XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – “Anno C”

Ab 1.2-3; 2,2-4 – 2 Tm 1, 6-8.13-14 – Lc 17, 5-10

 

E’ la domenica dei “servi inutili”, ma mai è detto inutile il servizio. E’ la domenica dei discepoli dalla piccola fede, eppure capaci di sradicare e piantare, di muovere la vita e la storia.

 

Dice Paolo: “Ravviva il dono di Dio che è in te”. Quanti doni in noi che abbiamo lasciato spegnere, amori e fiducie che non abbiamo ravvivato, lavorato, custodito, di questo, Kyrie eleison

 

Omelia

La prima parola importante viene dai discepoli, e la facciamo subito nostra: “Signore, aumenta la nostra fede”. Accresci, aggiungi fede. E’ così poca!

Nel Vangelo le preghiere degli uomini, di ciechi, donne, malati, discepoli, si riassumono tutte in due sole domande. La prima: “Signore, abbi pietà”; la seconda: “Signore, aumenta la nostra fede”.

Qui è riassunto l’universo del cuore. Il mondo dell’uomo, spazio di dolore e di mistero, è racchiuso in queste due preghiere: “Kyrie eleison” e “accresci fede”, che parlano la prima di povertà e sofferenza, la seconda di fede come pane. E ci fanno quotidianamente dipendenti dal Cielo.

Gesù ha appena avanzato una proposta che ai discepoli pare una missione impossibile: quante volte devo perdonare? Fino a settanta volte sette. E sgorga spontanea la richiesta: accresci in noi la fede, o non ce la faremo mai. Una preghiera che Gesù non esaudisce, perché non tocca a Dio aggiungere fede, non può farlo: la fede è la libera risposta dell’uomo al corteggiamento di Dio.

E poi ne basta poca, meno di poca, per ottenere risultati impensabili: se aveste fede come un granello di senape, potrete dire a questo gelso sradicati...

Qui appare uno dei tratti tipici dei discorsi di Gesù: l’infinito rivelato dal piccolo. Gesù sceglie di parlare del mondo interiore e misterioso della fede usando le parole di tutti i giorni, rivela il volto di Dio e il venire del Regno scegliendo il registro delle briciole, del pizzico di lievito, della fogliolina di fico, del bambino in mezzo ai grandi. È la logica dell’Incarnazione che continua, quella di un Dio che da onnipotente si è fatto fragile, da eterno si è perduto dentro il fluire aggrovigliato dei giorni.

La fede è rivelata dal più piccolo di tutti i semi e poi dalla visione grandiosa di foreste che volano verso i confini del mare. La fede è un niente che è tutto. Leggera e forte. Ha la forza di sradicare gelsi e la leggerezza di un minimo seme che si schiude nel silenzio.

Ho visto il mare riempirsi di gelsi. Ho visto imprese che sembravano impossibili: madri e padri risorgere dopo drammi atroci, disabili con occhi luminosi come stelle, un missionario discepolo del Nazzareno salvare migliaia di bambini-soldato, una piccola suora albanese rompere i tabù millenari delle caste…

Un granello: non la fede sicura e spavalda ma quella che nella sua fragilità ha ancora più bisogno di Lui, che per la propria piccolezza ha ancora più fiducia nella sua forza. Ascolto di nuovo le prime parole della seconda Lettura di oggi: “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te”. Perché la sua fiamma si può spegnere, è esposta, tu stesso puoi ignorarla e non alimentarla e lasciarla spegnere. Ricordati di ‘dare vita’ al dono di Dio che è in te.

Come nella formula del matrimonio lo sposo dice: “Io accolgo te come mia sposa” e vuol dire: ti accolgo come dono, come regalo che viene dall’infinito, come la cosa più bella che ho incontrato. E sento che tu fai fiorire la mia vita, e io vivo perché ti amo…

Così è per la fede che apre, rompe cortecce, semina, fa partire, muove la vita, mi cambia le idee e perfino il modo di amare. Dà una profondità unica a tutto ciò che sento e penso e dico e faccio.

E quante volte ho sperimentato che nominare Cristo equivale a confortare la vita, a promuovere il cuore. Ho visto abbattere montagne d’odio e nascere alberi nel deserto o nel mare; ho visto mura invalicabili dissolversi; ho visto credenti fare cose che noi non osiamo neppure immaginare. E questo mi ha dato la fierezza di credere!

 

Il vangelo termina con una piccola parabola sul rapporto tra padrone e servo, chiusa da tre parole spiazzanti: Quando avete fatto tutto dite: siamo servi inutili. Capiamo bene, però: mai nel vangelo è detto inutile il servizio, anzi è il nome nuovo della civiltà.

“Inutili”, una parola che può disorientare se capita male. La nostra traduzione dice così “servi inutili” ma l’aggettivo originale greco significa piuttosto: siamo servi senza pretese, senza esigenze, senza rivendicazioni. Siamo servi che di nulla hanno bisogno se non di essere se stessi e di essere veri. Noi siamo semplicemente servi, e non misuriamo la vita con il metro dei risultati ma del servizio.

Diceva Madre Teresa di Calcutta: nel nostro servizio ai morenti non contano i risultati, ma quanto amore metti in ciò che fai.

Siamo servi nei campi della vita e la nostra esistenza non è raccogliere ma seminare, non è arrivare ma partire.

Partire ad ogni alba, seminare ad ogni stagione.

Servi inutili non perché non servono a niente, ma perché non cercano il proprio utile. Loro gioia è servire la vita.

Io non rincorro titoli, onori, stima, applausi, onorificenze mondane, fossero pure pontificie, la nostra gloria è di essere servi. E’ il servizio che è vero non la ricompensa.

Lo diceva con altre parole Dostoevsky: “La vita realizzata è quella in cui lavori per le cose che ami e ami le cose per cui lavori”.

Servo è il nome che Gesù sceglie per sé; come lui sarò anch’io, perché questo è l’unico modo per creare una storia diversa, che umanizza, che libera, che pianta alberi di vita nel deserto e nel mare.

Inutili anche perché la forza che fa germogliare il seme

non viene dalle mani del seminatore;

perché l’energia che converte un cuore non sta nel predicatore,

ma nella potenza della Parola.

“Noi siamo i flauti, ma il soffio è tuo, Signore” (Rumi).

 

 

Preghiera

 

Signore, aumenta la mia fede,

non è neppure un granello di senapa.

Signore, fammi servo libero come i gigli del campo,

libero e ‘inutile’ come gli uccelli del cielo,

servo libero e inutile e vero come il fiore

che nel folto del bosco fiorisce anche se nessuno lo vedrà mai,

come l’usignolo che canta tutta la notte

anche se nessuno si fermerà ad ascoltarlo.

Una madre ha amato con tutto il cuore e suo figlio non è guarito.

Una donna ha amato con tutto il cuore

e il suo uomo se ne è andato e non è tornato,

il monaco ha pregato fino all’alba e nessuno lo saprà mai.

Eppure hanno servito la vita, hanno reso più buona la terra.

Anche a me, Signore, basti avere amato, aver lavorato,

per te e per i fratelli anche se nessuno se ne è accorto,

anche se nessun albero è fiorito nel mare

e nessun monte ha danzato davanti ai miei occhi.

Ho bisogno, però, della tua pazienza

che così tanto ha seminato in me per tirar su così poco,

ho bisogno di avere occhi di profeta

per vedere ancora il tuo sogno

come una goccia di luce impigliata

nel cuore vivo e dolente di tutte le cose. Amen

 p. Ermes Ronchi[embedyt] http://www.youtube.com/watch?v=3h4AgUQyBZk[/embedyt]