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 Emmaus III di Pasqua

 

Gesù si avvicinò e camminava con loro. Dio si avvicina sempre, viandante dei secoli e dei giorni, e muove tutta la storia.

Cammina con noi, non per correggere il nostro passo o dettare il ritmo. Non comanda nessun passo, prende il nostro. Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini. Gli basta il passo del momento.

Gesù raggiunge i due viandanti, li guarda li vede tristi, rallenta: Che cosa sono questi discorsi?

Ed essi gli raccontano la sua storia: una illusione naufragata nel sangue sulla collina. Lo hanno seguito, lo hanno amato: noi speravamo fosse lui… Unica volta che nei vangeli ricorre il termine speranza, ma solo come rimpianto e nostalgia, mentre essa è “il presente del futuro” (s. Tommaso); come rammarico per le attese di potere tramontate. Per questo “non possono riconoscere” quel Gesù che aveva capovolto al sole e all’aria le radici stesse del potere.

Ed è, come agli inizi in Galilea, tutto un parlare, confrontarsi, insegnare, imparare, discutere, lungo ore di strada.

Giunti a Emmaus Gesù mostra di voler “andare più lontano”. Come un senza fissa dimora, un Dio migratore per spazi liberi e aperti che appartengono a tutti.

Allora nascono parole che sono diventate canto, una delle nostre preghiere più belle: resta con noi, perché si fa sera. Hanno fame di parola, di compagnia, di casa. Lo invitano a restare, in una maniera così delicata che par quasi siano loro a chiedere ospitalità.
Poi la casa, non è detto niente di essa, perché possa essere la casa di tutti. Dio non sta dappertutto, sta nella casa dove lo si lascia entrare.

Resta. E il viandante si ferma, era a suo agio sulla strada, dove tutti sono più liberi; è a suo agio nella casa, dove tutti sono più veri.

Il racconto ora si raccoglie attorno al profumo del pane e alla tavola, fatta per radunare tanti attorno a sé, per essere circondata da ogni lato di commensali, per collegarli tra loro: gli sguardi si cercano, si incrociano, si fondono, ci si nutre gli uni degli altri.

Lo riconobbero allo spezzare il pane. Lo riconobbero non perché fosse un gesto esclusivo e inconfondibile di Gesù – ogni padre spezzava il pane ai propri figli – chissà quante volte l’avevano fatto anche loro, magari in quella stessa stanza, ogni volta che la sera scendeva su Emmaus. Ma tre giorni prima, il giovedì sera, Gesù aveva fatto una cosa inaudita, si era dato un corpo di pane: prendete e mangiate, questo è il mio corpo.

Lo riconobbero perché spezzare, rompere e consegnarsi contiene il segreto del vangelo: Dio è pane che si consegna alla fame dell’uomo. Si dona, nutre e scompare: prendete, è per voi! Il miracolo grande: non siamo noi ad esistere per Dio, è Dio che vive per noi.

 

 

 

II di pasqua Giovanni 20,19-31

 di p. Ermes Ronchi

         La risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi nelle mani e nei piedi del crocifisso, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Leonard Cohen cantava: c’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce. Le mani ferite del Risorto sono le crepe del suo corpo, le feritoie da cui passa la luce.

 

Omelia

I discepoli erano chiusi in casa per paura. “È un momento di disorientamento totale: l’amico più caro, il maestro che era sempre con loro. L’uomo che sapeva di cielo, che aveva spalancato per loro orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Ogni speranza finita, tutto calpestato” (M. Marcolini). E in più la paura di finire come lui.

La sera di quel giorno, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano, venne Gesù, stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!” (Gv 20,19). Porte chiuse, finestre sbarrate, una casa dove manca l’aria, dove si respira paura. Alcuni del gruppo non ce l’hanno fatta a restare chiusi: Maria di Magdala, Tommaso, i due di Emmaus, alcune donne.

Tuttavia la comunità è rimasta unita, hanno scelto di non disperdersi, hanno detto “no” a un’altra fuga, fosse pure per mimetizzarsi al sicuro nell’anonimato della folla, fra le carovane dei pellegrini.

Restano insieme, perché una persona, quando è sola, è portata a dubitare perfino di se stessa; perché da solo, davanti ad una tempesta puoi essere travolto, insieme invece si fa argine, ci si sostiene, si cerca una memoria e una vocazione condivise.

Venne Gesù a porte chiuse: colui che ha attraversato le grandi porte della morte non c’è chiusura che tenga. Lo sa che i suoi fratelli hanno mille paure: la paura del debole, del malato, del perseguitato, del morente. Ma nessuna paura lo ferma.

Venne e stette in mezzo a loro. In mezzo, come collante delle vite, come legame della comunità, cemento del gruppo. In mezzo al gruppo e in mezzo al cuore, come se dicesse: “dove sarete voi, sarò anch’io; il mio cuore è a casa solo accanto al tuo”.

Che bello il nostro Dio! Non accusa, non rimprovera, non abbandona. Si consegna ancora a discepoli che non l’hanno capito, facili alla viltà e alla bugia. In quali povere mani si è messo: maldestre, che si stancano presto, che si sporcano subito. Eppure non si stanca di noi.

È la vendetta di Dio. Dio si ‘vendica’ di tutta la nostra lontananza ritornando in mezzo a noi. E la sera del giovedì si era vendicato – nella stessa casa, nella stessa ‘camera alta’!- prendendo fra le sue mani i piedi dell’uomo, nel gesto dello schiavo e della donna, piedi di gente stanca, nomade, claudicante, che è fuggita, che fuggirà ancora.

“Pace a voi! Io non chiedo, io dono. Non sono venuto a chiedere, sono venuto a portare. Non andartene, non lasciarmi più. Non fuggire”.

Invece di rimproverarli, di rimandarli a casa, al lago, al banco, alle barche, perché non hanno capito, non ce la fanno, inventa qualcosa di inedito per educarli ancora, per aiutarli a capire: “soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo” . Avrebbe potuto lasciarli e ricominciare altrove, con altri. Invece no, ha rilanciato.

La strategia educativa di Gesù è ‘portare su’, più in alto, far respirare aria più pura: «Voi mi abbandonate e io mi metto nelle vostre mani. Voi mi consegnate perché mi uccidano e io vi consegno il mio Spirito». Immensa vulnerabilità, immensa bellezza dell’amore.

Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, la brezza sottile dell’Oreb su Elia profeta, l’uragano che spalancherà quelle porte chiuse: ecco io vi mando! E li manda così come sono, fragili e lenti, ma con dentro il suo Spirito, il vento forte della vita che soffierà su di loro, e gonfierà le vele, e li riempirà di Dio.

Lo Spirito, che è il respiro di Dio, che cosa produce? Una cosa inattesa, il perdono: Voi perdonerete i peccati… e non è detto ai preti, ma a tutti i discepoli e a tutte le discepole, a quelli che hanno ricevuto lo Spirito e la Pace. Solo se in noi è pace daremo pace.

Perdonare è possibile a tutti:

perdonare è de-strutturare il male,

de-creare il male, in sé e attorno a sé.

è strappare dai circoli viziosi,

spezzare le simmetrie dell’odio, il ripetere su altri ciò che hai subito.

 

“ Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse…” (Gv 20,26). Mi conforta pensare che i miei dubbi non fermano il Signore; che se ha trovato chiuso, non se n’è andato, ha continuato il suo assedio, dolcemente implacabile.

Otto giorni dopo è ancora lì, la prima venuta sembra senza effetto. Secoli dopo è ancora qui, davanti alle mie porte chiuse, con la mite potenza di un seme che non si lascia sgomentare dai miei inverni.

Li aveva inviati per le strade, e li ritrova ancora chiusi in quella stanza. Ma Gesù accompagna con delicatezza infinita la fede lenta dei suoi. Non ci chiede di essere perfetti, ma di essere autentici;

non di essere immacolati, ma di essere incamminati.

E si rivolge a Tommaso – povero caro Tommaso diventato proverbiale. Ma è proprio il Maestro che l’aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, lo aveva fatto rigoroso e coraggioso: infatti è il solo che entra e esce da quella casa.

Invece di imporsi, si propone alle sue mani: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco.

Gesù rispetta la sua fatica e i suoi dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del vivere. Non vuole umiliarlo, ma lo spinge a vivere… con stupore, si espone con la meraviglia di quelle ferite aperte.

Toccami! Il vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato. Che bisogno c’era?

Non le ha toccate, le ha baciate quelle ferite, diventate le feritoie della più grande bellezza del mondo.

Tommaso, beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Quelli siamo noi, una beatitudine per me e per te. Grande educatore, Gesù, che forma alla libertà, alla serietà delle scelte, a essere liberi dai segni esteriori, da visioni e miracoli.

Che bello se nella Chiesa, come nel cenacolo, fossimo educati più all’approfondimento che all’ubbidienza; più alla ricerca che alla adesione! Quante energie e quanta maturità liberate!

Credere fa bene, (vedi Tommaso, Giovanni, Maddalena, quanti l’hanno incontrato). Io credo all’ultima riga del vangelo: tutto questo è stato scritto, perché crediate e, credendo, abbiate in voi la vita (Gv 20,31). La fede è un cantiere di felicità. Un cantiere di vita. Più umani, più vivi, più felici.

L’augurio che lascio a ciascuno: siamo beati perché non possiamo vedere Cristo o toccare le sue ferite. Possiamo però toccare la vita, tendere la mano verso i viventi: “ecco, io carezzo la vita, perché profuma di Te!” (Rumi).

La vita e i viventi profumano di Dio.

 

 

 

Alla Comunione

 

Quando sulla mia vita scende la sera,

torna, o Signore, a farti vicino

ad augurare pace.

Vieni, Signore dalle mani e dal cuore feriti.

Ti dico le parole di Tommaso:

Mio Signore e mio Dio.

Mio come lo è il cuore,

e, senza, non sarei;

mio come lo è il respiro,

e, senza, non vivrei.

Tu sei energia che sale, dice e ridice e non tace mai.

Si dilata dentro, mette gemme di luce,

mi offre due mani piagate

dove poter riposare e riprendere il fiato del coraggio.

Signore mio e Dio mio,

mio non di possesso ma di appartenenza,

io appartengo a te,

il mio Amato è mio

e io sono per lui.

Amen.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ecco una beatitudine che sento finalmente mia, le altre le ho sempre sentite troppo difficili, cose per pochi coraggiosi.

Questa è invece una beatitudine per noi, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede, per chi ricomincia.

Beati voi che credete… Voglio dire grazie a tutti quelli che credono e sperano anche senza vedere, e la loro fede rafforza la mia;

grazie a tutti quelli che si sono messi in piedi, anche se è notte. Anche se hanno mille dubbi, come Tommaso;

grazie a tutti quelli che non si accontentano di una fede per sentito dire sentito dire, cui non basta essere credenti, vogliono essere credibili!

Beati! C’è una beatitudine nel credere, una promessa di gioia nella fede: che non significa una vita più facile, una assicurazione contro gli infortuni della vita, ma un’esistenza piena e appassionata, ferita e luminosa, piagata e guaritrice.

vita per il cuore, che vive d’amore; vita per la mente, che vive di cose vere; vita per lo spirito che vive di libertà.

Credere non vuol dire: credo che Dio c’è, che esiste qualcuno sopra di noi. Permettetemi un esempio molto quotidiano: se dovessi chiedere a uno: tu credi in tua padre o tua madre? Credi in tua moglie? E se quello mi risponde: sì, certo, credo che c’è, che esiste. Ma questo è ovvio, non hai detto niente. Credere vuol dire: quanta fiducia hai, quanto ti fidi di lei o di loro, quanto di loro è entrato in te e quanto ti importano, quanto gli vuoi bene!

Credere in Dio è avere una storia con Dio, come dicono i ragazzi quando parlano di un amore sbocciato. Credere è diventare porosi, permeabili a Dio, assorbire vangelo in te. P. Turoldo mi disse una volta: vai da p. Giovanni Vannucci, vai perché è una spugna di Dio! Intriso di Dio e di vento.

Queste cose sono state scritte perché crediate in Gesù, e perché intrisi, permeabili penetrati di lui abbiate la vita, quella indistruttibile.

 

 

III di Pasqua. Emmaus (Luca 24,13-35)

di p. Ermes Ronchi

Tutto comincia con la liturgia della strada. Non sappiamo dove sia Emmaus, quel nome è un simbolo di tutte le nostre strade, soprattutto di quando qualcosa sembra finire, e si torna a casa, con le macerie dei sogni. Due discepoli, una coppia, forse un uomo e una donna, marito e moglie, una famigliola (così li ha immaginati il pittore Piero Dani, qui fuori nell’atrio del santuario). Due come noi. Che camminano e parlano.

Ed ecco Gesù si avvicinò e camminava con loro. Dio che si avvicina nei luoghi della vita, lungo la strada, non in sinagoga o in chiesa, ma nei volti, nei piccoli gesti quotidiani. La strada è un luogo laico ed è di tutti.

Si avvicina e cammina: Cristo non comanda nessun passo, prende il mio. Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini. Gli basta il passo del momento, il tuo passo quotidiano. E rallenta il suo passo sulla misura del nostro, incerto e breve. Si fa viandante, pellegrino, fuggitivo, proprio come i due.

Cammina con loro Uno che non è presenza invadente di risposte già pronte, ma uno che pone domande, e offre due cose: disponibilità all’ascolto e il tempo della compagnia lungo la stessa strada.

Si comporta come chi è pronto a ricevere, come un povero accetterà la loro ospitalità.

Tutta da scrutare questa pedagogia di Gesù, il quale anzitutto inizia con l’ascolto, senza voler prendere lui la parola, chiarire subito, precisare tutto, spiegare tutto. Raccontatemi, dice: il cuore risorto è quello che non giudica, ma valorizza ogni frammento, e dice che la tua storia è interessante, che è degna di ascolto ogni storia, ogni amarezza, ogni delusione.

Il racconto di Emmaus è lento, senza fretta. Invece tutto è rapido oggi: tutto ad alta velocità: i treni, la TAV, i computers sempre più veloci, la maturazione delle persone… Un quadro non è ancora abbozzato, e vogliamo pronto il capolavoro; l’azione è ancora pensiero, e ne vogliamo gli effetti; non ci siamo ancora messi in strada e vogliamo essere arrivati. Anche in famiglia c’è sempre da correre, manca il tempo, siamo in apnea…

Invece il vangelo oggi propone la liturgia della strada: fatta di ascolto innanzitutto.

Poi cominciò a spiegare loro che il Cristo doveva patire. I due camminatori scoprono una verità che capovolge tutto. C’è la mano di Dio posata proprio là dove sembrava impossibile, proprio là dove sembrava assurdo: sulla croce.

Così nascosta da sembrare assente, mentre invece sta tessendo il filo d’oro della tela del mondo. Non dimentichiamolo: più la mano di Dio è nascosta più è potente.

 

E il primo miracolo è così dolce da non accorgersene subito, è così necessario da entrare in loro senza imporsi: non ci bruciava forse il cuore mentre per via ci spiegava il senso delle Scritture e della vita?

Un dono favoloso quello del cuore acceso, almeno di tanto in tanto, lo sappiamo tutti che è un dono che va e viene, “non sempre si può conservare l’incandescenza del cuore, ma una cosa sì: la memoria dell’incandescenza del cuore” (Card Martini)…

E dal cuore acceso dei due pellegrini escono parole che sono rimaste tra le più belle che sappiamo: resta con noi, Signore, perché si fa sera. Resta con noi quando la sera scende nel cuore, resta con noi alla fine della giornata, alla fine della vita. Resta con noi, e con quanti amiamo, nel tempo e nell’eternità.

Avevano seguito Gesù e lui li aveva amati! Né loro né lui sono cambiati. Non si lasceranno. I due rifiutano di vedere concludersi così di colpo questa amicizia nascente.

Un uscio stava per aprirsi, una casa li avrebbe accolti, un po’ di fuoco, un po’ di pane, volti amici. Lo invitano quindi a restare, offrendogli l’ospitalità, in una maniera così delicata che par quasi che essi la ricevano da Lui. Certi discorsi di Gesù erano improvvisamente riaffiorati, e la sua pietà si ristampava nel loro animo come nel Samaritano della strada che va da Gerusalemme a Gerico. «Avevo fame e m’avete dato da mangiare… ero Pellegrino e forestiero e mi avete ospitato…» (Mt 25,35-40). Invitando il Forestiero a rimanere, i Due sentivano di rendere un omaggio alla memoria del Maestro: era la maniera più giusta di commemorarlo, di averlo vicino ancora, di stargli ancora insieme. Il cuore ritornava ospitale. Nel calore del discorso s’erano dimenticati di chiedergli chi fosse e dove andasse: ma lui che era straniero ora si è fatto prossimo. Resta con noi: che non sia anche questo gesto, l’essere ospitali nella vita, una modalità che avvicina al riconoscimento di Gesù nel pane spezzato?

Forse questo è il segno più antico di cui dispone l’umanità: sedersi insieme e dividere il cibo. Probabilmente è così che siamo diventati esseri umani, dividendoci la preda cacciata per essere uniti, sono esperienze remotissime di solidarietà e perfino di giustizia.

Dio entra, furtivamente nel mondo attraverso i gesti del fare strada, dell’ascolto, dell’ospitalità, del convivio. Questo è il livello in cui Dio entra. Noi lo vorremmo da altre parti… Ma la via di Dio verso l’uomo rimane la fraternità nel senso ricco, profondo, il costruire un mondo fraterno già annunciato e inaugurato. Il nostro impegno nel mondo è questo: annunciare che non è vero che Pilato e Caifa possono fare in eterno il loro gioco. Non è vero!

È possibile che venga un mondo diverso, un mondo migliore: questa la speranza è santa, è benedetta, Dio è lì. Dio non è nel rumore, nel chiasso, nel comizio, ma si consegna in quei semplici rapporti in cui l’uomo scopre se stesso con l’altro, nell’altro, quando ci si scambia tempo e cuore. In questa reciprocità, tessuto altissimo dell’umano in cui si celebra l’amore, entra, con passi silenziosi, il mistero di Dio.

Lo riconobbero allo spezzare del pane”. Il segno di riconoscimento di Gesù, il suo stile unico, è il suo Corpo spezzato, vita consegnata per nutrire la vita. La vita di Gesù è stata un continuo appassionato consegnarsi. Fino alla croce. Che cosa poteva dare di più?

«Lo riconobbero allo spezzare del pane», allo spezzare qualcosa di proprio per gli altri, perché questo è il cuore del vangelo. Spezzare il pane o il tempo o un vaso di profumo, come a Betania, e poi condividere cammino e speranza e solitudine.

È cambiato il cuore dei due, i loro occhi, cambia la strada: “Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme”. La fuga triste diventa corsa gioiosa per i due discepoli, non c’è più notte né stanchezza, il cuore è acceso, gli occhi vedono, la vita è fiamma. Non patiscono più la strada: la respirano, respirando Cristo. Diventano profeti: Manda ancora profeti Signore/ uomini certi di Dio, /donne dal cuore in fiamme/ e tu a parlare dai loro roveti (Turoldo).

E che ascoltarli sia rimanere accesi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Vangelo a cura di Ermes Ronchi

Gesù, il compagno di viaggio che non riconosciamo

III Domenica di Pasqua – Anno A – 30 aprile 2017

Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». […]

La strada di Emmaus racconta di cammini di delusione, di sogni in cui avevano tanto investito e che hanno fatto naufragio. E di Dio, che ci incontra non in chiesa, ma nei luoghi della vita, nei volti, nei piccoli gesti quotidiani.
I due discepoli hanno lasciato Gerusalemme: tutto finito, si chiude, si torna a casa. Ed ecco che un Altro si avvicina, uno sconosciuto che offre soltanto disponibilità all’ascolto e il tempo della compagnia lungo la stessa strada.
Uno che non è presenza invadente di risposte già pronte, ma uno che pone domande. Si comporta come chi è pronto a ricevere, non come chi è pieno di qualcosa da offrire, agisce come un povero che accetta la loro ospitalità.
Gesù si avvicinò e camminava con loro. Cristo non comanda nessun passo, prende il mio. Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini. Gli basta il passo del momento, il passo quotidiano.
E rallenta il suo passo sulla misura del nostro, incerto e breve. Si fa viandante, pellegrino, fuggitivo, proprio come i due; senza distanza né superiorità li aiuta a elaborare, nel racconto di ciò che è accaduto, la loro tristezza e la loro speranza: Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?
Non hanno capito la croce, il Messia sconfitto, e lui riprende a spiegare: interpretando le Scritture, mostrava che il Cristo doveva patire.
I due camminatori ascoltano e scoprono una verità immensa: c’è la mano di Dio posata là dove sembra impossibile, proprio là dove sembra assurdo, sulla croce. Così nascosta da sembrare assente, mentre sta tessendo il filo d’oro della tela del mondo. Forse, più la mano di Dio è nascosta più è potente.
E il primo miracolo si compie già lungo la strada: non ci bruciava forse il cuore mentre ci spiegava le Scritture? Trasmettere la fede non è consegnare nozioni di catechismo, ma accendere cuori, contagiare di calore e di passione. E dal cuore acceso dei due pellegrini escono parole che sono rimaste tra le più belle che sappiamo: resta con noi, Signore, perché si fa sera. Resta con noi quando la sera scende nel cuore, resta con noi alla fine della giornata, alla fine della vita. Resta con noi, e con quanti amiamo, nel tempo e nell’eternità.
E lo riconobbero dal suo gesto inconfondibile, dallo spezzare il pane e darlo.
E proprio in quel momento scompare. Il Vangelo dice letteralmente: divenne invisibile. Non se n’è andato altrove, è diventato invisibile, ma è ancora con loro. Scomparso alla vista, ma non assente. Anzi, in cammino con tutti quelli che sono in cammino, Parola che spiega, interpreta e nutre la vita. È sulla nostra stessa strada, «cielo che prepara oasi ai nomadi d’amore» (G. Ungaretti). https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/ges-il-compagno-di-viaggio-che-non-riconosciamo?utm_content=buffer9782d&utm_medium=social&utm_source=facebook.com&utm_campaign=buffer

http://buff.ly/2qbGyp1

 

 

 

 

 

 

1 Giugno 2016

Messaggio della Madonna di Medjugorje

 

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I 10 SEGRETI DI MEDJUGORJE (di Padre Livio Fanzaga):

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VIDEO RELATIVI AI MESSAGGI DELLA MADONNA DI MEDJUGORJE

PLAYLIST RELATIVA A MEDJUGORJE (MESSAGGI E COMMENTI IN VIDEO)
https://www.youtube.com/playlist?list=PL_I8V9Z5YmOY_O1E9krjhlTo3O_k-L-6y

LE APPARIZIONI DELLA MADONNA A PORZUS – Nuova versione

6 luglio 2005

Il Catechismo della Chiesa Cattolica in mp3

IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA IN AUDIO

5 Gennaio 2010

REPORT SUL 21° SECOLO

Attraverso un
fantascientifico viaggio nel tempo, l’autore del libro, Pier Angelo
Piai, desidera sensibilizzare il lettore a prendere coscienza del
nostro comune modo di pensare ed agire, noi del 21° secolo che ci
vantiamo di essere progrediti. In che cosa consiste, allora, la vera
evoluzione della specie umana?
Quando l’uomo potrà diventare davvero integrale?
Report
cerca di dare alcune risposte ai moltissimi interrogativi che emergono
in queste pagine scritte attraverso riflessioni e  considerazioni
sociologiche, antropologiche e filosofiche.

6 Luglio 2005

6 luglio 2005 Il Catechismo della Chiesa Cattolica in mp3

IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA IN AUDIO
Catechesi e omelie di padre Lino Pedron