San Benedetto Giuseppe Labre (Amets 1748 – Roma 1783)
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INFANZIA ED ADOLESCENZA
Benedetto Giuseppe Labre nacque il 26 marzo 1748 in una famiglia di agricoltori e piccoli commercianti, ad Amettes, villaggio di Artois. Suo padre, Giovanni il Battista, lavorava la terra; sua madre, Anne-Barbe Grandsir, gestiva un’attività di merceria a casa. Benedetto Joseph era il maggiore di quattordici fratelli e sorelle, cinque dei quali scomparsero in giovane età. Francesco Giuseppe, suo zio paterno, vicario di un vicino villaggio, celebrò il battesimo e fu il padrino del neonato, il giorno dopo la sua nascita.
Benedetto si rivelò immediatamente come un bambino discreto, persino riservato, assetato di solitudine, silenzio e unione con Dio. Passando per un “stravagante”, frequentò la scuola a Nedon, a pochi chilometri da Amettes. Fin dalla sua prima infanzia, aspirava al deserto e alla vita eremita. Sapendo leggere e scrivere fluentemente all’età di 12 anni si unì a suo zio François-Joseph, nominato sacerdote di Erin, e con il quale rimase 6 anni, durante i quali l’impegno allo studio, la sua vita interiore e il suo comportamento apparentemente “riservato” attirarono l’attenzione dell’ambiente circostante.
Il 4 settembre 1761, Benedetto Giuseppe fece la prima comunione e ricevette il sacramento della Cresima dal Vescovo di Boulogne Partz de Pressy,
Frequentando la biblioteca del suo parente curato, si nutriva degli scritti del teologo e mistico spagnolo fratello Luigi di Granada, un domenicano del XVI secolo. Questo fatto influenzò fortemente la sensibilità religiosa di Benedetto.
Probabilmente la meditazione di dieci volumi dei sermoni di Padre Lejeune, sicuramente avrebbero impressionato a fondo il suo orientamento spirituale.
All’età di 16 anni, Benedetto Giuseppe prese le distanze dai suoi studi, con disappunto dei suoi genitori e di suo zio, il quale, vista la sua fragile costituzione, lo avrebbe volutamente orientare alla scuola di sacerdozio. Su questo punto Benedetto spiegò chiaramente a loro che non si sentiva chiamato ad essere un prete, ma un monaco, anche un eremita. Questo progetto, naturalmente, si scontrerà con la forte opposizione dei suoi.
Nell’agosto 1766 scoppiò un’epidemia di peste a Erin. Lo zio e il nipote furono presenti su tutti i fronti. Francesco Giuseppe si prese cura dei malati e aiutò i morenti, mentre Benedetto si prese cura del lavoro della terra e della cura degli animali abbandonati a se stessi. Lo zio però, fu contaminato a sua volta dal terribile male e morì. Benedetto, sconvolto, dovette tornare ad Amettes, ma aveva ancora in mente le opere di Padre Lejeune. I genitori di Benedetto Joseph, continuando ad opporsi al suo progetto di vita monastica, lo affidarono ad un altro dei suoi zii, anche lui sacerdote, padre Vincent.
Nel 1766, Benedetto andò a Conteville, dove i suoi parrocchiani lo denominarono il “nuovo Monsieur Vincent”. Lì si trovò in mezzo a pochi giovani venuti a studiare con suo zio e che lo renderanno oggetto delle loro battute di scherno. Tuttavia, riprese i suoi studi con la serietà che lo caratterizzava. Fu profondamente turbato dall’esempio del distacco di zio Vincent; quest’ultimo, non contento di distribuire il minimo denaro, persino le sue scarpe, ai primi bisognosi, cominciò a donare, uno ad uno, ciascuno dei suoi poveri mobili.
L’esempio di Padre Vincent e la complicità spirituale che li univa confermarono Benedetto Giuseppe nel suo desiderio di essere monaco. Durante una “missione” tenuta nella parrocchia durante la Quaresima del 1767, Benedetto evocò il suo progetto di vita monastica con i predicatori. Basandosi su questo scambio, finì per convincere lo zio Vincent alla sua causa. Quest’ultimo, cauto, consigliò a Benedetto di non rischiare di inquietare i suoi genitori parlando della Trappa in loro presenza. Piuttosto avrebbe dovuto impegnarsi ad esaminare con lui l’ipotesi di una vita certosina: i certosini avevano monasteri nella regione. In questo modo gli avrebbero impedito di allontanarsi troppo da loro ….
PROGETTI DI VITA
Ad aprile, Benedetto, che aveva appena compiuto 19 anni, ottenne il permesso di andare alla Chartreuse de Longuenesse, vicino alla città di Saint Omer. Ahimè, la sua richiesta gli venne negata. il Priore lo informò che a causa della devastazione causata da un incendio, non è più possibile ricevere novizi.
Dopo alcune settimane di riflessione, Benedetto Giuseppe si unì al monastero di Neuville, vicino a Montreuil-sur-Mer. Un’altra delusione: il Prieur lo trovava troppo giovane e gli consigliò di imparare a cantare e di finire i suoi studi. Per tre mesi, Benedetto tornò quindi al lavoro ferocemente. Così lo troviamo, all’inizio di ottobre 1767, sulla strada per Montreuil, in compagnia di un altro ragazzo che aspirava alla vita monastica. Questa volta, entrambi vennero ammessi! Ma, dopo poche settimane Benedetto venne assalito dalle sue crisi d’ansia, da questo stato di scrupolo che lo rodeva interiormente e lo esauriva. Questi tormenti ebbero conseguenze tali sulla sua già fragile salute che venne poi riportato ai suoi genitori. Sebbene Benedetto Giuseppe vivesse questo ritorno forzato a casa come un grave fallimento, non si scoraggiò, tuttavia, non considerando a fondo la vera origine del suo problema diceva che se i certosini non lo volevano, ciò è solo la conferma della sua certezza di essere chiamato alla Trappa.
Ritornato sulla strada, arrivò nell’Orne, nella grande Trappe di Soligny, il 25 novembre 1767. Tutto il suo viaggio si svolse sotto una continua pioggia battente e si presentò al Monastero in uno stato pietoso. Era talmente esausto che non poteva essere accolto, anche perché non poteva essere ammesso al noviziato prima dei 24 anni. Padre Theodore Chambon testimoniò che se nessuno nel monastero aveva conservato la memoria di questo fatto, il registro dei richiedenti conservava ancora il suo nome in data del 25 novembre 1767. Benedetto visse una delle crisi più acute di coscienza della sua esistenza.
Ritornato ad Amettes e benché accolto con gioia e tenerezza dalla sua famiglia, attraversò uno stato talmente depressivo che si cercò di rimediare reintegrandolo nel lavoro comune dei campi o del commercio. Benedetto chiese a Notre Dame de Boulogne di aiutarlo e decise di fare un ritiro in seminario. Ricevuto dal suo vescovo, il vescovo Partz de Pressy, lo invitò a seguire i consigli dei suoi genitori e a fare un nuovo tentativo alla Certosa.
Nel gennaio o febbraio 1769, il nostro instancabile ricercatore della verità andò a Gouy-Saint-André, nel comune di Champagne-lès-Hesdin. Qui c’era l’abbazia di Saint-André-aux-Bois dove, forse, era già stato prima. Eppure, secondo la testimonianza di Padre Mathias Alard, ebbe un lungo incontro con il Reverendo Abate Ignazio Crepin, il quale, dopo aver ascoltato il suo progetto di vita lo accolse per la vita certosina, dicendo: “Il nostro Signore ti chiama per seguirlo ”
e così Benedetto disse addio ai suoi genitori..
Il 12 agosto 1769, Benedetto lasciò i suoi genitori e il suo villaggio di Amettes, che non vedrà mai più, per raggiungere Montreuil. Ammesso senza particolari difficoltà, il nostro araldo di Dio si rivelò, ancora una volta, incapace di assumere una vita comunitaria. Il suo stato depressivo aumentò, portandolo a un silenzio virtuale, come evidenziò il fratello Enry Cappe, procuratore del monastero: la sua profonda sofferenza si fece talmente sensibile, che il Priore lo invitò a lasciare il monastero confidandgli queste parole profetiche: “Andate, Dio non vi vuole da noi, seguite le ispirazioni della Grazia”.
Il 2 ottobre, Benedetto scrisse una lettera ai suoi genitori per tenerli informati. Alcune frasi prospettavano il futuro in una luce diversa: “… Ho lasciato il secondo giorno di ottobre. Considero questo come un ordine di Provvidenza che mi chiama ad uno stato più perfetto. Mi hanno detto che era la Mano di Dio che mi tirava fuori dalle loro case. Quindi vado alla Trappa, questo posto che ho tanto desiderato da tanto tempo … Non ti affliggere … Non ti è permesso di resistere alla Volontà di Dio che l’ha così disposta per il mio più grande bene e per la mia salvezza … Avrò sempre il timore di Dio davanti agli occhi e al suo Amore nel cuore. ” …
Ecco Benedetto in rotta verso quella che probabilmente considerava la sua unica speranza: la Trappa “Madonna del Santuario” a Sept Fons, vicino a Moulins.
Fece una deviazione finale a Soligny, dove si sentì dire ciò che gli era già stato detto prima, bussò alla porta di Sept Fons dopo aver camminato per 800 km. Ammesso come postulante, l’11 novembre prese l’abito dalle mani di Dom Dorothée Jalloutz ricevendo il nome di Fratello Urbano.
I monaci ammiravano l’intensità della vita spirituale di questo giovane fratello, il quale ad ogni momento di libertà andava davanti al Santissimo Sacramento.
Tuttavia un motivo d’inquietudine serpeggiava tra loro di fronte alle privazioni non previste dalla Regola, che Benedetto moltiplicava e si imponeva. Questo ascetismo esasperato costituiva un sintomo, una manifestazione del suo stato depressivo che gradualmente emergeva di nuovo.
Benedetto si ritrovava in realtà di fronte all’incessante dubbio sulla sua capacità di rispondere alla chiamata del Signore.
Il maestro dei novizi non poteva altro che constatare la decadenza psicologica e fisica del giovane fratello, e temendo seriamente per il suo equilibrio, lo fece ammettere all’infermeria del monastero assegnandolo al fratello Justin Richard.
Il 2 luglio del 1770, Benedetto Giuseppe intuì nuovamente dall’Abate che per lui era impossibile dimorare tra quelle mura in quello stato di vita, ma che Dio l’aspettava altrove…
IL CAMMINO SPIRITUALE DI BENEDETTO GIUSEPPE LABRE
… È probabile che durante questo periodo abbia luogo la vera “conversione” di Benedetto. Quest’ultimo rinunciando infine, dopo tanti insuccessi e disillusioni, a voler rispondere alla chiamata del Signore dove pensava di essere chiamato, accettò umilmente di seguirlo dove era atteso.
Ancora esitando, di diresse a Roma. Alla fine di agosto del 1770 fu trovato a Chieri, vicino a Torino, da dove scrisse ai suoi genitori quella che è probabilmente fu la sua più bella lettera e quella che meglio testimoniava questa nuova speranza che lo animava: sapere che lui “finalmente entrerà in un paese dove si vive bene”; non quello immaginato come luogo ideale o come rifugio, ma come quello in cui potrà vivere finalmente allo scoperto, libero e sereno.
Ma nel diciottesimo secolo in quel posto pellegrini, pigri cinici e canaglie percorrevano le stesse strade, e tendevano le mani davanti agli edifici religiosi. Il piccolo Benedetto, il cui unico vanto era quello di presentarsi dicendo: “Io sono un cristiano”, alto appena 1,60 m, con i suoi stracci, i suoi lunghi capelli rossi e la sua barba rada che ricordava il volto di Cristo, venne maltrattato, respinto, accusato, imprigionato.
Benedetto era convinto che: “quando si trattava di carità verso il prossimo, tutto doveva essere sacrificato”! Con il cuore ancora aperto, le mani tese e la sua anima troppo elevata per sospettare la malizia, frequentava apertamente e liberamente sia la ragazza audace di Aix en Provence che la religiosa troppo curiosa; sia i ragazzi delinquenti che lo salutavano dietro le sbarre, che quelli che circolavano nei bassifondi della città. Tutto ciò senza altra preoccupazione che l’amore: “quelli senza bellezza o splendore, privati di un’apparenza amabile, oggetti di disprezzo e rifiuto dell’umanità” (Is 53, 2-3).
Agli occhi degli uomini di chiesa, Benedetto appariva un tipo sospetto perché questo ragazzo sembrava troppo giovane per indossare sempre quella specie di abbigliamento religioso non ben identificabile! Lasciando Sept Fons, mantenne la sua abitudine da novizio cistercense, la sua vita era cinta da una corda alla quale appendeva una ciotola e una zucca; indossava quello che doveva essere stato un cappello di feltro, per proteggersi dal cattivo tempo; per non parlare delle sue povere scarpe. Portava una croce sul petto, un rosario al collo e un fagotto sulla sua spalla contenente il Vangelo, l’Ufficio divino, l’imitazione di Gesù Cristo, la Regola di San Benedetto.
Il 3 dicembre 1770, Benedetto raggiunse Roma, fermandosi in ogni chiesa, raccogliendosi nelle Catacombe. Trovò al Colosseo, un luogo dove il sangue versato per amore si mescolava con il sangue sparso per i piaceri perversi, la sua “nicchia”, rifugio del sonno dei giusti in Dio. Questo eremitaggio anticipava quello in cui si ritirerà diverse settimane, pochi anni dopo, durante una nuova permanenza in Francia, in una grotta della valle di Chicalon, il “Subiaco labrien” di Aix.
Così, in ginocchio sulla pietra di fronte a Cristo Eucaristia; così, restituendo il pane ricevuto a coloro che considerava più poveri di se stesso; così, accompagnando lo straniero e sostenendo il più debole, rimase nella città di Pietro e Paolo finché il tepore della primavera del 1771 lo chiamò ad unirsi a Maria, serva e povera, e diresse i suoi passi verso Loreto, dove era già stato per la prima volta nel novembre del 1770.
La “Santa Casa” rimarrà per Benedetto il luogo mariano per eccellenza. Fu in quel momento che, partendo da Loreto, iniziò un vero viaggio attraverso l’Italia, e oltre, l’Europa.
Tra basiliche e chiese, andò a Napoli, poi a Bari dove cantava per guadagnare del cibo per i prigionieri. A Montecassino, Benedetto trovò le tracce del suo santo patrono. Poi eccolo ad Assisi a fianco del Poverello; e, proprio come si era unito al Terzo Ordine Trinitario per la redenzione dei prigionieri, cinse la corda dei figli di Signora Povertà.
E ritornò in Svizzera tra i suoi grandi santuari, poi ancora in Francia, poi in Germania; ritornò a Compostela e fece un’altra tappa a Loreto, dove rimase undici volte, probabilmente dopo un voto, avendo viaggiato nel frattempo in molti altri paesi, come l’Austria o la Polonia, per esempio.
È a Loreto che il giovane Dom Valeri, un chierico addetto alla Basilica, “lo scoprì” assorto nella sua relazione con Dio, inconsapevole della folla che lo stringeva e lo scuoteva. Colpito dalla miseria e dal distacco di Benedetto, decise un giorno di avvicinarsi, di capire chi era e come viveva. Benedetto spiegò che dormiva fuori, nonostante il freddo notturno di questa regione. Dom Valeri gli offrì un letto e un aiuto finanziario che Benedetto rifiutò umilmente, ma fermamente. Pensando poi che Benedetto avesse lasciato la sua famiglia dopo gravi divergenze, si propose di intervenire a suo favore; ma poi constatò che fu una sua scelta libera, disponibile a seguire la chiamata di Cristo che non aveva”dove posare il capo”.
Dom Valeri rivide spesso Benedetto ma era incerto sul suo modo di comportarsi: era un pazzo o un santo? Questo sconcertante testimone del Vangelo un giorno definì il senso di una vita cristiana, dicendo:
“Per amare Dio ci vogliono tre cuori: uno ardente d’amore per Dio, il secondo pieno di compassione per il prossimo, aiutandolo in entrambe le sue esigenze temporali e spirituali, il terzo, rigoroso per se stesso, costantemente cercando di combattere la volontà personale e l’amor proprio.
Nel corso degli anni, il giovane chierico, notando che Benedetto possedeva una vera e profonda cultura e aveva l’anima e lo stile di vita di un eremita, cercava di incoraggiarlo a tornare dai camaldolesi. Di fronte a questa proposta, Benedetto Giuseppe reagì come aveva sempre fatto, dopo Seven Fons, coniugando il senso dell’obbedienza con la libertà di spirito. Pensò per un paio d’ore e concluse con le sue stesse parole: “Dio non lo vuole in questo modo”.
Un altro incontro fu importante per la sua vita. Benedetto aveva ventotto anni; nel febbraio 1776 vandò da un prete che uscì dal confessionale e chiese di parlargli. Costui è Padre Temple, che lo invitò a tornare nel pomeriggio.
Dopo un lungo scambio di idee, secondo la testimonianza del sacerdote francese, concluse che Benedetto era un grandissimo santo o un grande demone. Per testare il giovane, gli chiese di tornare il giorno dopo e lo sottopose ad un vero interrogatorio sulle verità della Fede e gli insegnamenti della Chiesa. Si sentì obbligato a riconoscere la forza e la profondità della sua “teologia”.
Conoscenza e profondità religiosa scoperte dallo stesso grande poeta Germain Nouveau quando si recò, con il suo amico Paul Verlaine, ad Amettes, durante l’estate del 1877. Questo Germain diventò uno dei figli spirituali più ferventi di Benedetto (The Pléiade – Complete Works).
Dopo averlo ascoltato in confessione, Padre Temple non dubitò più che il mistico cencioso fosse un grande santo. Gli chiese quindi di incontrarlo il più regolarmente possibile, prendendo nota di tutto ciò che sentiva, vedeva e capiva.
Arrivò ad affermare che: “Benedetto Giuseppe viveva in continua unione con Dio e rimaneva alla Sua presenza”. Queste note saranno preziose quando, pochi anni dopo, inizierà il processo di beatificazione.
A Loreto, Benedetto trovò, suo malgrado, un posto nella casa di Barbara Sori e suo marito. Era il marzo 1780, una di quelle domeniche in cui la folla era così densa che Benedetto non sapeva in quale angolo nascondersi per rimanere nel silenzio della sua ardente preghiera. Una coppia gestiva a Loreto una specie di bottega che commerciava rosari, croci e altri oggetti-ricordo come souvenirs.
Gli proposero di ospitarlo in un luogo illuminato sotto il negozio. Benedetto trovò il posto troppo lussuoso per lui, anche se gli venne detto che era il più miserabile della casa. Tuttavia, accettò di risiedere di volta in volta, purché fosse chiuso, affermando che, essendo un estraneo, fosse più prudente per Barbara e suo marito. Frequentò la coppia per tre anni di seguito; ad ogni incontro, cercarono di convincerlo a nutrirsi un po’ di più, escogitando anche trucchi, mettendo della carne o pane fresco in mezzo ai resti, che egli solo accettava .
Erano molto affezionati a lui che consideravano un santo: alla sua partenza gli regalarono un rosario, un fazzoletto e persino una giacca prima di vederlo riprendere la strada.
I Sori incontrarono Benedetto per l’ultima volta nel 1782. Benedetto arrivò a casa loro completamente esausto, rintizzito dal freddo nell’attraversare la montagna, ventidue giorni dopo aver lasciato Roma.
(Biographie rédigée à l’Hospice du Grand Saint-Bernard, en la fête de la Transfiguration, le 6 août 2002)
Passarono gli anni, la carne delle sue ginocchia si fece viva, divenne diafano. Si stabilì a Roma. La città, con le sue numerose chiese, basiliche e cappelle non era di per sé un luogo adatto per ringraziare e accogliere?
Benedetto, rientrato in città con un edema alle gambe, venne ammesso nell’ospizio che confinava con la chiesa di San Martino dei Monti accettando, per una volta, di essere curato, guarì e si rimise in piedi dopo un mese.
A 31 anni, scopriva per la prima volta ciò che aveva conosciuto a Seven Fons: una vita di comunità, dodici compagni, poveri come lui. L’ambiente non aveva né lo spirito di adorazione, né la tenerezza fraterna.
Benedetto venne maltrattato, deriso, insultato; tuttavia, si integrò pienamente in quella vita di comunità, assumendo i compiti assegnati e piegandosi, senza problemi, ai regolamenti interni. Indusse i suoi compagni erranti a pregare nei tempi prescritti, con la stessa fedeltà mostrata nel rendere i vari servizi. Passava le sue giornate andando da una chiesa all’altra, ridistribuendo le poche vivande ricevute alla porta di qualche convento, così le poche monete che era obbligato ad accettare, donando tutto a coloro che considerava più indigenti di lui. Veniva trovato ogni sera all’ora esatta alle porte dell’ospedale.
Pur non sentendosi “di nessuna parrocchia”, poiché era di tutti, stabilì un legame privilegiato con la chiesa di Santa Maria dei Monti, nella quale trascorre ore, in ginocchio, di fronte al Santissimo Sacramento. Al punto di essere conosciuto e riconosciuto nel vicinato. La bellezza del suo volto, la forza spirituale che emanava con suo atteggiamento, durante il suo lungo periodo di adorazione, furono notati da due pittori: un connazionale, Lyonnais, che disegnò. E diversi mesi dopo, il famoso pittore Antonio Cavalucci che, nascosto nell’ombra in fondo alla chiesa, riprese i tratti di Benedetto e tutto ciò che emanava da esso, grazie al proprio genio.
Questo spiegherà che all’inizio del XX secolo, il pittore Maurice Denis, uno dei padri del movimento “Nabis”, chiederà che Benedetto Giuseppe possa anche diventare il patrono dei modelli per gli artisti, poiché lo era già per i reietti, per gli adolescenti e i prigionieri in difficoltà, per i portatori di barelle e gli emarginati di Lourdes.
Primavera 1783: Benedetto aveva una brutta tosse: soffriva di bronchiti e respirava con difficoltà. Inoltre, la dissenteria continuò a indebolirlo; le devastazioni della malattia segnarono il suo aspetto fisico in modo preoccupante. Divenne scheletrico.
Proprio come i Sori furono per lui un luogo di accoglienza e conforto a Loreto, la famiglia Zaccarelli ebbe un ruolo identico a Roma. Per diversi anni accettò l’ospitalità del macellaio e di sua moglie, con le solite riserve di essere nutriti solo di avanzi e di non ricevere denaro.
In quaresima i suoi amici temevano per lui, vedendolo barcollare ad ogni passo e avanzare solo appoggiandosi alle mura. Facendosi coraggio, Benedetto fu molto presente ai servizi della Settimana Santa. Mercoledì 16 aprile, e forse per la prima volta, espresse un desiderio specifico: scambiare il ramo su cui si appoggiava con un bastone abbastanza forte da potersi reggere, e così di nuovo arrivò a Santa Maria dei Monti
Barcollando per il sudore e livido, “ascoltò” due Messe che seguì, come al solito, con profondo raccoglimento. Stordito, vacillò e cadde su una panchina, prima di riprendersi e uscire. Appena fu sulla soglia, crollò di nuovo; molti si precipitarono a salvarlo per portarlo in ospedale. Benedetto rifiutò, ma accettò la proposta dell’amico Zaccarelli di recarsi a riposare a casa loro.
Sdraiato su un giaciglio, Benedetto consegnò la sua anima a Dio con grande dolcezza. In quel frangente, tutte le campane di Roma invitavano al canto del Salve Regina. Benedetto aveva appena compiuto 35 anni.
L’annuncio della sua morte si diffuse come un incendio. Ci fu un continuo passaparola, i bambini correvano per la città, annunciando: “Il santo è morto, il santo è morto! “. Molte persone, infatti, si spintonavano per toccare il suo corpo, per impossessarsi di un pezzo della veste di quello che i Romani chiamavano “il piccolo santo francese”.
Il suo corpo venne trasportato a Santa Maria dei Monti, tra lo scroscio degli applausi. Le guardie, incaricate della sicurezza, dovettero essere chiamate a contenere l’entusiasmo a volte eccessivo della folla. Questo entusiasmo è tale che i servizi di Quaresima furono temporaneamente interrotti, dato il tumulto che si venne a creare. La sera di Pasqua, il corpo di Benedetto Giuseppe fu depositato nella sua tomba. Fu necessario proteggerlo per intere settimane: i miracoli si moltiplicavano a Roma, in tutta Italia e in molti paesi d’Europa.
(Biographie rédigée à l’Hospice du Grand Saint-Bernard, en la fête de la Transfiguration, le 6 août 2002.)
LA SUA EREDITÀ
La santità della testimonianza del Vangelo fu tale agli occhi di tutti, che meno di un mese dopo il suo “passaggio dall’altra parte”, il 14 maggio, si svolse il processo di beatificazione. Il Papa Pio IX lo dichiarò Beato il 20 maggio 1860, e Benedetto fu iscritto al catalogo dei Santi, la festa della Immacolata Concezione 8 dicembre 1881.
Sulle strade della storia, dopo aver percorso più di trentamila chilometri, Benedetto non si era mai risparmiato nella sua vita quotidiana, intento sempre alla ricerca del suo percorso spirituale. Una delle sue ultime frasi ascoltate rimarrà incisa nel più intimo del suo essere: “Dio ti sta aspettando altrove”.
In quel momento, Benedetto comprese che non doveva più contemplare un luogo, immaginare forme, o un deserto, per avere stimoli spirituali. Altrove, ci sono i limiti di un chiostro eretto ai quattro angoli dell’orizzonte.
Seguendo le famiglie dei Labriani che li hanno preceduti per un secolo e mezzo, i fratelli di San Benedetto Labre e le sorelle di San Benedetto Labre, in Francia come in molti paesi del mondo, continuano a seguire Cristo Gesù accanto agli emarginati e tra gli esclusi.
L’istituto, fondato nel 1842 e cresciuto in Francia alla vigilia di Natale del 1981, è chiamato dall’esempio di san Benedetto Giuseppe Labre, discepolo del “Figlio dell’uomo che non sa dove posare il capo” (Luca 9) a vivere nell’adorazione e nella lode. Fratelli e sorelle accompagnano le gioie e i percorsi di coloro che sono donati per servire.
Nota del curatore
Recandomi a Castelmonte come di consueto, notai su una parete interna del Santuario un antico quadro che rappresentava un giovane con l’aureola, emaciato, con il rosario in mano e un fagotto. Mi informai dettagliatamente e venni a sapere che rappresentava Benedetto Giuseppe Labre, il quale venne anche a Castelmonte (UD). Questo fatto mi spinse a scrivere un libro che avevo da tempo in mente: “Come ci vedono dall’aldilà – cronache di un vagabondo veggente”, immaginando un giovane d’oggi, il quale, similmente a san Benedetto G. Labre, cercava la sua vocazione girando tra conventi e santuari, ma non riusciva a comprendere bene che cosa avrebbe dovuto fare, mentre in numerose apparizioni alcuni personaggi conversavano con Lui. Finì il suo percorso spirituale proprio a Castelmonte.
Riporto un breve testo del dott. Mario Turello riferendosi, in una conferenza, alle ultime pagine del libro:
Al Santuario di Castelmonte avviene l’ultimo incontro: a Luca appare San Benedetto Giuseppe Labre, ed è l’incontro con se stesso. Giuseppe Labre, il vagabondo di Dio, è colui che ha superato tutte le tentazioni, compresa quella di farsi monaco. Per Luca è la rivelazione definitiva: la sua vocazione “è stata” quella di non aver vocazione. La sua, come quella del santo che lui incontra per ultimo, è stata la contemplazione della strada, il sacerdozio della quotidianità, l’imitazione di Cristo che non aveva dove posare il capo. E qui mi pare di captare una lettura profondissima, metaforica di questo “Figlio di uomo che non ha dove posare il capo”. (dott.Mario Turello)
Ecco il capitolo finale del libro:
Luca alzò prestissimo quella mattina. Il santuario di Castelmonte era avvolto di mistero: ai pendii del monte, tutt’attorno, bianche nubi di fitta nebbia coprivano completamente la pianura sottostante. Dal piazzale antistante la chiesa dove spicca un antico pozzo il paesaggio era molto suggestivo. Un insolito silenzio avvolgeva le poche case arroccate lungo l’antica stradina lastricata di pietre che menava sopra fino ai piedi delle ripide scalinate del Santuario. Luca lodava Dio in cuor suo per quella quiete così ritemprante. Mentre passeggiava lentamente lungo il muro perimetrale che permette di affacciarsi sul grande piazzale sottostante, vide un’ombra accanto al pozzo: gli sembrava di aver scorto la sagoma di una persona accovacciata. Rimase titubante a fissare quella presenza inquietante. Poi un fil di voce: – Non temere. pellegrino : avvicinati!
Luca si avvicinò, guardingo e gradualmente si facevano più distinte le sembianze di quella figura umana sdraiata sopra lo scalino. Il suo vestito era composto di una tunica e di uno scapolare. Aveva sul petto un crocifisso, al collo una corona, nelle mani un rosario. Dalle sue spalle pendeva un rude sacco. Quando Luca riuscì a distinguere le fattezze del volto pallido ed emaciato, ebbe un sussulto: riconobbe in Lui lo stesso personaggio raffigurato nel quadro situato presso i confessionali femminili del Santuario.
– Tu…tu sei San Benedetto Giuseppe Labre?
– Sono io! Mi chiamavano “il vagabondo di Dio”.
– Perché queste sembianze?
– Perché così ero durante la mia vita terrena. Non avevo alcun posto comodo dove posare il capo. Dormivo ovunque, quasi sempre all’aria aperta, ai piedi di un albero o lungo una siepe
– Eri uno di quelli che oggi denominiamo “barboni “?
– In pratica. Ma non ero assillato dalla ricerca del cibo, o dei vestito, o dell’alloggio. La Provvidenza non mi ha mai abbandonato.
– Perché hai scelto quel tipo di vita?
– Fin da ragazzo sono sempre stato assillato dal problema pratico di come servire Dio. lo ero figlio di poveri contadini francesi che sbarcavano il lunario con gli scarsi guadagni di una merceria.
Una vita di stenti che non poteva permettermi di studiare in un seminario. Volevo farmi trappista, nonostante l’opposizione dei miei genitori. Ma nella certosa oli S.Aldegonda non mi ammisero al noviziato.
– Perché?
– I monaci non mi ritenevano)sufficientemente equilibrato per quei genere di vita. lo ero preso dallo zelo di servire Iddio ed alcuni miei atteggiamenti non venivano capiti. Io entrai fortemente in crisi e subii tentazioni di tutti tipi, compresa quella di desistere dal proposito di farmi monaco.
– E superasti quelle tentazioni?
– Sì, con l’aiuto di Dio. Pensa che in pieno inverno percorsi sessanta leghe a piedi fino alla certosa di Neuville per farmi accettare dai quei buoni monaci, ma dopo sei settimane mi rimandarono indietro per gli stessi motivi. Tentai anche all’abbazia cistercense di Sept-Fons dove potei addirittura iniziare il noviziato. Anche da qui mi rispedirono. Ero troppo inquieto per loro, e ciò poteva comportare dei seri pericoli per la mia vita spirituale mi dissero.
– E allora…dove andasti?
– Partii per Roma, convinto di trovarvi un monastero disposto ad accogliermi. Ma dopo alcune peripezie capii che il Signore mi chiamava ad una maggiore solitudine del monastero. Se Dio mi aveva messo in una strada, dissi tra me, significava che mi voleva “il suo vagabondo”. – – “Vagabondo”? Come è possibile passare un’intera vita da vagabondo? Mi hanno sempre insegnato che bisogna guadagnare il pane con il sudore della fronte ..!
– Io ero distaccato da tutto. Non chiedevo nulla a nessuno. Affrontavo le intemperie, dormivo all’aperto, le mie carni erano piene di piaghe e di insetti che le corrodevano. Il mio unico compito era quello di contemplare e pregare Iddio continuamente. Ho visitato a piedi quasi tutti i santuari d’ Italia, compreso questo di Castelmonte. Alcuni passanti, nel vedermi, mi allungavano qualche pezzo di pane e a volte dell’elemosina. Il superfluo) lo distribuivo ad altri poveri: ciò che ricevevo doveva bastarmi per lo stretto necessario. Mi trovarono svenuto in un angolo delle rovine del Colosseo, dove dormivo gli ultimi anni della mia breve vita. Poi morii nei retrobottega di un macellaio che mi accoglieva saltuariamente.
– Cosa provasti al passaggio da questa vita?
– Una beatitudine immensa, Dio mi accolse nel suo grembo con una tenerezza infinita: a Lui non interessa ciò che fai o la condizione sociale a cut appartieni: è Lui che permette la tua situazione terrena.. Per me aveva pre disposto la contemplazione nella. strada. Potevo ben dimenarmi per entrare in monastero, Lui ha ritenuto che io lo potessi glorificare da vagabondo senza una precisa meta o particolare “vocazione”. Guarda il contenuto di questo sacco!
Luca vide aprirsi il ruvido sacco e scorse tre vecchi libri sgualciti I’Imitazione di Cristo, il Nuovo Testamento e il breviario. Rimase esterrefatto: erano gli stessi titoli dei libri che recava con sè.
– Essi furono il mio nutrimento spirituale giornaliero. Non feci grandi cose durante la mia vita terrena. A Dio piacque così. Come ti dicevo Egli non guarda ciò che abbiamo fatto, ma il modo con cui affrontiamo le cose quotidiane. In qualsiasi istante della giornata io pensavo a Lui e gli chiedevo o la forza di somigliare al suo divino Figliolo che non aveva dove “posare il capo”. Lo ami tu?
-Sì…lo amo Non penso ad altro. Voglio farlo contento! Che debbo fare?
– Abbandonati! Egli mi ha incaricato di venirti a prendere perché vuole farti partecipare della sua Gloria!
Più tardi i pellegrini che salivano la stradina lastricata accorrevano ad ingrossare il capannello di gente che si era formato attorno al pozzo. Il corpo di Luca si trovava nella stessa posizione del “vagando di Dio”, immobile. con gli occhi fissi al cielo e con la corona del rosario in mano.