Fb 4 ottobre 2020

Domenica XXVII – Mt 21,33-43

La resa dei conti

Vigna d’uva selvatica in Isaia, vendemmia di sangue in Matteo: è la domenica delle delusioni di Dio.

La parabola intona il canto dell’amore deluso, con la speranza però di una passione che non si arrende, che prende nuovi sviluppi, che non è mai a corto di meraviglie, che dopo ogni rifiuto fa ripartire l’assedio al cuore con nuovi profeti, nuovi servitori, addirittura con il proprio Figlio.

Isaia e Matteo raccontano la cura minuziosa di chi ha piantato la vigna, l’ha cinta come un abbraccio, vi ha scavato un tino, eretto una torre, e poi l’ha affidata alle cure d’altri: e inizia una storia perenne di amore e tradimento.

L’uomo dei campi, il nostro Dio contadino, guarda la sua vigna con gli occhi dell’amante che la circonda di cure: che cosa potevo fare di più per te che io non abbia fatto?

Canto d’amore di un Dio appassionato e triste, che continua a fare per me ciò che nessuno farà mai.

Da un lato la nobiltà d’animo del padrone, dall’altro la brutalità sciocca e violenta dei vignaioli. Eppure il tradimento dell’uomo non ferma il piano di Dio: la vigna darà frutto e lui non sprecherà la sua eternità in vendette.

Nelle vigne è stagione di vendemmia. Campo e passione di Dio è la mia vita, il cui scopo è di essere feconda, il cui rischio è l’inutilità. Ma in noi la raccolta avviene ogni giorno, il grande Vendemmiatore passa ed è nelle persone che cercano pane, conforto, vangelo, giustizia, amore. Viene in coloro che talvolta ci domandano un po’ di coraggio per continuare a vivere. Che cosa gli daremo? Un vino di festa o uva acerba?

E se il Regno sarà dato ad un altro, allora inizierà da capo la conta della speranza, più forte della delusione. Così è il nostro Dio: in Lui il lamento non prevale mai sulla promessa. E il mosto di domani conta più del rifiuto di ieri. Il bene possibile e sperato vale più della sconfitta patita. Patto d’amore mirabile e terribile.

La parabola dell’amore deluso non si conclude con un fallimento né con una vendetta, perché tra Dio e l’uomo le sconfitte servono solo a far emergere di più l’amore.

È l’ultima meraviglia, vittoria e sigillo di un illogico sentimento.

La storia perenne di amore e tradimenti tra noi e Dio si concluderà con una nuova offerta: darà la vigna ad altri, la donerà a chi sa fare i frutti buoni che Isaia enumera: aspettavo giustizia, attendevo rettitudine, non più grida di oppressi, non più sangue. Il frutto che il Padrone attende è il volto dei suoi figli non più umiliato.

Il sogno di Dio non è il tributo finalmente pagato, non la pena scontata o i conti in pareggio, ma una vigna rigogliosa dai grappoli gonfi di futuro, profezia di un vino di festa. Lui sogna una storia che non sia guerra di possessi e battaglia di potere, ma sia vendemmia di giustizia e pace, acini di Dio fra noi.

Avvenire XXVII A 2020

Gesù amava le vigne: le ha raccontate, per sei volte, come parabole del regno; vi ha letto un simbolo forte e dolce (io sono la vite e voi i tralci, Gv 15,5); al Padre ha dato nome e figura di vignaiolo (io sono la vite vera e il Padre è l’agricoltore, Gv 15,1).

Ma oggi il vangelo racconta di una vendemmia di sangue. Una parabola dura, che vorremmo non aver ascoltato, cupa, con personaggi cattivi, feroci quasi, e questo perché la realtà attorno a Gesù si è fatta cattiva: sta parlando a chi prepara la sua morte.

L’orizzonte di amarezza e violenza verso cui cammina la parabola è già evidente nelle parole dei vignaioli, insensate e brutali: Costui è l’erede, venite, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!

Ma quale manuale di diritto civile hanno mai letto? È chiaro che non è il diritto ad ispirarli, ma quella forza primordiale e brutale, originaria e stupida, che in noi sussurra: devi sopraffare l’altro, occupa il suo posto, e allora avrai il suo campo, la sua casa, la sua donna, i suoi soldi.

Quanto è diverso Dio, che ricomincia, dopo ogni tradimento, a mandare ancora servitori, altri profeti, infine suo Figlio; che non è mai a corto di sorprese e di speranza: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto? Io, noi siamo vigna e delusione di Dio, e lui, contadino appassionato, continua a fare per me ciò che nessuno farà mai. Fino alla svolta del racconto: alla fine, che cosa farà il signore della vigna? La soluzione proposta dai capi del popolo è tragica: uccidere ancora, far fuori i vignaioli disonesti, sistemare le cose mettendo in campo un di più di violenza. Vendetta, morte, il fuoco dal cielo. Ma non succederà così. Questo non è il volto, ma la maschera di Dio.

Infatti Gesù introduce la novità propria del Vangelo: la storia di amore e tradimenti tra uomo e Dio non si concluderà con un fallimento, ma con una vigna viva e una ripartenza fiduciosa: Perciò io vi dico: il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.

Trovo in queste parole un grande conforto: sento che i miei dubbi, i miei peccati, le mie sterilità non bloccano la storia di Dio; quel suo sogno di buon vino comunque avanza, niente lo arresta. La vigna darà il suo frutto, perché c’è ancora chi saprà difenderla e farla fruttificare. Ci sono, stanno sorgendo, nascono dovunque, e lui sa vederli, vignaioli bravi che custodiscono la vigna anziché depredarla, che servono l’umanità anziché servirsene. I custodi della fecondità. Nella vigna di Dio è il bene che revoca il male. La vendemmia di domani sarà più importante del tradimento di ieri. I grappoli gonfi di succo e di sole riscatteranno anche la sterilità di questi nostri inverni in ansia di luce.

 

p. Ermes Ronchi