sanno di cielo.

Lui dimora in me e io in lui, le persone, quando amano, dicono le stesse cose: vieni a vivere nella mia casa, la mia casa è la tua casa. Dio lo dice a noi.

Prima che io dica: “ho fame”, lui ha detto: “voglio essere con te”. Mi ha cercato, mi attende e si dona. Un Dio così non si merita: lo si deve solo accogliere e lasciarsi amare.

 

 

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SS TRINITA’ 2021

Il vangelo non offre, per parlare della Trinità, formule razionali o simboliche, ma il racconto di un appuntamento e di un invio. Le attribuisce nomi di famiglia e di affetto: Padre, Figlio, Respiro santo. Nomi che abbracciano e fanno vivere.

Ci sono andati tutti all’appuntamento sul monte di Galilea. Tutti, anche quelli che dubitavano ancora, comunità ferita che ha conosciuto il tradimento, la fuga e il suicidio di uno di loro…

Ma il maestro non li molla, e compie uno dei suoi gesti più tipici: si avvicinò e disse loro… quando ama Dio compie gesti molto umani. Gesù non accetta distanze: ancora non è stanco di avvicinarsi e di spiegare. Ancora non è stanco di attendermi nella mia lentezza a credere, viene più vicino, occhi negli occhi, respiro su respiro.

È il viaggio eterno del nostro Dio ‘in uscita’, incamminato per tutta la terra, che bussa alla porta dell’umano, e la porta dell’umano è il volto, o il cuore. E se io non apro, come tante volte è successo, lui alla porta mi lascia un fiore. E tornerà. E non dubita di me.

Io sono con voi tutti i giorni.

Con voi, dentro le solitudini, gli abbandoni e le cadute; con voi anche dietro le porte chiuse, nei giorni in cui dubiti e in quelli in cui credi; nei giorni del canto e in quelli delle lacrime, quando ti ingoia la notte e quando ti pare di volare.

L’ultima, suprema pedagogia di Gesù è così semplice: “avvicinarsi sempre, stare insieme, sussurrare al cuore, confortare e incalzare”.

Andate in tutto il mondo e annunciate. Affida la fede e la parola di felicità a discepoli con un peso sul cuore, eppure ce la faranno, e dilagherà in ogni paesaggio del mondo come fresca acqua chiara.

Andate e battezzate, immergete ogni vita nell’oceano di Dio. Accompagnate ogni vita all’incontro con la vita di Dio e ne sia sommersa, ne sia intrisa e imbevuta, e poi sia sollevata in alto dalla sua onda mite e possente!

Fatelo “nel nome del Padre”: cuore che pulsa nel cuore del mondo; “nel nome del Figlio”: il più bello tra i nati di donna; “nel nome dello Spirito”: vento che porta pollini di primavera e ci fa tutti vento nel suo Vento (D. M. Montagna).

Come tutti i dogmi, anche quello della Trinità non è un freddo distillato concettuale, ma un forziere che contiene la sapienza del vivere, una sapienza sulla vita e sulla morte: in principio a tutto, nel cosmo e nel mio intimo, come in cielo così in terra, è posto un legame d’amore. “In principio, il legame”.

E io, creato a immagine e somiglianza della Trinità,  posso finalmente capire perché sto bene quando sono con chi mi vuole bene, capire perché sto male quando sono nella solitudine: è la mia natura profonda, la nostra divina origine.

 

Fb 30 maggio 21

Mc 28, 16-20

A SUA IMMAGINE

Ci sono andati tutti, sul monte di Galilea.

Tutti, anche quelli che dubitavano ancora, portando frammenti d’oro di fede dentro vasi d’argilla. Sono una comunità ferita che ha conosciuto il tradimento, l’abbandono, la sorte tragica di Giuda.

Sulla teologia della Trinità il Vangelo non offre formule, ma il racconto del monte anonimo di Galilea dove Gesù si affida ancora agli apostoli, che credono e dubitano. Ma neppure il dubbio è in grado di fermarlo. È il nostro Dio “in uscita”, pellegrino eterno in cerca del santuario che sono le sue creature.

“Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. Potere è parola che in bocca a Gesù cambia di segno: non il potere del mondo, evocante violenza e sopruso, ma la forza di un Dio che può soltanto ciò che l’amore sa fare.

Andate e annunciate! Dio si è appena fatto trovare e già t’invita ad andare oltre, per “battezzare”, per immergere il mondo nel mare di Dio, a dissetare ogni filo d’erba, a portare acqua viva ad ogni vita che langue.

Andate, raggiungete tutti e gioite nelle creature di Dio! Accompagnatele all’incontro nel nome del Padre, cuore che pulsa nel cuore; e nel nome della fragilità del Figlio morto nella carne, e nel nome della forza dello Spirito che lo risuscita.

Trinità significa che Dio non può essere estraneo al dolore e alla felicità dell’uomo, e che il suo dogma è affidato a pescatori increduli che sanno di non sapere, che si sentono “piccoli ma abbracciati dal mistero” (A. Casati).

Padre, Figlio, Respiro santo: Dio non è solitudine. Alla sorgente di tutto, è posta la relazione, in principio a tutto, il legame. E qui scopro la sapienza del vivere, intuisco come Adamo sia creato «a sua immagine e somiglianza». Qui mi è rivelato che io non sono semplicemente immagine di Dio, ma della Trinità, immagine di un Padre che è fonte di vita, di un Figlio che mi innamora ancora, di uno Spirito che accende di comunione le solitudini. Io sono uomo quanto più sono simile a un legame d’amore.

Insegnate loro tutto ciò che vi ho comandato. Non è detto: insegnate i comandamenti, o spingete ad osservarli. È detto invece: insegnate a viverli, mostrate come si vive il vangelo. È facile trasmettere nozioni o dare ordini. Ma la vera missione è trasmettere valori, energia, strade spianate verso la gioia.

Insegnate l’amore come un’arte che si impara. Insegnate ad essere felici, ha detto Mosè nella prima lettura; ad essere vivi, dice Paolo nella seconda.

Io sarò con voi tutti i giorni. Con voi senza condizioni, senza vincoli né clausole, anche quando dubiterete e non riuscirete a insegnare a nessuno.

Tutti i giorni, fino alla fine.

Non dimentichiamo mai questa frase, non lasciamola dissolversi, impolverarsi. Con voi dentro le solitudini, dentro le gioie e le cadute, quando ti sfiora la morte, e quando ti pare di volare.

(p.Ermes Ronchi)

 

 

 

Fb 23 maggio 21

Pentecoste

Gv 15,26-27; 16,12-15

L’UNIVERSO OBBEDISCE ALL’AMORE di p. Ermes Ronchi

La Bibbia è un libro di strade e di vento. E così i racconti della Pentecoste, pieni di strade e vento su Gerusalemme, respiro leggero e uragano impetuoso. Vento che scuote la casa, la riempie e passa oltre, e mentre tu sei impegnato a tracciarne i confini, lui spalanca finestre e dilata lo sguardo. E tu stesso confini con Dio.

“Riempì la casa dove erano insieme”. Spirito che non si lascia sequestrare, nei luoghi che noi diciamo sacri. Ora sacra diventa la casa. La mia, la tua, e tutte le case saranno cielo di Dio.

Venne d’improvviso, e furono colti di sorpresa. Non erano preparati, non era programmato; lo Spirito non sopporta schemi, è vento di libertà e di libere vite.

Apparvero lingue di fuoco, a posarsi su ciascuno. Il fuoco è la cosa più semplice, è voglia di amare la vita, è lo stupore di vivere accesi. Noi nasciamo già accesi, i bambini sono accesi, poi i colpi della vita possono spegnerci.

Lingue di fuoco a posarsi su tutti, nessuno escluso, nessuna distinzione da fare. Lo Spirito tocca ogni vita, la diversifica, fa nascere creatori e sposa una libertà, afferma una vocazione, rinnova un’esistenza unica.

Abbiamo bisogno dei doni dello Spirito, ne ha bisogno questo nostro piccolo mondo, per dare a ognuno una genialità che gli è propria. E la Chiesa ha bisogno di discepoli geniali, ha il bisogno estremo che ciascuno creda al proprio dono, alla propria unicità a servizio della vita. Al proprio coraggio.

Lo Spirito ti rende unico nel modo di amare. Come Dio, che dopo aver creato l’uomo, ne spezza la forma e la butta via. Unico, nel tuo modo di consolare e di incontrare; unico, nel tuo modo di gustare la bellezza di cose e persone. Nessuno sa voler bene come lo sai fare tu; nessuno ha la gioia di vivere che hai tu; e nessuno ha il dono di capire i fatti come li comprendi tu.

Questa è l’opera dello Spirito: è la meraviglia del primo giorno!

“Com’è che li sentiamo parlare la nostra lingua nativa?” Lo Spirito parla ad ogni uomo da sempre, si rivolge a quella parte profonda e nativa che è in ciascuno, che scavalca razze, nazioni, culture, età. E la Parola diventa mia lingua, mia passione, mio fuoco. Diventa la parte migliore di me.

“Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra”. Guardati attorno, cerca, ascolta il vento sugli abissi e il respiro del tuo cuore: la terra trabocca del fuoco divino. Cerca la bellezza, l’amore in ogni amore. Piena ne è la terra, instancabile il respiro di Dio sui suoi cieli, sui suoi deserti e le sue foreste, sui suoi bambini e i suoi anziani; e le donne, che sono la cosa più vicina a Dio (C. Bobin).

Ricevetelo! Come all’origine lo ha ricevuto Adamo, reso uomo per il respiro di Dio in lui; alito di vita nelle sue narici, per essere nascituro sempre e incamminato.

Lo Spirito presiede alle nascite. Il suo lavoro è dare la vita.

 

Avvenire Pentecoste Gv 15,26-27; 16,12-15

Quando verrà lo Spirito, vi guiderà a tutta la verità. È l’umiltà di Gesù, che non pretende di aver detto tutto, di avere l’ultima parola su tutto, ma parla della nostra storia con Dio con solo verbi al futuro: lo Spirito verrà, annuncerà, guiderà, parlerà. Un senso di vitalità, di energia, di spazi aperti! Lo Spirito come una corrente che trascina la storia verso il futuro, apre sentieri, fa avanzare. Pregarlo è come affacciarsi al balcone del futuro. Che è la terra fertile e incolta della speranza.

Lo Spirito provoca come un cortocircuito nella storia e nel tempo: ci riporta al cuore, accende in noi, come una pietra focaia che alleva scintille, la bellezza di allora, di gesti e parole di quei tre anni di Galilea. E innamorati della bellezza spirituale diventiamo “cercatori veraci di Dio, che inciampano in una stella e, tentando strade nuove, si smarriscono nel pulviscolo magico del deserto” (D.M. Montagna).

Siamo come pellegrini senza strada, ma tenacemente in cammino (Giovanni della Croce), o anche in mezzo a un mare piatto, su un guscio di noce, dove tutto è più grande di noi. In quel momento: bisogna sapere a ogni costo/ far sorgere una vela / sul vuoto del mare (Julian Gracq). Una vela, e il mare cambia, non è più un vuoto in cui perdersi o affondare; basta che sorga una vela e che si lasci investire dal soffio vigoroso dello Spirito (io la vela, Dio il vento) per iniziare una avventura appassionante, dimenticando il vuoto, seguendo una rotta.

Che cos’è lo Spirito santo? È Dio in libertà. Che inventa, apre, scuote, fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio fuorilegge, a Elisabetta un  figlio profeta, e che in noi compie instancabilmente la medesima opera di allora: ci rende grembi del Verbo,  che danno carne e sangue e storia alla Parola.

Dio in libertà, un vento nomade, che porta pollini là dove vuole, porta primavere e disperde le nebbie, e ci fa tutti vento nel suo Vento.

Dio in libertà, che non sopporta statistiche. Gli studiosi cercano ricorrenze e schemi costanti; dicono: nella Bibbia Dio agisce così. Non credeteci. Nella vita e nella Bibbia, Dio non segue mai degli schemi.

Abbiamo bisogno dello Spirito, ne ha bisogno questo nostro mondo stagnante, senza slanci. Per questa chiesa che fatica a sognare.

Lo Spirito con i suoi doni dà a ogni cristiano una genialità che gli è propria. E l’umanità ha bisogno estremo di discepoli geniali. Abbiamo bisogno cioè che ciascuno creda al proprio dono, alla propria unicità, e così possa tenere alta la vita con l’inventiva, il coraggio, la creatività, che sono doni della Spirito.

Allora non mancherà mai il vento al mio veliero, o a quella piccola vela che freme alta sul vuoto del mare.

 

 

 

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Fb 16 maggio 21  Ascensione

Nostalgia del cielo (di p. Ermes Ronchi)

Mc 16,15-20

Con l’ascensione inizia la nostalgia del cielo. Di noi che restiamo nella storia, a fidarci di un corpo assente, a fidarci di una Voce.

Andate in tutto il mondo. Che ampio orizzonte in queste parole! È sentirsi protesi verso tutto, allargare le braccia su ogni cosa, respirare ogni vivente, sentire il vangelo, la parola felice, dilagare nei paesaggi del mondo come ossigeno e fresca acqua chiara.

Io sto con la Voce. Continuo a scegliere di starci. La sento cantare dentro, riaccendermi, farsi cuore. E l’assenza diventa una più ardente presenza.

Nel racconto dell’ascensione, a sorpresa, si parla più di me che di Cristo. Io ricevo la stessa consegna degli undici: annunciate. Niente altro. Non dice: organizzate, occupate i posti chiave, assoggettate. Non le vostre idee più belle, non la soluzione dei problemi, non una politica o una teologia, solo vangelo. E mi sembra persino facile.

Gesù spinge i suoi amici a pensare in grande, a guardare lontano: il mondo è vostro!

Lo fa perché crede in loro nonostante abbiano capito poco e siano scappati. E quale gioia sapere che si fida ancora del mio cuore, delle mie mani.

Ma durissima fu la fatica degli apostoli, secondo Marco. Un gruppetto di uomini confusi, con i tre anni di libertà, predicazione e conflitti che sembrano chiudersi in un fallimento. Uomini e donne che stanno a fissare il cielo. Gente che anche nell’ultimo incontro si confonde: lui che parlava del Regno di Dio, loro che capivano il regno di Israele. E invece di restare, Gesù se ne va! Ma con un atto di enorme fiducia: «Ce la farete!»

Nel mio nome scacceranno demoni. I demoni da snidare sono i nuovi padroni del cuore, i pensieri che ci possiedono: l’arrivismo, l’autorealizzazione a spese di tutto, il vuoto dentro.

Se berranno veleni… nella vita c’è chi sparge veleni, ma passeremo indenni tra falsità e cattiverie, perché il nostro antidoto è una Parola salda che fa vivere.

Parleranno lingue nuove: in un mondo cinico l’amore è poliglotta, e il vangelo insegnerà parole luminose con la lingua della tenerezza e della cura, che apre all’ascolto dell’altro.

E partirono a predicare ovunque.

L’ultimo versetto, che chiude il vangelo di Marco e apre il mio vangelo, dice: il Signore operava insieme con loro. Il verbo greco suona così: Il Signore agiva in sinergia con loro.

Come farei altrimenti a scacciare demoni, a prendere in mano serpenti, a bere veleni, a guarire? Lui è con te quando lotti contro il male, offri un bicchiere d’acqua, porgi una parola fresca; con te quando costruisci pace, quando la tua è fame di giustizia.

Ascensione. Cristo non è salito verso l’alto, lui è andato oltre, verso l’intimo delle cose. Non si è spostato di luogo, è andato in profondità, assente e meno assente che mai. E noi qui, “conchiglie ripiene dell’eco dell’infinito silenzio” (Turoldo); noi qui, come Elia  sull’Oreb, a incontrare Dio nel brivido del silenzio.

 

Avvenire Ascensione del Signore Mc16,15-20

Gli sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne, fedeli e coraggiose. Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno amato molto, e sono venuti tutti all’appuntamento sull’ultimo colle.

Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.

Gesù compie un atto di enorme, illogica fiducia in uomini e donne che dubitano ancora, affidando proprio a loro il mondo e il vangelo. Non rimane con i suoi ancora un po’ di tempo, per spiegare meglio, per chiarire meglio, ma affida loro la lieta notizia nonostante i dubbi. I dubbi nella fede sono come i poveri: li avremo sempre con noi.

Gesù affida il vangelo e il mondo nuovo, sognato insieme, alla povertà di undici pescatori illetterati e non all’intelligenza dei primi della classe. Con fiducia totale, affida la verità ai dubitanti, chiama i claudicanti a camminare, gli zoppicanti a percorrere tutte le strade del mondo: è la legge del granello di senape, del pizzico di sale, della luce sul monte, del cuore acceso che può contagiare di vangelo e di nascite quanti incontra.

Andate, profumate di cielo le vite che incontrate, insegnate il mestiere di vivere, così come l’avete visto fare a me, mostrate loro il volto alto e luminoso dell’umano.

Battezzate, che significa immergete in Dio le persone, che possano essere intrise di cielo, impregnate di Dio, imbevute d’acqua viva, come uno che viene calato nel fiume, nel lago, nell’oceano e ne risale, madido d’aurora.

Ecco la missione dei discepoli: fare del mondo un battesimo, un laboratorio di immersione in Dio, in quel Dio che Gesù ha raccontato come amore e libertà, come tenerezza e giustizia.

Ognuno di noi riceve oggi la stessa missione degli apostoli: annunciate. Niente altro. Non dice: organizzate, occupate i posti chiave, fate grandi opere caritative, ma semplicemente: annunciate.

E che cosa? Il Vangelo, la lieta notizia, il racconto della tenerezza di Dio. Non le idee più belle, non le soluzioni di tutti i problemi, non una politica o una teologia migliori: il Vangelo, la vita e la persona di Cristo, pienezza d’umano e tenerezza del Padre.

L’ascensione è come una navigazione del cuore. Gesù non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo. È disceso (asceso) nel profondo delle cose, nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come forza ascensionale verso più luminosa vita. “La nostra fede è la certezza che ogni creatura è piena della sua luminosa presenza” (Laudato si’ 100), che “Cristo risorto dimora nell’intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e penetrandolo con la sua luce” (Laudato si’ 221).

Fb 9 maggio ’21 – VI di Pasqua

 

Gv 15,9-17 

 

Nella sinfonia di Dio (p.Ermes Ronchi)

Giovanni propone una pagina in cui pare custodita l’essenza del cristianesimo, un canto d’amore al cuore degli insegnamenti di Gesù. Musica dolcissima e profonda, ritmata sul lessico degli amanti: rimanere, amore, amare, gioia, pienezza, frutti… E’ la melodia della nostra fede.

Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Di amore parliamo come di un nostro compito. Ma non possiamo far sgorgare amore se non ci viene prima donato. Siamo letti di fiume che Dio trasforma in sorgenti, e che diventeranno cascata.

Rimanete nel mio amore. Nell’amore si entra e si dimora. Rimanete, non andatevene, non fuggite dall’amore. Credi in lui, sebbene la sua voce possa frantumare sogni e strappare fiori nel giardino della tua anima (Gibran).

Gesù indica la strada per stare dentro l’amore: osservate i miei comandamenti. Che non sono il decalogo ma il modo di agire di Dio, colui che libera e fonda alleanze, che pianta la sua tenda in mezzo al nostro accampamento. Resto nell’amore se faccio le cose che Dio fa.

Il brano è tutto un alternarsi di misura umana e di misura divina nell’amore. Gesù non dice semplicemente: amate. Non basta amare, potrebbe essere solo mero opportunismo, dipendenza, sentimentalismo, oppure una necessità storica, perché se non ci amiamo ci distruggiamo. Non dice neanche: amate gli altri con la misura con cui amate voi stessi. Conosco gli sbandamenti del cuore, i testacoda della volontà, io non sono misura a nessuno. Dice invece: amatevi come io vi ho amato. E diventa Dio la misura dell’amore, musica per il cuore dell’uomo, per stare alla pari, per dire uguaglianza e affetto.

Non vi chiamo più servi, ma amici. Parola dolce, sinfonia nel cuore. L’amicizia, qualcosa che non si impone, non si finge, non si mendica, che è l’incontro di due libertà.

Vi chiamo amici: un Dio tenerissimo che non vuole stare solo. Amico è un nome di Dio, per noi la più bella avventura. Amicizia è umanissimo rito e alta teologia: parla di Dio come ne parlava Gesù, e nel farlo conforta la nostra vita.

Ma perché rimanere dentro questa logica? Tutto inizia da un fatto: tu sei amato; ne deriva che ogni essere respira non solo aria, ma amore, e se questo respiro cessa, non vive più. Tutto procede ad un traguardo, dolce e fedele: per essere nella gioia! Ecco la risposta, semplice, che cercavamo: questo vi dico perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

L’amore ha ali di fuoco (sant’Ambrogio) che incidono di gioia il cuore. Gioia che è un attimo immenso, un sintomo grande a dire che il tuo cammino è buono.

Vangelo che mi dà una certezza: l’amore non è un sentimento, qualcosa prodotto da me o un mio desiderio, ma una realtà come un luogo, un continente, una tenda dove ci puoi vivere dentro. L’amore è.

Minacciato dal nostro vivere inesatto, sottile come il respiro e possente come le grandi acque, l’amore è la materia di cui è fatto Dio. Di cui sono fatti i suoi figli.

VI di Pasqua Gv 15, 9-17

I pochi versetti del vangelo di oggi ruotano intorno al magico vocabolario degli innamorati: amore, amato, amatevi, gioia. “Tutta la legge inizia con un “sei amato” e termina con un “tu amerai” Chi astrae da questo, ama il contrario della vita” (P. Beauchamp).

Roba grossa. Questione che riempie o svuota la vita: questo vi dico perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. L’amore è da prendere sul serio, ne va del nostro benessere, della nostra gioia. Anzi, ognuno di noi vi sta giocando, consapevole o no, la partita della propria eternità.

Io però faccio fatica a seguirlo: l’amore è sempre così poco, così a rischio, così fragile.  Faccio fatica perfino a capire in che cosa consista l’amore vero, vi si mescola tutto: passione, tenerezza, emozioni, lacrime, paure, sorrisi, sogni e impegno concreto.

L’amore è sempre meravigliosamente complicato, e sempre imperfetto, cioè incompiuto. Sempre artigianale, e come ogni lavoro artigianale chiede mani, tempo, cura, regole: se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore. Ma come, Signore, chiudi dentro i comandamenti l’unica cosa che non si può comandare? Mi scoraggi: il comandamento è regola, costrizione, sanzione. Un guinzaglio che mi strattona. L’amore invece è libertà, creatività, una divina follia… Ma Gesù, il guaritore del disamore, offre la sua pedagogia sicura in due tempi:

1. Amatevi gli uni gli altri. Non semplicemente: amatevi. Ma: gli uni gli altri, Non si ama l’umanità in generale o in teoria. Si amano le persone ad una ad una; si ama quest’uomo, questa donna, questo bambino, il povero qui a fianco, faccia a faccia, occhi negli occhi.

2. Amatevi come io vi ho amato. Non dice “quanto me”, perché non ci arriveremmo mai, io almeno; ma “come me”, con il mio stile, con il mio modo unico: lui che lava i piedi ai grandi e abbraccia i bambini; che vede uno soffrire e prova un crampo nel ventre; lui che si commuove e tocca la carne, la pelle, gli occhi; che non manda via nessuno; che ci obbliga a diventare grandi e accarezza e pettina le nostre ali perché pensiamo in grande e voliamo lontano.

Chi ti ama davvero? Non certo chi ti riempie di parole dolci e di regali. L’amore è vero quello che ti spinge, ti incalza, ti obbliga a diventare tanto, infinitamente tanto, a diventare il meglio di ciò che puoi diventare (Rainer Maria Rilke).

Così ai figli non servono cose, ma padri e madri che diano orizzonti e grandi ali, che li facciano diventare il meglio di ciò che possono diventare. Anche quando dovesse sembrare che si dimenticano di noi.

Parola di Vangelo: se ami, non sbagli. Se ami, non fallirai la vita. Se ami, la tua vita è stata già un successo, comunque.

 

p. Ermes Ronchi

Fb 2 maggio ’21 – V di Pasqua

Gv 15,1-8

L’un l’altro  (di p. Ermes Ronchi)

Vangelo che ruota attorno ad una immagine concreta e ad un’azione: la vite, i tralci e il verbo «rimanere». Rimanete in me. Alla sola condizione, non condizionamento ma base dell’esistenza, di nutrirvi della mia linfa.

Non sono parole astratte, sono quelle dette anche dall’amore umano. Rimanere insieme, nonostante tutte le distanze, i lunghi inverni, le forze che ci trascinano via.

La bibbia è un libro pieno di viti e di uomini di cui Dio si prende cura, e dai quali riceve un vino di gioia. Per ogni contadino la vigna è il preferito tra i campi: noi siamo la piantagione prediletta di Dio. Ma mentre nell’Antico Testamento Dio era il padrone della vigna, custode buono e operoso, ma altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù introduce una grande novità: io sono la vite, voi i tralci.

Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come la goccia nell’acqua, come il respiro nell’aria, come i colori che si tuffano l’uno nell’altro e amandosi si fondono, senza gerarchie. Con l’Incarnazione di Gesù, il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio argilla, il Creatore creatura.

Dio è in me, non come padrone, ma come linfa; Dio è in me, non come voce da fuori, ma come segreto della vita. Dio è in me, per meglio prendersi cura di me.

Questa è la stagione in cui profumano i fiori della vite; ieri il vignaiolo attendeva che la linfa, salita misteriosamente lungo il ceppo, si affacciasse alla ferita del tralcio potato, come una lacrima. Allora mio padre contadino diceva: è la vite che va in amore. C’è un amore che sale dalla radice del mondo, ad un misterioso segnale di terra, di sole, di vento, e in alto apre la corteccia che sembrava secca e morta, e la incide di fiori e di foglie.

Quella linfa, goccia d’amore che trema sulla punta del tralcio, è il visibile parlare di Dio. Così l’amore percorre il mondo, sale lungo i ceppi delle vigne, risale la mia vita, lo sento: la mia linfa viene da prima di me e va oltre me; viene da Dio e va in frutti d’amore; e dice a me, piccolo tralcio: ho bisogno di te, per una vendemmia di sole e di miele. Per la dolcezza dell’uomo e di Dio.

Il Dio contadino è mio padre, si dà da fare attorno a me, per stagioni e stagioni; non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della vigna. A contemplarmi, con occhi belli di speranza.

Non posso avere paura di un Dio così, che lavora la mia terra con tutto il suo impegno, che mi sta addosso, mi cura, mi nutre, mi pota perché io possa fiorire sotto il suo sole e produrre un frutto di bontà e di festa, sola perfezione dell’uomo secondo il vangelo.

Non puoi temere un Dio così, puoi solo sorridergli.

 

 

Avvenire V di Pasqua Gv 15,1-8  di p. Ermes Ronchi

Gesù ci comunica Dio attraverso lo specchio delle creature più semplici: Cristo vite, io tralcio, io e lui la stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa.

E poi la meravigliosa metafora del Dio contadino, un vignaiolo profumato di sole e di terra, che si prende cura di me e adopera tutta la sua intelligenza perché io porti molto frutto; che non impugna lo scettro dall’alto del trono ma la vanga e guarda il mondo piegato su di me, ad altezza di gemma, di tralcio, di grappolo, con occhi belli di speranza.

Fra tutti i campi, la vigna era il campo preferito di mio padre, quello in cui investiva più tempo e passione, perfino poesia. E credo sia così per tutti i contadini. Narrare di vigne è allora svelare un amore di preferenza da parte del nostro Dio contadino. Tu, io, noi siamo il campo preferito di Dio.

La metafora della vite cresce verso un vertice già anticipato nelle parole: io sono la vite, voi i tralci (v.5). Siamo davanti ad una affermazione inedita, mai udita prima nelle Scritture: le creature (i tralci) sono parte del Creatore (la vite). Cosa è venuto a portare Gesù nel mondo? Forse una morale più nobile oppure il perdono dei peccati? Troppo poco; è venuto a portare molto di più, a portare se stesso, la sua vita in noi, il cromosoma divino dentro il nostro DNA. Il grande vasaio che plasmava Adamo con la polvere del suolo si è fatto argilla di questo suolo, linfa di questo grappolo.

E se il tralcio per vivere deve rimanere innestato alla vite, succede che anche la vite vive dei propri tralci, senza di essi non c’è frutto, né scopo, né storia. Senza i suoi figli, Dio sarebbe padre di nessuno.

La metafora del lavoro attorno alla vite ha il suo senso ultimo nel “portare frutto”. Il filo d’oro che attraversa e cuce insieme tutto il brano, la parola ripetuta sei volte e che illumina tutte le altre parole di Gesù è “frutto”: in questo è glorificato il Padre mio che portiate molto frutto. Il peso dell’immagine contadina del vangelo approda alle mani colme della vendemmia, molto più che non alle mani pulite, magari, ma vuote, di chi non si è voluto sporcare con la materia incandescente e macchiante della vita.

La morale evangelica consiste nella fecondità e non nell’osservanza di norme, porta con sé liete canzoni di vendemmia. Al tramonto della vita terrena, la domanda ultima, a dire la verità ultima dell’esistenza, non riguarderà comandamenti o divieti, sacrifici e rinunce, ma punterà tutta la sua luce dolcissima sul frutto: dopo che tu sei passato nel mondo, nella famiglia, nel lavoro, nella chiesa, dalla tua vite sono maturati grappoli di bontà o una vendemmia di lacrime? Dietro di te è rimasta più vita o meno vita?

ci il sogno del mio Dio contadino è più grande. ha innestati in Dio in cui siamo innestatiIl perdono ha molti modi, non serv

a sorgente.

Omelia

Stupendo brano di Giovanni, dove Gesù fa piazza pulita di tanto cascame di fede stantia e di pesi caricatici sulle spalle.

Indipendentemente da ciò che faccio o non faccio, dai miei sbagli e dalle mie virtù. Perché: Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato: siamo già puri per intervento solo suo, per la sua parola, che libera. Che ci fa liberi dalla sterilità e dal senso di colpa, resi ala leggera per poter volare al soffio dello Spirito.

La Bibbia è piena di viti e di vigne. Per capire ritorno alle mia casa contadina, nel Friuli sotto le colline. quello da cui si aspettava il raccolto più importante. E credo sia così per tutti i contadini.

Io sono la vite, quella vera”. E mentre nei profeti e nei Salmi dell’Antico Testamento, Dio appariva come il proprietario, il contadino sapiente e operoso, il vendemmiatore, tutt’altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di inedito: “Io sono la vite, voi siete i tralci”.

Con l’incarnazione è accaduta una cosa straordinaria:

Perché?  Per passione di unirsi, per ansia di comunione.

Rimanete in me e io in voi. Non sono parole astratte, ma quelle che usa anche l’amore umano. Lo stare insieme dei due che si amano, nonostante tutte le distanze e gli inverni, e tutte le forze che ci trascinano via: tu in me, io in te.

Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.

Potare la vite non significa amputare, significa dare forza, qualsiasi contadino lo sa.

Inaccettabile leggere la potatura come le sofferenze portate dalla vita.

Potare è abbandonare il superfluo, per concentrarsi sull’essenziale.

Potare è togliere il vecchio perché nasca il nuovo.

Potare ci fa capire che “meno è di più”. Che si costruisce bene solo sull’essenziale, non sulla ridondanza o sull’accumulo.

Gesù è quasi sempre semplice nel suo parlare e non chiede interpretazioni complicate.

Mi chiede: vai in una vigna e guarda le viti. Io vado, e quando guardo per queste colline qualche vigna abbandonata, vedo un’immagine di sofferenza, questa sì!

La vite non potata soffre, si aggroviglia su se stessa, cade dal palo, si allunga in tralci sempre più esili e arruffati, si ammala, dà pochissimi acini minuscoli e aspri, persino le foglie sbiadiscono.

La vite potata invece è rigogliosa e bella, le foglie sono grandi e di un verde brillante, sostenuta sta eretta e riesce così a non perdersi neppure un raggio di sole, che convoglia nei suoi grandi grappoli dagli acini gonfi e pieni di succo dolcissimo. Esplode di vita, è tracimante di una gioia di vivere. Nessuna vite sofferente porta buon frutto.

Prima di tutto, devo essere sano io, gioioso io. La potatura è per gustare meglio la vita.

E lo dice nel versetto successivo: vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi (un Dio gioioso!). E la vostra gioia sia piena.

Tra il ceppo e i tralci della vite la comunione è data dalla linfa che sale. Questo è il tesoro che portiamo nei nostri vasi d’argilla. Un DNA divino scorre in noi.

Il Dio contadino dice a me, piccolo tralcio:

Ho bisogno di te per una vendemmia di sole e di miele”.

Non ho bisogno di sacrifici ma di grappoli saporosi;

non di penitenza io ho bisogno, ma che tu maturi;

non di mortificazione, ma di più gusto di vivere,

da donare a grappoli, per la pienezza dell’uomo e la pienezza di Dio.

C’è un amore che ascende lungo i ceppi di tutte le viti del mondo, l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. Dobbiamo salvare il cromosoma di Dio in noi.

“Per portare frutto!” ripetuto tre volte.

A partire da me, ma non per me: la vite non produce grappoli per se stessa, nessun albero fa e consuma i propri frutti, essi sono per la creazione, per le creature tutte della terra e dell’aria.

Se una pianta vivesse per se stessa, con il solo scopo di riprodursi, basterebbe un frutto ogni dieci anni, ogni 20 anni, invece ad ogni estate è uno spreco, uno scialo, un eccesso, una gioia, per uomini e animali

Ma qual è il frutto che io devo portare?

Se la mia radice è Dio, io devo fare i frutti di Dio.

Allora mi immergo nella Bibbia e cerco le sue azioni,

mi immergo nel mondo e cerco le mani di Dio,

mi chino sulla Bibbia e scopro che Dio è il liberatore,

il costruttore di alleanze, il guaritore, la tenerezza

, il lume acceso sul mio sentiero

Allora mi chinerò sul mondo e anch’io farò alleanza con tutto ciò che vive. Il mio frutto saranno relazioni solari e benedicenti con tutti!

Un’altra parola centrale: “Rimanete in me, rimanete nel mio amore”

E non è difficile!

Non è qualcosa che devo conquistare. Siamo già nel suo amore! Devo solo aprirmi. C’è un amore che scorre già in noi, che ci ha raggiunto, ci avvolge, bussa alla porta, penetra, e non verrà mai meno, una sorgente a cui possiamo sempre attingere. Il nostro compito è mantenere aperto e libero il canale.

Sento la tua voce che suona in mezzo all’anima,

voce che rende spazioso il cuore e che mi dice:

Ho bisogno di te, di te piccolo tralcio,

ho bisogno che tu mi accolga e che tu fiorisca,

ho bisogno anche di un grappolo solo

ma che sia pieno di sole e di bontà,

ho bisogno di te, piccolo tralcio,

piantato come un giardino amato

nel cuore della terra perché di un vino migliore

anche tu possa dissetare l’arsura del mondo e l’arsura di Dio. Amen.

Avvenire V di Pasqua

Una vite e un vignaiolo: cosa c’è di più semplice e familiare? Una pianta con i tralci carichi di grappoli; un contadino che la cura con le mani che conoscono la terra e la corteccia: mi incanta questo ritratto che Gesù fa di sé, di noi e del Padre. Dice Dio con le semplici parole della vita e del lavoro, parole profumate di sole e di sudore.

Non posso avere paura di un Dio così, che mi lavora con tutto il suo impegno, perché io mi gonfi di frutti succosi, frutti di festa e di gioia. Un Dio che mi sta addosso, mi tocca, mi conduce, mi pota. Un Dio che mi vuole lussureggiante. Non puoi avere paura di un Dio così, ma solo sorrisi.

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio. Io e lui, la stessa cosa, stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Novità appassionata. Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io la vite, voi i tralci. Siamo prolungamento di quel ceppo, siamo composti della stessa materia, come scintille di un braciere, come gocce dell’oceano, come il respiro nell’aria. Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso l’ultimo mio tralcio, verso l’ultima gemma, che io dorma o vegli, e non dipende da me, dipende da lui. E io succhio da lui vita dolcissima e forte.

Dio che mi scorri dentro, che mi vuoi più vivo e più fecondo. Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte?

E il mio padre è il vignaiolo: un Dio contadino, che si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. A contemplarmi. Con occhi belli di speranza.

Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza; ha lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo. Qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Così il mio Dio contadino mi lavora, con un solo obiettivo: la fioritura di tutto ciò che di più bello e promettente pulsa in me.

Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all’ultima punta dell’ultima foglia. C’è un amore che sale nel mondo, che circola lungo i ceppi di tutte le vigne, nei filari di tutte le esistenze, un amore che si arrampica e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.

“Siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto” (G. Vannucci). In una sorgente inesauribile, a cui puoi sempre attingere, e che non verrà mai meno.

 

 

 

fb 25 aprile 21

Gv 10,11-18

L’ulivo, nido della quercia (p. Ermes Ronchi)

Sì, mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante.

Lo ripete a ciascuno: mi importano i passeri del cielo, ma voi valete di più. Mi importano i gigli del campo, ma tu vali molto di più.

Ti ho contato i capelli in capo, e tutta la paura che porti nel cuore. Questa è la certezza: a Dio importa di me. A questo ci aggrappiamo, anche quando non capiamo, turbati per il suo silenzio.

Con la formula solenne delle rivelazioni, oggi Gesù afferma: Io sono il buon pastore, e per farcene capire il senso, per cinque volte ripete il verbo offrire.

Ciò che il pastore offre è la vita, e non so immaginare migliore avventura: io sono vaso che accoglie vita, sono anfora che vuole riceverne sempre più.

Sono il pastore ‘bello’, specifica il testo greco, e la bellezza, il fascino del pastore sta nella sua passione per il fiorire della vita in tutte le sue forme.

Io do la vita: non significa per prima cosa vado a morire, perché se il pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo vince, seminando disperazione e morte. Dare la vita qui è inteso nel senso che hanno ben compreso gli apostoli: della vite che dà linfa al tralcio (Giovanni); dell’ulivo innestato che trasmette potenza buona al ramo selvatico (Paolo); di uno che essendo l’autore della vita (Pietro) l’ha inventata e la scrive, sillaba per sillaba, sulle tavole di carne che siamo noi.

Io offro la mia vita significa: vi offro un’ energia di nascita dall’alto; offro germi di divinità, per farvi simili a me ( II lettura).

Un Dio compreso nel pastore che si impegna per le pecore; nella donna che offre il seno al piccolo; nell’acqua che dà vita alla steppa arida, del padre che si strugge nell’attesa del figlio lontano.  In un germoglio di quercia che miracolosamente trova casa nel grembo di un vecchio ulivo.

Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani, mani impigliate nel folto della vita, mani forti contro i lupi, mani che proteggono la fiammella smorta, mani sugli occhi del cieco, mani che scrivono nella polvere e non scagliano pietre, mai, mani trafitte offerte a Tommaso.

Da quelle mani di pastore nessuno mi rapirà mai.

Il pastore non può stare bene finché non sta bene ogni sua pecora. Il Dio dei cristiani non sta bene nei cieli, discende e si compromette. Il cristiano non può star bene finché non sta bene suo fratello.

E tutti, a nostra volta pastori di un minimo gregge, ripetiamo le parole di Gesù, ma in silenzio e con coraggio: tu mi importi, tu incontro d’oggi o compagno di una vita, tu sei importante per me. Ciascuno di noi può essere pastore forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è affidato: la famiglia, gli amici, compagni di strada che contano su di noi e di noi si fidano.

Ho imparato che per stare bene l’uomo deve dare, perché così fa Dio. “Dare vita” significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicino. Significa trasmettere gesti e parole che ardono e fanno vivere, accensioni del cuore che rendono più bella la fede, più affettuosa la vita.

 

 

Avvenire IV di Pasqua

Io sono il buon Pastore!  Per sette volte Gesù si presenta: “io sono” pane, vita, strada, verità, vite, porta, pastore buono. E non intende ‘buono’ nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l’autentico. Non un pecoraio salariato, ma quello, l’unico, che mette sul piatto la sua vita.

Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell’aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo alto che il vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro.

Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, gettare sulla bilancia la propria vita.

Ecco il Dio-pastore che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono.

Cerco di capire di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” è il mestiere di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa al tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana),  del tronco d’olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata.

Il mercenario, il pecoraio, vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. Al pastore invece importano, io gli importo. Verbo bellissimo: essere importanti per qualcuno! E mi commuove immaginare la sua voce che mi assicura: io mi prenderò cura della tua felicità.

E qui la parabola, la similitudine del Pastore Bello si apre su di un piano non realistico, spiazzante, eccessivo: nessun pastore sulla terra è disposto a morire per le sue pecore; a battersi sì, ma a morire no; è più importante salvare la vita che il gregge; perdere la vita è qualcosa di irreparabile.

E qui entra in gioco il Dio di Gesù, il Dio capovolto, il nostro Dio differente, il pastore che per salvare me, perde se stesso.

L’immagine del pastore si apre su uno di quei dettagli che vanno oltre gli aspetti realistici della parabola (eccentrici li chiama Paul Ricoeur). Sono quelle feritoie che aprono sulla eccedenza di Dio, sul “di più” che viene da lui, sull’impensabile di un Dio più grande del nostro cuore.

Di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino e vorrei mettergli fra le mani tutti gli agnellini del mondo.

Ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Ogni epoca ha i suoi lupi…Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non più forti. Perché con gli agnelli lotta il pastore bello, il solo che per i cieli ci fa camminare.

Ermes Ronchi

Fb 18 aprile ’21

Un sogno dal sapore di pane

di p. Ermes Ronchi

Lc 24,35-48

Com’è difficile credere! Si fondono insieme dubbi ed una gioia eccessiva: troppo bello per essere vero! Non basta nemmeno il cuore che balza nel petto.

 «Non sono un fantasma», dice sottovoce Gesù: non sono un’illusione, non sono un mantello di parole, pieno di vento. E sento il suo umile desiderio di essere abbracciato come un amico che torna da lontano, di essere stretto con lo slancio diretto di chi ti vuole bene.

Non si ama un fantasma, e io voglio l’amore. Io ho vita piena: guardate! Vedete! Toccate! Mangiamo insieme!

Ma come toccarlo oggi, dove vederlo?

Quando scorre l’amore. Quando tocco, con emozione e venerazione, le piaghe della terra: «ecco io carezzo la vita perché profuma di Te» (Rumi).

Non alla gioia, non alla visione, non alle profezie, gli apostoli si arrendono ad una porzione di pesce arrostito, al più semplice dei segni, al più umano e primitivo bisogno. Signore così umile che ti avvicini a questi nostri sensi, che lamenti il tuo bisogno piccolo e concreto, perché ti possiamo toccare, per venirci più vicino possibile!

Gli apostoli, ora segnati per sempre, lo daranno come prova: abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione (At 10,41).

Lui è l’amico che dà sapore al pane. E mi assicura che la salvezza non sta nei miei digiuni per lui, ma nel suo mangiare con me pane e sogni.

Lo conoscevano bene Gesù, dopo tre anni di vento, pesci, villaggi, di fame di pane e di occhi negli occhi. Eppure ora non lo riconoscono, perché la Risurrezione non è semplicemente tornare alla vita di prima: è trasformazione.

Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ed è altro.

Mi consola la fatica dei discepoli a credere, il loro oscillare tra paura e gioia. È la garanzia che Gesù risorto non è una loro invenzione, ma è l’evento che, spiazzandoli, li costringe ad andare avanti, dentro il tocco di Dio che entra nella carne, e la trasfigura.

E si fa pace (pace a voi!) più grande di ogni mio diritto; e si fa intelligenza che io non ho conquistato (svelò loro il senso delle scritture), perché finora avevano capito solo ciò che li confermava nelle loro idee.

Non è un mito, è parola come spada, che svela e apre la vita; pane e vino che bastano ai giorni: abita in me, mi chiama e mi sorride come nessuno.

Talvolta vive al posto mio e cose più grandi di me mi accadono: c’è bisogno di pace per cogliere il senso delle cose, e quando sentiamo il cuore in tumulto è bene fermarci, fare silenzio, non parlare.

E conclude il Vangelo: di me voi siete testimoni. Non predicatori, ma testimoni, è un’altra cosa. Con la semplicità di bambini che hanno una bella notizia da dare, e non ce la fanno a tacere, e gli fiorisce dagli occhi.

Potenza di vita che mi avvolge di pace, di perdono, di risurrezione. E tutto si fa umano, e tutto si fa vivente.

 

Avvenire III DOMENICA DI PASQUA Luca   24, 35-48

Stanno ancora parlando, dopo la gioiosa corsa notturna di ritorno a Gerusalemme, quando Gesù di persona apparve in mezzo a loro.

In mezzo: non sopra di loro; non davanti, affinché nessuno sia più vicino di altri. Ma in mezzo: tutti importanti allo stesso modo e lui collante delle vite.

Pace è la prima parola. La pace è qui: pace alle vostre paure, alle vostre ombre, ai pensieri che vi torturano, ai rimorsi, ai sentieri spezzati, pace anche a chi è fuggito, a Tommaso che non c’è, pace anche a Giuda…

Sconvolti e pieni di paura credevano di vedere un fantasma. Lo conoscevano bene, dopo tre anni di Galilea, di olivi, di lago, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. Gesù è lo stesso ed è diverso, è il medesimo ed è trasformato, è quello di prima ma non più come prima: la Risurrezione non è un semplice ritorno indietro, è andare avanti, trasformazione, pienezza. Gesù l’aveva spiegato con la parabola del chicco di grano che diventa spiga: viene sepolto come piccola semente e risorge dalla terra come spiga piena.

Mi consola la fatica dei discepoli a credere, è la garanzia che non si tratta di un evento inventato da loro, ma di un fatto che li ha spiazzati.

Allora Gesù pronuncia, per sciogliere paure e dubbi, i verbi più semplici e familiari: “Guardate, toccate, mangiamo insieme! Non sono un fantasma”. Mi colpisce il lamento di Gesù, umanissimo lamento: non sono un fiato nell’aria, un mantello di parole pieno di vento… E senti il suo desiderio di essere accolto come un amico che torna da lontano, da abbracciare con gioia. Un fantasma non lo puoi amare né stringere a te, quello che Gesù chiede. Toccatemi: da chi vuoi essere toccato? Solo da chi è amico e ti vuol bene.

Gli apostoli si arrendono ad una porzione di pesce arrostito, al più familiare dei segni, al più umano dei bisogni, ad un pesce di lago e non agli angeli, all’amicizia e non a una teofania prodigiosa.

Lo racconteranno come prova del loro incontro con il risorto: noi abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione (At 10,41). Mangiare è il segno della vita; mangiare insieme è il segno più eloquente di una comunione ritrovata; un gesto che rinsalda i legami delle vite e li fa crescere. Insieme, a nutrirsi di pane e di sogni, di intese e reciprocità.

E conclude: di me voi siete testimoni. Non predicatori, ma testimoni, è un’altra cosa. Con la semplicità di bambini che hanno una bella notizia da dare, e non ce la fanno a tacere, e gliela leggi in viso. La bella notizia è questa: Gesù è vivo, è potenza di vita, avvolge di pace, piange le nostre lacrime, ci cattura dentro il suo risorgere, ci solleva a pienezza, su ali d’aquila, nel tempo e nell’eternità.

Vuole il Signore che ci comportiamo

come un umile bambino,

che confida sempre nella madre,

in modo soave e forte insieme,

dicendo: madre gentile, madre amabile,

madre carissima

abbi pietà di me.

Mi sono sporcato, e non riesco a ripulirmi

Senza il tuo aiuto.

Le sue dolci mani graziose

Sono pronte e attente nel curarsi di noi

Lui è la gentile madre

che non ha altro da fare

se non occuparsi della salvezza  del suo bambino.

(Giuliana di Norwich).

 

 

Arreso alla pace

Gv 20,19-31  (di p.Ermes Ronchi)

«Se non vedo e non tocco, non crederò». Povero, caro Tommaso! Vuole delle garanzie, ed ha ragione, perché se Gesù è vivo tutta la sua vita ne sarà sconvolta.Otto giorni dopo Gesù è ancora lì: aria di paura in quella casa. Paura dei Giudei e di se stessi, della propria viltà nella notte del tradimento. Solo Tommaso ha il coraggio di andare e venire.La paura è la paralisi della vita, e ciò che invece la fa ripartire sono gli incontri, Gesù lo sa bene. I suoi erano scappati tutti: che cosa di meno affidabile di quel gruppetto allo sbando?E tuttavia Gesù viene. Per vivere, anche Dio ha bisogno di comunicare vita, dare respiro, il suo respiro. La misericordia è l’identità stessa del Padre, una necessità divina: oggi devo fermarmi a casa tua.Gli apostoli hanno provato a convincere Tommaso: abbiamo visto il Signore, ha le mani piagate! Ma lui, il più libero di tutti, non ci sta, non si accontenta di parole: se il Maestro è vivo, perché siete ancora rinchiusi qui, invece di uscire nel sole del mondo? Se lui è vivo, cambia tutto.

 

“A noi giovò più l’incredulità di Tommaso che non la fede degli apostoli” (Gregorio Magno). Tommaso ci mostra quale grande educatore fosse Gesù: lo aveva formato alla libertà interiore, al coraggio di dissentire per seguire la propria coscienza. Maestro di libertà e di serietà nelle scelte. Che bello se anche nella Chiesa fossimo educati più alla consapevolezza che all’ubbidienza; più all’approfondimento che alla docilità.

Guarda, metti, tocca! Fai la tua verifica. Il Risorto che parla è colui che è stato crocifisso, ha le piaghe ancora aperte. Colui che è stato crocifisso è qui Risorto, ha un corpo di luce che ha attraversato le sbarre delle porte. Croce e Pasqua indissolubili: Croce senza Pasqua è cieca, Pasqua senza croce è vuota.

E Tommaso si arrende; si arrende non al toccare, ma alla pace che incalza, che palpita, che dilaga. Non all’imporsi della logica, ma all’accensione del cuore.

Ogni esperienza pasquale si riassume nella bellissima professione di fede di Tommaso: mio Signore e mio Dio. Questa dichiarazione al “mio” Dio, non è possesso, è fedele appartenenza a chi è stato capace di rubarmi il cuore, a un nido che mi ha lanciato in volo. Mio perché è parte di me.

“Beati quelli che senza aver visto crederanno”. Finalmente una beatitudine per me, per noi, per tutti, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi inciampa, per chi è sulla soglia, per chi vorrebbe lasciarsi ferire dalla luce, ma nessuna “apparizione” lo ha raggiunto.

Provo a ripetere le parole di Tommaso, nella mia stanza chiusa, nel cuore del silenzio. Ci vuole poco per essere apostolo, un po’ di libertà e di fuoco; basta così poco per essere un profeta minore: ascoltare Dio respirare dentro il mio respiro… E sento crescere lo Spirito e il suo mistero, mi è compagno sulla strada, l’avverto, respiro che sale e si dilata; le sue parole sono fiori di luce.

 

 

Dall’AVVENIRE:

II di Pasqua Giovanni 20,19-31

I discepoli erano chiusi in casa per paura. Paura dei capi dei Giudei, delle guardie del tempio, della folla volubile, dei romani, di se stessi. E tuttavia Gesù viene. In quella casa dalle porte sbarrate, in quella stanza dove manca l’aria, dove non si può star bene, nonostante tutto Gesù viene.

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse. La prima sua venuta sembra senza effetto, otto giorni dopo tutto è come prima, eppure lui è di nuovo lì. Secoli dopo è ancora qui, davanti alle mie porte chiuse, mite e determinato come un seme che non si lascia sgomentare da nessun nero di terra.

Che bello il nostro Dio! Non accusa, non rimprovera, non abbandona, ma si ripropone, si riconsegna a discepoli che non l’hanno capito, facili alla viltà e alla bugia. Li aveva inviati per le strade di Gerusalemme e del mondo, e li ritrova ancora paralizzati dalla paura. In quali povere mani si è messo. Che si stancano presto, che si sporcano subito. Eppure accompagna con delicatezza infinita la fede lenta dei suoi, ai quali non chiede di essere perfetti, ma di essere autentici; non di essere immacolati, ma di essere incamminati.

         E si rivolge a Tommaso – povero caro Tommaso diventato proverbiale. Ma è proprio il Maestro che l’aveva educato alla libertà interiore, a non omologarsi, rigoroso e coraggioso, ad andare e venire, lui galileo, per le strade della grande città giudea e ostile.

Gesù lo invita: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite, come ci saremmo aspettati. Perché la croce non è un semplice incidente di percorso da superare e dimenticare, ma è la gloria di Gesù, il punto più alto dell’arte divina di amare, che in quelle ferite si offre per sempre alla contemplazione dell’universo.

È proprio a causa di quei fori nelle mani e nel fianco che Dio l’ha risuscitato, e non già nonostante essi: sono l’alfabeto indelebile della sua lettera d’amore.

Gesù non vuole forzare Tommaso, ne rispetta la fatica e i dubbi, sa i tempi di ciascuno, conosce la complessità del vivere. Ciò che vuole è il suo stupore, quando capirà che la sua fede poggia sulla cosa più bella del mondo: un atto d’amore perfetto.

Tocca, guarda, metti! Se alla fine Tommaso abbia toccato o no, non ha più alcuna importanza.

“Mio Signore e mio Dio”. Tommaso ripete quel piccolo aggettivo “mio” che cambia tutto. Mio non di possesso, ma di appartenenza: stringimi in te, stringiti a me. “Mio”, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. “Mio”, come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.

 

 

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Fb 4 aprile – Pasqua del Signore

Di p. Ermes Ronchi

 

Gv 20,1-9

La carne indossa l’eternità

Quel sabato che precedette la Pasqua fu diverso da tutti gli altri. Le donne di Galilea attendevano. In silenzio, come la Madre.

È il sabato del silenzio di Dio. Così per noi, seduti in faccia al sepolcro. Notte di naufragio, di terribile calma, di buio ostile su un pugno di uomini e donne sgomenti e disorientati. Notte della Risurrezione in cui la carne indossa l’eternità.  Le cose più grandi avvengono di notte.

Maria di Magdala esce di casa nel buio più profondo. Non porta olii profumati o nardo come le altre donne, ha solo la sua vita, risorta da uno strascico di sette demoni scacciati da Gesù. Lei ha sentito che: «Il buon profumo di Cristo è odore di vita per la vita» (2 Cor 2,16).

La pietra è rotolata via, e Maria corre da Simone e Giovanni: non abbiamo più neanche un corpo su cui piangere! Gli amati sono senza l’amato.

Tutti corrono in quell’alba incerta. Non si corre così per un lutto, ma perché nasce qualcosa di immenso, urge il parto di una cosa enorme, confusa e grandiosa. Non è ancora fede, ma un’antica speranza, un’ansia illogica di qualcosa di impossibile.

Giovanni, che Gesù amava, vide e credette: coglie per primo il senso pieno della risurrezione. Il lasciarsi amare da Dio, l’amore passivo, è gravido delle rivelazioni più alte.

Entrano nel sepolcro, ed ecco un altro piccolo segno cui aggrapparsi: i teli posati, il sudario avvolto. Se qualcuno avesse portato via il corpo, non l’avrebbe liberato dai teli con la cura dell’amore. È stato un Altro a sciogliere con tenerezza la carne di Gesù dal velo nero della morte.

Verrà anche per me il terzo giorno: sarà una mattina, una sera o meglio ancora una notte. Sarà ad una svolta della strada o nel silenzio della mia stanza. E come loro lo riconoscerò grazie a due segni rivelatori: un timore sacro e una gioia trepidante che dilaga dentro, umile e forte.

E correrò con loro, a dirlo con la vita. Cristo è vivo! A me non basta sapere che Cristo è morto, io devo sapere, come Maria, se è risorto.

“Non mi toccare!” le dirà Gesù. Si tocca per possedere, per stringere, come non ci fosse altro. Non mi trattenere, devo andare, perché non finisce qui il duello: questo chiarore, questo giardino è solo l’avvio. Non mi trattenere, sono in viaggio oltre le parole, oltre le idee, oltre le forme e i riti, oltre le chiese. Oltre la morte! Perché la festa del grande raccolto sarà molto dopo, quando Dio asciugherà ogni lacrima e non ci sarà più né morte, né lutto, né lamento, perché le cose di prima sono passate, e lui sarà tutto in tutti.

“Non è qui!” dirà un giovane angelo alle altre donne. Che bella questa parola: ‘non è qui’, lui c’è, vive, ma non qui. Lui è il vivente, un Dio da sorprendere nella vita. C’è, ma va cercato fuori dal territorio delle tombe, in giro per le strade, per le case, dovunque, eccetto che fra le cose morte:

 

da “Avvenire” Pasqua 2021

Mc 16,1-8

Tre donne, di buon mattino, quasi clandestinamente, in quell’ora in cui si passa dal buio alla luce, vanno a prendersi cura del corpo di Gesù, come sanno, con il poco che hanno. Lo amano anche da morto, il loro maestro, e scoprono che il tempo dell’amore è più lungo del tempo della vita, mentre passano di sorpresa in sorpresa: “guardando videro che il grande masso era già stato spostato”. Pasqua è la festa dei macigni rotolati via, delle pietre rovesciate dall’imboccatura del cuore, dall’ingresso dell’anima.

Stupore, disorientamento, paura, eppure entrano, fragili e indomite, incontro a una sorpresa più grande: un messaggero giovane (il mondo intero è nuovo, fresco, giovane, in quel mattino) con un annuncio che sembra essere la bella notizia tanto attesa: “Gesù che avete visto crocifisso è risorto”. Avrebbero dovuto gioire, invece ammutoliscono.

Il giovane le incalza “Non è qui”. Che bella questa parola: ‘non è qui’, lui c’è, vive, ma non qui. Lui è il vivente, un Dio da sorprendere nella vita. C’è, ma va cercato fuori dal territorio delle tombe, in giro per le strade, per le case, dovunque, eccetto che fra le cose morte: ‘lui è in ogni scelta per un più grande amore, è nella fame di pace, negli abbracci degli amanti, nel grido vittorioso del bambino che nasce, nell’ultimo respiro del morente’ (G. Vannucci).

E poi ancora una sorpresa: la fiducia immensa del Signore che affida proprio a loro così disorientate, il grande annuncio: “Andate e dite”, con i due imperativi propri della missione. Da discepole senza parole, a missionarie dei discepoli senza coraggio.

“Vi precede in Galilea”. E appare un Dio migratore, che ama gli spazi aperti, che apre cammini, attraversa muri e spalanca porte: un seme di fuoco che si apre la strada nella storia.

Vi precede: avanza alla testa della lunga carovana dell’umanità incamminata verso la vita; cammina davanti, ad aprire l’immensa migrazione verso la terra promessa. Davanti, a ricevere in faccia il vento, la morte, e poi il sole del primo mattino, senza arretrare di un passo mai.

Il Vangelo di Pasqua ci racconta che nella vita è nascosto un segreto che Cristo è venuto a sussurrarci amorosamente all’orecchio. Il segreto è questo: c’è un movimento d’amore dentro la vita che non le permette mai di restare ferma, che la rimette in moto dopo ogni morte, che la rilancia dopo ogni scacco, che per ogni uomo che uccide cento ce ne sono che curano le ferite, e mille ciliegi che continuano ostinatamente a fiorire.

Un movimento d’amore che non ha mai fine, che nessuna violenza umana potrà mai arrestare, un flusso vitale dentro al quale è presa ogni cosa che vive, e che rivela il nome ultimo di Dio: Risurrezione.

 

di p. Ermes Ronchi

Ecco l’uomo! Appare al balcone del mondo il volto di Gesù intriso di sangue, e il dolore sotto cui vacilla è quello di tutti gli uomini; ciò che appare non è lo splendore dell’Eterno, è il patire di un Dio appassionato. «Dio prima patì e poi si incarnò. Patì perché l’amore è passione» (Origene).

In questa settimana santa, dai giorni che sembrano venirci incontro piano, uno ad uno, generosi di segni e luce, la cosa più bella che possiamo fare è stare accanto alla santità delle lacrime, presso le infinite croci sparse nel mondo, dove il crocifisso vive. E deporre sull’altare di questa liturgia qualcosa di nostro: un po’ di conforto dato, una lacrima, un’infinita passione per quel Dio che non scende dal legno come farebbe qualsiasi uomo, qualsiasi potente; egli entra nel pieno della morte perché là è risucchiato ogni figlio suo.

Qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato una falsa idea di Dio. Solo la croce toglie ogni dubbio, abisso dove Dio diviene l’amante e l’Eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa.

«Amare significa patire e appassionarsi. E chi ama di più si prepari a patire di più» (S. Agostino). Lo vedo nelle donne al Calvario, che da lontano stanno impotenti ad osservare. Con Lui, sempre. Primo grumo di Chiesa, guardano Gesù con lo stesso sguardo appassionato con cui Dio guarda l’uomo. E con quelle donne la Chiesa rinasce ogni volta, nella contemplazione del crocifisso.

Scendi dalla croce, gridavano gli altri. Ma se scende non è più Dio, se scende è sempre la solita logica a vincere, quella del più forte. No. Gesù si consegna alla Notte, e passa dall’abbandono di Dio (perché mi hai abbandonato?) all’abbandono a Dio (a te consegno il mio spirito), assimilando, consolandoci nei nostri fallimenti.

Veramente era Figlio di Dio! Quando la Parola di Dio diventa grido, e poi torna muta, ecco il primo atto di fede cristiano, in un uomo esperto di morte. Che cos’ha visto nell’agonia di un morente? Non miracoli, non risurrezioni. C’è solo un uomo dentro la sua morte. Il guerriero non ha visto il risorto, ma il morente! Ma finire così è cosa solo da Dio, è rivelazione di suprema maestà.

In quella collina il soldato ha visto che questo mondo porta nel grembo un altro modo di essere uomini. Le parole del soldato sono il suo inginocchiarsi.

L’uomo non regge questo amore, e io arranco su questa croce, è troppo lucente! Ma la croce non ci è data per capirla, per lasciarci sollevare, per stargli vicino, abbandonati all’abbandonato amore.

Suprema bellezza quel giorno fuori dalle mura, sulla collina! A dire che la nostra fede poggia su di un atto d’amore perfetto, e Pasqua mi assicura che un amore così non potrà essere deluso, non può morire, è più forte della morte. Ogni grido, ogni abbandono può sembrare una sconfitta, ma se è affidato al Padre ha il potere, al di là di noi, di far tremare le grandi pietre di ogni nostro sepolcro.

Avvenire 2021 Domenica delle Palme

        L’entrata di Gesù a Gerusalemme non è solo un evento storico, ma una parabola in azione. Di più: una trappola d’amore perché la città lo accolga, perché io lo accolga.

        Dio corteggia la sua città (fede è la mia risposta al corteggiamento di Dio): viene come un Re mendicante (il maestro ne ha bisogno, ma lo rimanderà subito), così povero da non possedere neanche la più povera bestia da soma. Un Potente umile, che non si impone, si propone; come un disarmato amante.

Benedetto Colui che viene. È straordinario poter dire: Dio viene. In questo paese, per queste strade, nella mia casa che sa di pane e di abbracci, Dio viene ancora, viaggiatore dei millenni e dei cuori. Si avvicina, è alla porta.

La settimana santa dispiega, a uno a uno, i giorni del nostro destino; ci vengono incontro lentamente, ognuno generoso di segni, di simboli, di luce. In questa settimana, il ritmo dell’anno liturgico rallenta, possiamo seguire Gesù giorno per giorno, quasi ora per ora. La cosa più santa che possiamo fare è stare con lui: “uomini e donne vanno a Dio nella loro sofferenza, piangono per aiuto, chiedono pane e conforto. Così fan tutti, tutti. I cristiani invece stanno vicino a Dio nella sua sofferenza (Bonhoffer). Stanno vicino a un Dio che sulla croce non è più “l’onnipotente” dei nostri desideri infantili, il salvagente nei nostri naufragi, ma è il Tutto-abbracciante, l’Onni-amante cha fa naufragio nella tempesta perfetta dell’amore per noi.

Sono giorni per stare vicino a Dio nella sua sofferenza: la passione di Cristo si consuma ancora, in diretta, nelle infinite croci del mondo, dove noi possiamo stare accanto ai crocifissi della storia, lasciarci ferire dalle loro ferite, provare dolore per il dolore della terra, di Dio, dell’uomo, patire e portare conforto.

La croce disorienta, ma se persisto a restarle accanto come le donne, a guardarla come il centurione, esperto di morte, di certo non capirò tutto, ma una cosa sì, che lì, in quella morte, è il primo vagito di un mondo nuovo.

Cosa ha visto il centurione per pronunciare lui, pagano, il primo compiuto atto di fede cristiano: “era il Figlio di Dio”? Ha visto un Dio che ama da morire, da morirci. La fede cristiana poggia sulla cosa più bella del mondo: un atto d’amore perfetto. Ha visto il capovolgimento del mondo; Dio che dà la vita anche a chi gli dà la morte; il cui potere è servire anziché asservire; vincere la violenza non con un di più di violenza, ma prendendola su di sé.

La croce è l’immagine più pura, più alta, più bella che Dio ha dato di se stesso. Sono i giorni che lo rivelano: “per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce”(K. Rahner).

 

Fb 21 marzo 21

Gv 12, 20-33

Piccola bomba di vita

Se vuoi vedere me, guarda il chicco di grano. Una frase difficile e pericolosa se capita male, perché può legittimare una visione distorta della fede.

Tutto parte da una domanda forte “vogliamo vedere il Signore” , parole d’allora, di oggi e dell’uomo di sempre, perché Dio non si dimostra con alte catechesi, ma si mostra con mani d’amore e occhi limpidi, con una vita abitata da lui.

E io, discepolo interpellato come Filippo e Andrea, cosa rispondo? Il vangelo suggerisce tre immagini: chicco di grano, croce, strada. E, sempre, la terra che è il cielo di Dio, cielo di mitezza e di spine, grembo del grano, sostegno della croce, strada del discepolo.

A prima vista, ogni seme sembra un guscio secco e spento, in realtà è una piccola bomba di vita, che cade in terra e ciò che sembra morte in realtà è l’inizio di un lavorio infaticabile e meraviglioso, che il dono di sé: dalla terra al chicco, dal chicco al germe, dal germe al frutto. Lo sguardo del vangelo va quindi a posarsi sulla fecondità, sul molto frutto, non sul morire!

Tuo è solo ciò che hai donato e che ritorna a te, moltiplicato. Per questo anch’io sarò un granello sepolto, lontano dal clamore, nel silenzio della mia terra, seminato nel quotidiano della famiglia, nella terra arida del mio lavoro e in quella amara delle domande incompiute e delle lacrime.

Sapendo che quando si sceglie di donare se stessi si è sempre soli, come la partoriente che se anche avesse il mondo intero attorno a sé, resta sola con la sua paura e il suo miracolo. Ma poi, attraverso il dono di sé, ecco vita nuova e più grande. Allora sì il chicco muore, ma nel senso che la sua vita di prima è trasformata in una forma più evoluta e potente.

Chi vuole vedermi, mi segua. L’unica visione che ci è concessa è la sequela, come Mosè sul Sinai, che vuole vedere Dio e lo scorge solo di spalle, mentre passa ed è già oltre. Così noi per vederlo camminiamo sulle sue orme, dietro l’eco delle sue parole, nella scia del profumo dei suoi gesti.

E non cancelliamo i turbamenti di Gesù: danno forza, dicono che come un coraggioso anche lui ha avuto paura; che ha amato questa mia stessa vita all’estremo, che non è andato alla morte sorridendo, ma con un folle atto di fede. Infatti l’amore che l’ha portato sulla croce, inerme e virile insieme, l’uomo non riesce a reggerlo, è troppo limpido.

Ma ogni uomo e donna sono piccolo chicco seminato nei solchi della storia. Se sei generoso di te, di tempo, cuore, intelligenza; se ti dedichi, come un atleta, uno scienziato o un innamorato al tuo scopo, allora produci molto frutto, e moltiplichi la vita intorno a te.

Sarò innalzato e vi attirerò a me. Alto sui campi della morte, Gesù è amore fatto visibile. Alto sui campi della vita, è amore che seduce.

«La Croce non ci fu data per capirla ma perché ci aggrappassimo ad essa» (Bonhoeffer): attratto, sedotto da qualcosa che non capisco del tutto, mi aggrappo anch’io al morente in eterno, in eterno risorgente.

 

AVVENIRE V DI QUARESIMA 2021

Vogliamo vedere Gesù: domanda dell’anima eterna dell’uomo che cerca, e che sento mia. La risposta di Gesù esige occhi profondi: se volete capire guardate il chicco di grano, cercate nella croce, sintesi ultima del vangelo.

Se il chicco di grano non muore resta solo, se muore produce molto frutto. Una delle frasi più celebri e più difficili del vangelo. Quel “se muore fa peso sul cuore e oscura tutto il resto. Ma se ascolti la lezione del chicco, il senso si sposta; se osservi, vedi che il cuore del seme, il nucleo intimo e vivo da cui germoglierà la spiga, è il germe, e il grembo che lo avvolge è il suo nutrimento. Il chicco in realtà è un forziere di vita che lentamente si apre, un piccolo vulcano vivo da cui erompe, invece che lava, un piccolo miracolo verde. Nella terra ciò che accade non è la morte del seme (il seme marcito è sterile) ma un lavorio infaticabile e meraviglioso, una donazione continua e ininterrotta, vero dono di sé: la terra dona al chicco i suoi elementi minerali,  il chicco offre al germe (e sono una cosa sola) se stesso in nutrimento, come una madre offre al bimbo il suo seno. E quando il chicco ha dato tutto, il germe si lancia all’intorno con le sue radici affamate di vita, si lancia verso l’alto con la punta fragile e potentissima delle sue foglioline.

Allora il chicco muore sì, ma nel senso che la vita non gli è tolta ma trasformata in una forma di vita più evoluta e potente. Quello che il bruco chiama fine del mondo tutti gli altri chiamano farfalla (Lao Tze), non striscia più, vola; muore alla vita di prima per continuare a vivere in una forma più alta.

Il verbo principale che regge la parabola del seme è “produce frutto”.  Gloria di Dio non è il morire ma la fecondità, e il suo innesco è il dono di sé. La chiave di volta che regge il mondo, dal chicco a Cristo, non è la vittoria del più forte ma il dono.

La seconda icona offerta da Gesù è la croce, l’immagine più pura e più alta che Dio ha dato di se stesso. Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce (Karl Rahner). Dio entra nella morte perché là va ogni suo figlio. Ma dalla morte esce come germe dalla terra, forma di vita indistruttibile, e ci trascina fuori, in alto, con sé. Gesù: un chicco di grano che si consuma e germoglia; una croce nuda dove già respira la risurrezione.

“La Croce non ci fu data per capirla ma per aggrapparci ad essa” (Bonhoeffer): attratto da qualcosa che non capisco, ma che mi seduce e mi rassicura, mi aggrappo alla sua Croce, cammino con Lui, in eterno morente nei suoi fratelli, in eterno risorgente. Sulla croce l’arte divina di amare si offre alla contemplazione cosmica, si dona alla fecondità delle vite.

Fb 14 marzo 21 – IV di Quaresima

Gv 3, 14-21

Abisso altissimo 8p. Ermes Ronchi)

Dio ha tanto amato. Versetto gonfio di stupore ogni volta nuovo, per queste parole tonificanti come una camminata in riva al mare, fra spruzzi d’onde e aria fresca respirata a pieni polmoni; parole da riassaporare ogni giorno e alle quali aggrapparci in tutti i passaggi forti della vita, in ogni caduta, in ogni notte, in ogni delusone.

La storia biblica inizia con un “sei amato” e termina con un “amerai”.

Dio ha tanto amato, ed è l’amore che gli ha fatto fare grandi cose! Se noi vogliamo salvare il mondo, sarà un’illusione ottica poiché l’ha già salvato Lui. Se vogliamo convertire le persone, sarà un abbaglio, noi possiamo solo amarle, senza andare oltre; se non per sempre, almeno per oggi, se non tanto, almeno un po’, ma quel poco sia secondo verità, e resteremo vivi.

Dio ha così tanto amato che la notte di Nicodemo, e le nostre, si illuminano. Qui possiamo rinascere. Ci basta.

Ora so che sono cristiano per attrazione perché sulla croce Gesù è forza di gravità che trascina verso l’alto la storia e il dolore del mondo. Credere è lasciarmi attrarre lungo la verticale dell’amore che assembla tutto il Vangelo, tutta la teologia, tutta la fede attorno a sé. Nucleo della storia, sguardo sull’abisso altissimo di Dio che ha considerato noi, me, questo niente cui ha donato un cuore, più importante di se stesso. E se con me ha amato il mondo, anch’io devo amare questa terra e i suoi figli, il suo verde, i suoi fiori, la sua bellezza; e curarne le piaghe là dove Egli mi ha chiamato. Terra ferita e amata.

“Ma gli uomini hanno preferito le tenebre”. Da dove viene questo dramma del preferire le tenebre? Da dove il tremendo fascino del nulla?

L’amore di Dio non può far paura perché non conosce altra punizione se non punire se stesso; la nostra vita di amati non è a misura di  tribunale, ma di abbraccio e fioritura. Perché l’uomo fatica a comprenderlo?

Posso dire, con l’eco delle cose grandi: i tuoi figli, Signore, non sono cattivi, sono fragili, si ingannano facilmente. Preferiscono le tenebre perché l’angelo della notte è pura menzogna e si maschera da angelo della luce. Promette felicità e libertà, seduce, e noi ci lasciamo illudere.

Ma io guardo a Nicodemo, il fariseo timoroso che scivola furtivo tra le ombre della sera. E vedo Gesù che non lo giudica perché non è un eroe, rispetta la sua paura, è paziente con le sue lentezze. E la notte di Nicodemo si rischiara. Egli diventerà il più coraggioso dei discepoli, colui che avrà l’ardire di presentarsi a Pilato per reclamare il corpo del giustiziato, perché ha sentito amata la sua verità di paura e ombra.

Neppure io sono un eroe, Signore, però mi basterà sentire accolta anche la mia paura, mi basteranno piccoli semi di luce e la tua forza di attrazione, marea bellissima che mi spinge verso te.

Avvenire IV di Quaresima Giovanni 3 14-21

Si è appena conclusa la scena irruente, fragorosa di Gesù che scaccia i mercanti dal tempio. A Gerusalemme, capi e gente comune tutti parlano della novità di quel giovane rabbi. Ora, da quella scena clamorosa e sovversiva si passa a un vangelo intimo e raccolto.

Nicodemo ha grande stima di Gesù e vuole capire di più, ma non osa compromettersi e si reca da lui di notte. Prima sorpresa: quel Gesù che dirà “il vostro parlare sia sì sì, no no”, rispetta la paura di Nicodemo, non si perde nei limiti della sua poca coerenza, ma mostrando comprensione per la sua debolezza, lo trasforma nel coraggioso che si opporrà al suo gruppo (Gv 7,50) e verrà al tramonto del grande venerdì (Gv 19,39) a prendersi cura del corpo del Crocifisso. Quando tutti i coraggiosi fuggono, il pauroso va sotto la croce, portando trenta chili di aloe e mirra, una quantità in eccesso, una eccedenza di affetto e gratitudine.

Gesù trasforma. È una via tutta nuova, per noi che i maestri dello spirito hanno sempre stretto nell’alternativa: coraggio o viltà, coerenza o incoerenza, resistenza o debolezza, perfezione o errore. Gesù mostra una terza via: il rispetto che abbraccia l’imperfezione, la fiducia che accoglie la fragilità e la trasforma. La terza via di Gesù è credere nel cammino dell’uomo più che nel traguardo, puntare sulla verità umile del primo passo più che sul raggiungimento della meta lontana. Maestro dei germogli.

In quel dialogo notturno Gesù comunica, in poche parole, l’essenziale della fede: Dio ha tanto amato il mondo è una cosa sicura, una cosa già accaduta, una certezza centrale: Dio è l’amante che ti salva. Parole decisive, da riassaporare ogni giorno e alle quali aggrapparci sempre.

Dovete nascere dall’alto: io vivo delle mie sorgenti, ed ho sorgenti di cielo da ritrovare. Allora potrò finalmente nascere a una vita più alta e più grande, e guardare l’esistenza da una prospettiva nuova, da un pertugio aperto nel cielo, per vedere cosa è effimero e cosa invece è eterno.

Quello che nasce dallo Spirito è Spirito. E la notte si illumina. Chi è nato dallo Spirito non solo ha lo Spirito ma è Spirito. Non solo è tempio dello Spirito, ma è della stessa sostanza dello Spirito. Ogni essere genera figli secondo la propria specie, le piante, gli animali, l’uomo e la donna. Ebbene, anche Dio genera figli secondo la specie di Dio.

E non c’è maiuscolo o minuscolo nei testi originari: maiuscolo per lo Spirito di Dio, la sua forza generante, minuscolo per lo spirito dell’uomo generato. Non si riesce a distinguere se “spirito” si riferisca all’uomo o a Dio. Questa confusione è straordinaria. Una bellissima rivelazione: tu, rinato dallo Spirito, sei Spirito.

 

Fb 7 marzo 21

P.Ermes Ronchi)

Gv 2, 13-25

Il bravo marinaio

A volte nel Vangelo troviamo Gesù al tempio, ma molto più spesso egli frequenta case, campi, lago, villaggi e polvere, tutta la polvere delle strade di Palestina. A dire che Dio ci raggiunge nella vita, che noi siamo tempio suo, fragile, bellissimo e infinito.

Ma oggi il Maestro compie un gesto estremo, spiazzante: prende una frusta, la brandisce e invade l’atrio del tempio come un torrente in piena travolgendo uomini, animali, tavoli e monete.  Getta a terra il Dio denaro, l’idolo mammona, vessillo innalzato nel tempio e in ogni cosa, come un re sul trono.

L’eterno vitello d’oro è rovesciato a terra, smascherata la sua illusione.

Gesù sovverte quel sistema millenario, si conclude così il tempo del sangue per lodare Dio. Come avevano gridato invano i profeti: io non bevo il sangue degli agnelli e non mangio la loro carne; misericordia io voglio! Non sacrifici (Os 6,6).

Il sacrificio di Dio per l’uomo prende il posto dei tanti sacrifici dell’uomo a Dio.

Probabilmente già un’ora dopo i mercanti, recuperate le bestie, avevano ripreso possesso delle loro postazioni. Il denaro scorreva di nuovo di mano in mano, necessario e giustificato: «è per la devozione, è per le elemosine»!

Non fare mercato con Dio! La compravendita di favori, dove tu gli dai una messa, un’offerta, una candela, purché lui dia qualcosa a te ci rende dei cambiamonete, e Gesù rovescerà il nostro tavolo. Dio non si compra. Nemmeno a prezzo della moneta più pura. Lui è di tutti, e noi siamo salvi perché lo accogliamo. Semplice.
Casa di Dio è l’uomo: non fare mercato della vita! Non fare mercato del cuore! Non fare mercato di te stesso, vendendo la tua dignità per briciole di potere, per un po’ di profitto o di carriera.

Non immiserirti sulle banali leggi del tornaconto e dell’opportunismo. Non venderti in cambio di cose, non sacrificare la tua famiglia sull’altare di mammona, non sprecare il tuo cuore riducendo i suoi sogni a oro e argento.

La triste evidenza che oggi determina il bene e il male, la nuova etica secondo il mondo è questa: più denaro è bene e meno denaro è male. Sotto la sua mannaia stolta passano le scelte, politiche o individuali. Leggi sbagliate stanno dentro la vita come le pecore e i buoi dentro il tempio di Gerusalemme: la sporcano, la profanano. Fuori devono stare! Fuori dal tempio di Dio, che siamo noi. Profanare l’uomo è il peggior sacrilegio che si possa commettere, soprattutto se debole, se bambino, il Suo tempio più santo.

Dare e avere, vendere e comprare; bilancia mediocre che offende l’amore. “Se uno desse tutte le ricchezze della casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio (Ct 8, 6-7)”.

L’amore non si compra, non si mendica, non si impone, non si finge. Non si può manovrare, è lui che invece ci trascina verso la rotta del cielo, da bravo marinaio, esperto d’infinito.

 

Fuori i mercanti, dentro i poveri

(Gv 2,13-25)

L’episodio della cacciata dei mercanti nel tempio si è stampato così prepotentemente nella memoria dei discepoli da essere riportato da tutti i vangeli.

Ciò che sorprende, e commuove, in Gesù è vedere come in lui convivono e si alternano, come in un passo di danza, la tenerezza di una donna innamorata e il coraggio di un eroe (C. Biscontin), con tutta la passione e l’irruenza del mediorientale.

Gesù entra nel tempio: ed è come entrare nel centro del tempo e dello spazio. Ciò che ora Gesù farà e dirà nel luogo più sacro di Israele è di capitale importanza: ne va di Dio stesso. Nel tempio trova i venditori di animali: pecore, buoi e mercanti sono cacciati fuori, tutti insieme, eloquenza dei gesti. Invece ai venditori di colombe rivolge la parola: la colomba era l’offerta dei poveri, c’è come un riguardo verso di loro.

Gettò a terra il denaro, il dio denaro, l’idolo mammona innalzato su tutto, insediato nel tempio come un re sul trono, l’eterno vitello d’oro.

Non fate della casa del Padre mio un mercato… Mi domando qual è la vera casa del padre. Una casa di pietre? “Casa di Dio siamo noi se custodiamo libertà e speranza” (Eb 3,6). La parola di Gesù allora raggiunge noi: non fate mercato della persona! Non comprate e non vendete la vita, nessuna vita, voi che comprate i poveri, i migranti, per un paio di sandali, o un operaio per pochi euro. Se togli libertà, se lasci morire speranze, tu dissacri e profani il più vero tabernacolo di Dio.

E ancora: non fate mercato della fede. Tutti abbiamo piazzato ben saldo nell’anima un tavolino di cambiamonete con Dio: io ti do preghiere, sacrifici e offerte, tu in cambio mi assicuri salute e benessere, per me e per i miei.  Fede da bottegai, che adoperano con Dio la legge scadente, decadente del baratto, quasi che quello di Dio fosse un amore mercenario. Ma l’amore, se è vero, non si compra, non si mendica, non si finge.

Dio ha viscere di madre: una madre non la puoi comprare, non la devi pagare, da lei sei ripartorito ogni giorno di nuovo. Un padre non si deve placare con offerte o sacrifici, ci si nutre di ogni suo gesto e parola come forza di vita.

Pochi minuti dopo, i mercanti di colombe avevano già rimesso in fila le loro gabbie, i cambiamonete avevano recuperato dal selciato anche l’ultimo spicciolo. Il denaro era pesato e contato di nuovo, era riciclato a norma di legge. Benedetto da tutti: pellegrini, sacerdoti, mercanti e mendicanti.

Il gesto di Gesù sembra non avere conseguenze immediate, ma è profezia in azione. E il profeta ama la parola di Dio più ancora dei suoi risultati.

Il profeta è il custode che veglia sulla feritoia per la quale entrano nel cuore speranza e libertà.

Chi vuole pagare l’amore va contro la sua stessa natura e lo tratta da prostituta. Quando i profeti parlavano di prostituzione nel tempio, intendevano questo culto, tanto pio quanto offensivo di Dio, quando il fedele vuole gestire Dio: io ti do preghiere e sacrifici, tu mi dai sicurezza e salute.

L’amore non si compra, non si mendica, non si impone, non si finge.

Ma poi, se entrasse nella mia casa, che cosa mi chiederebbe di rovesciare in terra, tra i miei piccoli o grandi idoli? Tutto il superfluo…

Fb 28 febbraio 21

Mc 9, 2-10 (Ermes Ronchi)

Il fascino di Dio

La montagna è la terra che penetra nel cielo, il luogo dove si posa il primo raggio di sole e indugia l’ultimo. E’ il mondo che si innalza nella luce, che la cerca, la vuole. Quella che Dio sceglie per parlare e rivelarsi.

Dalla domenica del deserto al Vangelo dell’estasi. Il mondo è imbevuto di luce, lo sanno tutte le religioni, lo sanno gli innamorati, gli artisti, i puri.

Le prime due domeniche di Quaresima sono sintesi del percorso che noi credenti dobbiamo affrontare: evangelizzare le nostre zone d’ombra e di durezza, liberando la luce sepolta in noi. Il Vangelo di domenica scorsa chiedeva: convertiti. Il Vangelo di questa domenica ne offre il risultato: mi giro e sono irradiato, mi illumino, mi imbevo e mi immergo nel sole, simbolo primo di Dio.

Gesù porta i tre discepoli sopra un monte alto, e le sue vesti diventano splendenti e luminose, come il volto. Inevitabile, quando si è vicini a Dio.

Anche la materia è travolta dalla luce. Pietro ne è sedotto, ed esplode: che bello essere qui, Rabbì! Non scendiamo! Mai più! La sua foga dice che il pane nutriente della fede, per saziare, deve discendere da un innamoramento incontenibile, che tracima.

Guardano i tre, si emozionano, sono storditi: davanti a loro ecco un padre che in ogni figlio semina la sua grande bellezza. Vedono il volto di Gesù come il volto ultimo dell’uomo, come il presente del futuro.

E come tante cose intense, la visione non fu che un attimo.

«Una nube li coprì e venne una voce: ascoltate Lui». Il Padre prende la parola, ma per scomparire dietro quella del Figlio.

Bellissimo questo Onnipotente che si fa da parte. “Ascolta. Il Signore è nostro Dio. Signore, solo Lui”. Ma il Suo mistero è ormai tutto dentro Gesù: con Mosè, dal volto intriso di luce, con Elia, rapito su un carro di fuoco, ora tutta la bibbia tende a Cristo. Sali sul monte per vedere e sei rimandato all’ascolto. Scendi, e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: ascoltate Lui.

Nostalgia infinita.

La nostra via lucis è l’ascolto, luce che è ancora qui, nella Parola, nei sacramenti, nella bontà delle persone, nella bellezza delle cose, talvolta una scintilla breve, talvolta fiume di fuoco.

La forza del cuore di Pietro è la scoperta della bellezza di Gesù, che lo spinge ad agire (facciamo, qui, subito…). Succede anche a me: la vita avanza per seduzione nata da una bellezza almeno intravista, anche solo come freccia di un istante. Non certo da divieti.

È sbirciare dentro il Regno, vederlo come forza possente che preme con urgenza per trasformarci, per spalancare infinite finestre di cielo.

Nostra vocazione è liberare, con gioiosa fatica, tutta la bellezza di Dio nascosta in noi. Guardarla. Ascoltarla. Riconoscerla. Lo potremo fare attraverso l’ascolto della Parola, memoria della luce, e come lei leggera.

 

Avvenire II di Quaresima B

Il monte della luce, collocato a metà del racconto di Marco, è lo spartiacque della ricerca su chi è Gesù. Come in un dittico, la prima parte del suo libretto racconta opere e giorni del Messia, la seconda parte, a partire da qui, disegna il volto altro del “Figlio di Dio”: vangelo di Gesù, il Cristo, il figlio di Dio (Mc 1,1).

Il racconto è tessuto ad arte con i fili dorati della lingua dell’Esodo, monte, nube, voce, Mosè, splendore, ascolto, cornice di rivelazioni. Nuovo invece è il grido entusiasta di Pietro: che bello qui! Esperienza di bellezza, da cui sgorga gioia senza interessi. Marco sta raccontando un momento di felicità di Gesù (G. Piccolo) che contagia i suoi. A noi che il fariseismo eterno ha reso diffidenti verso la gioia, viene proposto un Gesù che non ha paura della felicità. E i suoi discepoli con lui.

Gesù è felice perché la luce è un sintomo, il sintomo che lui, il rabbi di Nazaret, sta camminando bene, verso il volto di Dio; e poi perché si sente amato dal Padre, sente le parole che ogni figlio vorrebbe sentirsi dire; ed è felice perché sta parlando dei suoi sogni con i più grandi sognatori della Bibbia, Mosè ed Elia, il liberatore e il profeta; perché ha vicino tre ragazzi che non capiscono granché, ma che comunque gli vogliono bene, e lo seguono da anni, dappertutto.

Anche i tre apostoli guardano, si emozionano, sono storditi, sentono l’urto della felicità e della bellezza sul monte, qualcosa che toglie il fiato: che bello con te, rabbi! Vedono volti imbevuti di luce, occhi di sole, quello che anche noi notiamo in una persona felice: ti brillano gli occhi! Vorrebbero congelare quella esperienza, la più bella mai vissuta: facciamo tre capanne!  Fermiamoci qui sul monte, è un momento perfetto, il massimo! C’è un Dio da godere, da esserne felici. Ma è un’illusione breve, la vita non la puoi fermare, la vita è infinita e l’infinito è nella vita, ordinaria, feriale, fragile e sempre incamminata. La felicità non la puoi conservare sotto una campana di vetro o rinchiudere dentro una capanna. Quando ti è data, miracolo intermittente, godila senza timori, è una carezza di Dio, uno scampolo di risurrezione, una tessera di vita realizzata. Godi e ringrazia. E quando la luce svanisce e se ne va, lasciala andare, senza rimpianti, scendi dal monte ma non dimenticarlo, conserva e custodisci la memoria della luce vissuta.

Così sarà per i discepoli quando tutto si farà buio, quando il loro Maestro sarà preso, incatenato, deriso, spogliato, torturato, crocifisso. Come loro, anche per noi nei nostri inverni, sarà necessario cercare negli archivi dell’anima le tracce della luce, la memoria del sole per appoggiarvi il cuore e la fede. Dall’oblio discende la notte.

Fb 21 febbraio 21

Un mondo a colori  (p.Ermes Ronchi)

Mc 1, 12-15

La prima lettura racconta di un Dio che inventa l’arcobaleno, questo abbraccio lucente tra cielo e terra che sigilla il Signore che non ti lascerà mai. Tu lo puoi lasciare, ma lui no, non lo farà.

Marco ci sprona a capire che le tentazioni non si evitano ma si attraversano, perché «sopprimete le tentazioni e più nessuno si salverà» (S. Antonio Abate). Senza tentazioni non c’è salvezza, non esiste scelta, scompare la libertà e l’uomo finisce. Ma senza scegliere non vivi, e la tentazione è sempre una scelta. Tra due amori.

Ed ecco che subito qualcosa lo spinse lontano, per quaranta giorni tentato da Satana, nel cuore deserto del conflitto. «Nel deserto un uomo sa quanto vale: vale quanto i suoi dèi» (Saint-Exupèry), quanto valgono i suoi ideali.

Il deserto è scuola di monoteismo, lì è nata l’inguaribile malattia israelitica dell’assoluto. Gesù deve scegliere che tipo di Messia sarà: venuto per essere servito o per servire? Per avere, salire, comandare, o per scendere, avvicinarsi, offrire?

In questo luogo di morte Gesù gioca la partita decisiva, faccia a faccia con il Divisore. Resiste, e in quei quaranta giorni la pietraia intorno a lui si popola. Dai sassi emerge la vita. Una fioritura di creature selvatiche, sbucate da chissà dove, e presenze lucenti di angeli a rischiarare le notti.

Da quando Gesù lo ha abitato, non c’è più deserto che non sia benedetto da Dio, dove non lampeggino frammenti scintillanti di regno che germoglia di vita.

Ma il male è presente: è ciò che fa male all’uomo, dentro e fuori. Per vincerlo Gesù indica la via, ma sceglie un modo diverso dai profeti di tutti i tempi: piuttosto che denunciare, annuncia. Si converte all’annuncio.

Una buona notizia ci avvolge! E’ finita l’attesa; il sogno di Dio è qui, convertitevi. Non un imperativo ma un’opportunità. Cambia strada, io ti indico la via per le sorgenti, di qua attraversi una terra nuova e splendida; di qua il cielo è più vicino e l’azzurro non sarà mai così azzurro da nessun’altra parte, di qua è la casa della pace, e il volto di Dio è luminoso.

Non è un’ingiunzione, ma la migliore delle risorse.

Iniziamo questa nuova Quaresima con il sorriso del Gesù che si avvia col suo bellissimo annuncio: credete nel Dio vicino! È finito il ciclo dei giorni sempre uguali. Finito il tempo della fame, fame di senso e di Parola, ora è il tempo del Verbo come pane in tutti i solchi della vita.

Credi! Vale a dire: fidati dell’amore in ogni forma, della storia e del vivere. Non seguire forza, intelligenza, denaro, ma fonda te stesso sull’amore che è Dio, vicino e dentro te, mite e possente energia come seme in grembo di donna, il cui unico scopo è renderti il meglio di ciò che puoi diventare.

Hai davanti a te la vita. Ti prego, non perderla! Con me vivrai solo inizi. Alza gli occhi e guarda: l’arcobaleno ha preso radici in te.

13 Avvenire I quaresima B

Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e vi rimase quaranta giorni, tentato da Satana. La tentazione? Una scelta tra due amori. Vivere è scegliere. La tentazione ti chiede di scegliere la bussola, la stella polare per il tuo cuore. Se non scegli non vivi, non a pieno cuore. Al punto che l’apostolo Giacomo, camminando lungo questo filo sottile ma fortissimo, ci fa sobbalzare: considerate perfetta letizia subire ogni sorta di prove e di tentazioni. Quasi a dirci che essere tentati forse è perfino bello, che di certo è assolutamente vitale, per la verità e la libertà della persona.

L’arcobaleno, lanciato sull’arca di Noè tra cielo e terra, dopo quaranta giorni di navigazione nel diluvio, prende nuove radici nel deserto, nei quaranta giorni di Gesù. Ne intravvedo i colori nelle parole: stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Affiora la nostalgia del giardino dell’Eden, l’eco della grande alleanza dopo il diluvio. Gesù ricostruisce l’armonia perduta e anche l’infinito si allinea. E nulla che faccia più paura.

Ma quelle bestie che Gesù incontra, sono anche il simbolo delle nostre parti oscure, gli spazi d’ombra che ci abitano, ciò che non mi permette di essere completamente libero o felice, che mi rallenta, che mi spaventa: le nostre bestie selvatiche che un giorno ci hanno graffiato, sbranato, artigliato. Gesù stava con… Impariamo con lui a stare lì, a guardarle in faccia, a nominarle, a far pace con loro. Non le devi né ignorare né temere, non le devi neppure uccidere, ma dar loro un nome, che è come conoscerle, e poi riconciliarti e dare loro una direzione: sono la tua parte di caos, ma chi te le fa incontrare è lo Spirito Santo. Anche a te, come a Israele, Dio parla nel tempo della prova, nel deserto, lo fa attraverso la tua debolezza, che diventa il tuo punto di forza. Forse non guarirai del tutto i tuoi problemi, ma la maturità dell’uomo consiste nell’avviare un percorso, con pazienza (tu maturi non quando risolvi tutto, ma quando hai pazienza e armonia con tutto). Allora ti accorgi che Dio parla a te nella fragilità e che lo Spirito è colui che ti permette di re-innamorarti della realtà tutta intera, a partire dai tuoi deserti.

Dopo che Giovanni fu arrestato Gesù andò nella Galilea proclamando il vangelo di Dio. E diceva: il Regno di Dio è vicino.

Gesù proclama il “vangelo di Dio”. Dio come una “bella notizia”. Non era ovvio per niente. Non tutta la bibbia è vangelo; non tutta è bella, gioiosa notizia; alle volte è minaccia e giudizio, spesso è precetto e ingiunzione. Ma la caratteristica originale del rabbi di Nazaret è annunciare vangelo, una parola che conforta la vita, una notizia gioiosa: Dio si è fatto vicino, è un alleato amabile, è un abbraccio, un arcobaleno, un bacio su ogni creatura.

 

Fb 7 febbraio 21

Mc 1, 29-39

Marco delinea i tratti di Gesù che, uscito dalla sinagoga, va a casa di Simone: è un uomo che guarisce, prega e annuncia: nella vita è datore di vita; nella notte, cerca Dio e gli fa memoria degli uomini; nel giorno, fa loro memoria di Dio.

Ricordati, supplica Giobbe, che la vita è un soffio amaro. Davanti a Dio non c’è altro merito che essere piccoli; un alito basta per essere amati.

Gesù a Cafarnao è assediato dal soffio del male. Con un crescendo turbinoso di malattie e demoni, a sera la porta della città scoppia di folla e dolore. Ma lui si inventa spazi segreti per ristorare l’anima, spazi dove nulla sia più importante di Dio, dove dirgli: sto davanti a Te; per un tempo che non so, niente viene prima di Te.

Un giorno e una sera per pensare all’uomo, una notte e un’alba per pensare a Dio, in un equilibrio perfetto di bisogni e desideri.

La suocera di Simone era ammalata, e gli parlarono di lei. Gesù ha un cuore che ascolta, quel cuore da re che Salomone aveva chiesto, incantando il Signore.

Il rabbi la prende per mano, e lei, non più imbrigliata nei suoi problemi, può occuparsi della felicità degli altri. E li serviva… come gli angeli con Gesù nel deserto, dopo le tentazioni. La donna, una nullità, è assimilata agli angeli, i più vicini a Dio.

E’ questa la lieta notizia: una mano ti accende la fretta dell’amore, e ti incalza: guarisci altri e guarirà il tuo dolore, perché se il Signore ti ha preso per mano e sollevato, devi solo a tua volta prendere un’altra mano!

Questo racconto di un miracolo dimesso, così poco vistoso, senza parole da parte di Gesù, ci ispira a pensare che ogni limite umano è lo spazio di Dio, il luogo dove atterra la sua potenza.

Poi, dopo il tramonto, finito il sabato con i suoi 1521 divieti (proibito anche visitare gli ammalati) tutto il dolore di Cafarnao si riversa sulla porta di Simone. La città intera è riunita davanti a Gesù, in piedi sulla soglia, in piedi tra la casa e la strada, tra la casa e la piazza. Gesù, polline di parole che ama porte e tetti spalancati, ad accogliere occhi e stelle, che ama il rischio della vita, del dolore, dell’amore che attende, è lì con loro.

Ma quando era ancora buio, uscì in segreto e pregava.

Tutta la città ti cerca, che fai qui? E lui: andiamo altrove, andiamo via.

Si sottrae, non cerca il bagno di folla. Cerca altri villaggi, un altro soffrire da curare. Cerca le frontiere del male per farle arretrare, cerca un’altra donna da rialzare.

La vita ora si diramerà su altri dolori, a stringere altre mani; perché di questo Lui ha bisogno, non di onori, ma della stretta della mia mano, che ha cercato a lungo, altrove.

Uomo e Dio, l’Infinito e il mio nulla, padre e figlio così: mano nella mano, a cui aggrapparmi forte, con fiducia di bambino. Icona possente e mite della buona novella.

 

AVVENIRE V B

Marco1,29-39

All’inizio della vita pubblica Gesù attraversa i luoghi dove più forte pulsa la vita: il lavoro (barche, reti, lago), la preghiera e le assemblee (la sinagoga), il luogo dei sentimenti e dell’affettività (la casa di Simone).

Gesù, liberato un uomo dal suo spirito malato, esce dalla sinagoga e “subito”, come incalzato da qualcosa, entra in casa di Simone e Andrea,  dove “subito” (bella di nuovo l’urgenza, la pressione degli affetti) gli parlano della suocera con la febbre. Ospite inatteso, in una casa dove la responsabile dei servizi è malata, e l’ambiente non è pronto, non è stato preparato al meglio, probabilmente è in disordine.

Grande maestro, Gesù, che non si preoccupa del disordine, di quanto di impreparato c’è in noi, di quel tanto di sporco, dell’aria un po’ chiusa delle nostre vite. E anche lei, donna ormai anziana, non si vergogna di farsi vedere da un estraneo, malata e febbricitante: lui è venuto proprio per i malati.

Gesù la prende per mano, la rialza, la ‘risuscita’ e quella casa dalla vita bloccata si rianima, e la donna, senza riservarsi un tempo, “subito”, senza dire “ho bisogno di un attimo, devo sistemarmi, riprendermi” (A. Guida) si mette a servire, con il verbo degli angeli nel deserto.

Noi siamo abituati a pensare la nostra vita spirituale come a un qualcosa che si svolge nel salotto buono, e noi ben vestiti e ordinati davanti a Dio. Crediamo che la realtà della vita nelle altre stanze, quella banale, quotidiana, accidentata, non sia adatta per Dio. E ci sbagliamo: Dio è innamorato di normalità. Cerca la nostra vita imperfetta per diventarvi lievito e sale e mano che solleva.

Questo racconto di un miracolo dimesso, non vistoso, senza commenti da parte di Gesù, ci ispira a credere che il limite umano è lo spazio di Dio, il luogo dove atterra la sua potenza.

Il seguito è energia: la casa si apre, anzi si espande, diventa grande al punto di poter accogliere, a sera, davanti alla soglia, tutti i malati di Cafarnao. La città intera è riunita sulla soglia tra la casa e la strada, tra la casa e la piazza. Gesù, polline di gesti e di parole, che ama porte aperte e tetti spalancati per dove entrano occhi e stelle, che ama il rischio del dolore, dell’amore, del vivere, lì guarisce.

Quando era ancora buio, uscì in segreto e pregava. Simone lo rincorre, lo cerca, lo trova: “cosa fai qui? Sfruttiamo il successo, Cafarnao è ai tuoi piedi”.

E Gesù comincia a destrutturare le attese di Pietro, le nostre illusioni: andiamo altrove! Un altrove che non sappiamo; soltanto so di non essere arrivato, di non potermi accomodare; un ‘oltre’ che ogni giorno un po’ mi seduce e un po’ mi impaura, ma al quale torno ad affidare ogni giorno la speranza.

Fb 31 gennaio 21

p. ERMES RONCHI

Mc 1, 21-28

Le ali guarite

C’è nella sinagoga un uomo prigioniero di qualcosa che è più forte di lui. Gesù interviene, e non pronuncia discorsi su Dio o sul male, ma si immerge nella vita ferita e, come Dio, combatte contro ciò che imprigiona ogni persona.

Cosa vuoi da me? So che Cristo vuole le mie mani, i miei occhi, i miei sentimenti, il mio andare e venire. Ma io tentenno, non voglio brecce aperte sulle mura del mio mondo. Una fede senza sapore di pane, di vino buono, di lavoro, di carezze, di scelte concrete. Fede di sole parole.

Gesù parlava e si stupivano del suo insegnamento. Ecco lo stupore da difendere sempre, perché la nostra capacità di gioire è proporzionale alla capacità di incantarci ogni volta che incontriamo parole di sapienza, nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.

L’autorità di Gesù stava nelle parole di chi è credibile, di chi dice ciò che è ed è ciò che dice. Se messaggio e messaggero coincidono, ciò non significa “dire” il Vangelo, ma diventare tutt’uno con l’annuncio. Così per noi, se non vogliamo essere scribi inascoltati. Coltiviamo il coraggio del seme silente che nasce senza che tu sappia come! Spesso i testimoni silenziosi sono i più efficaci. “Sono sempre i pensieri che avanzano con passo di colomba quelli che cambiano il mondo” (Albert Camus).

L’autorevole Gesù è Dio che si oppone al laccio, e i demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te? Sei qui per rovinarci?

L’uomo di Cafarnao frequenta il luogo sacro, recita le benedizioni e lo Shemà Israel, eppure in lui vive un demone che vuole la fede del sabato, quella limitata al sacro e alle devozioni. Il Dio vero, no! Quello che spazia come libera brezza nella vita, nella polvere di casa e della strada.

Sì, Gesù è venuto a rovinare la fede del dèmone che sente Dio come un predatore della mia libertà, che lo immagina come colui che toglie, non come colui che dona; un Moloch avido e rovente cui sono tenuto a immolare la parte migliore di me stesso. E’ venuto per demolire ogni prigione che divora le nostre ali; è qui con il fuoco per bruciare ciò che inganna, per rovinare il regno di chi si genuflette davanti a idoli bugiardi: potere, denaro, successo, paure, depressioni, egoismi.

È a questi desideri che Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui!

Tace e se ne va questo mondo illuso, dal cuore sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia. E le spade diventano falci, si spezzano conchiglie ed ecco le perle.

Nel conflitto eterno tra il mio cuore d’ombra e luce, Cristo entra come lievito che solleva l’inerzia, colpo d’ala, respiro che dilata, vento che sospinge, tarlo o bruco che rode la mia falsa pace, e fa volare la farfalla sul mondo.

Perla della creazione è l’uomo libero, uomo dalla vita grande. Lo sarò anch’io, se il Vangelo diventerà mio patimento e mio parto, mio incanto e mia dolcezza.

 

La gente si stupiva del suo insegnamento, come quando nel deserto del sempre uguale ci si imbatte nell’inaudito. Si stupiva, e l’ascolto si faceva disarmato.

E il motivo: perché insegnava con autorità. Gesù è autorevole perché credibile, in lui messaggio e messaggero coincidono: dice ciò che è, ed è ciò che dice. Non recita un ruolo. Autorevole, alla lettera significa “che fa crescere”. Lui è accrescimento di vita, respiro grande, libero orizzonte.

Non insegnava come gli scribi… Gli scribi sono intelligenti, hanno studiato, conoscono bene le Scritture, ma le ascoltano solo con la testa, in una lettura che non muove il cuore, non lo accende, non diventa pane e gesto.

Molte volte anche noi siamo come degli scribi con noi stessi, ci basta accostare il vangelo con la ragione, ci pare anche di averlo capito, spesso ci piace, ma l’esistenza non cambia. La fede non è sapere delle cose, ma farle diventare sangue e vita.

Gesù insegnava come chi ha autorità. Il mondo ha un disperato bisogno di maestri autorevoli. Ma noi chi ascoltiamo? Scegliamoli con cura i nostri maestri e con umiltà, camminando al passo di chi è andato più avanti. Da chi imparare? Da chi ci aiuta a crescere in sapienza e grazia, cioè nella capacità di stupore infinito.  Dobbiamo scegliere chi dona ali. I maestri veri non sono quelli che metteranno ulteriori lacci alla mia vita o nuovi paletti, ma quelli che mi daranno ulteriori ali, che mi permetteranno di trasformarle, le pettineranno, le allungheranno, le faranno forti. Mi daranno la capacità di volare (A. Potente).

Nella sinagoga di Cafarnao ha luogo poi il primo miracolo. Un indemoniato sta pregando nella comunità, è un habituè del sabato. Ne aveva ascoltate di prediche…

Si può passare tutta una vita andando ogni sabato in sinagoga, ogni domenica in chiesa, pregare e ascoltare la Parola, eppure mantenere dentro uno spirito malato, un’anima lontana che non si lascia raggiungere. Si può vivere tutta una vita come cristiani della domenica senza farsi mai toccare dalla Parola di Dio (G. Piccolo), senza che entri davvero a fare nuova la vita.

Belle e coinvolgenti le due domande che seguono: Che c’entri con noi, Gesù, con la nostra vita quotidiana? Tu sei nel rito della domenica, stai in chiesa, o nell’alto dei cieli; ma cosa c’entri tu con la nostra vita di tutti i giorni? Vuoi sapere se credi? Se questo ti cambia la vita.

Sei venuto a rovinarci? La risposta è ‘sì!’: è venuto a rovinare le spade che diventano falci; è la rovina delle lance che diventano aratri, delle dure conchiglie che imprigionava la perla. “Mia dolce rovina” (D. M. Turoldo), che rovini maschere e paure, e tutto ciò che rovina l’umano.

Lui ci aiuta a liberare la fede, a sdemonizzarla.

Ieri un’amica diceva: la gente non si interessa più delle cose della fede, solo se tu come persona porti una testimonianza diretta, allora ti guardano e attraverso di te si aprono a una attenzione e poi chissà…la nostra generazione ha bisogno di testimoni…

Sdemonizzare la fede.

L’indemoniato sa chi è Gesù, non lo ignora. Ma la fede non è sapere delle cose. Ma la fede è vieni e vedi, prova, sperimenta.

Sta chiuso nel tabernacolo, guai se esce di lì.

Alle volte è proprio chi sa meglio chi è Gesù che se ne sta alla larga, non vuole essere toccato, colpito. Abbiamo messo una barriera. Il vangelo può non essere indolore, può mettere in discussione, e allora preferiamo tenerlo lontano,

Sei venuto a rovinarci? abbiamo l’idea che è forzato una fregatura essere cristiani che Dio sia venuto per rovinarci. uomini e donne pienamente realizzati.

Sì, a far cadere in rovina il nostro mondo di maschere e bugie, a rovinare la vita sdraiata; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che si oppone all’amore.

 

Ascolto disarmato  Noi pensiamo che non centri niente con la nostra vita

QUARTA DOMENICA  B

Mc 1, 21-28

Abbiamo messo una barriera, per paura che il vangelo provochi un cambiamento…andare

Come loro, anche noi ci siamo incantati quando abbiamo avuto la fortuna di incontrare una persona che consegnava non parole spente o per sentito dire, ma autorevoli, nuove, accese. Quelle che trasmettono una sapienza del vivere, una sapienza sulla vita e sulla morte, sull’amore e sulla paura. Che sanno toccare il centro della vita, perché nascono dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dall’abbraccio.

E la gente allora si apre al nuovo.

Le nozze nuove con la vita avvengono perché abbiamo lasciato entrare qualcos’altro o qualcun altro, forse nella notte del dolore o nell’alba dell’innamoramento.

I quattro pescatori che chiamerà di lì a poco, non sono preparati alla novità, non hanno fatto corsi di teologia, non sono pronti, come non lo siamo noi. Ma rispetto a noi hanno qualcosa in più: sono stupiti, affascinati dal giovane rabbi, sono sorpresi come per un innamoramento improvviso, per un’estasi che sopraggiunge.

Sentono di essere davanti ad una fessura d’infinito.

La gente si stupiva, e allora teneva le porte aperte.

Amo le porte aperte che fanno entrare notti e tempeste, polline e spighe. Libere porte che rischiano l’errore e l’amore.

Amo le porte aperte: Buchi nella rete, brecce nei muri, presagio e profezia di una umanità in rivolta per diritto di tenerezza.

Amo le porte aperte dei pericolosi visionari, dei testardi amanti, di chi ha fatto voto di libertà. Che diventano strade per tutti noi.

Amo Gesù quando dice io sono la porta: per me entreranno ed usciranno e troveranno pascolo. Amo le porte aperte di Dio.

E allora svitare e togliere e buttare giù chiusure, serrature, chiavistelli, catenacci, sbarre, paletti. Buttar giù muri. E fare voto di meraviglia e di apertura.

“Che c’entri con noi, Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci?”

Due grandi domande. La prima dice: Cosa c’entra con la mia vita quest’uomo di Galilea di duemila anni fa? Mi importa, mi sfiora, mi scontro? Cosa c’entra Cristo con il mio agire, con la mia professione, con la famiglia, con il divertimento?

L’umanità ha avuto migliaia di dei. Che cosa c’entra con noi Iside, dea dell’Egitto, o Astarte dei Fenici, o Zeus dei greci?

E Gesù? E’ forse uno di questi innumerevoli dei, passati come meteore nel cielo dell’umanità, oppure c’entra ancora con la mia vita?

Lui venuto a mostrare che è possibile vivere meglio, per tutti.

Che un altro mondo è possibile, dove il violento non abbia ragione per sempre del costruttore di pace:

dove chi è falso non inganni i puri di cuore e i bambini;

dove il corrotto non detti leggi sporche alle nazioni;

dove il ricco non venda il povero per un paio di sandali, come dice Amos.

Dove diventare tutti piccoli profeti di un altro mondo possibile; persone nuove che osano immaginare il futuro diverso. Con una lunga, grande, profonda immaginazione che serva ad aiutare tutti a contribuire in qualche modo alla pace e all’armonia di questo universo.

E la seconda domanda: Sei venuto a rovinarci? Non è solo il grido di un indemoniato, è la sintesi di tanti nostri conflitti. Lo dice con un verso bellissimo padre Turoldo: Cristo, mia dolce rovina, gioia e tormento insieme tu sei. Impossibile amarti impunemente, Impossibile amarti e poi accontentarsi; impossibile amarti e poi vivere di cose, di potere, di maschere e di paure.   

  E sentiamo dentro di noi il conflitto tra la nostra parte d’ombra e la nostra parte di luce: ‘Signore, per favore lasciami tranquillo nel mio angolo, con le mie piccole cose, con i miei piccoli amori e divertimenti. Perché mi vuoi mandare al largo, controcorrente, in un mondo che non ne vuol sapere di te?

Tempo fa un giovane prete mi raccontava il suo esame di pastorale, alla fine il professore gli fa l’ultima domanda: dimmi come spiegheresti a un bambino di sei anni perché tu credi in Cristo e vai dietro a Lui. E il pretino si lancia in ragionamenti e citazioni, parla di senso del vivere, della verità profonda delle cose… ma mentre parla capisce che non va, e che si sta incartando “o Dio, adesso mi boccia…”

Allora il professore interviene e fa: digli così “lo faccio per essere felice!” Grande docente, di vangelo e di vita.

La vera religione è quella che fa bene, che reca piacere, che fa fiorire. Se la mia fame di bene non è saziata, la fede non mi interessa.

Mi giro verso Cristo, perché è la strada per stare bene.

Con me stesso, con gli altri, con il creato.

Lui tira fuori dal bruco che credevo di essere, la farfalla che sono.

Mi obbliga a diventare il meglio di ciò che posso diventare.

Amplia la vita

Perché io sono frate? perché incontrare Cristo è stato l’affare migliore della mia vita!

Allora la scelta ultima è tra l’appassire dietro piccoli desideri, in una vita sdraiata, oppure l’incamminarci dietro l’appello di un cuore grande: ti darò cento fratelli e sorelle; dietro l’appello di Colui che ti dà il mondo intero come casa e l’eternità come futuro.

 

Preghiera alla comunione (da Fondi)

 

Signore, donami di amare le porte aperte

che fanno entrare notti e tempeste,

polline e spighe. Volti e desideri.

Libere porte che rischiano l’errore e l’amore.

Signore, io amo le porte aperte:

Buchi nella rete, brecce nei muri,

presagio e profezia di una umanità

in rivolta per diritto di libertà.

Amo le porte aperte

dei pericolosi visionari,

dei testardi amanti,

di chi ha fatto voto di tenerezza.

Saranno le mie strade.

Amo Gesù quando dice:

io sono la porta, e non il recinto:

per me entreranno ed usciranno, liberamente,

e troveranno pascolo.

Amo le porte aperte di Dio.

Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore, quella esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione della passione, quella che smuove anche le montagne.

Salviamo lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il centro della vita perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.

La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci.

Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che nutrono la vita e la fanno fiorire; Gesù ha autorità perché non è mai contro l’uomo ma sempre in favore dell’uomo, e qualcosa dentro chi lo ascolta lo sa.

Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù: la sua persona è il messaggio, l’intera sua persona.

Come emerge dal seguito del brano: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulle fragilità dell’uomo e la prima di tutte le povertà è l’assenza di libertà, come per un uomo “posseduto”, prigioniero di uno più forte di lui.

E vediamo come Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non cerca spiegazioni sul male, Gesù mostra Dio che si immerge nelle ferite dell’uomo; è Lui stesso il Dio che si immerge, come guarigione, nella vita ferita, e mostra che “il vangelo non è un sistema di pensiero, non è una morale, ma una sconvolgente liberazione” (G. Vannucci).

Lui è il Dio il cui nome è libertà e che si oppone a tutto ciò che imprigiona l’uomo. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a demolire prigioni; a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare tutto ciò che non è amore. A rovinare il regno dei desideri sbagliati che si impossessano e divorano l’uomo: denaro, successo, potere, egoismi.

Ad essi, padroni del cuore, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui.

Tace e se ne va questo mondo sbagliato.

Va in rovina, come aveva sognato Isaia,

vanno in rovina le spade e diventano falci,

si spezza la conchiglia e appare la perla.

Perla della creazione è l’uomo libero e amante. Posso diventarlo anch’io, se il vangelo diventa per me passione e incanto. Patimento e parto. Allora scopro “Cristo, mia dolce rovina” (Turoldo), che rovina in me tutto ciò che non è amore, che libera le mie braccia da tutte le cose vuote, e che dilata gli orizzonti che respiro.

 

di p. Ermes Ronchi

 

II domenica B

I personaggi del racconto: un Giovanni dagli occhi penetranti; due discepoli meravigliosi, che non se ne stanno comodi e appagati, all’ombra del più grande profeta del tempo, ma si incamminano per sentieri sconosciuti, dietro a un giovane rabbi di cui ignorano tutto, salvo un’immagine folgorante: ecco l’agnello di Dio!

Un racconto che profuma di libertà e di coraggio, dove sono incastonate le prime parole di Gesù: che cosa cercate? Così lungo il fiume; così, tre anni dopo, nel giardino: donna, chi cerchi? Sempre lo stesso verbo, quello che ci definisce: noi siamo cercatori d’oro nati dal soffio dello Spirito (G. Vannucci).

Cosa cercate? Il Maestro inizia ponendosi in ascolto, non vuole né imporsi né indottrinare, saranno i due ragazzi a dettare l’agenda. La domanda è come un amo da pesca calato in loro (la forma del punto di domanda ricorda quella di un amo rovesciato), che scende nell’intimo ad agganciare, a tirare alla luce cose nascoste.

Gesù con questa domanda pone le sue mani sante nel tessuto profondo e vivo della persona, che è il desiderio: cosa desiderate davvero? qual è il vostro desiderio più forte? Parole che sono “come una mano che prende le viscere e ti fa partorire” (A. Merini):

Gesù, maestro del desiderio, esegeta e interprete del cuore, domanda a ciascuno: quale fame fa viva la tua vita? dietro quale sogno cammini? E non chiede rinunce o sacrifici, non di immolarsi sull’altare del dovere, ma di rientrare in sé, ritornare al cuore (reditus ad cor, dei maestri spirituali), guardare a ciò che accade nello spazio vitale, custodire ciò che si muove e germoglia nell’intimo. Chiede a ciascuno, sono parole di san  Bernardo,: “accosta le labbra alla sorgente del cuore e bevi”.

Rabbì, dove dimori? Venite e vedrete. Il maestro ci mostra che l’annuncio cristiano, prima che di parole, è fatto di sguardi, testimonianze, esperienze, incontri, vicinanza. In una parola, vita. Ed è quello che Gesù è venuto a portare, non teorie ma vita in pienezza (Gv 10,10).

E vanno con lui: la conversione è lasciare la sicurezza di ieri per il futuro aperto di Gesù; passare da Dio come dovere a Dio come desiderio e stupore.

Milioni di persone vorrebbero, sognano di poter passare il resto della vita in pigiama, sul divano di casa. Forse questo il peggio che ci possa capitare: sentirci arrivati, restare immobili. All’opposto i due discepoli, quelli dei primi passi cristiani, sono stati formati, allenati, addestrati dal Battista, il profeta roccioso e selvatico, a non fermarsi, ad andare e ancora andare, a muovere in cerca dell’esodo di Dio, ancora più in là. Come loro, “felice l’uomo, beata la donna che ha sentieri nel cuore” (Salmo 83,6).

d attendere qualcuno. Si mettono in cammino per intercettare l’esodo di Dio.

Sognano un Dio delle strade e un libero orizzonte.

ricerche. E Gesù con loro, e si impegna a salvare la grandezza dei desideri a non lasciarli rimpicciolire sul piccolo, atrofizzare sul passato.

Come se dicesse loro: prima venite voi e ciò che vi pesa sul cuore, dopo vengo io.

Gesù per i primi passi dietro a lui non chiede il coraggio delle rinunce, lo sforzo dell’ascesi, ma la spinta di una passione, di un desiderio e per farli emergere chiede il ritorno al cuore, alla verità profonda, a ciò che accade dentro e si muove nell’intimo, nello spazio vitale della persona.

L’uomo guarda le apparenze, il Signore guarda il cuore. Tutti hanno un cuore, punto di partenza è sempre la tua vita, non una dottrina astratta;

E’ un vangelo che mi dice che la vita non è mai ferma, mai un vicolo chiuso, ma che è piena di sorprese, di rinnovamenti che arrivano all’improvviso, se solo mi apro a ciò che mi viene incontro.

Comincia con una semplice scena: un piccolo gruppo di uomini, di credenti, con il loro grande maestro Giovanni; ed ecco passa Gesù e il maestro fissa gli occhi su di lui, intuisce il suo mistero, il tesoro che porta e non se lo fa scappare.

Grande esempio questo maestro dagli occhi acuti, e dal cuore aperto per tutti noi: non lasciamoci passare vicino il mistero, il nuovo, il bene che ci passa accanto e viene sotto forma di persone, di donne e uomini.

Giovanni non bada a stereotipi. Voglio essere come lui, non lasciarmi scappare Dio che viene da me e mi sorprende perché mi aspettavo un re e invece è un marocchino che mi bussa alla porta, mi aspettavo un giudice e invece è un vecchio dagli occhi limpidi, un bambino che mi intenerisce con un sorriso o una badante di un paese lontano che mi racconta la sua storia di tenacia, amore e sofferenza.

Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie i peccati del mondo. L’agnello dell’esodo; l’agnello di Isaia che prende su di sé il male e il dolore del mondo;

il peccato del mondo non è la cattiveria: l’uomo è fragile, ma non è cattivo; l’uomo si inganna facilmente, si sbaglia di brutto, ma non ama il male; ricerca a modo suo vita e felicità.

  Perfino Caino cercava il favore di Dio; i peccatori sono degli ingannati. Questo è il dramma. Alle strade che il vangelo propone ne preferiamo altre che crediamo più plausibili, più intelligenti, o più felici.

Togliere il peccato del mondo è togliere il disamore, far cambiare strada alle relazioni umane, al proprio cuore, a tutto quel  deficit d’amore che fa povera  la vita.

Venuto a togliere paure pesi tristezze, ciò che strozza la vita e le impedisce di volare… Uno che libera e guarisce, non solo un buono.

Gesù allora si voltò e disse loro: che cosa cercate? sono le prime parole che pronuncia nel vangelo di Giovanni.

Le prime parole rivelano che Gesù il Maestro dell’esistenza non vuole imporsi, non gli interessa stupire o abbagliare tantomeno indottrinare, ma la sua passione è farsi vicino, porsi a fianco, rallentare il passo per farsi compagno di strada di ogni cuore che cerca.

Cosa cercate? Chi cerchi? Due domande, con un unico verbo, dove troviamo la definizione dell’uomo. Noi siamo dei cercatori, cercatori d’oro, con un punto di domanda piantato nel cuore. In principio Dio creò il punto di domanda e lo depose nel cuore dell’uomo e della donna.

Gesù ci educa alla fede attraverso domande. Scrive Rilke in un’opera famosa: Lettera a un giovane poeta: Prima di correre a cercare risposte, bisogna vivere bene le domande. Vivere le domande perché aprono la mente, le attese, la ricerca.

Che cosa cercate? Gesù fa capire:

Gesù, maestro del desiderio, rivolgendo quella domanda a noi, ripete la beatitudine dimenticata: Beati gli insoddisfatti perché saranno cercatori di tesori. Beati voi che avete fame e sete, perché diventerete mercanti della perla preziosa.

Gesù non chiede sacrifici, sforzi, impegni e rinunce. Prima di tutto ti chiede di partire in pellegrinaggio verso il luogo del cuore, di comprenderlo, di decifrare la radice da cui nascono le tue azioni, generate da bisogni e desideri, da paure, da amori e disamori. Trova la chiave del cuore. Questa chiave, lo vedrai, apre anche la porta del Regno! (Giovanni Crisostomo)

Ogni vita spirituale, ogni vangelo personale inizia con questa discesa. Sant’Agostino l’ha detto: “Io ti cercavo fuori di me e tu invece eri dentro di me!”. Dentro di me, là dove nascono i sogni scoprirò qualcuno che mi attende e con Lui evangelizzerò quegli oceani interiori che ci generano e al tempo stesso ci minacciano.

La prima lettura dice che a quei tempi era rara la parola di Dio. Anzi stava spegnendosi anche la lampada del santissimo, la lampada del tempio. Era notte, grande notte, e il sommo pontefice dormiva, queste coscienze addormentate, questa chiesa che dorme…, e c’era questo fanciullo, il piccolo Samuele.

E a chi parla Dio? Non al sommo sacerdote, ma al bambino. Che crede di essere chiamato dal vecchio sacerdote Eli e corre da lui. Per tre volte. Finché l’anziano comincia a interrogarsi, a sospettare, e dice: torna a dormire e se ti sentirai ancora chiamato dì così: parla Signore che il tuo servo ti ascolta.

Tanti pensieri che nascono. E il primo è che la parola di Dio era rara, ma Dio interviene. Chissà oggi come interviene, chissà con chi e come parla e a chi parla. E il prete dorme! E bambini ascoltano. Notate: per tre volte. E alla fine, pur capendo di essere davanti a qualcosa di grande, non dice: figlio mio, almeno ti faccio compagnia, ti sto vicino. No. Dice: torna a dormire, che dormo anch’io…

Noi, invece, siamo come il piccolo Samuele: stava nel tempio, ma ancora non aveva trovato il Signore. E quando lo trova? Lo trova proprio quando non corre più, quando smette di correre e si prende del tempo per ascoltare.

Come i due discepoli di Giovanni: e si fermarono con lui fino a sera.

Donami signore un cuore che ascolta: il vangelo e il grido dei poveri, angeli e parabole e anche bambini ai quali come al piccolo Samuele Dio parla sempre. Donaci un cuore che ascolta le tre cose che contano: il desiderio del cuore, le domande di Dio, il grido di Abele.

BATTESIMO DEL SIGNORE 2021

 

di p. Ermes Ronchi

Sulle rive del Giordano, il Padre presenta Gesù al mondo, lo strappa all’anonimato dei trent’anni. Gesù non aveva alcun bisogno di farsi battezzare, è come se avesse lui invece battezzato il Giordano, santificato per contatto la creatura dell’acqua. Lo sa e lo ripete il celebrante nella Preghiera Eucaristica Terza: “Tu che fai vivere e santifichi l’universo”. Straordinaria teologia della creazione: Tu che non solo dai vita all’uomo ma all’universo intero; non solo dai vita alle cose, ma le rendi sante! Santità del cielo, dell’acqua, della terra, delle stelle, del filo d’erba, del creato…

“E subito, uscendo dall’acqua vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba”. Sento tutta la bellezza e la potenza del verbo: si squarciano i cieli, come per un amore incontenibile; si lacerano, si strappano sotto la pressione di Dio, sotto l’urgenza di Adamo e dei poveri. Si spalancano come le braccia dell’amata per l’amato. Da questo cielo aperto e sonante di vita viene, come colomba, il respiro di Dio. Una danza dello Spirito sull’acqua è il primo movimento della Bibbia (Gen 1,2). Una danza nelle acque del grembo materno è il primo movimento di ogni figlio della terra. Una colomba che danza sul fiume è l’inizio della vita pubblica di Gesù.

“Venne una voce dal cielo e disse “Tu sei il Figlio mio, l’amato, il mio compiacimento”. Tre parole potenti, ma primo viene il “tu”, la parola più importante del cosmo. Un io si rivolge a un tu. Il cielo non è vuoto, non è muto. E parla con le parole proprie di una nascita.

Figlio è la prima parola, un termine potente per il cuore. E per la fede. Vertice della storia umana. Dio genera figli di Dio, genera figli secondo la propria specie. E i generati, io e tu, tutti abbiamo una sorgente nel cielo, il cromosoma divino in noi.

Seconda parola: il mio nome non è solo figlio, ma amato. Lo sono da subito, da prima che io faccia qualsiasi cosa, prima che io risponda. Per quello che sono, così come sono, io sono amato. E che io sia amato dipende da lui, non dipende da me.

La terza parola: in te ho posto il mio compiacimento. La Voce grida dall’alto del cielo, grida sul mondo e in mezzo al cuore, la gioia di Dio: è bello stare con te. Ti amo, figlio, e mi piaci. Sono contento di te. Prima che tu mi dica sì, prima ancora che tu apra il cuore, tu mi dai gioia, sei bello, un prodigio che guarda e respira e ama e si incanta.

Ma che gioia posso dare a Dio, io con la mia vita accidentata e distratta, io che ho così poco da restituire? Con tutte le volte che mi dimentico di Lui? Eppure quelle tre parole sono per me, lampada ai miei passi, lume acceso sul mio sentiero: figlio, amato, gioia mia.

 

Battesimo di Gesù B

Come carezza sul cuore

Il racconto del Giordano ci riporta all’inizio, a quando tutto prese avvio con una immagine d’acqua, e lo Spirito di Dio aleggiava come un grande uccello in cova su un mare gonfio di vita inespressa (Gen 1,2). L’origine del creato è scritta sulle acque.

Il brano, come una miniatura di Vangelo, ne racconta alcune delle verità più alte con i simboli della Trinità: una voce, un figlio, una colomba.

Dicono Matteo e Luca che al battesimo di Cristo il cielo si aprì, ma Marco, con una espressione più forte, racconta che si lacerò, si squarciò, si spezzò. Noi siamo figli di un cielo lacerato: vita ne entra, vita ne esce, e nessuno lo richiuderà più.

Il rito del Giordano porta impresso il sigillo di nascite e rinascite, voce che allora come oggi sussurra: tu sei figlio, quello che io amo! Parole in cui anch’io ho ricevuto la mia “nascita dall’alto”. Io che non l’ho ascoltato, io che me ne sono andato, io che l’ho anche tradito sento dirmi: «In te ho posto il mio compiacimento». In me Lui sarà al sicuro, e mi sale un nodo in gola.

“Tu mi piaci”. Parole di sorriso, parole eterne che bastano a tutta una vita, a una vita intera. Cosa volere di più da un padre? Una dichiarazione folle di Dio su di noi: prima che tu faccia qualsiasi cosa, così come sei, per quello sei, tu mi dai gioia e io ti amo.

Cieli spalancati di felicità come braccia infinite del bimbo per la madre, come dell’amore per l’amore. Come una carezza sul cuore.

Il battesimo racconta anche ciò che a Dio manca: al Padre manca di essere amore riamato dai liberi, splendidi, meschini, figli che noi siamo.

Tu sei mio, oggi ti ho generato e ti affido al rischio di essere te stesso, figlio che cerca di diventare fratello dell’uomo.

Se è vero che il nostro battesimo continua quello di Gesù, aprire spazi di cielo resta la nostra vocazione, ricordiamolo al nostro cuore distratto. Significa mescolare in giuste proporzioni finito e infinito (Platone), aprire speranza come si apre una porta chiusa. Significa, come Isaia, farci sovrastare dalle vie di Dio, dai suoi pensieri; e forzare il cielo perché vi si affacci la giustizia; forzare la terra perché, per me, attorno a me, essa si abbracci con la pace.

Da questo cielo aperto viene, come colomba, la vita stessa di Dio, il suo respiro. Si posa su noi e ci avvolge, ci trasforma nei pensieri e negli affetti secondo la legge dolce ed esigente del vero amore, per fare con Dio le cose che solo Dio sa fare.

Allora ti prende una nostalgia, un desiderio di fare qualcosa che assomigli a ciò che è detto di Gesù: passare nel mondo facendo del bene, senso del nostro pellegrinaggio, qui e ora. Passare nella vita donando, senza pretendere un ritorno; ma accendendo, perdonando, aprendo spazi a un profumo di cielo. E scoprire che amare fa rinascere. Sempre. Di nuovo.

II Natale B

Pozzanghere di luce

Gv 1, 1-18

Con un volo d’aquila Giovanni inizia il suo Vangelo. Un canto, un inno immenso che proietta Gesù di Nazaret verso l’inizio, verso il divino. Nessun’altra poesia, nessun’altra storia può risalire più indietro, volare più in alto di questa che contiene il “la” di tutte le cose. Tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza lui.

Il Verbo di Dio viene come una prorompente forza di nascita, ed è un seme che genera solo secondo la propria specie. Dio non può che generare Figli di Dio.

Ogni parola umana ci conferma nella nostra realtà di carne, incompleta e inaffidabile; ma il salto, l’impensabile, accade a Natale, con la Parola che nasce nel mondo e porta Dio stesso in noi, in me. Terra e cielo si sono abbracciati, plasmati e fusi come creta nel tornio. Uniti, ora uomo e Dio sono una cosa sola.

“Gesù è il racconto della tenerezza del Padre” (E. G.), per questo la traduzione, libera ma vera, può suonare così: “In principio era la tenerezza, e la tenerezza era presso Dio, e la tenerezza era Dio; si è fatta carne e ha messo la sua tenda in mezzo a noi”.

Nella tenerezza è la vita, e ogni vita è luce. Il Vangelo allora ci conduce per mano dentro le sue parabole, a sorprendere perfino nelle pozzanghere della terra il riflesso azzurro del cielo. E se la vita è luce, chi ha passato un’ora sola a vivere l’amore o a bagnarsi del pianto di un sofferente, è più vicino al mistero di Dio di chi ha letto tutti i libri.

Chi sa della vita, sa di Dio.

“Il Verbo si fece carne”, a Betlemme. Il miracolo è che Dio non plasma più l’uomo con polvere del suolo, ma si fa lui stesso polvere, bambino di carne. E se tu piangi, anche lui dovrà piangere. E se tu vivi, anche lui imparerà la vita.

C’è una forza in noi, una energia, un seme potente che ci rende figli di Dio. Come lo si diventa? Nelle Scritture figlio è colui che prolunga la vita del padre, gli assomiglia, si comporta come lui. Diventare figli è una concretissima strada infinita. Ma una piccola parola ci aiuta; è l’avverbio come, che rimanda oltre, rimanda ad un altro: siate perfetti e misericordiosi come il Padre, amatevi come io vi ho amato, in terra come in cielo.

Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita.

Dopo il suo, è allora tempo del mio Natale.  Nuovo, diverso. Dall’alto. Se io non rifiuto Dio, ma neppure lo accolgo, lui sarà nato anche duemila volte a Betlemme, ma se non nasce in me, allora è venuto invano (S.Ambrogio). Da allora c’è un frammento di Logos, di luce, in ogni uomo, in ogni vita.

Cerchi luce? Ama la vita! Prenditene cura, contiene Dio. E ama la luce, custodiscila. E’ nel guscio di argilla, perfetta e misericordiosa come il Padre, amante in terra come in cielo.

Come Cristo, come il Padre, come il cielo. E si spalanca il più grande orizzonte: la sua tenda è in mezzo a noi.

II dopo Natale 3.01.21 Gv 1,1-18

Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.

In principio era il Verbo… e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: “nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste” (G. Vannucci).

Un avvio di vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui. ‘In principio’, ‘tutto’, ‘nulla’, ‘Dio’, parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.

In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, ed ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza (Gv 10,10).  E la vita era la luce degli uomini (v.4). Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera. Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.

A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: “ Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia”. Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”!

Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?

 

Portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.

Una giovanissima coppia e un neonato che portano la povera offerta dei poveri: due tortore, e la più preziosa offerta del mondo: un bambino.

Vengono nella casa del Signore e sulla soglia è il Signore che viene loro incontro attraverso una creatura intrisa di vita e di Spirito, un anziano, Simeone, occhi stanchi per la vecchiaia e giovani per il desiderio: la vecchiaia del mondo accoglie fra le sue braccia l’eterna giovinezza di Dio.

Piccolo Gesù nato per me, lascia che io ti stringa fra le braccia come Simeone, e stringendo con te, anche la Divina Presenza.

Abbracciando te, le dita di Dio mi sfiorano anche me, e allora, con lo sguardo, la carezza, o l’ascolto, lasciami pregare ancora per bocca di Simeone, per dire ai miei fratelli: “Dio mi salva attraverso te, salvezza che mi cammina a fianco”.

 

(p.Ermes Ronchi)

 

 

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Fb 27 dicembre 2020

Domenica fra l’ottava di Natale B Lc 2, 22-40

Luce e ombra

Gesù non appartiene al tempio, appartiene all’uomo. È nostro e di chiunque ne sia assetato, è di quelli che sanno vedere oltre come Anna, incantata davanti a un neonato; è di quelli che non smettono di sognare, come Simeone, che sente Dio come un futuro vicino.

Maria e Giuseppe salgono al tempio col piccolo Gesù per presentarlo al Signore, ma sulla soglia, altre braccia subito se lo contendono. Gesù non è accolto dai sacerdoti, ma da due anziani senza ruolo, due innamorati di Dio. Occhi velati dalla vecchiaia, occhi ancora accesi dal desiderio. È la vecchiaia del mondo che abbraccia l’eterna giovinezza di Dio.

Il figlio è dato, ma subito è offerto ad un altro sogno, ad un’altra strada che si apre per lui.

I figli non sono nostri, appartengono a Dio, al mondo, ad una loro vocazione che noi non conosciamo, “essi abitano case future che nemmeno in sogno potrete visitare” (Gibran). Non devono, non possono realizzare i nostri desideri, perché “se Dio li chiama a qualcosa di bello e di grande non siate voi la zavorra che impedisce loro di volare” (S. Ambrogio). Questa è la santità della famiglia.

“Tornarono quindi alla loro casa”. Ritorno alla santità, alla profezia dell’umile magistero quotidiano, che viene prima di quello del tempio. Alla famiglia, santa perché la vita e l’amore vi celebrano una festa, e ne fanno la più viva feritoia sull’infinito.

Simeone sapeva che non sarebbe morto prima d’aver visto il Messia, e queste parole sono anche per me. Io so che vedrò la salvezza che germina, sentirò angeli senza ali che annunciano la meraviglia di Dio. Lo capirò se sarò come Maria e Giuseppe, gente che si comporta secondo le regole ma che accoglie l’imprevisto, rassicurata dal rito e stupita dal profeta.

Dio si manifesta sempre tra luce e ombra, annunci e dubbi, miracolo e quotidiano, profezia di gioia e di spada. Come i due anziani che sanno aspettare, orientati a Dio come girasoli alla luce, vedendo ciò che altri non vedono. E in quel Bambino che passa amorosamente di braccio in braccio, Israele consola il suo Signore, conforta il senso di un Dio da sempre alla ricerca dell’uomo.

E’ iniziata l’offensiva divina, sul mondo. Ma anche per te, Maria, ci sarà la spada, non sei esente. La fede non produce l’anestesia del vivere, la santità non è l’assicurazione contro la sofferenza. Sentirai tutto il dolore del mondo: ti legherà a tanti, a tutti i trafitti, quel dolore che non chiede spiegazioni, ma condivisione.

Ma tutto questo sarà dopo; intanto, per ora, piccolo Gesù nato per me, lascia che io ti stringa fra le braccia come Simeone, e stringendo con te, anche la Divina Presenza. Abbracciando te, le dita di Dio mi sfiorano anche me, e allora, con lo sguardo, la carezza, o l’ascolto, lasciami pregare ancora per bocca di con Simeone, per dire ai miei fratelli: “Dio mi salva attraverso te, salvezza che mi cammina a fianco”.

 

Avvenire

Santa Famiglia 2020 Lc

 

Portarono il Bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore.  Una giovanissima coppia e un neonato che portano la povera offerta dei poveri: due tortore, e la più preziosa offerta del mondo: un bambino.

Vengono nella casa del Signore e sulla soglia è il Signore che viene loro incontro attraverso due creature intrise di vita e di Spirito, due anziani, Simeone e Anna, occhi stanchi per la vecchiaia e giovani per il desiderio: la vecchiaia del mondo accoglie fra le sue braccia l’eterna giovinezza di Dio.

E la liturgia che si compie, in quel cortile aperto a tutti, è naturale e semplice, naturale e perciò divina: Simeone prende in braccio Gesù e benedice Dio. Compie un gesto sacerdotale, una autentica liturgia, possibile a tutti. Un anziano, diventato onda di speranza, una laica sotto l’ala dello Spirito benedicono Dio e il figlio di Dio: la benedizione non è un ufficio d’élites, ma esubero di gioia che ciascuno può offrire a Dio (R. Virgili). Anche Maria e Giuseppe sono benedetti, tutta la famiglia viene avvolta da un velo di luce per la benedizione e la profezia di quella coppia di anziani laici, profeti e sacerdoti a un tempo: la benedizione e la profezia non sono riservate ad una categoria sacra, abitano nel cortile aperto a tutti.

Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia. Parole che sono per me e per te: io non morirò senza aver visto l’offensiva di Dio, l’offensiva della luce già in atto dovunque, l’offensiva mite e possente del lievito e del granello di senape.

Poi Simeone dice tre parole immense su Gesù: egli è qui come caduta, risurrezione, come segno di contraddizione.

Gesù come caduta. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, rovina del nostro mondo di maschere e bugie, della vita insufficiente e malata. Venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a portare spada e fuoco per tagliare e bruciare ciò che è contro l’umano.

Egli è qui per la risurrezione: è la forza che ti fa rialzare quando credi che per te è finita, che ti fa partire anche se hai il vuoto dentro e il nero davanti agli occhi. È qui e assicura che vivere è l’infinita pazienza di ricominciare.

Cristo contraddizione del nostro illusorio equilibrio tra il dare e l’avere; che contraddice tutta la mia mediocrità, tutte le mie idee sbagliate su Dio.

Caduta, risurrezione contraddizione. Tre parole che danno respiro e movimento alla vita, con dentro il luminoso potere di far vedere che tutte le cose sono ormai abitate da un oltre.

La figura di Anna chiude il grande affresco. Una donna profeta! Un’altra, oltre ad Elisabetta e Maria, capaci di incantarsi davanti a un neonato perché sentono Dio come futuro.

OMBRA LUMINOSA ABBRACCIO INVISIBILE

dom 20 dicembre – IV di avvento

Tra un soffio di giorni è Natale. 

Un Natale speciale in cui, se vogliamo, possiamo abbandonare ogni zavorra; la liturgia allora ci prende per mano e ci accompagna, additando colei che, povera di ogni cosa, ha vissuto come nessuno l’attesa di Dio, il quale entra nel mondo dal basso, scegliendo la via spiazzante della periferia.

La storia esce da se stessa e si ricentra su un altro cardine, nella ferialità della casa. Qualcosa di colossale accade lontano dal tempio, nell’umile quotidiano. 

Come nella Messa il sublime confina con una tovaglia, un calice e un pane, così nella casa l’immenso si insinua nelle piccole e silenziose sfumature della vita.

L’angelo si rivolge a Maria con tre parole assolute: gioisci, non temere, verrà la Vita, e lei risponde come chi ha saputo creare un’oasi, allenandosi all’arte dell’ascolto e dello stupore, denso di domande.

Sii felice Maria, perché, lo sai, la felicità viene dai volti; anche Giuseppe ti fa felice, ma ora il volto dei volti ha posto in te il suo cuore, e gli altri sono solo frammenti di Lui; Dio è con te con quell’abbraccio di cui quelli sulla terra sono solo parabole, solo nostalgia. 

Sii felice Maria, perché ti ama teneramente, gratuitamente, per sempre.

In principio è lieta notizia, la seconda parola ne svela il senso: sei piena di grazia. Un termine mai risuonato prima, che turba la giovane Maria. 

Sei riempita del Dio che di te si è innamorato; si è dato a te e tu ne trabocchi. 

Dolcemente, liberamente, senza rimpianti amata; l’angelo fa eco all’antica parola: il Signore è con te.

In questa mia vita inadeguata, distratta e invasa, il Signore è con me.

Sono stato con te dovunque sei andato! 

Parole che nessuno potrà mai dirmi, per quanto mi ami; nessuno può dirmi “ero con te sempre!” Nessuno lo sarà mai, dovunque io andrò. 

Nessuno nei passi che ho perduto, nessuno in quelli che ho ritrovato. Dio solo.

Darai alla luce un Figlio, un Figlio che sarà di Dio. La risposta di Maria non è ‘sì’, ma una limpida domanda posta davanti a Lui con tutta la dignità umana, dignità di donna. 

Matura e intelligente vuole capire per quali vie si colmerà la distanza tra lei e l’affresco che l’angelo le dipinge addosso; e quindi scegliere se accettarne il mistero.

Mentre Zaccaria domandava all’angelo un segno, Maria domanda il senso.

E appare lo stile di Dio: ti coprirà, ti affiancherà con la sua ombra. 

Non troverai l’Altissimo negli abbagli delle visioni, ma nell’anfora luminosa della vita tua.

Solo la madre sapeva che era figlio di un annuncio, del seme che sta nella voce di un angelo (E. De Luca).

È necessario molto silenzio per sentire lo stupefatto silenzio di Dio. 

Solo allora il ‘sì’ è libero, creativo, potente e profetico: eccomi, sono qui.

La sua ultima parola rivela il vero nome dell’uomo: eccomi! 

E Dio vivrà per il nostro amore. Un amore che è stato scelto. 

Lc 1,26-38

P. Ermes Maria Ronchi

III di Avvento B

Gv 1,6-8/19-28

AL DI LA’ DEL CONFINE

(di p. Ermes Ronchi)

Tu, chi sei? Chiedono a Giovanni. “Io sono voce”, trasparenza di qualcosa che viene da oltre, eco di parole che vengono da prima, che andranno dopo di me. La mia voce grida, ma la parola non è mia.

Giovanni ha trovato la sua identità, ma in un Altro.

Che cosa dici di te stesso? E ogni maschera crolla: io non sono ciò che gli altri credono di me, io non sono il mio ruolo, e nemmeno i miei errori. Non sono ciò che appaio, il mio segreto è addirittura oltre me.

Giovanni ci fa strada nell’Avvento perché ci rivela chi siamo, ci rivela che vale più accendere una lampada che maledire mille volte la notte, e che c’è ovunque un avvio di luce.

Come lui anch’io sono grido, bisogno, fame. Ma quando un sacerdote parla, passiamo oltre le sue parole, lui è solo una eco. Dire “io sono voce”, equivale a dire “sono persona”, sono l’uomo dalle albe così dense di tenebra che però guarda alla luce del Dio di Isaia, che copre col suo manto, che scalda i cuori affranti, che va in cerca dei prigionieri per rimetterli su strade dritte, nel sole.

Io sono profeta per il fatto stesso che vivo, lo è ogni vivente. Con tutte le realtà che sbaglio e non capisco, con tutto il mio bagaglio umano, nonostante me, io e te possiamo testimoniare che esiste un presagio di bene e bellezza, da sempre più antico, più profondo, più originale di ogni male. Il mondo non è nato su di un moralismo, giudicante e sterile, ma sulla primogenitura del bene; nella Bibbia in principio Dio grida: “sia la luce!”

Giovanni, il figlio del sacerdote, lascia tempio e ruolo e torna alla frontiera del Giordano e al deserto, là dove tutto ha avuto inizio. Da quel confine, alle tre domande, egli annulla se stesso, e per tre volte risponde: io non sono.

Per dire chi siamo, per definirci, noi siamo soliti elencare informazioni, titoli di studio, ruoli e realizzazioni. Giovanni il Battista sceglie di fare esattamente il contrario, con risposte sapienti, infinite, straordinarie; risposte che sconfinano al di là delle convenzioni, che scavalcano comodi schemi e lo definiscono solo per sottrazione: io non sono il Cristo, nemmeno i suoi sandali riesco a toccare, non sono Elia, non sono…

Egli lascia cadere ad una ad una identità prestigiose ma fittizie, per tornare al nucleo ardente della propria vita. Ciò che qualifica ogni persona è quella parte di divino che sfronda apparenze e illusioni, sfida maschere e paure della propria vecchia identità.

Poco importa ciò che ho accumulato, conta quello che ho lasciato per tornare all’essenziale, uno con Dio, lungo la sua strada dritta.

Io desidero una voce che mi dica, nel deserto dei rumori, chi sono veramente.

Guardo Giovanni e capisco che solo Dio ha la risposta, ed è stupenda: Voi siete luce! Luce del mondo. Dopo il profeta del Giordano  è più bello per tutti, essere uomini. Uomini in piedi.

 

Avvenire III AVVENTO 2020

Venne Giovanni mandato da Dio, venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce. A una cosa sola: alla luce, all’amica luce che per ore e ore accarezza le cose, e non si stanca. Non quella infinita, lontana luce che abita nei cieli dei cieli, ma quella ordinaria, luce di terra, che illumina ogni uomo e ogni storia.

Giovanni è il “martire” della luce, testimone che l’avvicinarsi di Dio trasfigura, è come una manciata di luce gettata in faccia al mondo, non per abbagliare, ma per risvegliare le forme, i colori  e la bellezza delle cose, per allargare l’orizzonte.

Testimone che la pietra angolare su cui poggia la storia non è il peccato ma la grazia, non il fango ma un raggio di sole, che non cede mai.

Ad ogni credente è affidata la stessa profezia del Battista: annunciare non il degrado, lo sfascio, il marcio che ci minaccia, ma occhi che vedono Dio camminare in mezzo a noi, sandali da pellegrino e cuore di luce: in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete.

Sacerdoti e leviti sono scesi da Gerusalemme al Giordano, una commissione d’inchiesta istituzionale, venuta non per capire ma per  coglierlo in fallo: Tu chi credi di essere? Elia? Il profeta che tutti aspettano? Chi sei? Perché battezzi? Sei domande sempre più incalzanti. Ad esse Giovanni risponde “no”, per tre volte, lo fa con risposte sempre più brevi: anziché replicare “io sono” preferisce dire “io non sono”. Si toglie di dosso immagini gratificanti, prestigiose, che forse sono perfino pronti a riconoscergli.

Locuste, miele selvatico, una pelle di cammello, quell’uomo roccioso e selvatico, di poche parole, non vanta nessun merito, è l’esatto contrario di un pallone gonfiato, come capita così di frequente sulle nostre scene. Risponde non per addizione di meriti, titoli, competenze, ma per sottrazione: e ci indica così il cammino verso l’essenziale. Non si è profeti per accumulo, ma per spoliazione.

Io sono voce, parlo parole non mie, che vengono da prima di me, che vanno oltre me. Testimone di un altro sole. La mia identità sta dalle parti di Dio, dalle parti delle mie sorgenti. Se Dio non è, io non sono, vivo di ogni parola che esce dalla sua bocca.

La voce rigorosa del profeta ci denuda: Io non sono il mio ruolo o la mia immagine. Non sono ciò che gli altri dicono di me. Ciò che mi fa umano è il divino in me; lo specifico dell’umanità è la divinità. La vita viene da un Altro, scorre nella persona, come acqua nel letto di un ruscello. Io non sono quell’acqua, ma senza di essa io non sono più.

«Chi sei tu?» Io cerco l’elemosina di una voce che mi dica chi sono veramente. Un giorno Gesù darà la risposta, e sarà la più bella: Voi siete luce! Luce del mondo.

Fb 22 novembre 2020

XXXIV domenica

TOCCO IL POVERO E SFIORO IL CIELO

di p.Ermes Ronchi

Matteo dipinge una scena potente e drammatica, che siamo soliti chiamare il giudizio universale, ma che sarebbe più esatto definire “la rivelazione della verità ultima, sull’uomo e sulla vita”.

Padre nostro sei nei cieli, noi preghiamo, ma i cieli del Padre sono i suoi figli. Il povero è il cielo di Dio. Quando la tua mano tocca un povero dalla vita piagata, le tue dita sfiorano il cielo di Dio.

Perché il Signore sta nel posto dove noi non vorremmo mai essere, nell’ultimo, all’ombra delle retrovie; in coloro che incarnano non i tuoi sogni, ma le tue paure, i tuoi dolori.

Venite, benedetti: nel cielo di Dio entreremo solo passando attraverso quella creatura dall’odore acre, dagli occhi dai mille colori come le mille sfumature della povertà.

Matteo elenca sei opere, vaste quant’è vasto il campo del dolore umano. legata sempre a doppio nodo alla solitudine.

Una cosa mi affascina del vangelo: argomento del giudizio su di me, saranno solo le cose buone, non la mia fragilità colma di paure. Matteo elenca sei opere buone, ma vaste quanto è vasto il dolore umano.

L’umiltà del bisogno è così importante che Dio vi ha legato la salvezza, stretta a un po’ di pane per il viaggio, un bicchiere d’acqua, un vestito donato, ai passi di una visita, a un po’ di coraggio per oggi e per domani. Non alle cose, ma al cuore detto dalle cose.

Se guardi il povero, ti senti naufragare. Perché ti obbliga a confrontarti con le cose estreme, con la vita a rischio; entra nel tuo orizzonte come una metafora vivente di fallimento e di morte. Ma è anche maestro di fede perché incarna l’evidenza che l’uomo vive solo perché custodito da altri, che esiste solo perché accolto; solo se accolto.

Misura dell’uomo e di Dio, senso della storia è il bene. Davanti a Lui non temo la debolezza, ho paura solo delle mie mani vuote.

La verità ultima dice anche che è possibile fallire la vita: Andatevene da me, maledetti.  Gli allontanati, che male hanno commesso?

Non quello di aggiungere male a male; il loro peccato è ben più grave, è non aver fatto niente. Non basta limitarsi a non fare del male alle persone. Si uccide anche in silenzio, restando alla finestra. Non impegnarsi per il bene comune, contro la fame e l’ingiustizia, lo stare a guardare, è farsi complici della corruzione, legittimare il peccato sociale, lasciare campo libero alle mafie. Il vero peccato di oggi, dice papa Francesco, è la “globalizzazione dell’indifferenza”.

Esigente bellezza di questo Vangelo.

Ora è il tempo in cui prendersi cura, ed è così importante e, in fondo, così facile… Il nostro cielo, il nostro avvenire, è quel bene che io e te doneremo al povero, all’invisibile, all’ultimo. Il nostro futuro non si attende, come una sentenza, ma si genera!

Se c’è qualcosa di eterno, se qualcosa di noi rimarrà, questa cosa è solo l’amore, perché oltre l’uomo non c’è nulla, tantomeno il Regno di Dio.

 

 

Avvenire XXXIII A

Una scena potente, drammatica, quel “il giudizio universale” che in realtà è lo svelamento della verità ultima del vivere, rivelazione di ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore.

Il vangelo risponde alla più seria delle domande: che cosa hai fatto di tuo fratello? Lo fa elencando sei opere, ma poi sconfina: ciò che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me! Straordinario: Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da arrivare a identificarsi con loro: l’avete fatto a me! Il povero è come Dio, corpo e carne di Dio. Il cielo dove il Padre abita sono i suoi figli.

Evidenzio tre parole del brano:

La fede non si riduce però a compiere buone azioni, deve restare scandalosa: il povero come Dio! Un Dio innamorato che ripete su ogni figlio il canto esultante di Adamo: “Veramente tu sei carne della mia carne, respiro del mio respiro, corpo del mio corpo”.

Poi ci sono quelli mandati via. La loro colpa? Hanno scelto la lontananza: lontano da me, voi che siete stati lontani dai fratelli. Non hanno fatto del male ai poveri, non li hanno umiliati, semplicemente non hanno fatto nulla. Indifferenti, lontani, cuori assenti che non sanno né piangere né abbracciare, vivi e già morti (C. Péguy).

Fb 15 novembre 2020  (p.Ermes Ronchi)

Mt 25, 14-30

IL MIO UNICO TALENTO

Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, consegnò ai servi i suoi beni.

Dio ci consegna qualcosa con poche istruzioni per l’uso, e tanta libertà. Ci consegna il mondo, e poi esce di scena.

Un volto di Dio che ci innalza a con-creatori con l’unica regola di Adamo nell’Eden: ‘coltiva e custodisci’ il giardino dove sei posto, cioè ama e moltiplica la vita. Tu, sacerdote di quella che è la liturgia primordiale del mondo.

Ecco due visioni opposte dell’esistenza: la vita, e i suoi talenti, come opportunità; oppure la vita come un lungo tribunale, pieno di rischi e paure.

I primi due servi vedono la vita come possibilità felice, e Dio li sorprende raddoppiando la posta: sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto. Non di una restituzione si tratta, ma di un rilancio.

L’ultimo non ci prova neppure, paralizzato dalla paura di uscirne sconfitto. Non ha capito che, affidandogli il suo talento, il padrone vuole insegnargli la fiducia, opportunità che lui seppellisce.

Su tutto incombe la paura del castigo, e il dono si trasforma in incubo. Il servo ha paura di Dio! Ne ha un’immagine orribile: tu mieti dove non hai seminato… Si sbaglia su Dio e tutta la vita è sballata; diviene schiavo della sua stessa paura, Adamo senza più giardino.

Noi non viviamo per restituire a Dio i suoi doni, il padrone non ha bisogno di quei talenti affidati, immagine distorta che lo immiserisce. Non c’è un capitalismo della quantità, e chi consegna dieci talenti non è più bravo di chi ne rende quattro. Dopo la lunga e fiduciosa assenza di Dio, il giudizio non guarderà alla bilancia della quantità di guadagno, ma a quella della qualità del servizio. Una pedagogia gioiosa della vita.

La parabola dei talenti è il poema della creatività senza retorica. Nessuno dei tre servi crede di dover salvare il mondo. Tutto invece sa di casa, di vite e di olivi, o, come nella prima lettura, di lana, di fusi, di lavoro e di attesa: fedele nel poco, nel piccolo.

Il mondo e la vita mi affidano un pezzetto di giardino incompiuto, mio talento che deve fiorire. Una spirale di vita crescente che è legge divina, pena il non senso della vita stessa.

Un giorno non mi sarà chiesto perché non sono stato Mosè o Elia o uno dei profeti, ma dovrò rendere conto se sono stato o meno me stesso, servo fedele ed emozionato della vita, camminando avvolto dai doni di Dio.

Nessuno è senza talenti, è la legge della creazione; ogni creatura è talento per gli altri, e poterlo dichiarare a qualcuno ci fa entrare, con passo creatore, nella liturgia dei viventi.

Non ci sono dieci talenti ideali da raggiungere: è sufficiente la fedeltà a ciò che ho ricevuto, a ciò che so fare, là dove la vita mi ha messo. Fedele alla mia verità, proverò a coltivarla e a gustarla, senza maschere né paure.

 

AVVENIRE

XXXIII domenica (Mt 25, 14-30)

C’è un signore orientale, ricchissimo e generoso, che parte in viaggio e affida il suo patrimonio ai servi. Non cerca un consulente finanziario, chiama i suoi di casa, si affida alle loro capacità, crede in loro, ha fede e un progetto, quello di farli salire di condizione: da dipendenti a con-partecipi, da servi a figli. Con due ci riesce. Con il terzo non ce la fa.

Al momento del ritorno e del rendiconto, la sorpresa raddoppia: Bene, servo buono! Bene! Eco del grido gioioso della Genesi, quando per sei volte, “vide ciò che aveva fatto ed ewsclamò: che bello!” E la settima volta: ma è bellissimo!

I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: ti darò potere su molto, entra nella gioia del tuo signore. In una dimensione nuova, quella di chi partecipa alla energia della creazione, e là dove è passato rimane dietro di lui più vita.

L’ho sentito anch’io questo invito: “entra nella gioia”. Quando, scrivendo o predicando il vangelo, il lampeggiare di uno stupore improvviso, di un brivido nell’anima, l’esperienza di essere incantato io per primo da una grande bellezza, mi faceva star bene, io per primo. Oppure quando ho potuto consegnare a qualcuno una boccata d’ossigeno o di pane, ho sentito che ero io a respirare meglio, più libero, più a fondo. “Sii egoista, fai del bene! Lo farai prima di tutto a te stesso”.

E poi è il turno del terzo servo, quello che ha paura. La prima di tutte le paure, la madre di tutte, è la paura di Dio: so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso…ho avuto paura.

Questa immagine distorta di un Dio duro, che ti sta addosso, il fiato sul collo, è lontanissima dal Dio di Gesù. E sotto l’effetto di questa immagine sbagliata, la vita diventa sbagliata, il luogo di un esame temuto, di una mietitura che incombe.

Se nutri quell’idolo, se credi a un dio padrone duro e spietato, allora lo incontrerai come maschera delle tue paure, come fantasma maligno; e il dono diventa, come per il terzo servo, un incubo: ecco ciò che è tuo, prendilo.

Se credi a un Signore che offre tutto e non chiede indietro nulla, che crede in noi e ci affida tesori, follemente generoso, che intorno a sé non vuole dipendenti e rendiconti, ma figli, allora entri nella gioia di moltiplicare con lui la vita.

Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, del granello di senape, del bocciolo, di talenti da far fruttare, di inizi piccoli e potenti. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Siamo tutti sacerdoti di quella che è la liturgia primordiale del mondo.

Dio è la primavera del cosmo, a noi di esserne l’estate profumata di frutti.

Fb 8 novembre 2020

Mt 25, 1-13 – XXXII domenica

p.Ermes Ronchi

 

Lampada ai miei passi

E’ bello questo racconto, è bello un Regno simile a dieci ragazze che sfidano la notte, armate solo di un po’ di luce, di quasi niente. Dieci piccole luci nel buio, gente coraggiosa che si mette per strada e osa sfidare la notte e il ritardo del sogno; e che ha l’attesa nel cuore, perché aspetta qualcuno, un po’ d’amore dalla vita, lo splendore di un abbraccio in fondo alla nebbia.

Nel dettaglio cinque ragazze sono sagge, sono custodi di luce perché vedono lontano, vedono oltre; cinque sono stolte, hanno una vita vuota e superficiale, presto spenta.

E qui cominciano i problemi. Tutti i protagonisti fanno brutta figura: lo sposo con il suo ritardo esagerato che mette in crisi tutte le ragazze; le cinque stolte che non hanno pensato all’olio di riserva; le sagge che si rifiutano di condividere; e quello che chiude la porta della casa in festa, cosa che è contro l’usanza, perché tutto il paese partecipava all’evento delle nozze.

Gesù usa tutte le incongruenze possibili per provocare e rendere attento l’uditorio.

Il punto di svolta del racconto è un grido. Che rivela non tanto la mancata vigilanza (tutte si addormentano, sagge e stolte, tutte ugualmente stanche) ma lo spegnersi delle torce: “dateci un po’ del vostro olio perché le nostre lampade si spengono, perché senza luce non è vita”.

La risposta è lapidaria: no, perché non venga a mancare a tutte. Andate a comprarlo.

Tutto sembra oscurare l’atmosfera gioiosa della festa, ma il senso profondo di queste parole è un richiamo alla responsabilità: un altro non può amare al posto mio, essere buono o onesto al posto mio, desiderare Dio per me. Se io non sono protagonista di me stesso, chi lo sarà?

Una parabola difficile che si chiude con un esito duro: “Non vi (ri)conosco!”, e non potrebbe essere diversamente, perché lui è luce, luce pura, e gli spenti non sa chi siano.

Parabola esigente e consolante.

Gesù non spiega che cosa sia l’olio delle lampade. Sappiamo però che ha a che fare con la luce e col fuoco: in fondo, è saper bruciare per qualcosa o per Qualcuno. Saper bruciare per un’attesa.

L’alternativa centrale è tra vivere accesi o vivere spenti.

Tutte si addormentano, ed è la nostra storia: tutti ci siamo stancati, forse abbiamo mollato.

Dio non ci coglie in flagrante, è una voce che ci scuote, ogni volta, anche nel buio più fitto, per mille strade intricate e, nel momento più nero, qualcosa, ci ha risvegliato.

La nostra vera forza sta nella certezza che la voce di Dio verrà. È in quella voce, che non mancherà; che riuscirà a ridestare da tutti gli sconforti; che mi rialza dicendo che di me non è stanca, che mi sostiene nella paura; che disegna un mondo colmo di incontri e di luci.

A me basterà avere un cuore in ascolto, ravvivarlo come una lampada e uscire correndo, incontro al suo abbraccio.

 

Avvenire XXXII A

Matteo 25,1-13

Nessuno dei protagonisti della parabola fa una bella figura: lo sposo con il suo ritardo esagerato mette in crisi tutte le ragazze; le cinque stolte non hanno pensato a un po’ d’olio di riserva; le sagge si rifiutano di aiutare le compagne; il padrone chiude la porta di casa, cosa che non si faceva, perché tutto il paese partecipava alle nozze, entrava e usciva dalla casa in festa. Eppure è bello questo racconto, mi piace l’affermazione che il Regno di Dio è simile a dieci ragazze che sfidano la notte, armate solo di un po’ di luce. Di quasi niente. Per andare incontro a qualcuno. Il Regno dei cieli, il mondo come Dio lo sogna, è simile a chi va incontro, è simile a dieci piccole luci nella notte, a gente coraggiosa che si mette per strada e osa sfidare il buio e il ritardo del sogno; e che ha l’attesa nel cuore, perché aspetta qualcuno, “uno sposo”, un po’ d’amore dalla vita, lo splendore di un abbraccio in fondo alla notte. Ci crede. Ma qui cominciano i problemi. «Tutte si addormentarono», le stolte e le sagge. Perché la fatica del vivere, la fatica di bucare le notti, ci ha portato tutti a momenti di abbandono, a sonnolenza, forse a mollare. La parabola allora ci conforta: verrà sempre una voce a risvegliarci, Dio è un risvegliatore di vite. Non importa se ti addormenti, se sei stanco, se l’attesa è lunga e la fede sembra appassire. Verrà una voce, verrà nel colmo della notte, proprio quando ti parrà di non farcela più, e allora “non temere, perché sarà Lui a varcare l’abisso” (D. M. Turoldo). Il punto di svolta del racconto non è la veglia mancata (si addormentano tutte, tutte ugualmente stanche) ma l’olio delle lampade che finisce. Alla fine la parabola è tutta in questa alternativa: una vita spenta, una vita accesa. Tuttavia lo scatto in alto, l’inatteso del racconto è quella voce nel buio della mezzanotte, capace di risvegliare alla vita. Io non sono la forza della mia volontà, non sono la mia capacità si resistere al sonno, io ho tanta forza quanta ne ha quella Voce, che, anche se tarda, di certo verrà, a ridestare la vita da tutti gli sconforti, a consolarmi dicendo che di me non è stanca, a disegnare un mondo colmo di incontri e di luci. A me serve un piccolo vaso d’olio. Il vangelo non dice in che cosa consista quell’olio misterioso. Forse è quell’ansia, quel coraggio che mi porta fuori, incontro agli altri, anche se è notte. La voglia di varcare distanze, rompere solitudini, inventare comunioni. E di credere alla festa: perché dal momento che mi mette in vita Dio mi invita alle nozze con lui. Il Regno è un olio di festa: credere che in fondo ad ogni notte ti attende un abbraccio.

Fb 1 novembre 2020

Tutti i santi

Mt 5, 1-12a

Nuvola di canto

Non ci stancheremo mai di assaporare le nove beatitudini, da Gandhi definite “le parole più alte che l’umanità abbia ascoltato”.

Collante tra le feste dei santi e dei defunti, esse dipingono nove tratti del volto di Cristo e dell’uomo, disegnando creature amanti del cielo e custodi della terra, sedotte dall’eterno eppure innamorate di questo tempo bello e difficile: i santi.

La storia si aggrappa ai santi per non ritornare indietro, e si stringe alle beatitudini, che ogni volta ci disarmano nello stupore.

Non c’è prova o garanzia per queste affermazioni, sono una nuvola di canto che seduce e riaccende una nostalgia prepotente di bontà, di sincerità, di limpidezza e di giustizia. Un tutt’altro modo di essere vivi.

Le beatitudini ci assicurano che i misteriosi legislatori del mondo sono i giusti, che i tessitori segreti del meglio sono i poveri. Se le accogli, la loro logica ti cambia il cuore, sull’onda di Dio che ha un debole per i deboli, che incomincia dalle periferie fragili, nella storia di ogni tempo.

Per capire qualcosa della parola “beati” osservo come essa ricorra già nel primo dei 150 salmi, aprendo l’intero salterio: “Beato l’uomo che non resta nella via dei peccatori, che cammina sulla via giusta”. E nel salmo dei pellegrini: “Beato l’uomo che ha la strada nel cuore” (Sl 84,6).

Dire beati è dichiarare: “In piedi voi che piangete; avanti voi, i poveri! I vostri diritti non sono diritti poveri, Dio cammina con voi, fascia il vostro cuore, asciuga le lacrime e le raccoglie nei suoi otri”. Dio conosce solo uomini in cammino.

Nelle beatitudini la santità evoca vicende nostre, tesse trame su situazioni comuni, fatiche, speranze, lacrime e gioie. Il nostro pane quotidiano.

Sono detti beati i poveri, non la povertà. Beati gli uomini, non le situazioni. Beati quelli che sono nel pianto, perché hanno Dio dalla loro parte. Sempre.

È la beatitudine più paradossale: felice chi non è felice. Ma non perché la felicità sia nel piangere, ma perché un angelo misterioso annuncia: “Il Signore è con te”, nel riflesso più profondo delle tue lacrime.

Beati i misericordiosi: sono gli unici che troveranno ciò che hanno già, la misericordia. Essa è qualcosa da portare con sé, bagaglio per il viaggio eterno, sigillo d’eternità posto su tutta la lunghezza del tempo.

Fra quelle nove parole ce n’è una scritta, proclamata proprio per me, il mio cielo da individuare e realizzare per farmi più uomo, una misura che contiene la mia missione nella vita. Su di essa sono chiamato a fare il mio percorso, per un mondo che ha bisogno di stelle e di storie di bene che contrastino le storie di male; di cuori puri e liberi che si occupino della felicità di qualcuno; nella mitezza, nella misericordia, nella giustizia, nella pace. E Dio si occuperà della loro: “Beati voi!”

 

 

Avvenire Matteo 5,1-12

Beato l’uomo, prima parola del primo salmo. Cui fa eco la prima parola del primo discorso di Gesù, sulla montagna: Beati i poveri.

Cosa significa ‘beato’, questo termine un po’ desueto e scolorito? La mente corre subito a sinonimi quali: felice, contento, fortunato. Ma il termine non può essere compresso solo nel mondo delle emozioni, impoverito a uno stato d’animo aleatorio. Indica invece uno stato di vita, consolida la certezza più umana che abbiamo e che tutti ci compone in unità: l’aspirazione alla gioia, all’amore, alla vita.

Beati, ed è come dire: in piedi, in cammino, avanti, voi poveri (A. Chouraqui), Dio cammina con voi;

su, a schiena dritta, non arrendetevi, voi non violenti, siete il futuro della terra; coraggio, alzati e getta via il mantello del lutto, tu che piangi;

non lasciarti cadere le braccia, tu che produci amore.

Profondità alla quale non arriverò mai, vangelo che continua a stupirmi e a sfuggirmi, eppure da salvare a tutti i costi; nostalgia prepotente di un mondo fatto di pace e sincerità, di giustizia e cuori puri, un tutt’altro modo di essere vivi. Le beatitudini non sono un precetto in più o un nuovo comandamento, ma la bella notizia che Dio regala gioia a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno, il Padre si farà carico della sua felicità.

Vostro è il regno: Il Regno è dei poveri perché il Re si è fatto povero. La terra è dei miti perché il potente si è fatto mite e umile. A questa terra, imbevuta di sangue (il sangue di tuo fratello grida a me dal suolo), pianeta di tombe, chi regala futuro? Chi è più armato, più forte, più spietato? O non invece il tessitore di pace, il non violento, il misericordioso, chi si prende cura?

La seconda dice: Beati quelli che sono nel pianto. La beatitudini più paradossale: lacrime e felicità mescolate assieme, ma non perché Dio ami il dolore, ma nel dolore egli è con te. Un angelo misterioso annuncia a chiunque piange: il Signore è con te. Dio è con te, nel riflesso più profondo delle tue lacrime per moltiplicare il coraggio; in ogni tempesta è al tuo fianco, forza della tua forza, argine alle tue paure. Come per i discepoli colti di notte dalla burrasca sul lago, Lui è lì nella forza dei rematori che non si arrendono, nelle braccia salde sulla barra del timone, negli occhi della vedetta che cercano l’aurora.

Gesù annuncia un Dio che non è imparziale, ha le mani impigliate nel folto della vita, ha un debole per i deboli, incomincia dagli ultimi della fila, dai sotterranei della storia, ha scelto gli scarti del mondo per creare con loro una storia che non avanzi per le vittorie dei più forti, ma per semine di giustizia e per raccolti di pace.

Consolidi in noi la certezza più umana che abbiamo e che tutti ci compone in unità: l’aspirazione alla vita, alla gioia, all’amore. Buona Pentecoste a tutti nel nome dello Spirito

Molta paura, spirito diverso, meno eroici. Domenica sostituita dalla bellissima incoraggiante solennità. Liberiamo i santi, tiriamoli giù dalle nicchie

Aspirazione che tutti ci compone in unità è la sete di beatitudine.

che ci fa Le 8 Beatitudini sono il cuore del Vangelo e al cuore del Vangelo c’è un Dio che si prende cura della gioia dell’uomo.

Come si fa ad essere felici? Gesù dà la sua risposta. Come al solito, inattesa, controcorrente, che lascia senza fiato: felici i poveri,  i miti, i giusti, gli operatori di pace, i puri, quelli che perdonano.

E quando le ascoltiamo in chiesa ci sembrano giuste e vere, poi usciamo, e ci accorgiamo che per abitare la terra, questo mondo aggressivo e duro, ci siamo scelti il manifesto più difficile, incredibile, stravolgente e contromano che l’uomo possa pensare. Beati i poveri, quelli che sono nel pianto, i perseguitati, gli ostinati a proporsi la giustizia, quelli che perdonano sempre.

La prima dice: beati voi poveri. E ci saremmo aspettati: beati voi perché ci sarà un capovolgimento, perché diventerete ricchi.  No. Il progetto di Dio è più profondo e vasto. Beati voi poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell’altro mondo! Beati, perché c’è più Dio in voi. Beati perché voi e non i ricchi custodite la speranza di tutti.

In questo mondo dove si fronteggiano nazioni ricche fino al superfluo e popoli poverissimi, chi custodisce la speranza della terra? Gli uomini più ricchi e di successo o non invece gli uomini più giusti, gli affamati di giustizia per sé e per gli altri?

A questa storia che si nutre del sangue dei suoi figli chi regala speranza?

Se le accogli la loro logica ti cambia il cuore, e può cambiare il mondo.

Dio è dalla parte di chi piange ma non dalla parte del dolore! è con i poveri contro la povertà. Perché il mondo cambia se io cambio, il mondo si fa nuovo se io divento nuova creatura. Siano allora le Beatitudini del Signore un seme di luce sul viaggio verso un cuore nuovo.

: “In piedi voi che piangete, avanti, Dio cammina con voi! Asciuga lacrime, fascia il cuore, apre il futuro”.

E’ al tuo fianco come colui che dà forza alla tua forza! Un angelo misterioso annuncia a chi ha paura: “Non temere!”

Se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore. Lo cambia sulla misura di quello di

Non le capiamo del tutto, sono perfino contro la logica, eppure hanno conquistato la nostra fiducia, le sentiamo amiche. Gesù rivolge queste parole amiche a coloro cui fa male la vita, che conoscono bene il sapore delle lacrime.

Non contengono solo la cronaca del presente, ma anche il futuro, come attesa e profezia: il futuro buono dell’umanità non sono i ricchi o i vincenti, ma i giusti e costruttori di pace. il mondo, che non avanza per

Le otto Beatitudini sono il ritratto di Gesù, raccontano la sua vita: si è fatto povero da ricco che era, mite, pacifico, affamato di giustizia, con occhi tanto puri e limpidi da vedere tracce di Dio dovunque e da vedere segni di bontà dentro qualsiasi peccatore.

Perseguitato e misericordioso, perseguitato e crocifisso ma poi, è il Risorto, il Regno è suo, eredita la terra, sa vedere Dio in te.

Beati i Poveri: infatti abbiamo raggiunto il dominio delle cose e le cose ritornano fra le nostre mani avvelenate da noi, inquinate

Le Beatitudini sono la nostra annunciazione: “non temere Dio è con te”. Si incarna in te quando sei povero, quando sei mite, quando sei puro, quando piangi, quando costruisci pace e misericordia e giustizia.

Ma chi di noi preferisce essere nascostamente puro, mite, povero, giusto, anziché pubblicamente: prestigioso, stimato, ricco? E’ un capovolgimento radicale di valori che non concede mezze misure, che non lascia sottili distinguo: o Gesù ha sbagliato o ci sbagliamo noi e il nostro mondo.

Gli uomini delle Beatitudini sono la benedizione di Dio per la Storia, perché se c’è un’amicizia per l’uomo che è preso dentro la logica suicida della guerra non è il più forte, il più armato o il più violento che la offre, ma il costruttore di pace . Se c’è amicizia per i calpestati della vita, che non trovano chi gli renda giustizia, è in chi ha fame di giustizia che risiede. Se c’è amicizia pulita perfino per il ricco e il potente, non è tra i suoi pari che dimora, ma solo nel povero che non vuole competere, che non vuole accumulare, ma solo condividere. E se c’è un’amicizia per me cercatore di Dio, per noi cercatori d’amore, io la troverò solo presso i puri di cuore, presso chi ha il cuore bambino e senza inganno.

Chi non vorrebbe avere accanto a sé un mite, un uomo pacificante, un cuore puro, un perdonante? Il fascino delle Beatitudini viene dalla riserva di speranza che le abita, dalla tensione fra presente e futuro, dal segno pasquale di Risurrezione che sta nel loro intimo.

E infine l’ultima nota Beati i misericordiosi! Sono loro gli unici che nel futuro troveranno ciò che hanno già: troveranno misericordia. La misericordia è qualcosa che si porta con sé per sempre, bagaglio per il viaggio eterno, equipaggiamento per il lungo esodo, sigillo d’eternità già impresso nella lunga migrazione verso la vita.

“Signore, io non ho il coraggio delle Beatitudini da deporre davanti a te oggi, ho solo questi vuoti misteriosi della mia vita: povertà, mancanza di pace, uno sguardo non puro sulle cose… ma ho la mia sete di beatitudine, che è il cuore della mia coscienza, il mio cuore incompiuto, che Tu, solo Tu, riempirai di speranza”.

Potremmo allora dire così: “In cammino voi poveri, in cammino gli affamati di adesso, in cammino i piangenti di adesso, in cammino perfino quando vi odiano, in cammino sulla stessa strada che ha percorso Cristo, perché un altro mondo è possibile. È il Regno che entra in noi molto prima che si compia, è il futuro che entra in noi come un seme di fuoco che diventerà roveto”

Perché il mondo cambia se io cambio, il mondo si fa nuovo se io divento nuova creatura. Siano allora le Beatitudini del Signore un seme di luce sul viaggio verso il nostro cuore nuovo.

.Preghiera

Beati voi poveri, che avete il cuore al di là delle cose;

Beati voi che sapete piangere,

Dio ricomporrà ogni lacerazione, asciugherà ogni lacrima;

Beati voi che non usate armi,

solo voi conquisterete il cuore degli uomini,

solo voi darete sicurezza alla terra;

Beati voi che avete fame di giusti rapporti con tutte le cose,

a voi Dio darà in risposta la grande armonia con tutto ciò che vive;

Beati voi che guardate tutti con amore e che scusate tutti,

sarete amati e scusati sempre;

Beati voi che siete capaci di audacia che il mondo non conosce;

Beati gli operai silenziosi della pace, i tessitori del meglio segreto;

Beati gli ostinati a proporsi la giustizia;

Beati i poveri nel segreto di sé;

Beati coloro che donano;

Beate le mani nude dei miti;

Beati quanti hanno compreso la logica di Dio,

che si impossessa di te ma poi ti fa libero come nessuno saprà mai,

che ti fa spoglio eppure ricco,

apparentemente battuto e invece protagonista, con occhi così chiari da affascinare. E allora Dio trasparirà dal fondo della tua anima. Amen

È un Vangelo che ogni volta ci fa pensosi e ci lascia disarmati. Non c’è prova o garanzia per queste affermazioni, sono come una nuvola di canto che seduce e riaccende la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di sincerità, di giustizia. Un tutt’altro modo di essere uomini.

Hanno, in qualche modo, conquistato la nostra fiducia: le sentiamo vere e affidabili, difficili eppure amiche. Non sanciscono nuovi precetti, ma sono l’annuncio gioioso che Dio  regala vita a chi produce amore. Che se uno si fa carico della felicità di qualcuno, il Padre si fa carico della sua felicità.

Ci assicurano che il senso della vita è, e non può che essere, una ricerca di felicità. Che i misteriosi legislatori del mondo sono i giusti, che i tessitori segreti del meglio sono i poveri.

Se accogli le beatitudini, la loro logica ti cambia il cuore, sulla misura di quello di Dio. Che non è imparziale, ha un debole per i deboli, incomincia dalle periferie della storia, ha scelto ciò che nel mondo è povero e malato per cambiare radicalmente il mondo, per fare una storia che avanzi non per le vittorie della forza, ma per seminagioni di giustizia e raccolti di pace.

Sono detti beati i poveri, non la povertà. Sono beati gli uomini, non le situazioni. Dio è con i poveri contro la povertà. Beati quelli che sono nel pianto: Dio è dalla parte di chi piange, ma non dalla parte del dolore. È la beatitudine più paradossale: felice chi non è felice. Ma non perché la felicità si trovi nel piangere, ma perché accade una cosa nuova: «In piedi, voi che piangete, avanti: Dio cammina con voi, asciuga lacrime, fascia il cuore, apre futuro». Un angelo misterioso annuncia a chiunque piange: «Il Signore è con te».

Dio è con te, nel riflesso più profondo delle tue lacrime, per moltiplicare il coraggio. Nella tempesta è al tuo fianco, forza della tua forza. Come per i discepoli, colti di notte dalla burrasca sul lago: lui è lì, nella forza dei rematori che non si arrendono, nelle braccia salde del timoniere, negli occhi della vedetta che scruta la riva e cerca l’aurora.

Beati i misericordiosi: sono gli unici che nel futuro troveranno ciò che hanno già, la misericordia. Essa è qualcosa che si porta con sé per sempre, bagaglio per il viaggio eterno, equipaggiamento e sigillo d’eternità posto su tutta la lunghezza del tempo.

Davanti al vangelo delle beatitudini provo ogni volta la paura di rovinarlo con le mie parole: so di non averlo ancora capito, continua a stupirmi e a sfuggirmi.

“Sono le parole più alte del pensiero umano”(Gandhi), parole di cui non vedi il fondo. Ti fanno pensoso e disarmato, riaccendono la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di sincerità, di giustizia.

Le sentiamo difficili eppure amiche: perché non stabiliscono nuovi comandamenti, sono invece la bella notizia che Dio regala gioia a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.

Beati: parola che mi assicura che il senso della vita è nel suo intimo, nel suo nucleo ultimo, ricerca di felicità; la felicità è nel progetto di Dio; Gesù ha moltiplicato la capacità di star bene!

Beati voi, poveri! Non beata la povertà, ma le persone: i poveri senza aggettivi, tutti quelli che l’ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza.

La parola ‘povero’ contiene ogni uomo. Povero sono io quando ho bisogno d’altri per vivere, non basto a me stesso, mi affido, chiedo perdono, vivo perché accolto.

Ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, perché diventerete ricchi.  No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato.

Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell’altro mondo! Beati, perché è con voi che Dio cambierà la storia, non con i potenti. Avete il cuore al di là delle cose: c’è più Dio in voi, siete come anfore che possono contenere pezzi di cielo e di futuro.

Beati voi che piangete. Beati non perché Dio ama il dolore, ma perché è con voi contro il dolore; è più vicino a chi ha il cuore ferito. Un angelo misterioso annuncia a chi piange: il Signore è con te, è nel riflesso più profondo delle tue lacrime, per moltiplicare il coraggio, per farsi argine al pianto, forza della tua forza.

Dio naviga in un fiume di lacrime (Turoldo): non ti salva dalle lacrime, ma nelle lacrime; non ti protegge dal pianto, ma dentro il pianto. Per farti navigare avanti.

Guai a voi ricchi: state sbagliando strada. Il mondo non sarà reso migliore da chi accumula denaro; le cose sono tiranne, imprigionano il pensiero e gli affetti (ho visto gente con case bellissime vivere solo per la casa) Diceva Madre Teresa: ciò che non serve, pesa! E la felicità non viene dal possesso, ma dai volti

Se le accogli le Beatitudini possono cambiare il mondo

 

p. Ermes Ronchi

Fb 18 ottobre 2020 XIX domenica

Il profilo di Dio su di me

Una trappola malvagia, costruita ad arte: “È lecito pagare il tributo ai romani?”. Con qualsiasi risposta, Gesù avrebbe rischiato la spada di Roma o il pugnale degli Zeloti, ma non cade nel tranello: ipocriti, li chiama, attori, la vostra vita è solo una recita per essere notati.

Siamo nell’area sacra del tempio, dove non entra nessuna effigie umana, neppure sulle monete. Ecco allora i cambiavalute, all’ingresso. I farisei devoti, invece, tengono stretta la moneta dell’imperatore Tiberio, facendo propria la legge del denaro, e non quella della Torah. Commedianti smascherati.

L’iscrizione nella moneta romana recitava: divo Caesari, al divino Cesare, appartiene. Gesù scinde di netto le parole, Cesare non è Dio. L’iscrizione indicava anche che quell’oro apparteneva all’imperatore, e non chi l’aveva in mano.

È lecito pagare? Gesù cambia il verbo, da pagare e rendere: questa moneta è di Cesare, non potete che restituirla; a Cesare vadano pure le cose, lui non ha diritti sulla coscienza della gente, ma rendete a Dio ciò che è suo, cioè le persone.

Nulla di ciò che hai è davvero tuo, tutto è dono, da prima di te, e va oltre te. Un tessuto di debiti è la tua vita; paga il debito d’amore, benessere, salute, diritti. Vita va, vita viene. Da altri a te, da te ad altri in un circuito aperto, poiché, da sempre, tu esisti solo se sei in alleanza.

Restituite a Dio è la parola che dice a Cesare: non prendere mai l’uomo, lui è cosa di Dio.

Ma chi è Cesare? E’ lo Stato, il potere, con il suo pantheon di facce note? E io non sono parte di questa società? Allora spetta a me dare qualcosa. Cosa faccio per rammendare questo nostro paese dove ho il privilegio di esistere? Restituire a Cesare di cui mi fido poco? Al Cesare che ruba? Sì, ma al modo di Gesù. E se Cesare sbaglia, il mio tributo sarà correggerlo; gli porterò quello della coscienza, per ricordargli i suoi doveri.

Sii libero e opposto ad ogni tentazione di possesso, e ripeti ad ogni Cesare: io non appartengo a te, ma a Dio.

Io, che sono talento con l’effigie sua, devo restituire l’integro me stesso, facendo brillare l’immagine coniata in me.

Proclama le sue opere meravigliose, non quelle di Cesare. Non vivere senza mistero, senza lo stupore di essere vivo. Sii creatura che ha Dio nel sangue.

Siamo talenti d’oro offerti per il bene, siamo nel mondo monete pure che portano incisa l’iscrizione di Dio.

Ad ogni potere umano Gesù ricorda: non violare l’uomo, non manipolarlo né umiliarlo, è prodigio che ha il Creatore nel respiro, è creatura che Lui ha fatto di poco inferiore a un Dio.

A ciascuno di noi Gesù ricorda: resta libero da ogni impero, da ogni tentazione di venderti o lasciarti possedere, e fai la tua parte con me, per Cesare e per tutti.

 

Avvenire XXIX   A  Mt 22, 15-22

Vengono da Gesù e gli pongono una domanda cattiva, di quelle che scatenano odi, che creano nemici: E’ lecito o no pagare le tasse a Roma?

Sono partigiani di Erode, il mezzosangue idumeo re fantoccio di Roma; insieme ci sono i farisei, i puri che sognano una teocrazia sotto la legge di Mosè. Non si sopportano tra loro, ma oggi si alleano contro un nemico comune: il giovane rabbi di cui temono le idee e di cui vogliono stroncare la carriera di predicatore.

La trappola è ben congegnata: scegli: o con noi o contro di noi! Pagare o no le tasse all’impero?

Gesù risponde con un doppio cambio di prospettiva. Il primo: sostituisce il verbo pagare con il verbo restituire: restituite, rendete a Cesare ciò che è di Cesare.

Restituite, un imperativo forte, che coinvolge ben più di qualche moneta, che deve dare forma all’intera vita: ridate indietro, a Cesare e a Dio, alla società e alla famiglia, agli altri e alla casa comune, qualcosa in cambio di ciò che avete ricevuto.

Noi tutti siamo impigliati in un tessuto di doni. Viviamo del dono di una ospitalità cosmica. Il debito di esistere, il debito grande di vivere si paga solo restituendo molto alla vita.

Rendete a Cesare. Ma chi è Cesare? Lo Stato, il potere politico, con il suo pantheon di facce molto note e poco amate? No, Cesare indica molto più di questo. Oso pensare che il vero nome di Cesare oggi, che la mia controparte sia non solo la società, ma il bene comune: terra e poveri, aria e acqua, clima e creature, l’unica arca di Noè su cui tutti siamo imbarcati, e non ce n’è un’altra di riserva. Il più serio problema del pianeta. Hai ricevuto molto, ora non depredare, non avvelenare, non mutilare madre terra, ma prenditene cura a tua volta.

Il secondo cambio di paradigma: Cesare non è Dio. Gesù toglie a Cesare la pretesa divina.  Restituite a Dio quello che è di Dio: di Dio è l’uomo, fatto di poco inferiore agli angeli (salmo 8) e al tempo stesso poco più che un alito di vento (salmo 44), uno stoppino fumante, ma che tu non spegnerai. Sulla mia mano porto inciso: io appartengo al mio Signore (Isaia 44,5).

Sono parole che giungono come un decreto di libertà: tu non appartieni a nessun potere, resta libero da tutti, ribelle ad ogni tentazione di lasciarti asservire, sei il custode della libertà (Eb 3,6).

Su ogni potere umano si stende il comando: non mettere le mani sull’uomo. L’uomo è il limite invalicabile: non ti appartiene, non violarlo, non umiliarlo, non abusarlo, ha il Creatore nel sangue e nel respiro.

Cosa restituirò a Dio? Il respirare con lui, la triplice cura: di me, del mondo e degli altri, e lo stupore che tutto è “un dono di luce, avvolto in bende di luce” (Rab’ia).

Fb 11 ottobre 2020

Mt 22, 1-14

(p.Ermes Ronchi)

 

C’è, in città, una grande festa: si sposa il figlio del re. Ma nessun invitato sembra interessato, almeno tra quelli che possiedono terreni, buoi e botteghe.

È la fotografia del fallimento del re.

Come mai nessuno risponde e la festa finisce nel sangue, nel fuoco?

È la storia di Gesù, e della sua terra.

Tutto comincia non con un obbligo, ma con un invito, che rivela una libertà immensa e drammatica, per noi ma anche per Dio. L’uomo è il rischio di Dio, perché il Dio della sala vuota, delle chiese tristi, del pane e del vino che nessuno vuole e nessuno cerca, è debole di fronte a noi. Eppure invita: non alla fatica della vigna, ma a nozze in pienezza, al piacere di vivere. Ma se ne andarono al proprio campo o agli affari. Gli invitati vivono per le cose, non hanno tempo per la gioia, fermi all’esterno di se stessi.

Il re non si scoraggia, è disposto ad accogliere gente inadatta, sbagliata o cattiva. Per la terza volta i servi escono per le strade, chiesa in uscita, a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, gente di nessuna importanza, ma che abbia fame di vita e di festa. E noi che pensavamo a fianco di Dio solo i buoni, i puri: “e la sala si riempì!”

La prima immagine è quella di una sala preparata per la festa, la seconda è la strada: la libertà delle scelte. Di quelli che seguono una logica mercantile e contabile, troppo impegnati per vivere.

La terza immagine è l’abito nuziale. Di cosa è simbolo quell’abito migliore? Di una vita senza macchie? No. Indica il meglio di noi: è quello della Donna dell’Apocalisse vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sul capo le stelle, che indossa il guardaroba di Dio, l’abito da festa del creato che è la luce, il primo di tutti i segni.

La parabola inizia con una reggia senza canti, con una sala vuota, e termina con un dramma: gettatelo fuori.

E’ possibile fallire la vita.

L’uomo che verrà cacciato non è peggiore degli altri, ma è spento dentro. Non gode della festa perché non ci crede a un Dio di festa. Quel re non è credibile: non è possibile avere a palazzo straccioni e vagabondi! Ha la mentalità di quelli che non avevano tempo, è lì, ma è altrove. È il dramma dell’uomo che si è sbagliato su Dio, che non immagina un Regno fatto di festa e convivialità.

Ancora dentro questi nostri giorni dolenti e splendidi Dio rinnova i suoi inviti, a dirci che l’eternità non è in un altro orologio, che questo tempo è già un attimo di infinito. Ora, con Dio.

L’invito è convertire l’economia delle cose in quella delle persone, a prenderci del tempo per l’incontro, per gli amici, per Dio che pensiamo lontano e invece è dentro la sala della vita, la sala del mondo, una scala di luce posata sul cuore che sale verso lui.

 

Avvenire XXVIII domenica

Festa grande, in città: si sposa il figlio del re.

Succede però che gli invitati, persone serie, piedi per terra, cominciano ad accampare delle scuse: hanno degli impegni, degli affari da concludere, non hanno tempo per cose di poco conto: un banchetto, feste, affetti, volti.

L’idolo della quantità ha chiesto che gli fosse sacrificata la qualità della vita. Perché il succo della parabola è questo: Dio è come uno che organizza una festa, la migliore delle feste, e ti invita, e mette sul piatto le condizioni per una vita buona, bella e gioiosa. Tutto il vangelo è l’affermazione che la vita è e non può che essere una continua ricerca della felicità, e Gesù ne possiede la chiave.

Ma nessuno viene alla festa, la sala è vuota. La reazione del re è dura, ma anche splendida: invia i servitori a certificare il fallimento dei primi, e poi a cercare per i crocicchi, dietro le siepi, nelle periferie, uomini e donne di nessuna importanza, basta che abbiano fame di vita e di festa.

Se i cuori e le case degli invitati si chiudono, il Signore apre incontri altrove. Come ha dato la sua vigna ad altri viticoltori, nella parabola di domenica scorsa, così darà il banchetto ad altri affamati.

I servi partono con un ordine illogico e favoloso: tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze. Tutti, senza badare a meriti o a formalità. Non chiede niente, dona tutto.

È bello questo Dio che, quando è rifiutato, anziché abbassare le attese, le innalza: chiamate tutti! Lui apre, allarga, gioca al rilancio, va più lontano. E dai molti invitati passa a tutti invitati, dalle persone importanti della città passa agli ultimi della fila: fateli entrare tutti, cattivi e buoni. Addirittura prima i cattivi e poi i buoni… Sala piena, scandalo per il mio cuore fariseo.

E quando scende nella calca festosa della sala, è l’immagine di un Dio che entra nel cuore della vita. Noi lo pensiamo lontano, separato, assiso sul suo trono di giudice, e invece è dentro questa sala del mondo, qui con noi, come uno cui sta a cuore la mia gioia, e se ne prende cura.

Ed ecco il secondo snodo del racconto: un invitato non indossa l’abito delle nozze. E lo fa buttare fuori. Che pretesa! Ha invitato mendicanti e straccioni e si meraviglia che uno sia messo male. Ma l’abito nuziale non è quello indossato sulla pelle, è un vestito nel cuore. È un cuore non spento, che si accende, che sogna la festa della vita, che desidera credere, perché credere è una festa.

Anch’io sono quello che sono, l’abito un po’ rattoppato, un po’ consumato o scucito. Ma il cuore, quello no: ho fame e sete, e desiderio che tornino presto la gioia e la festa nelle nostre case. Sono un mendicante di cielo.

 

p. Ermes Ronchi

Fb 4 ottobre 2020

Domenica XXVII – Mt 21,33-43

La resa dei conti

Vigna d’uva selvatica in Isaia, vendemmia di sangue in Matteo: è la domenica delle delusioni di Dio.

La parabola intona il canto dell’amore deluso, con la speranza però di una passione che non si arrende, che prende nuovi sviluppi, che non è mai a corto di meraviglie, che dopo ogni rifiuto fa ripartire l’assedio al cuore con nuovi profeti, nuovi servitori, addirittura con il proprio Figlio.

Isaia e Matteo raccontano la cura minuziosa di chi ha piantato la vigna, l’ha cinta come un abbraccio, vi ha scavato un tino, eretto una torre, e poi l’ha affidata alle cure d’altri: e inizia una storia perenne di amore e tradimento.

L’uomo dei campi, il nostro Dio contadino, guarda la sua vigna con gli occhi dell’amante che la circonda di cure: che cosa potevo fare di più per te che io non abbia fatto?

Canto d’amore di un Dio appassionato e triste, che continua a fare per me ciò che nessuno farà mai.

Da un lato la nobiltà d’animo del padrone, dall’altro la brutalità sciocca e violenta dei vignaioli. Eppure il tradimento dell’uomo non ferma il piano di Dio: la vigna darà frutto e lui non sprecherà la sua eternità in vendette.

Nelle vigne è stagione di vendemmia. Campo e passione di Dio è la mia vita, il cui scopo è di essere feconda, il cui rischio è l’inutilità. Ma in noi la raccolta avviene ogni giorno, il grande Vendemmiatore passa ed è nelle persone che cercano pane, conforto, vangelo, giustizia, amore. Viene in coloro che talvolta ci domandano un po’ di coraggio per continuare a vivere. Che cosa gli daremo? Un vino di festa o uva acerba?

E se il Regno sarà dato ad un altro, allora inizierà da capo la conta della speranza, più forte della delusione. Così è il nostro Dio: in Lui il lamento non prevale mai sulla promessa. E il mosto di domani conta più del rifiuto di ieri. Il bene possibile e sperato vale più della sconfitta patita. Patto d’amore mirabile e terribile.

La parabola dell’amore deluso non si conclude con un fallimento né con una vendetta, perché tra Dio e l’uomo le sconfitte servono solo a far emergere di più l’amore.

È l’ultima meraviglia, vittoria e sigillo di un illogico sentimento.

La storia perenne di amore e tradimenti tra noi e Dio si concluderà con una nuova offerta: darà la vigna ad altri, la donerà a chi sa fare i frutti buoni che Isaia enumera: aspettavo giustizia, attendevo rettitudine, non più grida di oppressi, non più sangue. Il frutto che il Padrone attende è il volto dei suoi figli non più umiliato.

Il sogno di Dio non è il tributo finalmente pagato, non la pena scontata o i conti in pareggio, ma una vigna rigogliosa dai grappoli gonfi di futuro, profezia di un vino di festa. Lui sogna una storia che non sia guerra di possessi e battaglia di potere, ma sia vendemmia di giustizia e pace, acini di Dio fra noi.

Avvenire XXVII A 2020

Gesù amava le vigne: le ha raccontate, per sei volte, come parabole del regno; vi ha letto un simbolo forte e dolce (io sono la vite e voi i tralci, Gv 15,5); al Padre ha dato nome e figura di vignaiolo (io sono la vite vera e il Padre è l’agricoltore, Gv 15,1).

Ma oggi il vangelo racconta di una vendemmia di sangue. Una parabola dura, che vorremmo non aver ascoltato, cupa, con personaggi cattivi, feroci quasi, e questo perché la realtà attorno a Gesù si è fatta cattiva: sta parlando a chi prepara la sua morte.

L’orizzonte di amarezza e violenza verso cui cammina la parabola è già evidente nelle parole dei vignaioli, insensate e brutali: Costui è l’erede, venite, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!

Ma quale manuale di diritto civile hanno mai letto? È chiaro che non è il diritto ad ispirarli, ma quella forza primordiale e brutale, originaria e stupida, che in noi sussurra: devi sopraffare l’altro, occupa il suo posto, e allora avrai il suo campo, la sua casa, la sua donna, i suoi soldi.

Quanto è diverso Dio, che ricomincia, dopo ogni tradimento, a mandare ancora servitori, altri profeti, infine suo Figlio; che non è mai a corto di sorprese e di speranza: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto? Io, noi siamo vigna e delusione di Dio, e lui, contadino appassionato, continua a fare per me ciò che nessuno farà mai. Fino alla svolta del racconto: alla fine, che cosa farà il signore della vigna? La soluzione proposta dai capi del popolo è tragica: uccidere ancora, far fuori i vignaioli disonesti, sistemare le cose mettendo in campo un di più di violenza. Vendetta, morte, il fuoco dal cielo. Ma non succederà così. Questo non è il volto, ma la maschera di Dio.

Infatti Gesù introduce la novità propria del Vangelo: la storia di amore e tradimenti tra uomo e Dio non si concluderà con un fallimento, ma con una vigna viva e una ripartenza fiduciosa: Perciò io vi dico: il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.

Trovo in queste parole un grande conforto: sento che i miei dubbi, i miei peccati, le mie sterilità non bloccano la storia di Dio; quel suo sogno di buon vino comunque avanza, niente lo arresta. La vigna darà il suo frutto, perché c’è ancora chi saprà difenderla e farla fruttificare. Ci sono, stanno sorgendo, nascono dovunque, e lui sa vederli, vignaioli bravi che custodiscono la vigna anziché depredarla, che servono l’umanità anziché servirsene. I custodi della fecondità. Nella vigna di Dio è il bene che revoca il male. La vendemmia di domani sarà più importante del tradimento di ieri. I grappoli gonfi di succo e di sole riscatteranno anche la sterilità di questi nostri inverni in ansia di luce.

 

p. Ermes Ronchi

Fb 16 agosto XX

LA CONVERSIONE DI DIO

Pochi personaggi nel Vangelo sono simpatici come lei: non prega per sé, ha fantasia, non si arrende ai silenzi e al rifiuto, e intuisce sotto il no di Gesù tutta l’impazienza del sì.

La straniera delle briciole. Colei che sa con quale strumento si cambia la vita: l’incontro.

Lei spera che a Dio interessi la felicità dei suoi figli, e non la loro fedeltà. Che una ragazzina fenicia abbia la priorità sul culto e sulle leggi dei leviti, e su tutte le formule di fede. Spera che il diritto supremo davanti a Dio sia dato dal grido, e non dalla razza o dalla religione. Diritto che sia dei giudei come dei fenici, dei credenti e dei pagani, sotto il cielo di Tiro come quello di Nazaret.

Crede che gloria di Dio è l’uomo vivente.

Grandezza di una fede che supera. Che vola, fiera e dritta, ad altezza d’occhi.

Anche i discepoli intervengono: rispondile, così ci lascia in pace. Ma Gesù è netto, è brusco: sono stato mandato solo per quelli della mia terra!

La donna non molla. Aiutami! Gesù replica in modo ancora più ruvido: non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani; i pagani, dai giudei, erano chiamati “cani”.

Ed ecco il genio femminile che lo asseconda mentre lo cambia: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole cadute dalla tavola dei padroni.

Questa madre sembra dire, provocatoria: non puoi fare briciole di miracolo, briciole di segni, per questi “cani pagani”?

È la svolta del dialogo, è la frase che cambia tutto. Questa immagine illumina un attonito Gesù che cresce nella fede, che cambia e perfeziona la sua missione: nel regno di Dio, non ci sono figli e non, uomini e cani, ma solo fame da saziare, compresa quella di tutti i cuccioli del mondo.

Gesù impara Dio e l’uomo dall’intelligenza di una madre che non conosce Jahvè, che adora Baal e Astarte, che non ha il bagaglio di fede dei teologi, ma solo quello sacro del dolore.

Spiazzato, la dichiara donna di grande fede.

Oggi nel nostro presente di fame e festa, di vacanze e miseria, un fiume di donne cananee implora ancora aiuto per i propri cuccioli sfiniti.

Tante sulla terra le madri che, proprio adesso, a Tiro e Sidone, non sanno il credo ma sanno il cuore di Dio. Lo sanno da dentro. E chiedono briciole.

Immensa è allora la fede sul mondo, dentro e fuori la Chiesa.

E se il dolore impedirà di pregare, se sarà solo muta paura, Dio si farà vicino, pane per i figli, briciole per i cuccioli. Senza merito o demerito conterà le lacrime stanche di ognuno. Una ad una.

Da questo incontro fra stranieri di frontiera, brusco e rasserenante, emerge un sogno: il mondo come grande casa di pane, dove non ci sono noi e gli altri. Dove ognuno, come Gesù, impara da ognuno. E una corona di figli che di sotto la tavola saranno alzati sul candelabro, perché anch’essi siano luce della mensa comune.

Perchè tutti, tutti, sono noi.

 

dall’Avvenire

Matteo 18,21-35

«Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette», sempre: l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Gesù non alza l’asticella della morale, porta la bella notizia che l’amore di Dio non ha misura.

E lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore «allora, gettatosi a terra, lo supplicava…»

Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre.

Quando noi preghiamo: rimetti i nostri debiti, stiamo chiedendo: donaci la libertà, lasciaci per oggi e per domani tutta la libertà di volare, di amare, di generare.

Ma il servo perdonato «appena uscito»: non una settimana, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma «appena uscito», ancora stordito di gioia, appena liberato «preso per il collo il suo collega, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui condonato di milioni!

Nitida viene l’alternativa evangelica: non dovevi anche tu aver pietà ? Siamo posti davanti alla regola morale assoluta: anche tu come me, io come Dio… non orgoglio, ma massima responsabilità. Perché perdonare? Semplice: perché così fa Dio.

Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito. Quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché liberare dal debito, aggiungo una sbarra alla prigione. Penso di curare una ferita ferendo a mia volta. Come se il male potesse essere riparato, cicatrizzato mediante un altro male. Ma allora saranno non più una, ma due ferite a sanguinare. Il vangelo ci ricorda che noi siamo più grandi della storia che ci ha partorito e ferito, che possiamo avere un cuore di re, che siamo grandi quanto “il perdono che strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri il male subìto, rompe la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt).

Il tempo del perdono è il coraggio dell’anticipo: fallo senza aspettare che tutto si verifichi e sia a posto; è il coraggio degli inizi e delle ripartenze, perché il perdono non libera il passato, libera il futuro.

Poi l’esigenza finale: perdonare di cuore… San Francesco scrive a un guardiano che si lagnava dei suoi frati: farai vedere negli occhi il perdono. Non il perdono a stento, non quello a muso duro, ma quello che esce dagli occhi, dallo sguardo nuovo e buono, che ti cambia il modo di vedere la persona. E diventano occhi che ti custodiscono, dentro i quali ti senti a casa. Il perdonante ha gli occhi di Dio, colui che sa vedere primavere in boccio dentro i miei inverni.

 

p:Ermes Ronchi

Fb 13 settembre 2020

Il peso d’oro nel dolore del re

C’è un modo regale di stare nel mondo, un modo divino che risiede nella larghezza del cuore: sa perdonare chi è più grande e più forte.

Gesù lo spiega con la parabola dei due debitori.

Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come un bilancio di stato, un debito insolvibile. E il re ne sentì compassione. Un re che non è un campione del diritto, ma modello di pietà: sente come suo il dolore del servo.

Dolore che pesa più dell’oro.

In opposizione a quello regale ecco il cuore servile: appena uscito, quel servo (del denaro) trovò un altro uomo.

Appena uscito, appena visto quanto sia grande un cuore di re, con la fretta del tutto e subito, preso il suo compagno per il collo lo strangolava… Ridammi i miei dieci euro! Lui, perdonato di milioni.

Il servo non è ingiusto, è senza pietà. È onesto e al tempo stesso malvagio. Quanto è facile essere giusti e insensibili, onesti e spietati. Perché non basta essere giusti per essere uomini, giustizia e diritto da soli non faranno nuovo il mondo. Anzi, l’estrema giustizia, ridammi tutti i miei dieci euro, è la massima offesa all’uomo: lo strangolava…

Così anche per noi. Bravissimi a calare sul piatto i nostri diritti, abilissimi prestigiatori nel far scomparire i nostri doveri.

Gesù propone l’illogica pietà: non dovevi anche tu avere pietà di lui, come io ne ho avuta di te?

Perché avere pietà e in aggiunta perdonare?

Per immettere il suo divino disordine nell’equilibrio apparente del mondo. Perché niente vale quanto una vita, compresa la nostra. E allora occorre una dismisura, occorre imparare un eccesso di pietà.

Mentre l’uomo pensa per equivalenza, Dio pensa per eccedenza, e sull’eterna illusione dell’equilibrio tra dare e avere, fa prevalere l’umile grazia che nasce dalla compassione.

Questo è il mistero del perdonare: fare ciò che Dio fa, a sua immagine.

E’ il perdono di cuore. Difficilissimo. Comporta un atto di fede, non d’intelligenza. Verso l’uomo, e verso me stesso. Un atto di speranza e non di spontaneità, che guarda al domani e non a ieri.

Come fa Dio con me: mi perdona come colui che non ha tempo per il passato, lui deve sospingere avanti. Un liberatore che sprona, che lancia, che fa salpare ancora e di nuovo verso albe intatte. Lui è vento nelle vele, un supplemento d’energia, e perdona sospingendo verso il pieno fiorire, verso il futuro che non sai.

Perdonare significa – secondo l’etimologia del greco aphíemi – lasciare andare, liberare, troncare tentacoli e corde che annodano malignamente in una reciprocità di debiti, in un labirinto di legami.

Bellissimo questo stupore dell’illogico perdono, fino a settanta volte sette. Dio che mi assolve, che libera il futuro, non come uno smemorato che dimentica il male, ma con la casta follia della croce che si prende gioco della logica umana e anche delle mie morti quotidiane. Perché lui è l’Innamorato che vede già primavere dentro i miei inverni.

Dall’Avvenire

Matteo 18,21-35

«Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette», sempre: l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Gesù non alza l’asticella della morale, porta la bella notizia che l’amore di Dio non ha misura.

E lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore «allora, gettatosi a terra, lo supplicava…»

Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre.

Quando noi preghiamo: rimetti i nostri debiti, stiamo chiedendo: donaci la libertà, lasciaci per oggi e per domani tutta la libertà di volare, di amare, di generare.

Ma il servo perdonato «appena uscito»: non una settimana, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma «appena uscito», ancora stordito di gioia, appena liberato «preso per il collo il suo collega, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui condonato di milioni!

Nitida viene l’alternativa evangelica: non dovevi anche tu aver pietà ? Siamo posti davanti alla regola morale assoluta: anche tu come me, io come Dio… non orgoglio, ma massima responsabilità. Perché perdonare? Semplice: perché così fa Dio.

Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito. Quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché liberare dal debito, aggiungo una sbarra alla prigione. Penso di curare una ferita ferendo a mia volta. Come se il male potesse essere riparato, cicatrizzato mediante un altro male. Ma allora saranno non più una, ma due ferite a sanguinare. Il vangelo ci ricorda che noi siamo più grandi della storia che ci ha partorito e ferito, che possiamo avere un cuore di re, che siamo grandi quanto “il perdono che strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri il male subìto, rompe la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt).

Il tempo del perdono è il coraggio dell’anticipo: fallo senza aspettare che tutto si verifichi e sia a posto; è il coraggio degli inizi e delle ripartenze, perché il perdono non libera il passato, libera il futuro.

Poi l’esigenza finale: perdonare di cuore… San Francesco scrive a un guardiano che si lagnava dei suoi frati: farai vedere negli occhi il perdono. Non il perdono a stento, non quello a muso duro, ma quello che esce dagli occhi, dallo sguardo nuovo e buono, che ti cambia il modo di vedere la persona. E diventano occhi che ti custodiscono, dentro i quali ti senti a casa. Il perdonante ha gli occhi di Dio, colui che sa vedere primavere in boccio dentro i miei inverni.

 

p. Ermes Ronchi

Fb 27 settembre 2020 – domenica XXVI

Mt 21,28-32

Miele per tutti

Un uomo aveva due figli. Si potrebbe dire che aveva due cuori, perché quei due figli sono il nostro essere diviso tra il sì e il no, sono le contraddizioni di cui Paolo si lamenta: non mi capisco, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm 7,15.19).

Primo attore è il padre che cerca i figli, si fa vicino, chiede loro di lavorare nella vigna di casa, padre che al primo rifiuto non si deprime. C’è poi un figlio impulsivo, che prova subito un bisogno imperioso, vitale, di fronteggiarlo, di misurarsi con lui e contraddirlo. Non ha nulla di servile, è libero da sudditanze e da paure. L’altro figlio, che dice sì e non fa, è un immaturo cui basta apparire, cui non importano verità e coerenza, ma solo il giudizio degli altri.

In uno dei salmi più belli il cantore chiede: Signore, dammi un cuore integro, fa che non abbia due cuori in lotta tra loro (Sl 101).

È il contrasto eterno tra persona e personaggio: il primo figlio fa il personaggio, e così sono io: dico sì, uso il nome di Dio, e poi abbandono questa vigna di uve aspre che è il mondo. Il secondo figlio, che poi andrà, non importa se in segreto, a lavorare nella vigna di Dio e nostra, è invece persona.

Personaggio siamo noi quando agiamo per la scena, quando le azioni valgono solo se approvate dagli altri, burattini i cui fili sono tirati dall’apparire e dall’immagine. Persona invece siamo noi se coerenti in pubblico come in privato, di fronte o alle spalle, nel dire e nel fare.

La differenza decisiva tra i due ragazzi è che uno diventa figlio coinvolto, l’altro rimane servo esecutore di ordini.

Chi dei due ha fatto la volontà del padre? È il passaggio centrale: volontà del padre non è l’obbedienza, ma la vigna da coltivare in maturità e bellezza, trasformando una porzione di selva e rovi in vigneto, profezia di vino buono e di grappoli colmi di sole e di miele.

La scelta sta nell’avere una vita sterile oppure fruttuosa.

Una morale non del divieto, ma della fecondità, del seme che ostinatamente diventa creatura, della prostituta che ridiventa donna, del cuore che diventa uno, della porzione di deserto trasformato in vigna, del mio mondo in sogno di Dio.

Anche se non si vede, anche lavando i piedi di coloro che ci sono affidati, nel segreto della nostra casa, se agisci così fai vivere te stesso, dice Ezechiele, e sarai tu che ti farai del bene.

Gesù prosegue con parole dure ma consolanti: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno. Dura frase, che si rivolge dritta a noi, cristiani di facciata o di sostanza?

Ma Dio non rinchiude nessuno nei propri ergastoli passati, nessuno.

Allora anch’io mi convertirò non al Dio del dovere, ma della scelta in totale libertà. Con lui coltiveremo grappoli gonfi di mosto e di miele nel sole, per una grande vendemmia di vita.

 

Avvenire XXVI A Matteo 21, 28-32

Nei due figli, che dicono e subito si contraddicono, vedo raffigurato il mio cuore diviso, le contraddizioni che Paolo lamenta: non mi  capisco più, faccio il male che non vorrei, e il bene che vorrei non riesco a farlo (Rm7, 15.19), che Goethe riconosce: “ho in me, ah, due anime”.

A partire da qui, la parabola suggerisce la sua strada per la vita buona: il viaggio verso il cuore unificato. Invocato dal Salmo 86,11: Signore, tieni unito il mio cuore; indicato dalla Sapienza 1,1 come primo passo sulla via della saggezza: cercate il Signore con cuore semplice, un cuore non doppio, che non ha secondi fini. Dono da chiedere sempre: Signore, unifica il mio cuore; che io non abbia in me due cuori, in lotta tra loro, due desideri in guerra.

Se agisci così, assicura Ezechiele nella prima lettura, fai vivere te stesso, sei tu il primo che ne riceve vantaggio. Con ogni cura vigila il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita (Prov 4,23).

Il primo figlio si pentì e andò a lavorare. Di che cosa si pente? Di aver detto di no al padre? Letteralmente Matteo dice: si convertì, trasformò il suo modo di vedere le cose. Vede in modo nuovo la vigna, il padre, l’obbedienza. Non è più la vigna di suo padre è la nostra vigna. Il padre non è più il padrone cui sottomettersi o al quale sfuggire, ma il Coltivatore che lo chiama a collaborare per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. Adesso il suo cuore è unificato: per imposizione nessuno potrà mai lavorare bene o amare bene.

Al centro, la domanda di Gesù: chi ha compiuto la volontà del padre?

In che cosa consiste la sua volontà? Avere figli rispettosi e obbedienti? No, il suo sogno di padre è una casa abitata non da servi ossequienti, ma da figli liberi e adulti, alleati con lui per la maturazione del mondo, per la fecondità della terra.

La morale evangelica non è quella dell’obbedienza, ma quella della fecondità, dei frutti buoni, dei grappoli gonfi di mosto: volontà del Padre è che voi portiate molto frutto e il vostro frutto rimanga

A conclusione: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti. Dura frase, rivolta a noi, che a parole diciamo “sì”, che ci vantiamo credenti, ma siamo sterili di opere buone, cristiani di facciata e non di sostanza. Ma anche consolante, perché in Dio non c’è condanna, ma la promessa di una vita buona, per gli uni e per gli altri.

Dio ha fiducia sempre, in ogni uomo, nelle prostitute e anche in noi, nonostante i nostri errori e ritardi nel dire sì. Dio crede in noi, sempre. Allora posso anch’io cominciare la mia conversione verso un Dio che non è dovere, ma amore e libertà. Con lui matureremo grappoli, dolci di terra e di sole.

 

p. Ermes Ronchi

Fb 13 settembre 2020

p. Ermes Ronchi

 

Matteo 18,21-35

Il peso d’oro nel dolore del re

C’è un modo regale di stare nel mondo, un modo divino che risiede nella larghezza del cuore: sa perdonare chi è più grande e più forte.

Gesù lo spiega con la parabola dei due debitori.

Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come un bilancio di stato, un debito insolvibile. E il re ne sentì compassione. Un re che non è un campione del diritto, ma modello di pietà: sente come suo il dolore del servo.

Dolore che pesa più dell’oro.

In opposizione a quello regale ecco il cuore servile: appena uscito, quel servo (del denaro) trovò un altro uomo.

Appena uscito, appena visto quanto sia grande un cuore di re, con la fretta del tutto e subito, preso il suo compagno per il collo lo strangolava… Ridammi i miei dieci euro! Lui, perdonato di milioni.

Il servo non è ingiusto, è senza pietà. È onesto e al tempo stesso malvagio. Quanto è facile essere giusti e insensibili, onesti e spietati. Perché non basta essere giusti per essere uomini, giustizia e diritto da soli non faranno nuovo il mondo. Anzi, l’estrema giustizia, ridammi tutti i miei dieci euro, è la massima offesa all’uomo: lo strangolava…

Così anche per noi. Bravissimi a calare sul piatto i nostri diritti, abilissimi prestigiatori nel far scomparire i nostri doveri.

Gesù propone l’illogica pietà: non dovevi anche tu avere pietà di lui, come io ne ho avuta di te?

Perché avere pietà e in aggiunta perdonare?

Per immettere il suo divino disordine nell’equilibrio apparente del mondo. Perché niente vale quanto una vita, compresa la nostra. E allora occorre una dismisura, occorre imparare un eccesso di pietà.

Mentre l’uomo pensa per equivalenza, Dio pensa per eccedenza, e sull’eterna illusione dell’equilibrio tra dare e avere, fa prevalere l’umile grazia che nasce dalla compassione.

Questo è il mistero del perdonare: fare ciò che Dio fa, a sua immagine.

E’ il perdono di cuore. Difficilissimo. Comporta un atto di fede, non d’intelligenza. Verso l’uomo, e verso me stesso. Un atto di speranza e non di spontaneità, che guarda al domani e non a ieri.

Come fa Dio con me: mi perdona come colui che non ha tempo per il passato, lui deve sospingere avanti. Un liberatore che sprona, che lancia, che fa salpare ancora e di nuovo verso albe intatte. Lui è vento nelle vele, un supplemento d’energia, e perdona sospingendo verso il pieno fiorire, verso il futuro che non sai.

Perdonare significa – secondo l’etimologia del greco aphíemi – lasciare andare, liberare, troncare tentacoli e corde che annodano malignamente in una reciprocità di debiti, in un labirinto di legami.

Bellissimo questo stupore dell’illogico perdono, fino a settanta volte sette. Dio che mi assolve, che libera il futuro, non come uno smemorato che dimentica il male, ma con la casta follia della croce che si prende gioco della logica umana e anche delle mie morti quotidiane. Perché lui è l’Innamorato che vede già primavere dentro i miei inverni.

 

AVVENIRE

Matteo 18,21-35

«Non fino a sette, ma fino a settanta volte sette», sempre: l’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Gesù non alza l’asticella della morale, porta la bella notizia che l’amore di Dio non ha misura.

E lo racconta con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore «allora, gettatosi a terra, lo supplicava…»

Il debito, ai tempi di Gesù, era una cosa durissima, chi non riusciva a pagare diventava schiavo per sempre.

Quando noi preghiamo: rimetti i nostri debiti, stiamo chiedendo: donaci la libertà, lasciaci per oggi e per domani tutta la libertà di volare, di amare, di generare.

Ma il servo perdonato «appena uscito»: non una settimana, non il giorno dopo, non un’ora dopo, ma «appena uscito», ancora stordito di gioia, appena liberato «preso per il collo il suo collega, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui condonato di milioni!

Nitida viene l’alternativa evangelica: non dovevi anche tu aver pietà ? Siamo posti davanti alla regola morale assoluta: anche tu come me, io come Dio… non orgoglio, ma massima responsabilità. Perché perdonare? Semplice: perché così fa Dio.

Il perdono è scandaloso perché chiede la conversione non a chi ha commesso il male, ma a chi l’ha subito. Quando, di fronte a un’offesa, penso di riscuotere il mio debito con una contro offesa, non faccio altro che alzare il livello del dolore e della violenza. Anziché liberare dal debito, aggiungo una sbarra alla prigione. Penso di curare una ferita ferendo a mia volta. Come se il male potesse essere riparato, cicatrizzato mediante un altro male. Ma allora saranno non più una, ma due ferite a sanguinare. Il vangelo ci ricorda che noi siamo più grandi della storia che ci ha partorito e ferito, che possiamo avere un cuore di re, che siamo grandi quanto “il perdono che strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri il male subìto, rompe la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio” (Hanna Arendt).

Il tempo del perdono è il coraggio dell’anticipo: fallo senza aspettare che tutto si verifichi e sia a posto; è il coraggio degli inizi e delle ripartenze, perché il perdono non libera il passato, libera il futuro.

Poi l’esigenza finale: perdonare di cuore… San Francesco scrive a un guardiano che si lagnava dei suoi frati: farai vedere negli occhi il perdono. Non il perdono a stento, non quello a muso duro, ma quello che esce dagli occhi, dallo sguardo nuovo e buono, che ti cambia il modo di vedere la persona. E diventano occhi che ti custodiscono, dentro i quali ti senti a casa. Il perdonante ha gli occhi di Dio, colui che sa vedere primavere in boccio dentro i miei inverni.

 

 

Fb 6 settembre 2020

LEGARE SCIOGLIENDO, SCIOGLIERE LEGANDO

Mai senza l’altro.

Voce di Ezechiele: ti ho fatto sentinella, custode, eco per i tuoi fratelli. Voce di Paolo: avete un solo debito, quello dell’amore reciproco.

In una società competitiva, il cristiano è un custode, un riconoscente intercessore di altri. Non è un pretendente, ma è debitamente grato al suo prossimo.
In una società dove l’uomo è solo un essere sociale, al credente questo non basta, per lui Dio è seminato nei solchi stessi dell’umanità.

Quando due o tre si guardano con verità, lì c’è Dio. Quando gli amanti si dichiarano: tu sei la mia vita, sei ossa delle mie ossa, lì c’è Dio, nodo dell’amore, legame saldo e incandescente. Quando l’amico paga all’amico il debito dell’affetto, lì c’è Cristo, l’uomo perfetto, fine ultimo della storia, energia per ripartire verso il fratello, che se commette una colpa, tu vai, esci, prendi il sentiero e bussi alla sua porta. Forte della tua pienezza.

Il perdono non consiste in un dovere, ma in una decisione. Non nasce come evento improvviso, ma come percorso, e il suo scandalo, che va contro i nostri istinti, sta nel fatto che è la vittima a dover convertirsi, non colui che ha offeso.

Tu non lasciare che l’offesa subita occupi la scena, non abbassarti di fronte al male, che diventerebbe più forte, ma fai il primo passo, riapri tu per primo il dialogo. È il modo giusto per esserne liberati.

E puoi fare di più: intervenire nella vita dell’altro toccandolo nell’intimo, non grazie ad un ruolo o una presunta verità, ma perché dentro te si è incarnata la parola fratello, come afferma Gesù.

Solo se porti peso e gioia dell’altro, sei autorizzato ad ammonire. Se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello, perché solo la fraternità, legittima il dialogo. Non quella politica, in cui si misurano le forze, ma quella evangelica, in cui si misurano le sincerità.

Dio è l’autostrada che ci porta gli uni verso gli altri. Accetterò la tua verità purché si sposi con la tenerezza (E. Pound).

Il Vangelo sempre ci chiama a pensare in termini di “noi”. Non nell’illusione dei grandi numeri, ma lontano dal palco, iniziando dalla più piccola comunità: io-tu. Nel cuore della vita.

Ciò che scioglierete avrà libertà per sempre, ciò che legherete avrà comunione per sempre. E’ un crescendo fino al culmine: dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro.

Non nell’io, non nel tu, il Signore onniabbracciante tra me e te, nel legame.

Dio è lì.

Ma a cosa serve la presenza di Cristo? Che cosa genera?

E’ la forza che convoglia Dio nell’umano torrente.

Infatti: scioglierete, come lui ha sciolto Lazzaro dalle bende mortali, e sarà libertà infinita; legherete, come lui ha legato a sé uomini e donne, e sarà comunione infinita.

Sapienza pura e pulita dell’amore. Maestro saggio, che sa quando trattenere e quando lasciare andare.

 

Avvenire 23 A Matteo 18, 15-20

Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.

In mezzo a loro, come collante delle vite. Essere riuniti nel suo nome è parola che scavalca la liturgia, sconfina nella vita, Quando due o tre si guardano con verità, lì c’è Dio. Quando gli amanti si dichiarano: tu sei la mia vita, osso delle mie ossa, lì c’è Dio, nodo dell’amore, legame saldo e incandescente. Quando l’amico paga all’amico il debito dell’affetto, lì c’è Cristo, uomo perfetto, fine ultimo della storia, energia per ripartire verso il fratello, che se commette una colpa, tu vai, esci, prendi il sentiero e bussi alla sua porta. Forte della tua pienezza.

Ciò che legherete sulla terra, ciò che scioglierete…Legare non è il potere giuridico di imprigionare con giudizi o sentenze; sciogliere non significa assolvere da qualche colpa o rimorso. Indica molto di più: il potere di creare comunione e di liberare. Come mostra Gesù, alle volte mano forte che afferra Pietro quando affonda e lo stringe a sé; alle volte gesto tenero che scioglie la lingua al muto, disfa i nodi che tenevano curva una donna da diciotto anni (Luca 13,11) e la restituisce a una vita verticale.

Ogni volta che fai germogliare comunione o liberi qualcuno da qualche patibolo interiore, lì sta lo Spirito di Gesù. In mezzo: non semplicemente nell’io, non soltanto nel tu, ma nel legame, nel “tra-i-due”. Non in un luogo statico, ma nel cammino da percorrere per l’incontro.

Dio è un vento di libertà e di alleanza. E noi, fatti a sua immagine.

Appena prima di queste dinamiche, Matteo ha messo in fila una serie di verbi di dialogo e di incontro. Se il tuo fratello sbaglia con te, va’ e ammoniscilo: fai tu il primo passo, non chiuderti in un silenzio rancoroso, allaccia il dialogo.

E ammoniscilo. Cosa significa ammonire? Alzare la voce e puntare il dito? Era venuto Giovanni, profeta drammatico, che brandiva parole come lame (la scure è posta alla radice…). Poi è venuto Gesù ed ha capovolto il dito puntato, in carezza. Lui ammonisce i peccatori (in casa di Zaccheo, in casa di Levi) mangiando con loro; non con prediche dall’alto del pulpito, ma stando ad altezza di occhi, a millimetro di sguardi. Ammonisce senza averne l’aria, con la sorpresa dell’amicizia, che ricompatta quelle vite in frantumi. Chi ci ama ci sa rimproverare, chi non ci ama sa solo ferire o adulare.

Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello.

Il fratello è un guadagno, un tesoro per te e per il mondo, ogni persona un talento per la chiesa e per la storia. Investire in questo modo, investire in legami di fraternità e libertà, di cura e di custodia, è l’unica economia che produrrà vera crescita del bene comune.

Fb 16 agosto XX

LA CONVERSIONE DI DIO

 

Pochi personaggi nel Vangelo sono simpatici come lei: non prega per sé, ha fantasia, non si arrende ai silenzi e al rifiuto, e intuisce sotto il no di Gesù tutta l’impazienza del sì.

La straniera delle briciole. Colei che sa con quale strumento si cambia la vita: l’incontro.

Lei spera che a Dio interessi la felicità dei suoi figli, e non la loro fedeltà. Che una ragazzina fenicia abbia la priorità sul culto e sulle leggi dei leviti, e su tutte le formule di fede. Spera che il diritto supremo davanti a Dio sia dato dal grido, e non dalla razza o dalla religione. Diritto che sia dei giudei come dei fenici, dei credenti e dei pagani, sotto il cielo di Tiro come quello di Nazaret.

Crede che gloria di Dio è l’uomo vivente.

Grandezza di una fede che supera. Che vola, fiera e dritta, ad altezza d’occhi.

Anche i discepoli intervengono: rispondile, così ci lascia in pace. Ma Gesù è netto, è brusco: sono stato mandato solo per quelli della mia terra!

La donna non molla. Aiutami! Gesù replica in modo ancora più ruvido: non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani; i pagani, dai giudei, erano chiamati “cani”.

Ed ecco il genio femminile che lo asseconda mentre lo cambia: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole cadute dalla tavola dei padroni.

Questa madre sembra dire, provocatoria: non puoi fare briciole di miracolo, briciole di segni, per questi “cani pagani”?

È la svolta del dialogo, è la frase che cambia tutto. Questa immagine illumina un attonito Gesù che cresce nella fede, che cambia e perfeziona la sua missione: nel regno di Dio, non ci sono figli e non, uomini e cani, ma solo fame da saziare, compresa quella di tutti i cuccioli del mondo.

Gesù impara Dio e l’uomo dall’intelligenza di una madre che non conosce Jahvè, che adora Baal e Astarte, che non ha il bagaglio di fede dei teologi, ma solo quello sacro del dolore.

Spiazzato, la dichiara donna di grande fede.

Oggi nel nostro presente di fame e festa, di vacanze e miseria, un fiume di donne cananee implora ancora aiuto per i propri cuccioli sfiniti.

Tante sulla terra le madri che, proprio adesso, a Tiro e Sidone, non sanno il credo ma sanno il cuore di Dio. Lo sanno da dentro. E chiedono briciole.

Immensa è allora la fede sul mondo, dentro e fuori la Chiesa.

E se il dolore impedirà di pregare, se sarà solo muta paura, Dio si farà vicino, pane per i figli, briciole per i cuccioli. Senza merito o demerito conterà le lacrime stanche di ognuno. Una ad una.

Da questo incontro fra stranieri di frontiera, brusco e rasserenante, emerge un sogno: il mondo come grande casa di pane, dove non ci sono noi e gli altri. Dove ognuno, come Gesù, impara da ognuno. E una corona di figli che di sotto la tavola saranno alzati sul candelabro, perché anch’essi siano luce della mensa comune.

Perchè tutti, tutti, sono noi.

 

Avvenire 20 domenica A Matteo  15,21-28

La donna delle briciole, la cananea pagana, sorprende e converte Gesù: lo fa passare da maestro d’Israele a pastore di tutto il dolore del mondo.

La prima delle sue tre parole è una preghiera, la più evangelica, un grido: Kyrie eleyson, pietà, Signore, di me e della mia bambina.

E Gesù non le rivolge neppure una parola. Ma la madre non si arrende, si accoda al gruppo, dice e ridice il suo dolore. Fino a che provoca una risposta, ma scostante e brusca: sono venuto per quelli di Israele, e non per voi.

Fragile ma indomita, lei non molla; come ogni vera madre pensa alla sua bambina, e rilancia. Si butta a terra, sbarra il passo a Gesù, e dal cuore le erompe la seconda preghiera: aiutami! E Gesù, ruvido: Non si toglie il pane ai figli per gettarlo ai cani.

Ed ecco l’intelligenza delle madri, la fantasia del loro amore: è vero, Signore, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Fai una briciola di miracolo, per noi, i cagnolini del mondo!

È la svolta del racconto. Dolcemente, la donna confessa di essere là a cercare solo briciole, solo avanzi, pane perduto. Potentemente, la madre crede con tutta se stessa, che per il Dio di Gesù non ci sono figli e no, uomini e cagnolini. Ma solo fame e creature da saziare; che il Dio di Gesù è più attento al dolore dei figli che al loro credo, che preferisce la loro felicità alla fedeltà.

Gesù ne è come folgorato, si commuove: Donna, grande è la tua fede! Lei che non va al tempio, che non legge le scritture, che prega gli idoli cananei, èmproclamata donna di grande fede. Non conosce il catechismo, eppure mostra di conoscere Dio dal di dentro, lo sente pulsare nel profondo delle ferite del suo cuore di madre. Lei sa che “fa piaga nel cuore di Dio la somma del dolore del mondo” (G. Ungaretti). Il dolore è sacro, c’è dell’oro nelle lacrime, c’è tutta la compassione di Dio. Può sembrare una briciola, può sembrare poca cosa la tenerezza di Dio, ma le briciole di Dio sono grandi come Dio stesso.

“Grande è la tua fede!” E ancora oggi è così, c’è molta fede sulla terra, dentro e fuori le chiese, sotto il cielo del Libano come sotto il cielo di Nazaret, perché grande è il numero delle madri del mondo che non sanno il Credo ma sanno che Dio ha un cuore di madre, e che misteriosamente loro ne hanno catturato e custodito un frammento. Sanno che per Lui la persona viene prima della sua fede.

Avvenga per te come desideri. Gesù ribalta la domanda della madre, gliela restituisce: sei tu e il tuo desiderio che comandate. La tua fede e il tuo desiderio di madre, una scheggia di Dio, infuocata (cfr Cantico 8,6), sono davvero un grembo che partorisce miracoli.

 

p.Ermes Ronchi

Fb 9 agosto XIX

PAURA SCIOLTA NELL’ABBRACCIO

Vangelo di paure, vangelo di grida: umanissimo vangelo. Gesù dapprima assente, poi come un fantasma, infine come una mano salda che afferra. Un crescendo di fede.

Gesù fatica a lasciare la gente, non se ne va finché non li ha salutati tutti. Era stato un giorno speciale, quello, il laboratorio di un mondo nuovo: un fervore, un moltiplicarsi di mani e di cure per dare pane a tutti.

La fame dei poveri saziata, il suo sogno realizzato.

Ora, desidera l’abbraccio del Padre. Congedata la folla salì sul monte, in disparte, a condividere con lui la gioia: sì, Padre, si può! Portare il tuo regno sulla terra si può! Un colloquio festoso, un abbraccio che dura fino all’alba, quando risente il desiderio dei suoi.

Di abbraccio in abbraccio: così si muoveva Gesù.

Pietro, coraggioso e insieme scriteriato, domanda due cose, una giusta e una sbagliata: che io venga da te! Richiesta bella e perfetta, andare verso Dio. Ma poi sbaglia chiedendo di andarci camminando sulle acque.

A cosa serve uno sfoggio di potenza fine a se stesso, un intervento divino il cui scopo non è il bene comune? A che serve l’opposto di ciò che si era verificato la sera prima, con i pani e i pesci per tutti? E’ infatti un miracolo che fallisce in fretta, e Simone affonda.

Pietro si rivela uomo di poca fede non quando ha paura delle onde nella notte, ma prima, quando chiede questo genere di segni per il suo cammino di fede. E tutto vacilla.

Dubbio, fede, grido. Mi piace questo rude pescatore, uomo d’acqua e di roccia, oscillante tra fede grande, che sfida la tempesta, e fede piccola, impaurita. Ma è proprio lì che Gesù ci raggiunge, al centro del nostro vuoto, per salvarci dalla paura.

Pietro vive sulla sua pelle come il camminare sul mare non serva affatto a rafforzare la fede. Cammina e già dubita. E io lo ringrazio per questo suo grido estremo: Signore, salvami!

Ora so che ogni dubbio può essere sciolto anche da un solo mio grido nella notte, come il suo. Se guardo con occhi bassi le mie difficoltà e i miei fallimenti, scendo nel buio.

Pietro tu andrai verso il Signore, ma non nel brillare illusorio di acque prodigiose, lo farai scendendo nella polvere della strada da Gerusalemme a Gerico.

Forse a Pietro serviva davvero questa paura d’affogare nell’acqua della disperazione, per trovare il coraggio di affidarsi, gridando a Gesù.

Un giorno lo seguirà non più attratto dai segni, ma dal suo calvario; andrà da chi sa far tacere non tanto il vento e il mare, ma tutto ciò che non è amore.

Pietro, emblema dei credenti, imparerà ad affidarsi non contando su imprevedibili miracoli, ma sull’amore quotidiano che resiste, sulla bellezza di una fede nuda.

E noi, con Pietro, a fissare Gesù che ci viene incontro nel buio della bufera, a sentire le sue consolanti parole: Vieni! Tutto è ancora possibile, con me. Vieni!

 

 

Avvenire 19 A

Matteo 14,22-33.

“Subito dopo”, dopo i pani che traboccavano dalle mani e dalle ceste, “costrinse i discepoli”, che vorrebbero star lì a godersi il successo, “a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva”. Li deve costringere, non vogliono andarci sull’altra riva, è terra pagana, c’è il rischio di essere rifiutati, è già successo.  Infatti: la barca era sbattuta dalle onde, perché il vento era contrario. Un vento che non soffia da fuori, ma da dentro i Dodici, come resistenza a quel viaggio verso gli stranieri.

“Sul finire della notte egli andò verso di loro, camminando sul mare”. Non ha fretta Gesù: tre giorni ha atteso per Lazzaro, attende quasi una notte intera di tempesta, tre giorni aspetterà per risorgere. Ha sempre fretta invece quando in vista c’è una esaltazione, una ovazione. Fretta di andarsene e di portar via i discepoli. Perché il posto vero dei credenti non è nei successi e nei risultati trionfali, ma in una barca in mare, mare aperto, dove prima o poi, durante la navigazione della vita, verranno acque agitate e vento contrario. Ma non saranno lasciati soli.

«Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». All’invito di Gesù, Pietro, coraggioso fino all’incoscienza, abbandona ogni riparo e cammina nel vento e sulle onde. Sì, ma verso dove? Pietro non vuole tanto andare da Gesù, quanto metterne alla prova la potenza. Andrà davvero verso Gesù, quando lo seguirà, non sedotto dal suo camminare sul mare, bensì dal suo camminare verso lo scandalo e la follia della croce. Andrà dietro a lui, non perché sa far tacere il vento, ma perché fa tacere tutto ciò che in noi non è amore. Andrà verso il Samaritano buono, nella polvere dei sentieri del tempo e non sul luccichio di acque miracolose. Andrà verso il servo, non verso il taumaturgo.

E venne da Gesù” dice il Vangelo. Pietro, fino a che ha occhi solo per quel volto visibile anche nella notte, cammina sulle acque. Quando volge lo sguardo al vento, alle onde, al buio, inizia ad affondare. Guardo al Signore, lo ascolto, e vado dovunque, faccio miracoli. Guardo a me, a tutte le difficoltà, e sprofondo.

Se guardo a perché sono qui, a chi mi ha mandato su questa terra, non mi ferma nessuno. Se guardo alla mia storia accidentata, il dubbio mi blocca.

Pietro, in pieno miracolo, dubita: “Signore affondo”; in pieno dubitare, crede: “Signore, salvami!”. Dio salva, qui è tutta la fede: Egli non è un dito puntato, ma una mano che ti afferra.

Un grido nel vento. Che se ne fa Pietro del catechismo mentre affonda? Basta un grido per varcare l’abisso tra cielo e terra. Fino a che, in fondo a ogni nostra notte, il grido di paura diventerà abbraccio tra l’uomo e il suo Dio.

Ci sono grandi onde, molto vento… ma c’erano anche prima, all’inizio del miracolo, per tutta la notte. Da dove viene il dubbio?

Dalle tempeste della vita, dalla fatica del cuore, da Dio assente. Da Gesù come un fantasma, e non come una voce e una mano.

Ma è proprio là che il Signore ci raggiunge, al centro della nostra debole fede. Non attende, non pretende che abbiamo una fede grande. Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci ma stende la mano per afferrarci.

Dubbio e fede. Indivisibili. A contendersi in vicenda perenne il cuore. Non viene a risolvere i miei problemi, sono io che devo essere risolto.

 

 

di p. Ermes Ronchi

Vorrei essere uno dei cinquemila, quella sera, sul lago. Li invidio non per il miracolo dei pani, ma per la seduzione che hanno, più forte di ogni paura. Con Gesù, che ascoltano e bevono. Ascoltano e brucia loro il cuore, ascoltano e risplende la vita.

Stare con lui, quando scendono sera e notte su noi. E il lago, e il deserto, profumano di pane.

Stare con lui, e sentire che più vivo di così non sarò mai.

In quella infinita sera sul lago, due verbi opposti: comprare o dare. Comprare, dicono gli apostoli. Mentalità che è nostra: se vuoi qualcosa, lo devi pagare. Niente di scandaloso, ma diventa banale questa logica d’eterna illusione, in bilico tra dare e avere. In questo sistema chiuso, Gesù rilancia: date!

Date voi stessi da mangiare. Non già “vendete, scambiate, prestate”; ma radicalmente “date”. E sulla notte della necessità ecco spuntare l’alba della gratuità, dell’amore squilibrato e senza calcoli, del dare a fondo perduto senza aspettarsi nulla. Solo la gioia, forse.

Quante volte nel Vangelo lo si vede intento a condividere, felice, il pasto con altri, da Cana all’ultima cena, fino a Emmaus. Gesù amava così tanto mangiare insieme, che il tenerli vicini a sé è diventato il simbolo della sua vita: “quando me ne andrò, e non potrò più riunirvi e darvi il pane, e condividerlo, voi potrete unirvi e mangiare me”.

Dio ferma la fame del mondo solo quando le nostre mani imparano a donare. L’aveva detto: “Voi farete cose più grandi di me”.

E a noi, che sempre preghiamo dacci oggi il nostro pane, il Signore risponde: date voi il vostro pane.

Ecco che i cinque pani passano dalle mani di uno a quelle di tutti i cinquemila. Misteriosa e multipla regola del Regno: poco pane condiviso è sufficiente, perché solo così diventa pane di Dio. Cinque pani allora basteranno per una folla, e i pezzi rimasti riempiranno le ceste. Nulla andrà perduto. Cinque pani e due pesci: è poco, è solo una goccia nel mare, ma è quella goccia che può dare senso a tutta la vita (Madre Teresa). La fame inizia quando io tengo il mio pane per me, quando l’Occidente sazio tiene il proprio pane per sé. Fame che, allora, non finirà.

Sfamare la terra invece è un miracolo possibile se la condivisione si fa realtà. C’è pane sufficiente per tutti nel mondo, ma è diventato insufficiente per l’avidità di pochi.

Il profeta ripete: chi ha fame venga e mangi, senza denaro né spesa. Ma quale fame morde dentro di noi? Solo di pane? O fame di giustizia per noi e per tutti? Fame di avere o anche fame di dare?
Il Signore sia il nostro affamatore, e sapremo dare pane a chi ha fame e accendere fame di cose grandi in chi è sazio di solo pane. E la nostra sarà fame di un mondo nuovo, con mani di pane che conoscono il miracolo del dono.

 

Avvenire XVIII Matteo 14,13-21

Vangelo del pane che trabocca dalle mani, dalle ceste. Segno da custodire con particolare cura, raccontato per ben sei volte dai vangeli, carico di promesse e profezia.

Gesù vide la grande folla, sentì compassione di loro e curò i loro malati. Tre verbi rivelatori (vide, sentì, curò) che aprono finestre sui sentimenti di Gesù, sul suo mondo interiore.  Vide una grande folla, il suo sguardo non scivola via sopra le persone, ma si posa sui singoli, li vede ad uno ad uno. Per lui guardare e amare sono la stessa cosa. E la prima cosa che vede alzarsi da tutta quella gente e che lo raggiunge al cuore è la loro sofferenza: e sentì compassione per loro. Gesù prova dolore per il dolore dell’uomo, è ferito dalle ferite di chi ha davanti, ed è questo che fa gli cambiare i programmi: voleva andarsene in un luogo deserto, ma ora chi detta l’agenda è il dolore dell’uomo, e Gesù si immerge nel tumulto della folla, risucchiato dal vortice della vita dolente.

Primo viene il dolore. Il più importante è chi patisce: nella carne, nello spirito, nel cuore. E dalla compassione fioriscono miracoli: guarì i loro malati. Il nostro tesoro più grande è un Dio appassionato che patisce per noi.

Il luogo è deserto, è ormai tardi, questa gente deve mangiare…i discepoli alla scuola di Gesù sono diventati sensibili e attenti, si prendono a cuore le persone. Gesù però fa di più: mostra l’immagine materna di Dio che raccoglie, nutre e alimenta ogni vita, e incalza i suoi: Voi stessi date loro… Le emozioni devono diventare comportamenti, i sentimenti maturare in gesti. Date da mangiare:   “la religione non esiste solo per preparare le anime per il cielo: sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra”  (Ev Ga 182). Dacci il pane noi invochiamo, donate ribatte Lui. Una religione che non si occupi anche della fame è sterile come la polvere.

Il miracolo del pane è raccontato come una questione di mani. Un moltiplicarsi di mani, più che di pane. Che passa di mano in mano: dai discepoli a Gesù, da lui ai discepoli, dai discepoli alla folla. Allora apri le tue mani. Qualunque sia il pane che tu puoi donare, non trattenerlo, apri il pugno chiuso. Imita il germoglio che si schiude, il seme che si spacca, la nuvola che sparge il suo contenuto.

Che diritto hanno i cinquemila di ricevere pane e pesce? L’unico loro titolo è la fame. E il pane di Dio, quello delle nostre eucaristie, non impoveriamolo mai all’alternativa meschina tra pane meritato o pane proibito: esso è il pane donato, con lo slancio della divina compassione. Pane gioioso e immeritato, per i cinquemila quella sera sulla riva del lago, per tutti noi sulla riva di ogni nostra notte.

Del mare e della terra faremo pane,


coltiveremo a grano la terra e i pianeti,


il pane di ogni bocca,

di ogni uomo,
ogni giorno
arriverà

perché andammo a seminarlo
e a produrlo

non per un uomo
ma per tutti,


il pane,

il pane
per tutti i popoli


e con esso

ciò che ha
forma e sapore di pane


divideremo:


la terra,
la bellezza,
l’amore,

tutto questo ha sapore di pane

( Pablo Neruda)

fb 5 luglio 2020

INCANTO

 

Padre, ti rendo lode! Il Battista è in carcere, in Galilea crescono rifiuto e ostilità, i miracoli a Cafarnao e Betsaida non servono, eppure Gesù benedice il Padre.

Attorno, il vuoto. Via i sapienti, gli scribi, i sacerdoti, e al loro posto ecco malati, vedove, bambini, piccoli. I preferiti di Dio: l’uomo senza qualità accolto nelle qualità di Dio.

Gesù è il primo dei piccoli. Viene come figlio di povera gente, in una stalla. Senza potere, la sua rivoluzione è su una croce.

Grazie perché loro ti hanno capito! Gesù coglie la logica di Dio che parte dagli ultimi della fila, dai bastonati dalla vita, dalle mani che sanno accarezzare.

Non è difficile Dio. Sta al loro fianco in ogni epoca, su tutta la terra. Dio è vicino a ciò che è piccolo e spezzato. Quando noi diciamo perduto, lui dice trovato; se diciamo condannato, lui dice salvato; quando diciamo abbietto, Dio esclama beato! (Bonhoeffer).

Gesù che si stupisce di Dio. Mi incanta la meraviglia che felicemente lo invade mentre le sue parole passano dal lamento alla danza.

Ma non basta: venite, e vi darò ristoro. E’ il conforto del vivere, non una morale migliore. Se le nostre messe, prediche, incontri, non diventano racconti d’amore che consolano fatiche, si riducono a tomba della domanda dell’uomo, a tomba della risposta di Dio.

Gesù parla di “cose rivelate”, che non si possono recintare in una dottrina, che non sono un sistema di pensiero: le cose rivelate sono il segreto del vivere, preceduto dal silenzio, seguito dall’incanto.

E incalza chi gli è vicino: imparate da me mite e umile, così ci sarà riposo per le vostre anime. Casa della vita è l’amore anche piccolo, quello che fa un passo indietro, dove il cuore abita nella pace di chi si fida.

E ancora: prendete il mio giogo dolce, il carico leggero di Dio. Come può il giogo essere per noi, che nell’ultimo secolo abbiamo lottato proprio per eliminarli tutti? Nella Bibbia il giogo è la legge di Mosè, che Gesù riassumerà nel nuovo invito: amatevi, l’antica novità.

L’amore è ossigeno del mondo. Un re leggero, un tiranno amabile che mai ferisce e mai smette di generare, partorire, curare, dare gioia pura. Prendetevi cura di voi stessi e del creato iniziando dai piccoli, le colonne segrete nella storia, le colonne nascoste nel mondo.

Gesù, il senza potere, libero come il vento, leggero come la luce. Uomo regale dallo stupore improvviso, figlio mite che nessuno ha mai comprato, fratello umile di libere vite.

La pace si impara. La mitezza si impara. Da lui. La vita si impara dal cuore stupito di Gesù, puro silenzio incantato.

 

XIV domenica Matteo 11, 25-30

Quello che mi incanta è Gesù che si stupisce del Padre. Una cosa bellissima: il Maestro di Nazaret che è sorpreso da un Dio sempre più fantasioso e inventivo nelle sue trovate, che spiazza tutti, perfino suo Figlio. Cosa è accaduto?

Il vangelo ha appena riferito un periodo di insuccessi, tira una brutta aria: Giovanni è arrestato, Gesù è contestato duramente dai rappresentanti del tempio, i villaggi attorno al lago, dopo la prima ondata di entusiasmo e di miracoli, si sono allontanati.

Ed ecco che, in quell’aria di sconfitta, si apre davanti a Gesù uno squarcio inatteso, un capovolgimento improvviso che lo riempie di gioia: Padre, ti benedico, ti rendo lode, ti ringrazio, perché ti sei rivelato ai piccoli.

Il posto vuoto dei grandi lo riempiono i piccoli: pescatori, poveri, malati, vedove, bambini, pubblicani, i preferiti da Dio. Gesù non se l’aspettava e si stupisce della novità; la meraviglia lo invade e lo senti felice. Scopre l’agire di Dio, come prima sapeva scoprire, nel fondo di ogni persona, angosce e speranze, e per loro sapeva inventare come risposta parole e gesti di vita, quelli che l’amore ci fa chiamare «miracoli».

Hai rivelato queste cose ai piccoli… di quali cose si tratta?

Un piccolo, un bambino capisce subito l’essenziale: se gli vuoi bene o no. In fondo è questo il segreto semplice della vita. Non ce n’è un altro, più profondo.

I piccoli, i peccatori, gli ultimi della fila, le periferie del mondo hanno capito che Gesù è venuto a portare la rivoluzione della tenerezza: voi valete più di molti passeri, ha detto l’altra domenica, voi avete il nido nelle sue mani.

Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.

Non è difficile Dio: sta al fianco di chi non ce la fa, porta quel pane d’amore di cui ha bisogno ogni cuore umano stanco… E ogni cuore è stanco.

Venite, vi darò ristoro. E non già vi presenterò un nuovo catechismo, regole superiori, ma il conforto del vivere. Due mani su cui appoggiare la vita stanca e riprendere il fiato del coraggio.

Il mio giogo è dolce e il mio peso è leggero: parole che sono musica, buona notizia.

Gesù è venuto a cancellare la vecchia immagine di Dio. Non più un dito accusatore puntato contro di noi, ma due braccia aperte. È venuto a rendere leggera e fresca la religione, a toglierci di dosso pesi e a darci le ali di una fede che libera. Gesù è un liberatore di energie creative e perciò è amato dai piccoli e dagli oppressi della terra.

Imparate da me che sono mite e umile di cuore, cioè imparate dal mio cuore, dal mio modo di amare delicato e indomito. Da lui apprendiamo l’alfabeto della vita; alla scuola del cuore, la sapienza del vivere.

 

Vorrei imparare a benedire di nuovo, ogni giorno.

Ad ogni mattino benedire i piccoli e i bambini,

mettermi alla loro scuola,

imparare dal loro cuore vero.

 

Vorrei imparare a dire grazie,

a dire bene di te e del mondo,

a stupirmi della vita, che mi ha dato tanto:

e che il lamento non prevalga mai sullo stupore.

 

Grazie per le sconfitte che non mi hanno buttato giù,

per i successi che non mi hanno dato alla testa.

 

Grazie per le persone che hai messo accanto a me,

nelle loro mani, nello sguardo, nel sorriso

ho visto il racconto della tua tenerezza.

 

Vorrei imparare dal tuo cuore, Signore,

ad amare nel solo modo possibile,

dolce e forte, umile e fiero:

instancabile nel curare,

nutrire, confortare, dare ristoro,

rimettere in cammino la vita.

 

E ti benedico, Padre, per il tuo figlio Gesù,

pienezza d’umano, stupore di te,

ristoro alla vita e cuore di luce.

Amen.

Un contadino e un mercante trovano tesori. Lo trova uno che, occhi fissi al suo lavoro, per caso, tra rovi e sassi, su un campo non suo, si imbatte nell’inaudito!

Lo trova l’altro, intenditore esperto che sa bene dove cercare, navigante per il quale la ricerca stessa è pura gioia: andare e ancora andare, occhi che guardano oltre. E il suo fiuto gli dà ragione.

Un bellissimo Dio che non sopporta le statistiche: a tutti è dato incontrarlo, o esserne incontrati.

Come un tesoro nascosto in un campo. Parola magica, da innamorati, da favole, da storie grandi.

I protagonisti della parabola non sono i due fortunati, ma il tesoro, che da sempre convoca mercanti e discepoli del Vangelo da ogni angolo della terra. Un tesoro ci attende, a dire che l’esito della storia sarà felice, comunque e nonostante tutto, perché sono in gioco forze più grandi, e il grande segreto è ben oltre noi.

Tesoro e perla sono nomi di Dio. E sono per me, contadino e mercante, e mi chiedono: ma Dio è un tesoro o un dovere? È una perla o un obbligo?

Cristo è tesoro e perla per me, e seguirlo è stata l’azione migliore della mia vita. Mi sento contadino fortunato, mercante immeritatamente ricco! E ringrazio Lui che mi ha fatto inciampare in uno e in molti tesori, lungo molti giorni e strade della mia vita, facendola diventare una finestra di gioia nel cielo.

I discepoli stessi non hanno soluzioni, ma cercano! Con gioia! Come quel trepidante uomo, che in fretta va! Vende! Compra! E tutti trovano perle seminate nel mare della vita, perché credere ci sprona a cercare, proiettarci, lavorare il campo, scovare dal tesoro cose nuove e cose antiche.
Noi avanziamo solo cercando tesori (là dov’è il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore) con fame di bellezza, come ostinati mercanti che cercano le perle più belle.

Chiedi al Signore la gioia e Lui ti risponderà dandoti vita.

Gioia non facile: c’è un campo da lavorare, rovi e sudore, tesori da trovare e nascondere, un tutto da vendere e investire. Ma il cristianesimo non è rinuncia, è tesoro. Se uno stupore, un “che bello!”, non precede le rinunce, esse saranno solo tristezza, disamore, consumazione del cuore, freddo.

La vita non è etica ma estetica, e avanza dritta per attrazione, sedotta dalla bellezza di Cristo e del mondo come lui lo sogna.

Allora lascerò tutto, per avere tutto. Venderò tutto, per guadagnare tutto.

Ma come diventerò cercatore di perle?

L’uomo compra il campo ma non il tesoro, che sa attendere. Chiederò il dono di Salomone: dammi Tu un cuore che ascolta.

Tesoro immenso per ascoltare Dio e il grido di Abele, e cielo e terra, e angeli e parabole; per ascoltare la cattedra dei piccoli della terra. Solo allora vedremo tesori nascosti.

L’uomo che vive davvero è un cercatore d’oro che avanza verso ciò che di buono ama. E questo lo rende eterno.

 

Avvenire XVII anno A Mt 13,44ss

Gesù, con due parabole simili, brevi e lampeggianti, dipinge come su un fondo d’oro il dittico lucente della fede.

Evoca tesori e perle, termini bellissimi e inusuali nel nostro rapporto con Dio. Lo diresti un linguaggio da romanzi, da pirati e da avventure, da favole o da innamorati, non certo da teologi o da liturgie, che però racconta la fede come una forza vitale che trasforma la vita, che la fa incamminare, correre e perfino volare. Annuncia che credere fa bene! Perché la realtà non è solo questo che si vede: c’è un “di più” raccontato come tesoro, ed è accrescimento, incremento, intensità, eternità, addizione e non sottrazione . “La religione in fondo equivale a dilatazione” (G. Vannucci). Siamo da forze buone misteriosamente avvolti: Qualcuno interra tesori per noi, semina perle nel mare dell’esistenza, “il Cielo prepara oasi ai nomadi d’amore” (G. Ungaretti). .

“Trovato il tesoro, l’uomo va, pieno di gioia, vende tutto e compra quel campo”. Si mette in moto la vita, ma sotto una spinta che più bella non c’è per l’uomo, la gioia. Che muove, mette fretta, fa decidere, è la chiave di volta.

La visione di un cristianesimo triste, che si innesca nei momenti di crisi, che ha per nervatura un senso di dovere e di colpa, che prosciuga vita invece di aggiungerne, quella religiosità immatura e grigia è lontanissima dalla fede solare di Gesù.

Dio ha scelto di parlarci con il linguaggio della gioia, per questo seduce ancora.

Viene con doni di luce avvolti in bende di luce (Rab’ia). Vale per il povero bracciante e per l’esperto mercante, intenditore appassionato e ostinato che gira il mondo dietro il suo sogno. Ma nessun viaggio è lungo per chi ama. Noi avanziamo nella vita non a colpi di volontà, ma per una passione, per scoperta di tesori (dov’è il tuo tesoro, là corre felice il tuo cuore, cfr Mt 6,21)); avanziamo per innamoramenti e per la gioia che accendono.

I cercatori di Dio, contadini o mercanti, non hanno le soluzioni in tasca, le cercano. Aver fede è un verbo dinamico: bisogna sempre alzarsi, muoversi, cercare, proiettarsi, guardare oltre; lavorare il campo, viaggiare, scoprire sempre, interrogare sempre.

In queste due parabole, tesoro, perla, valore, stupore, gioia sono nomi di Dio. Con la loro carica di affetto, con la travolgente energia, con il futuro che dischiudono.

Si rivolgono alla mia fede e mi domandano:

ma Dio per te è un tesoro o soltanto un dovere?

E’ una perla o un obbligo?

Mi sento contadino fortunato, mercante dalla buona sorte. E sono grato a Colui che mi ha fatto inciampare in un tesoro, in molte perle, lungo molte strade, in molti giorni: davvero incontrare Cristo è stato l’affare migliore della mia vita!

1 Giugno 2016

Messaggio della Madonna di Medjugorje

 

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I 10 SEGRETI DI MEDJUGORJE (di Padre Livio Fanzaga):

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VIDEO RELATIVI AI MESSAGGI DELLA MADONNA DI MEDJUGORJE

PLAYLIST RELATIVA A MEDJUGORJE (MESSAGGI E COMMENTI IN VIDEO)
https://www.youtube.com/playlist?list=PL_I8V9Z5YmOY_O1E9krjhlTo3O_k-L-6y

LE APPARIZIONI DELLA MADONNA A PORZUS – Nuova versione

6 luglio 2005

Il Catechismo della Chiesa Cattolica in mp3

IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA IN AUDIO

5 Gennaio 2010

REPORT SUL 21° SECOLO

Attraverso un
fantascientifico viaggio nel tempo, l’autore del libro, Pier Angelo
Piai, desidera sensibilizzare il lettore a prendere coscienza del
nostro comune modo di pensare ed agire, noi del 21° secolo che ci
vantiamo di essere progrediti. In che cosa consiste, allora, la vera
evoluzione della specie umana?
Quando l’uomo potrà diventare davvero integrale?
Report
cerca di dare alcune risposte ai moltissimi interrogativi che emergono
in queste pagine scritte attraverso riflessioni e  considerazioni
sociologiche, antropologiche e filosofiche.

6 Luglio 2005

6 luglio 2005 Il Catechismo della Chiesa Cattolica in mp3

IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA IN AUDIO
Catechesi e omelie di padre Lino Pedron