Può un cristiano pregare il Padre nostro mantenendo la formula “Non ci indurre in tentazione” perché è convinto che sono le parole originali di Gesù?
La questione è interessante e tocca sia aspetti teologici che di coscienza personale.
1. Parole originali di Gesù
Nel Vangelo secondo Matteo (6,13), la formula “non ci indurre in tentazione” (in greco: μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν) è quella riportata nei manoscritti più antichi. Dunque, si può dire che storicamente quella sia la formulazione trasmessa dai Vangeli, anche se va interpretata.
Tuttavia, nel tempo molti cristiani hanno trovato questa espressione teologicamente difficile, perché sembra suggerire che Dio possa “indurre” alla tentazione, cioè spingere l’uomo al peccato – il che sarebbe in contrasto con l’immagine di Dio come buono e misericordioso (vedi Giacomo 1,13: “Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno”).
2. Interpretazione o traduzione?
Per questo motivo, alcune traduzioni moderne – ad esempio quella usata nella liturgia cattolica italiana dal 2020 – hanno preferito una forma interpretativa: “non abbandonarci alla tentazione”. Essa cerca di esprimere meglio il senso originale, ovvero: “non permettere che entriamo nella tentazione e vi cadiamo”.
3. Pregare in coscienza
Se un cristiano è fermamente convinto che la formulazione “non ci indurre in tentazione” sia storicamente autentica e la pronuncia con l’intenzione giusta, cioè senza attribuire a Dio un’intenzione malvagia, allora non sta mentendo.
Pregare quella formula non è mentire se la si comprende correttamente: come una richiesta che Dio ci protegga, anche dai momenti in cui potremmo essere messi alla prova, e che non ci lasci entrare o soccombere alla tentazione.
4. Conclusione
Un cristiano può pregare “non ci indurre in tentazione” con sincerità, se lo fa in buona coscienza e con una retta comprensione del senso teologico. La preghiera non è una formula magica, ma una relazione con Dio che coinvolge il cuore, la mente e l’intenzione.
Ecco una comparazione semplice tra l’originale greco del Padre nostro (la parte che ci interessa) e le principali traduzioni in italiano, con un breve commento:
📜 Originale greco (Matteo 6,13):
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν
kai mē eisenenkēs hēmas eis peirasmon
➤ Traduzione letterale: “E non ci portare in tentazione” (o “non introdurci nella tentazione”)
🔹 “εἰσενέγκῃς” è un aoristo attivo del verbo εἰσφέρω, che significa portare dentro, introdurre.
🔹 “πειρασμός” può significare prova, tentazione, test.
📖 Traduzioni italiane:
1. CEI 2008 (e versioni precedenti)
“Non ci indurre in tentazione”
➡️ Letterale e fedele al greco, ma può generare ambiguità teologica (come se Dio ci tentasse).
2. CEI 2020 (attualmente in uso nella liturgia cattolica italiana)
“Non abbandonarci alla tentazione”
➡️ Una interpretazione teologica del testo, per chiarire che Dio non induce, ma può permettere che siamo messi alla prova.
3. Nuova Riveduta (evangelica)
“Non ci esporre alla tentazione”
➡️ Tentativo di esprimere il significato senza suggerire un Dio attivo nel tentare.
4. Nuova Diodati (più letterale, evangelica)
“E non ci esporre alla tentazione”
➡️ Simile alla Nuova Riveduta, ma con enfasi sulla prova come evento esterno.
🧠 Cosa implica tutto questo?
Il testo greco lascia spazio a interpretazioni, perché “πειρασμός” può significare tentazione al peccato, ma anche prova o tribolazione.
Gesù stesso fu “condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato” (Mt 4,1): la tentazione come prova spirituale è una realtà biblica.
Il senso più ampio della preghiera è: “Signore, non permettere che entriamo in situazioni dove potremmo cedere al male, o se ci troviamo lì, aiutaci a non cadere.”
Quindi non sono vere alcune voci che sostengono che il cristiano che mantiene la vecchia formula è scomunicato…
Non c’è nessuna scomunica per chi prega il Padre nostro nella forma tradizionale “non ci indurre in tentazione”.
✅ Ecco perché:
1. Non è un dogma, ma una traduzione
Il cambiamento da “non ci indurre in tentazione” a “non abbandonarci alla tentazione” è una scelta pastorale e liturgica, non una verità di fede obbligatoria (dogma). Non adottare la nuova formula non è un atto eretico.
2. La Chiesa non ha imposto un divieto
La CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha raccomandato l’uso della nuova versione nella liturgia cattolica, ma non ha mai condannato chi continua a usare quella tradizionale, soprattutto nella preghiera personale.
3. Lo stesso Papa Francesco ha chiarito l’intento
Quando Papa Francesco ha sostenuto la nuova formula, non ha mai detto che la vecchia fosse sbagliata o da proibire, ma solo che la nuova esprime meglio il significato teologico. Ecco le sue parole:
“Non è Dio che ci induce alla tentazione, come se Lui fosse in agguato per tenderci una trappola. […] La nuova traduzione dice: “non abbandonarci alla tentazione”, perché sono io che cado, non è Lui che mi butta dentro per vedere come cado.“
4. Scomunica? Solo per casi gravi
La scomunica è una sanzione eccezionale, prevista solo per peccati gravissimi come:
eresia formale
apostasia
violazioni gravi del diritto canonico (es. atti contro l’Eucaristia o l’autorità papale)
Recitare il Padre nostro con una formula tradizionale non rientra minimamente in questi casi.
💬 In breve:
Un cristiano che pregando in coscienza usa la formula “non ci indurre in tentazione” non solo non è scomunicato, ma non sta neppure peccando. Sta partecipando a una tradizione spirituale che ha accompagnato milioni di credenti per secoli.
Ecco un modo gentile, chiaro e ben fondato per rispondere a chi sostiene – magari con un po’ di allarmismo – che usare la vecchia formula del Padre nostro significhi disobbedire alla Chiesa o addirittura porti alla scomunica:
📜 Risposta suggerita:
Capisco che la Chiesa italiana abbia introdotto una nuova traduzione del Padre nostro nella liturgia, e ne rispetto le motivazioni. Tuttavia, usare la formula tradizionale “non ci indurre in tentazione” non è affatto un atto di ribellione né comporta scomunica.
La vecchia formula è fedele al testo greco originale e ha accompagnato la preghiera di generazioni di cristiani. La nuova versione è un’interpretazione teologica più esplicita, ma non rende “sbagliata” quella precedente.
La stessa Chiesa non ha mai proibito l’uso personale della versione tradizionale, né Papa Francesco ha mai parlato di scomunica per chi la usa. È solo un aggiornamento liturgico, non un dogma.
In definitiva, ciò che conta è il cuore con cui si prega. Se uno si rivolge a Dio con sincerità e retta intenzione, la forma non diventa una condanna. La preghiera è dialogo con Dio, non una prova di fedeltà linguistica.
Ecco una comparazione semplice tra l’originale greco del Padre nostro (la parte che ci interessa) e le principali traduzioni in italiano, con un breve commento:
📜 Originale greco (Matteo 6,13):
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν
kai mē eisenenkēs hēmas eis peirasmon
➤ Traduzione letterale: “E non ci portare in tentazione” (o “non introdurci nella tentazione”)
🔹 “εἰσενέγκῃς” è un aoristo attivo del verbo εἰσφέρω, che significa portare dentro, introdurre.
🔹 “πειρασμός” può significare prova, tentazione, test.
📖 Traduzioni italiane:
1. CEI 2008 (e versioni precedenti)
“Non ci indurre in tentazione”
➡️ Letterale e fedele al greco, ma può generare ambiguità teologica (come se Dio ci tentasse).
2. CEI 2020 (attualmente in uso nella liturgia cattolica italiana)
“Non abbandonarci alla tentazione”
➡️ Una interpretazione teologica del testo, per chiarire che Dio non induce, ma può permettere che siamo messi alla prova.
3. Nuova Riveduta (evangelica)
“Non ci esporre alla tentazione”
➡️ Tentativo di esprimere il significato senza suggerire un Dio attivo nel tentare.
4. Nuova Diodati (più letterale, evangelica)
“E non ci esporre alla tentazione”
➡️ Simile alla Nuova Riveduta, ma con enfasi sulla prova come evento esterno.
🧠 Cosa implica tutto questo?
Il testo greco lascia spazio a interpretazioni, perché “πειρασμός” può significare tentazione al peccato, ma anche prova o tribolazione.
Gesù stesso fu “condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato” (Mt 4,1): la tentazione come prova spirituale è una realtà biblica.
Il senso più ampio della preghiera è: “Signore, non permettere che entriamo in situazioni dove potremmo cedere al male, o se ci troviamo lì, aiutaci a non cadere.”
Adamo ed Eva hanno subìto una grande tentazione, ma hanno scelto liberamente il loro destino.
Abramo avrebbe anche potuto rifiutarsi di offrire a Dio la vita di suo figlio Isacco, per cui è stato messo alla prova in modo drammatico.
Giobbe è stato alla mercé di Satana, il quale ha avuto il permesso da Dio stesso di tentarlo. Ma Giobbe non ha abbandonato Dio in cui riponeva la sua totale fiducia.
Gesù è stato condotto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. Nell’orto degli ulivi ha avuto la tentazione di evitare la volontà del Padre. Gesù, però, si è liberamente offerto come vittima di espiazione ed è stato un vero dramma.
Molti episodi biblici, oltre a questo, ci aiutano a riflettere sul fatto che Dio ci ama perché ci ha fatti a sua immagine e somiglianza. Ciò significa che non siamo suoi burattini, ma suoi figli liberi di scegliere tra il bene ed il male.
Quando nel Padre nostro che Gesù stesso ci ha insegnato, si dice “non ci indurre in tentazione” vuol farci comprendere che corrispondere al suo amore significa scegliere liberamente e spesso drammaticamente da che parte stare.
In questo modo Dio ci dona la possibilità di glorificare il Padre nelle nostre scelte quotidiane, spesso drammatiche.
Breve riflessione sul Padre nostro di Silvio Brachetta
Non è chiaro perché un Dio che porta dentro la tentazione dovrebbe essere peggiore di un Dio che abbandona alla tentazione. È un mistero della moderna esegesi, ma anche della presunzione umana, stando almeno al padre del deserto Sant’Antonio, che casca a fagiolo:
«Un giorno alcuni anziani fecero visita al padre Antonio; c’era con loro il padre Giuseppe. Ora l’anziano, per metterli alla prova, propose loro una parola della Scrittura e cominciò dai più giovani a chiederne il significato. Ciascuno si espresse secondo la sua capacità. Ma a ciascuno l’anziano diceva: “Non hai ancora trovato”. Da ultimo, chiede al padre Giuseppe: “E tu che dici di questa parola?”. Risponde: “Non so”. Il padre Antonio allora dice: Il padre Giuseppe sì, che ha trovato la strada, perché ha detto: “Non so”» (Apophthegmata Patrum, 80d; PJ XV, 4).
Nelle Scritture ci sono cose facili da capire, cose difficili e cose che non si possono capire: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato. Il senso letterale regge e guida gli altri sensi delle Scritture: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato. L’esegesi dei testi non può tradire l’esegesi dei padri e dei dottori della Chiesa: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato.
Quanto a ciò che Dio opera, dovrebbe essere chiaro come il Dio che induce alla tentazione del Padre nostro sia il medesimo Dio che fa dire a Gesù Cristo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34). Non vi è dubbio – e nel magistero della Chiesa non vi è mai stato il dubbio – che l’«eisenènkes» greco del Padre nostro esprima un moto a luogo e che il «sabactàni» aramaico di Mc 15, 34 è l’«abbandono».
È anche vero che l’interpretazione di questi passi evangelici da parte di San Tommaso o di Sant’Agostino lasci il lettore insoddisfatto, poiché i dottori sanno bene che fides et ratio sono concordi, ma per nulla coincidenti. San Tommaso e Sant’Agostino scrutano il mistero, però lo fanno nell’umiltà: alle volte riescono a soddisfare pienamente e sapientemente un qualche quesito ma, altrove, possono anche rispondere o soddisfare parzialmente chi cerca una spiegazione.
L’operazione teologica contemporanea è spesso indecente, perché vuole forzare quelle porte inviolabili del mistero, che Ildegarda di Bingen sconsiglia fortemente di violare (cf. Il libro delle opere divine). Da dove tanta superbia? Come mai il teologo moderno – o modernista che sia – è divenuto incapace di dire «non so», davanti a questioni sulle quali Dio ha decretato rimanesse il mistero? Persino i pagani erano di frequente più umili di molti dei nostri contemporanei. «Io sono tutto ciò che fu, che è e che sarà; e nessun mortale o dio solleverà mai il mio peplo» – dice la Sibilla di Plutarco (Sul Fato).
È antica come il mondo l’arte di forzare o falsificare il testo, quando la parola è incomprensibile o non corrisponde alle aspettative del nostro capriccio. Ma è pure antica come il mondo l’arte dell’umiltà, l’arte dello scriba fedele, che tramanda la voce di Dio ricopiando le Scritture e cercando di essere preciso, sillaba dopo sillaba, su quanto ricevuto dai padri.
La verità è stata più volte confessata dai santi: il Dio che porta dentro la tentazione è buono, tanto quanto il Dio che abbandona alla tentazione. Ed è buono perché ascolta la preghiera del penitente, che chiede con insistenza: “non c’indurre, non ci abbandonare”. Dio, quindi, non induce e non abbandona quei figli che si convertono e lo pregano, ma abbandona l’empio, che lo bestemmia.
Il mistero permane e la realtà della «perdizione» – l’«abaddon» ebraico dell’Apocalisse (9, 11) – non può essere cancellata dalla penna di un falsario. Esiste dunque l’«angelo dell’abisso» (ibidem), poiché Dio permette che esista, così come esiste l’inferno e la possibilità di dannarsi. Dietro la negazione del «ne nos inducas» evangelico c’è dunque il rifiuto, da parte della presunzione umana, di uno scandalo: lo scandalo della perdizione eterna dell’empio e il fatto stesso che il Cristo possa essere «pietra d’inciampo» Egli stesso («scandalo», appunto).
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