Adamo ed Eva hanno subìto una grande tentazione, ma hanno scelto liberamente il loro destino.

Abramo avrebbe anche potuto rifiutarsi di offrire a Dio la vita di suo figlio Isacco, per cui è stato messo alla prova in modo drammatico.

Giobbe è stato alla mercé di Satana, il quale ha avuto il permesso da Dio stesso di tentarlo. Ma Giobbe non ha abbandonato Dio in cui riponeva la sua totale fiducia.

Gesù è stato condotto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. Nell’orto degli ulivi ha avuto la tentazione di evitare la volontà del Padre. Gesù, però, si è liberamente offerto come vittima di espiazione ed è stato un vero dramma.

Molti episodi biblici, oltre a questo, ci aiutano a riflettere sul fatto che Dio ci ama perché ci ha fatti a sua immagine e somiglianza. Ciò significa che non siamo suoi burattini, ma suoi figli liberi di scegliere tra il bene ed il male.

Quando nel Padre nostro che Gesù stesso ci ha insegnato, si dice “non ci indurre in tentazione” vuol farci comprendere che corrispondere al suo amore significa scegliere liberamente e spesso drammaticamente da che parte stare.

In questo modo Dio ci dona la possibilità di glorificare il Padre nelle nostre scelte quotidiane, spesso drammatiche.

 

Breve riflessione sul Padre nostro  di Silvio Brachetta

Non è chiaro perché un Dio che porta dentro la tentazione dovrebbe essere peggiore di un Dio che abbandona alla tentazione. È un mistero della moderna esegesi, ma anche della presunzione umana, stando almeno al padre del deserto Sant’Antonio, che casca a fagiolo:
«Un giorno alcuni anziani fecero visita al padre Antonio; c’era con loro il padre Giuseppe. Ora l’anziano, per metterli alla prova, propose loro una parola della Scrittura e cominciò dai più giovani a chiederne il significato. Ciascuno si espresse secondo la sua capacità. Ma a ciascuno l’anziano diceva: “Non hai ancora trovato”. Da ultimo, chiede al padre Giuseppe: “E tu che dici di questa parola?”. Risponde: “Non so”. Il padre Antonio allora dice: Il padre Giuseppe sì, che ha trovato la strada, perché ha detto: “Non so”» (Apophthegmata Patrum, 80d; PJ XV, 4).
Nelle Scritture ci sono cose facili da capire, cose difficili e cose che non si possono capire: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato. Il senso letterale regge e guida gli altri sensi delle Scritture: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato. L’esegesi dei testi non può tradire l’esegesi dei padri e dei dottori della Chiesa: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato.
Quanto a ciò che Dio opera, dovrebbe essere chiaro come il Dio che induce alla tentazione del Padre nostro sia il medesimo Dio che fa dire a Gesù Cristo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34). Non vi è dubbio – e nel magistero della Chiesa non vi è mai stato il dubbio – che l’«eisenènkes» greco del Padre nostro esprima un moto a luogo e che il «sabactàni» aramaico di Mc 15, 34 è l’«abbandono».
È anche vero che l’interpretazione di questi passi evangelici da parte di San Tommaso o di Sant’Agostino lasci il lettore insoddisfatto, poiché i dottori sanno bene che fides et ratio sono concordi, ma per nulla coincidenti. San Tommaso e Sant’Agostino scrutano il mistero, però lo fanno nell’umiltà: alle volte riescono a soddisfare pienamente e sapientemente un qualche quesito ma, altrove, possono anche rispondere o soddisfare parzialmente chi cerca una spiegazione.
L’operazione teologica contemporanea è spesso indecente, perché vuole forzare quelle porte inviolabili del mistero, che Ildegarda di Bingen sconsiglia fortemente di violare (cf. Il libro delle opere divine). Da dove tanta superbia? Come mai il teologo moderno – o modernista che sia – è divenuto incapace di dire «non so», davanti a questioni sulle quali Dio ha decretato rimanesse il mistero? Persino i pagani erano di frequente più umili di molti dei nostri contemporanei. «Io sono tutto ciò che fu, che è e che sarà; e nessun mortale o dio solleverà mai il mio peplo» – dice la Sibilla di Plutarco (Sul Fato).
È antica come il mondo l’arte di forzare o falsificare il testo, quando la parola è incomprensibile o non corrisponde alle aspettative del nostro capriccio. Ma è pure antica come il mondo l’arte dell’umiltà, l’arte dello scriba fedele, che tramanda la voce di Dio ricopiando le Scritture e cercando di essere preciso, sillaba dopo sillaba, su quanto ricevuto dai padri.
La verità è stata più volte confessata dai santi: il Dio che porta dentro la tentazione è buono, tanto quanto il Dio che abbandona alla tentazione. Ed è buono perché ascolta la preghiera del penitente, che chiede con insistenza: “non c’indurre, non ci abbandonare”. Dio, quindi, non induce e non abbandona quei figli che si convertono e lo pregano, ma abbandona l’empio, che lo bestemmia.
Il mistero permane e la realtà della «perdizione» – l’«abaddon» ebraico dell’Apocalisse (9, 11) – non può essere cancellata dalla penna di un falsario. Esiste dunque l’«angelo dell’abisso» (ibidem), poiché Dio permette che esista, così come esiste l’inferno e la possibilità di dannarsi. Dietro la negazione del «ne nos inducas» evangelico c’è dunque il rifiuto, da parte della presunzione umana, di uno scandalo: lo scandalo della perdizione eterna dell’empio e il fatto stesso che il Cristo possa essere «pietra d’inciampo» Egli stesso («scandalo», appunto).

 

 

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