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Marcello Tomadini (Cividale 1893- 1979) accademico della Tiberina di Roma per le Belle arti, notissimo e geniale miniaturista che ha ‘lavorato” anche per il celebre Totò (sua la pergamena con lo stemma della famiglia del principe de Curtis)
Oltre che artista, come uomo e soldato (di fanteria) soffrì anche la tragedia del Lager, ricordata nei suoi dipinti raccolti in un libro:
“VENTI MESI FRA I RETICOLATI” e che scorrono in questo video.
(La seguente riproduzione, per questioni di urgenza, è stata effettuata dalla mia telecamera puntata sul televisore che stava trasmettendo la replica. Per questo motivo ne ha risentito la qualità..)
La giornalista Marta Rizzi di Telefriuli mi intervista per illustrare la vita del cividalese Marcello Tomadini, abile miniaturista il quale, durante l’armistizio del 1943 fu preso prigioniero dai tedeschi ed internato nei lager tedeschi e polacchi. L’intervista è basata anche su un libro appena uscito che ho curato personalmente : “Marcello Tomadini, il pittore che fotografò i lager” delle Edizioni Segno di Tavagnacco. In esso, oltre ad alcuni articoli, sono contenute 60 miniature effettuate durante la prigionia con mezzi di fortuna…
I fatti
Quando cominciai a sfogliare il libro “Venti mesi tra i reticolati” del cividalese Marcello Tomadini stampato nel 1946, fui molto colpito dalle 60 tavole raffiguranti momenti della prigionia tra i vari lager. Uno ad uno quei disegni provocavano in me diverse sensazioni. Da una parte un senso di grande ammirazione per l’abilità tecnica dell’artista Marcello Tomadini che esercitò con pochi mezzi a disposizione, dall’altra un senso di angoscia per le inaudite sofferenze subite da lui stesso e dagli altri poveri prigionieri che evocavano con crudo realismo. Sofferenze sottolineate nell’Ordine del giorno della liberazione:
Wietzendorf 16.04.1945 ore 17,31
Ufficiali, sottufficiali, soldati del Campo 83 di Wietzendorf. Siamo liberi! Le sofferenze di 20 mesi di un internamento peggiore di mille prigionie, sono finite.
Abbiamo resistito nel nome della Patria, siamo degni di ricostruire.
Ufficiali, sottufficiali, soldati italiani! Ricordiamo i nostri Morti, morti di stenti, ma fieri nelle facce sparute, sotto gli abiti a brandelli, con una Fede inchiodata alta come una bandiera.
Salutiamo la Patria che risorge, che noi dobbiamo far risorgere.
Viva l’Italia!
Scorrendo le tavole disegnate e datate una per una, vidi treni merci per il bestiame carichi di uomini che venivano introdotti nel lager. Alcune tavole rappresentavano grandi raduni dei prigionieri sul piazzale con ufficiali tedeschi minacciosi, dipinti con meticolosa precisione, baracche attorniate da pozzanghere, angherie subite dai prigionieri, come furti e severe punizioni. Poi diversi e tragici trasferimenti da un lager all’altro, descrizioni minuziose degli interni delle baracche munite di attrezzature costruite dagli stessi prigionieri con materiale scarto di fortuna. Qualche tavola raffigurava uccisioni e cadaveri di persone morte di stenti e di fame. L’artista si soffermava spesso sui corpi magrissimi dei prigionieri per sottolineare la grande fame subita. L’atmosfera dei lager era davvero resa lugubre dall’abile artista. Mi domandavo come Marcello avesse potuto trovare la forza di dipingere quei tragici momenti, subendo tante sofferenze così inaudite.
L’intento mi sembrava chiaro: non si possono dimenticare tutte quelle sofferenze, quell’immenso dolore non poteva essere disperso nell’oblio. Quelle tavole rappresentavano un severo monito affinché le future generazioni non ripetessero gli stessi errori. Ogni guerra è nefasta ed induce a violenze inaudite..i giovani devono prenderne coscienza!
Quel libro, gentilmente concesso dall’amico Michele Pizzolongo, era stato stampato in poche copie, ora del tutto esaurite. Questo nuovo libro che ho deciso di curare, deve mantenere lo stesso spirito con cui era stato stampato: sensibilizzare le nuove generazioni ad attivarsi per il mantenimento della vera pace tra i popoli, a tutti i costi.
Grazie alle Edizioni Segno di Tavagnacco (UD) ora è ristampato.
Spero di essere riuscito nell’intento.
(Pier Angelo Piai)
CHI ERA MARCELLO TOMADINI
Marcello Tomadini nacque a Cividale il 27 aprile 1893 da Raffaele e da Maria de Senibus. Visse la sua fanciullezza in un ambiente d’arte, ricco di suoni, di colori e di melodie. Suo padre, maestro di musica, per alcuni anni diresse la Cappella Capitolare del Duomo di Cividale. La famiglia ha potuto vantare tra i suoi ascendenti Mons. Jacopo (Cividale del Friuli 1820-1883) che fu straordinario compositore di musica sacra, a lungo in corrispondenza con diversi famosi musicisti del tempo tra cui il sommo Franz Liszt.
Per assecondare le speranze del padre, Marcello intraprese con successo Io studio del pianoforte e del violoncello. Fu anche orchestrale: ci risulta infatti che il 15 giugno 1912 partecipò al saggio degli allievi della scuola d’archi di Cividale “C. Bertossi” al ‘teatro “Adelaide Ristori”. Marcello però non scelse un percorso musicale; la sua indole lo portò ad innamorarsi della pittura alla quale dedicò l’intera sua vita. Frequentò l’Accademia delle Belle Arti a Venezia, diplomandosi brillantemente. Disegnava e dipingeva già da vero maestro. Nel settembre 1915, durante la prima Guerra Mondiale fu ferito ad una gamba sul monte Cristallo. Ricoverato in più ospedali, capitò infine a Roma, al Celio. Qui, saputo che era un ottimo disegnatore, fu mandato a lavorare in una fabbrica di armi, deve probabilmente disegnò materiali bellici dirigendo un reparto con numerosi operai. Rimase per qualche anno nella capitale. si fece strada diventando uno dei più grandi cultori della miniatura italiana. Svolse: una intensa attività: membro dell’Accademia Tiberina, Cavaliere della Corona e della Repubblica, fece parte della Consulta Araldica della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Le sue opere sono raffinate, ricche di minuziosi particolari, perfette nella tecnica.
Oltre a disegnare, il Tomadini effettuava anche integrazioni di molte opere, in questi casi si trattava di compiere un lavoro molto accurato di riproduzione e alle volte di completamento degli stemmi gentilizi documentati in anni di archivio o in opere pittoriche del casato preso in considerazione. Il lavoro del miniaturista richiede molto impegno e precisione ed il possesso di una tecnica di notevole livello, perché operando in spazi minimi, le riproduzioni, tutte eseguite a mano con pennelli molto sottili ed appuntiti, devono apparire chiare, leggibili e ricche di contrasti cromatici, per rendere evidenti tutte le parti che compongono la rappresentazione.
Tomadini eseguiva anche le scritte in gotico con pennelli che dovevano avere pochissimi peli. Le sue miniature mettono in in evidenza non soltanto la perizia di un artista maturo e profondamente padrone della tecnica, ma anche la sensibilità e il tocco magico dell’artista che sapeva usare il pennello e il colore come pochi altri. Nei riquadri delle miniature amava disegnare particolari del Tempietto Longobardo, dell’Ara di Ratchis e di altri preziosi monumenti di Cividale. Pare che anche il noto attore comico Totò, di nobili origini, abbia commissionato una miniatura al Tomadini.
Nel 1931, a Roma partecipò alla “Mostra di Miniature e Acqueforti in Castel Sant’Angelo riportando il secondo premio assoluto con l’opera “Ratto delle Sabine” (liberamente tratto da un quadro di autore tedesco). Era particolarmente orgoglioso di aver eseguito alcune miniature per il Vaticano. Il nipote Franco Guarinieri conserva gelosamente una medaglia con la scritta: Unione della Legion d’Onore del Comitato dell’ONG presso le Nazioni Unite di Istituti Specializzati dell’ONU — Sezione Internazionale per l’incremento delle lettere e delle arti per la cooperazione culturale – Anno 1970 – Premio dell’operosità nell’arte conferito al Cav. prof. Marcello Tomadini. Medaglia coniata dalla zecca dello Stato. In quel periodo, nelle famiglie bene della capitale, le domeniche pomeriggio, era usanza tenere dei concertini. Marcello suonava discretamente il violoncello, e fu così che incontrò Renata Cinelli Palcani, romana, che sposò nel 1919.
Dal matrimonio, nel 1920 nacque Anna, una bambina che visse soltanto quaranta giorni in quanto fu colpita da meningite. La perdita della piccola segnò profondamente Renata e Marcello che nel 1927 decisero di stabilirsi a Cividale. Le disavventure belliche del Tomadini non erano ancora finite, agli inizi della seconda Guerra Mondiale fu richiamato alle armi e dopo 1’8 settembre 1943, capitano di Fanteria, venne impngionato a Pola e in seguito portato in vari campi di concentramento, prima in Germania, poi in Polonia, nel famigerato campo 83 di Wietzendorf. Diventò il n. 27487, XXA “Italienische Militar-Internierten” (Internato Militare Italiano).
Da un documento del Distretto Militare di Udine risulta che fu prigioniero dal 12 settembre 1943 al 29 agosto 1945, data in cui gli è stata concessa la licenza di rimpatrio. Dallo stesso risulta anche che il Capitano Marcello Tomadini non ha collaborato coi tedeschi, né aderito alla Repubblica Sociale Italiana. Fu il periodo più drammatico per il Tomadini che sopportò una vita durissima, per lui ancora più insostenibile per la quasi impossibilità di poter disegnare. I ricordi, inizialmente, furono dati eclusivamente alla memoria con un continuo tormento, ma la sua ferrea volontà e capacità di riprodurre personaggi fatti o scene della vita del campo di concentramento cominciarono a prendere forma su occasionali carte recuperate alla meglio ed essere rigati con rimasugli di pezzi di legno carbonizzati e qualche matita che la moglie gli spediva, assieme a quello che poteva inviare nel campo.
Il Tomadini riuscì così a fissare e subito a nascondere i momenti tragici vissuti, disegnando raffigurazioni raccapriccianti, con inquadrature di raffinata scuola fotografica, di intenso valore artistico ed espressivo.
Le tavole, che narrano tante dolorose vicende, sono di piccola dimensione, disegnate con tratti chiaroscurate con maestria e sono una preziosa documentazione di un momento storico che non possiamo dimenticare. I disegni, racconta il compagno di prigionia, il cappellano militare don Luigi Pasa, furono nascosti nella valigetta-altare in mezzo ai paramenti sacri. Quando il Pasa si presentò alla polizia tedesca del campo per la timbratura da certificati di Cresima amministrata nei campo riuscì ad apporre il timbro su tutte quelle carte che urgeva conservare e che senza di esso, in una probabile perquisizione gli sarebbero state strappate.
Nacque così un album di disegni più unico che raro: “Venti mesi fra i reticolati” che a guerra finita, nel 1946, fu pubblicato per le edizioni SAT di Vicenza e raccoglie ben sessanta tavole. Le tavole sono state al centro di mostre, destando una unanime commozione in tutti coloro che ebbero modo di prenderne visione. Altre tavole del Tomadini illustrarono i libri di don Luigi Pasa: “Tappe di un calvario”, edizioni SAT, Vicenza, 1947 e “Italia risorta” stampato a Napoli nel 1971.
Il nipote Franco, allora quindicenne, ricorda ancora quando lo zio Marcello gli raccontava, anche se non amava farlo, del suo periodo di prigionia. Gli ha raccontato che nel campo c’era anche Giovannino Guareschi e che proprio lì, sempre su pezzi di carta scrisse il famoso: “Diario clandestino”. Man mano che le pagine nascevano, Guareschi girava nelle baracche leggendole ai compagni, raccogliendo le loro impressioni. Tra loro, anche il violoncellista Giuseppe Selmi dell’E.I.A.R. (Radio Roma), assieme al quale “imbastivano” dei concertini con strumenti di fortuna, molto spesso costruiti da loro stessi, come gli attrezzi da cucina. Raccontava che aveva patito tanta fame, che quando riuscivano a prendere un topo, era festa!
Ricordava con sofferenza come “gli appelli” erano i momenti peggiori, perché a quelle latitudini, d’inverno, completamente nudi, per due, tre ore all’aperto, sull’attenti era una sofferenza atroce. Al solo pensiero gli veniva ancora da piangere… Poi le perquisizioni notturne, terrificanti, all’interno dei capannoni, nei quali i prigionieri dormivano in quelle che venivano chiamate conigliere: letti a castello, o meglio tavole di legno che diminuivano quotidianamente dì numero perché venivano usate per fare un po’ di fuoco, necessario per non morire assiderati.
Gli ha anche raccontato come i tedeschi riuscivano ad aumentare i loro tormenti. I prigionieri più volte sono lasciati per due, tre mesi senza la razione quotidiana di sale in quanto non era disponibile, dandoglielo poi tutto insieme, senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze E’ doveroso far notare che nei campi della Germania e della Polonia non giunse mai l’assistenza della Croce Rossa. Nei lager ognuno era solo con la propria coscienza… gli ufficiali separati dai soldati, gli ufficiali superiori separati da quelli subalterni… non vi era comunicazione da campo a campo… Il periodo migliore, secondo il Tomadini, fu quando imperversò l’epidemia di tifo petecchiale: i tedeschi, per paura del contagio non si avvicinavano e non vi furono così le terribili perquisizioni. La situazione invece si aggravò per coloro che non vollero aderire alla Repubblica Sociale Italiana, compreso Marcello. Su circa duemila ufficiali, aderirono solamente circa 160 dei quali la maggior parte malati gravi, invalidi e vecchi.
Alcuni prigionieri, ai limiti della disperazione, si lanciarono contro le reti dell’alta tensione che delimitavano il campo trovandovi la morte liberatoria. Vale la pena di ricordare anche che dall’atto di accusa, presentato dal Comando Italiano alle autorità britanniche contro i criminali tedeschi che comandavano nel campo stesso si legge: “Da elementi raccolti da personale germanico, già in servizio al campo, risulta con fondatezza, che nella prima decade di aprile 1945 era arrivato dalle autorità superiori l’ordine di assassinare gli ufficiali mediante azione di mitragliamento o di bombardamento del campo. Risulta anche, che erano state prese alcune delle predisposizioni necessarie all’attuazione del massacro. Il piano non venne attuato, probabilmente perché gli avvenimenti precipitarono e i germanici si ritrovarono di fronte alla certezza di dover scontare presto il delitto …” Il Comandante f.to Ten.Col. Pietro Testa.
Finita la guerra, liberato dagli inglesi il 16 aprile 1945 nel campo di Wietzendorf, impiegò ben quattro mesi per rientrare a Cividale. Riprese con impegno ed entusiasmo l’insegnamento de disegno, prima nella Scuola di Avviamento Commerciale di Cividale, della quale fu anche Preside, poi alla Scuola Magistrale di San Pietro al Natisone, fino all’anno 1963.
Riusciva ad appassionare i giovani al disegno e cercava sempre di scoprire nuovi possibili talenti. Marcello fu la prima persona che intuì Ia capacità del giovane Guido Tavagnacco e lo incoraggiò ad intraprendere la strada della pittura. Il Tavagnacco nutrì sempre per l’insegnante un grande venerazione, gli fu sempre molti riconoscente per averlo messo in grado d esprimere tutta la sua carica artistica che gli fece ottenere stima e successo. Un altro allievo, che ebbe poi una brillante carriera fu l’architetto Valentino Simonitti. Marcello continuò a lavorare sempre come collaboratore ufficiale per l’Istituto Nazionale di Araldica di Roma, l’ultimo lavoro fu inviato nel 1972.
Disegnò anche numerosissime miniature, stemmi, disegni vari per famiglie cividalesi, come l’etichetta de mandorlato Forumiulii fabbricato dall’industria dolciaria cividalese di Francesco e Antonio Vuga, operante dal 1946 al 1952, qui riprodotta. Alcune delle tante miniature eseguite di prof. Tomadini furono esposte dall’allora direttore prof. Carlo Mutinelli nel Museo Archelogico di Cividale, nella sede del Palazzo d Nordis, destando l’ammirazione di tutti visitatori.
L’ultima mostra di miniature, disegni e dipinti si tenne nel marzo 1977, presso la Galleria Josè – casa Paolo Diacono a cura dell’Associazione per lo Sviluppo degli Studi Storici ed Artistici di Cividale. Marcello si impegnò anche nella vita civica e sociale della sua città: gli fu affidato l’incarico di Presidente della Pro LOCO di Cividale che aveva il compito di organizzare manifestazioni popolari e attività culturale. Fu uno degli organizzatori del Festival sul Natisone, delle mostre al Liceo Paolo Diacono con Carlo Mutinelli, Luigi Bront, Antonio Gentilini e Onofrio Vitiello. Fu uno dei fondatori dell’Università Popolare, l’otto maggio 1960 fu eletto consigliere della sezione Combattenti e Reduci.
Anche pittore: il mondo del colore e dell’arte visiva che sono stati la grande passione della sua vita, lo hanno accompagnato fino agli ultimi anni dell’esistenza. Si dedicò continuamente, e sempre con rinnovato slancio, a rappresentare la natura: aveva la mania dei fiori, del Ponte del Diavolo, della chiese. della Salette. Anche ritratti nei quali i tratti della persona sulla tela sono precisi ed intensi nell’espressione, amava giocare con le forme, sprigionando la sua versatile fantasia.
Alcuni cividalesi ricordano ancora i disegni del Tomadini che illustravano il Bollettino del Santuario di Castelmonte; fu forse un modo per ringraziare la Madonna, a lungo pregata, per la quale dipinse anche un ex voto raffigurante una scena di prigionia che si può tutt’oggi ammirare nel Santuario. Era anche un uomo spiritoso: nel febbraio del 1952 una copiosa nevicata sommerse Cividale, quasi isolandola e gli venne il capriccio di usare la bianca coltre per erigere nel suo cortile un busto dedicato a Giuseppe Verdi: la riuscita di questo strano lavoro destò enorme interesse e la sorpresa di tutto il vicinato.
Al tramonto della sua vita fu colpito prima dalla sordità e in seguito anche da una progressiva malattia agli occhi che lo portò alla completa cecità. Piace però supporre che il buio che si era calato sui suoi occhi non abbia offuscato mai i ricordi che nel suo intimo certamente hanno brillato ancora di luce, di sfumature, di evanescenze.
Si spense a Cividale il 10 giugno 1979 ed è sepolto nel cimitero Maggiore della Città ducale.
Queste brevi note per segnalare che le opere realizzate da Marcello Tomadini, tanto modesto, quanto capace, sono oggi più che mai da riconsiderare in tutta la loro vastità, completezza e valore artistico.
Loretta Fasano (rivista Forum Julii)
Ricordo di Tomadini
Un plauso alla cividalese Loretta Fasano per il suo encomiabile impegno inteso a riscoprire il grande miniaturista Marcello Tomadini (nato il 27-4-1893, morto a 86 anni di età il 10-6-1979). Impegno che le fa onore nel ricordarci la figura nobile colta umile e schiva di questo indimenticato personaggio. Io lo ricordo non solo amico di mio padre Antonio (abitavano ambedue in tel borc di San Dumìni a Zividât) ma anche come insegnante di disegno alle medie a San Pietro al Natisone (anni 50) con altri miei professori (Dino Menichini, GBattista Passone, Walter Faglioni, Onofrio Vitiello e i coniugi Cozzarolo Rosa e Agostino).
Faceva parte di un gruppo di cividalesi che per lungo tempo han costituito una preziosa ‘scuola artistica”: tra questi ricordo almeno i due Bront Vigj e Jacum, Glauco Orsellini, Onofrio Vitiello, Emanuele Partanni, Carlo Mutinelli, Antonio Coceani, e ‘siôr Tonìn” mio padre, con altri bravi maestri artigiani (come Geretti e Pino Mosciòn) che si davano ogni tanto appuntamento per un incontro d’arte, a Natale o Pasqua, ospiti del mitico Toni Quintavalle; altre volte (àuspice Mutinelli) esponevano in collettiva nelle ampie sale delle Orsoline: in quella Zividât vera ponta di zitât (come la cantava Toni Riep).
Per molti anni dunque, vero cenacolo culturale, simbolico anche per l’amicizia che li univa. Tomadini, dunque, accademico della Tiberina di Roma per le Belle arti, notissimo (ma nemo propheta…) e geniale miniaturista che ha ‘lavorato” anche per il celebre Totò (sua la pergamena con lo stemma della famiglia del principe de Curtis): io conservo la pubblicazione ‘Incontri sul Natisone” curata da Mario Brozzi nel ’55, che riporta in copertina una splendida miniatura che sintetizza i tesori di Cividale. Oltre che artista, come uomo e soldato (di fanteria) soffrì anche la tragedia del Lager, ricordata nei suoi dipinti: come l’opera datata Thorn 1943 (in Polonia) dove una lunga fila di deportati entra nel Lager tra il filo spinato sorvegliati dalla sentinella armata, e quella del 1944 con il treno diretto verso i campi di concentramento.
E merita ricordare anche quella donata nel 1954 al santuario di Castelmonte in occasione dell’anno mariano: un quadro a olio con la frase: «negli anni di dura prigionia in Polonia e Germania» a ricordo della terribile esperienza vissuta. E con lui in prigionia anche un cappellano militare (che a Roveredo in Piano fece nascere la chiesetta del Deposito dedicata a don Bosco, inaugurata nel 1938 con l’ordinario militare monsignor Angelo Bartolomasi) don Luigi Pasa, nobile figura anche di grande educatore dei giovani, che volle seguire i ‘suoi” avieri deportati in Germania: morirà missionario in Argentina. Tra i diversi ricordi conservo anche una poesia autografa con dedica nel 1956 vergata con la sua caratteristica grafia «al caro Sergio con l’augurio vivissimo che l’Arte ti dia il miglior conforto nelle vicende non sempre liete della vita».
( Sergio Gentilini)
http://ricerca.gelocal.it/messaggeroveneto/archivio/messaggeroveneto/2003/04/27/UD_07_UDG3.html
MOSTRA A ROMA venerdì 19 maggio 2017
– La Fondazione Roma Europea organizza in questi giorni, a Roma, la Mostra “Tappe di un calvario”, dedicata all’artista, pittore e soldato, Marcello Tomadini, detenuto nel lager di Sandbostel nel 1944. Si tratta di un Evento unico, perché sono eccezionalmente esposti 28 disegni, realizzati dall’artista durante la sua terribile esperienza e messi in mostra in una delle lugubri “baracche” vigilate dalle SS, settantatré anni fa, proprio in quell’orribile luogo di detenzione, con la cinica approvazione degli aguzzini.
Infatti si tratta dell’unica mostra del genere, mai realizzata in un campo di concentramento nazista. Altri, come lo stesso Giovannino Guareschi, fecero l’orribile analoga esperienza sempre a Sandbostel, in Bassa Sassonia, a una quarantina di chilometri da Brema, ma le loro opere ebbero un altro percorso.
Voglio ricordare che, tra i militari italiani detenuti in quel campo, c’era anche il generale, allora tenente, Giampiero Casciotti, amico di una vita, storico vice presidente della FIDAL, scomparso nel febbraio scorso a novantacinque anni. I racconti di Gianpiero mi confermavano quanto rappresentato con una interpretazione carica di drammaticità proprio da Tomadini, che con lui e Guareschi aveva vissuto quella triste esperienza.
Anche per questo, sabato, nella fase inaugurale, nel Centro Culturale legato al nome di Karol Wojtyla, ho proposto al Capo di Gabinetto del Ministero per i Beni Culturali, di considerare l’opportunità di riunire tutte queste testimonianze in un fondo unico ed una location, che ne enfatizzi la memoria, piuttosto che finire disperse nei mille rivoli del collezionismo e nella obsolescenza, rappresentando valori davvero particolari, che vanno ben oltre le quotazioni del mercato artistico.
Data la straordinarietà dell’iniziativa, a cura di Antonella Viali, “Tappe di un calvario” ha ottenuto oltre il Patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, della Regione Lazio e del Comune di Cividale, Città di nascita dell’Artista e della Regione Friuli Venezia Giulia, la considerazione del mondo sanitario e in particolare di quello che si fa carico della ricerca in campo oncologico e dello stesso Comitato Nazionale Italiano Fair Play, rappresentato dal sottoscritto.
Il giorno dell’Inaugurazione – venerdì 19 maggio 2017 –nella Sala Espositiva di Via delle Botteghe Oscure,15 – dove le opere rimarranno esposte sino al 9 di giugno – si è svolta una interessante Conferenza con la partecipazione dei Prof. Avv. Cesare San Mauro, Segretario Generale della Fondazione Roma Europea, Prof. Giampaolo D’Andrea, Capo di Gabinetto MiBACT, Dott. Fabrizio D’Alba, Direttore Generale Ospedale S. Camillo-Forlanini , Dr.ssa Maura Cossutta, Responsabile Relazioni esterne Ospedale S. Camillo-Forlanini , Dott Leonardo Vigna, Oncologo, Dott. Fabrizio Signore, Primario ginecologo Ospedali Grosseto-Arezzo-Siena, Rag. Stefano Balloch, Sindaco di Cividale del Friuli, Mons. Ptasznik Pawell, Rettore della Chiesa di San Stanislao.
Il beneficio economico di “Tappe di un Calvario” verrà devoluto al Polo Oncologico dell’Ospedale S. Camillo-Forlanini.
Annotazioni storiche:
GLI INTERNATI NEI LAGER NAZISTI
da G. Oliva, “Appunti per una storia di tutti, prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale”, Consiglio Regionale del Piemonte, Istituto storico della resistenza in Piemonte. ed., Torino 1982, pp. 2-3 e 5-7).
I 650.000 militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre e internati nei lager nazisti erano una parte del prezzo della guerra Fascista: non il primo e non l’ultimo, ma certo il più oneroso e drammatico. La Germania hitleriana non poteva né intendeva consentire al ritiro dell’Italia dalla guerra, né perdere i vantaggi strategici ed economici derivanti dal controllo della penisola; e i rapporti di forza nel teatro mediterraneo nell’estate 1943 assicuravano alla Wehrmacht una netta supremazia nei Balcani e nell’Italia centro-settentrionale.
Le truppe italiane dislocate nella penisola balcanica, nell’Europa orientale, in Francia erano comunque destinate ad essere sopraffatte dalle forze tedesche, superiori per armamento, mobilità, appoggio aereo e possibilità di rinforzi. Se il sacrificio di tanta parte delle forze armate era inevitabile, il prezzo fu però pagato nel modo peggiore. L’8 settembre il re e Badoglio, preoccupati soltanto di salvaguardare la continuità della monarchia e del governo assicurata con la firma dell’armistizio, lasciarono truppe e popolazione senza direttive chiare dinanzi alla pronta e bene organizzata reazione tedesca. Governanti più consapevoli della loro responsabilità, nel difficilissimo momento del rovesciamento di alleanze, avrebbero dovuto assumersi l’onere di ordinare esplicitamente alle truppe di combattere contro il nuovo nemico, oppure di arrendersi senza spargimenti di sangue là dove una resistenza era impossibile (come nei Balcani): qualsiasi direttiva sarebbe stata preferibile alla mancanza di direttive, che,scaricando la scelta della direzione in cui sparare su anziani ufficiali educati all’obbedienza e non a decisioni politiche di questo livello, aggiungeva una tragica crisi morale al disastro materiale.
Il compito delle forze tedesche Fu così grandemente facilitato: le truppe italiane furono non solo disarmate e fatte prigioniere, ma anche umiliate e gli episodi circoscritti di resistenza armata rapidamente stroncati e duramente pagati (Cefalonia insegna). Non si conosce con esattezza il numero dei militari italiani catturati dai tedeschi nei giorni successivi all’8 settembre: confrontando le cifre ufficiali italiane del 1946/47 con quelle tedesche e con dati di singoli reparti, si arriva a un totale, generalmente accettato come orientativo, di 650.000 uomini.
Di questi, 550.000 furono deportati nei lager di Germania e Polonia e 100.000 trattenuti nei Balcani, in parte in lager veri e propri, in parte alle dipendenze dirette dei reparti tedeschi. Questi 650.000 internati militari (come li definirono i tedeschi, negando loro la qualifica di prigionieri di guerra in quanto sudditi dell’alleata repubblica di Salò) avrebbero potuto reputarsi traditi dal regime fascista, dalla monarchia, dal governo Badoglio, dai loro comandanti che non avevano saputo reagire alla crisi dell’armistizio, e pensare quindi al proprio interesse immediato, venendo a patti con i tedeschi. Tuttavia, posti dinanzi alla scelta fra una dura prigionia (che per i soldati comportava il lavoro forzato e per tutti fame e vessazioni) e l’adesione al nazifascismo (che apriva la via al ritorno a casa e come minimo garantiva un immediato miglioramento delle condizioni di vita), in grande maggioranza preferirono la fedeltà alle istituzioni e rivendicarono la loro dignità di uomini con una tenace resistenza al nazi-fascismo.
Scelsero quindi di restare nei lager in condizioni durissime, che circa 40.000 di loro pagarono con la vita. […] L ‘internamento dei soldati I soldati vissero il trauma della cattura e della deportazione in carri bestiame e l’impatto con il sistema concentrazionario nazista in modo non diverso dagli ufficiali: fame, stenti, sistemazioni in baracche inadeguate e affollatissime. Anche a loro fu offerto l’arruolamento nell’esercito nazista o in quello di Salò, seppure con pressioni minori (mentre l’adesione degli ufficiali aveva un rilevante valore politico, quella dei soldati creava piuttosto problemi di inquadramento senza procurare benefici di rilievo sul piano dell’immagine): come al solito, mancano dati precisi, ma il totale dei volontari non dovette superare il l0%. La differenza sostanziale era rappresentata dal lavoro forzato: mentre gli ufficiali furono costretti a lavorare solo nei termini già indicati, i soldati, sin dall’inizio della loro prigionia, vennero obbligati ad un lavoro massacrante di dodici ore quotidiane per sei giorni la settimana. Nel 1943/44 quasi tutti i tedeschi tra i 18 e i 50 anni erano arruolati nella Wehrmacht o nelle varie organizzazioni naziste militari e paramilitari: la produzione industriale e agricola nel Reich dipendeva ormai dalla disponibilità di milioni di braccia straniere, lavoratori civili più o meno volontari, lavoratori coatti prelevati con la forza generalmente nei paesi slavi, prigionieri di guerra, deportati politici ed ebrei.
Tra questi milioni di lavoratori erano mantenute rigide divisioni e differenze di trattamento anche notevoli, specie per vitto e disciplina, ma anche i più fortunati erano privati della libertà individuale e costretti ad un lavoro pesante, con la costante minaccia di percosse e di punizioni: era un enorme esercito di schiavi, impiegati quasi soltanto per la loro forza fisica. I soldati italiani entrarono a far parte di questo esercito a un livello inferiore rispetto ai lavoratori civili e superiore rispetto ai deportati politici e razziali.
Quelli che non furono destinati al lavoro nelle fabbriche, vennero impiegati nella manutenzione delle linee ferroviarie, nei lavori agricoli e forestali, nella costruzione di fortificazioni, nello sgombero di macerie, nel caricamento e scaricamento di navi e di treni. La sorte peggiore fu probabilmente quella dei soldati destinati a lavorare nelle miniere di carbone in Renania e in Slesia, dove il lavoro era massacrante, il trattamento pessimo e la disciplina durissima. Un numero imprecisato di soldati conobbe anche gli orrori dei più tristi campi di deportazione: almeno un migliaio di internati furono destinati a Dora, sottocampo di Buchenwald, per la preparazione di installazioni sotterranee e poi per la fabbricazione delle bombe V1 e V2: si sa inoltre che 1800 detenuti del penitenziario di Peschiera furono inviati a Dachau e che in gran parte soccombettero.
L’accordo Hitler-Mussolini dell’estate 1944, che trasformò i militari internati in lavoratori civili, non ebbe ripercussioni particolari tra i soldati. Con ogni probabilità, in molti lager i tedeschi non si curarono di informare gli internati, procedendo d’autorità alla loro “civilizzazione”, e in altri lo presentarono come una semplice formalità burocratica: nella sostanza, comunque, nulla cambiava, perché i soldati avrebbero continuato a lavorare come prima.
Va tuttavia sottolineato che, nonostante le pressioni dell’ambiente, le durezze delle condizioni di vita e l’oggettiva difficoltà ad organizzarsi per la dispersione nei vari ”Arbeitskommando”, il l° gennaio 1945 (secondo fonti tedesche) 69.300 fra soldati e ufficiali persistevano nel rifiuto di firmare il provvedimento di “civilizzazione”: una forma di resistenza marginale, ma di estremo valore ideale perché condotta soltanto in nome della propria dignità di uomini e di soldati.
Per quanto riguarda gli ultimi mesi di prigionia, la liberazione, l’attesa del rimpatrio e infine il ritorno in Italia, le vicende dei soldati furono simili a quelle degli ufficiali. Sul fronte orientale, la liberazione fu però segnata da brutali massacri da parte dei tedeschi ormai in rotta: 130 soldati furono impiccati a Hildesheim il 27 e 28 marzo, una trentina fucilati a Bad Gandersheim in aprile, 150 a Treunbrietzen il 23 aprile. Valgano questi drammatici episodi come ammonimento a non dimenticare gli altri eccidi di prigionieri italiani perpretati dai nazisti nei territori balcanici e orientali, che la memorialistica non può documentare.
http://www.storiaxxisecolo.it/internati/internati.htm
TESTIMONIANZA
Don Pasa, il prete che aiutò i militari deportati
Don Luigi Pasa scrisse un libro: TAPPE DI UN CALVARIO . Storia dei 20 mesi di prigionia nel campi di concentramento in Germania e Polonia.
“Quegli stessi ufficiali che insistettero per il culto, si prodigarono per la costruzione dell’altarino in ogni singola baracca. Architetti, ingegneri, pittori: tutti si misero all’opera con entusiasmo, e andarono a gara, come fanciulli, a chi faceva meglio….
Tutti andavano a gara nell’adornare gli altarini…
Io osservavo spesso questo o quello intento al suo lavoro, e ne riportavo l’impressione che non solo per distrarsi ciascuno lavorava. Intendevo in quei gesti delle mani e nell’atteggiamento raccolto della persona, il desiderio grandissimo e profondo, intimo, d’ingraziarsi, con quell’umile e insolita opera, il Cielo.
Quei lavori insoliti erano preghiera, erano voti, erano la più spontanea e radicata forza che scaturiva dall’animo essenzialmente cristiano.”
AVIANO. L’8 settembre 1943 diventa una data fondamentale per l’Italia. L’annuncio dell’armistizio, fatto dal generale Badoglio, segna la fine della monarchia, l’invasione nazista del Paese e la contemporanea trasformazione del fascismo nella Repubblica sociale, asservita ai tedeschi.
Ma la storia di quel settembre del ’43 viene scritta dai militari che, abbandonati a se stessi, cercano di tornare a casa. Li aiuta la gente comune, fornendo loro viveri e abiti civili.
Anche nell’attuale provincia di Pordenone si verificano innumerevoli comportamenti coraggiosi tesi a nascondere e far fuggire gli uomini in divisa per sottrarli alla deportazione nazista. E dai ricordi dei sopravvissuti ai lager, così come dei protagonisti di atti di solidarietà verso i soldati italiani, emerge la figura particolare del sacerdote don Luigi Pasa, cappellano all’Aeroporto Pagliano e Gori di Aviano.
Con ‘Tappe di un calvario”, don Pasa racconta la sua esperienza umana e religiosa di quei giorni segnati dalla disfatta dell’esercito italiano e dall’invasione tedesca.
Don Pasa inizia il suo diario minimizzando i fatti «(…) quello che dopo l’8 settembre accadde al Pagliano e Gori è né più né meno quanto accadde in tanti e tanti aeroporti, in tanti e tanti comandi militari periferici». Le pagine successive della sua opera autobiografica contraddicono però quella premessa, conducendo subito il lettore in mezzo a eventi tragici e singolari.
Nella confusione generale che regna dopo il proclama di Badoglio sull’armistizio e… sulla guerra che continua, Don Pasa si attiva per convincere i suoi superiori a congedare quanta più gente possibile. Ottenuto poi l’incarico di prelevare il denaro dalla cassaforte, don Pasa anticipa stipendi e competenze a tutto il personale dell’aeroporto, dagli ufficiali ai semplici avieri. Successivamente, arrivati i tedeschi, di fronte alla loro intimazione di aprire la cassaforte, Don Pasa sostiene di dover ritirare le chiavi da un ufficiale a Pordenone e, accompagnato dai nazisti, una volta giunto in Piazza Cavour, simula di riceverle da una inserviente dell’alto graduato ormai irreperibile.
«Come bestie, come bestie – scrive don Pasa – furono i tedeschi allorché, aperta la cassaforte, la trovarono letteralmente vuota».
Dall’aeroporto Pagliano e Gori, così come dalla caserma Umberto Iº di Pordenone furono però in molti a non voler scappare, fiduciosi nelle autorità italiane, convinti di agire secondo norme e regolamenti. «Quanti soldati – commenta don Pasa – avranno poi rimpianto, di fronte ai maltrattamenti e alla deportazione, di non essere fuggiti anche a costo di rimetterci la vita, di non essere rimasti in patria, di non essere corsi in montagna a ingrossare le fila di coloro che presto si sarebbero chiamati partigiani!».
Don Pasa sceglie di condividere la deportazione con i suoi avieri e con gli altri militari catturati dai nazisti.
Domenica 19 settembre 1943, a Pordenone don Luigi Pasa sale, volontariamente, su un carro diretto in un lager nazista. Ricordata la generosità dei pordenonesi che riforniscono di viveri e vestiario i militari prigionieri, Don Pasa descrive quella partenza.
«Era una lunga tradotta, e gli avieri del Pagliano e Gori non costituivano che una piccola parte della enorme massa di militari avviati alla deportazione. (…) ‘Sentivo” tutti quei carri bestiame pieni di soldati nostri, e il desiderio era uno solo: avvicinarli, lasciarmi semplicemente vedere per suscitare in essi la sensazione di aver vicino una persona che avrebbe saputo, in qualsiasi momento, parlare al loro spirito».
Iniziano così gli oltre venti mesi che Don Pasa trascorre da internato volontario nei lager tedeschi di Beniaminov, Sandbostel e Wietzendorf. Alla liberazione Don Pasa raggiunge l’Italia comunicando l’elenco dei prigionieri al Governo e al Vaticano. E nelle settimane successive don Luigi ritorna in Germania a capo di una missione pontificia per recare ai suoi compagni aiuti e mezzi per il rimpatrio.
(Sigfrido Cescut)
PER ORDINAZIONI DELLA RISTAMPA:
https://www.edizionisegno.it/libro.asp?id=1673