dal settimanale “Il Friuli” del 1/12/02

Il cielo è plumbeo, carico di pioggia, ma a me sembra una bellissima giornata. Sono appena uscito dal carcere di Tolmezzo dove ho trascorso un’intera mattinata con quelli che padre Turoldo avrebbe definito “Gli ultimi”.

E’ proprio vero che, per apprezzare quel che ci da la vita, bisogna toccare con mano il peggio. Le ore trascorse nei corridoi e nei locali dell’istituto di pena mi hanno lasciato dentro un senso di sgomenta desolazione. Nonostante si tratti di una struttura moderna, dove l’umanità – ne ho trovata tanta – e l’impegno di chi ci lavora, leniscono le sofferenze di chi deve scontare la pena.
Nelle stesse ore il Papa invocava in Parlamento clemenza per i detenuti; chiedeva ai politici attenzione per la sofferenza di chi è tra i reietti della nostra società.

La visita non è stata semplice, neppure dal punto di vista delle pratiche burocratiche. I ripetuti allarmi sulla difficile situazione delle carceri italiane, lanciati anche da chi dovrebbe affrontarli e risolverli, hanno imposto agli uffici una certa prudenza. Eppure la sorpresa, una volta “dentro” è stata notevole. La casa circondariale di Tolmezzo, costruita all’inizio degli Anni ’90, rappresenta un modello da seguire.

Le condizioni di vita dei detenuti sono decorose, le attività formative e culturali sono moltissime. L’atteggiamento degli agenti non è certo quello visto in tanti film americani.
Il dubbio che tutto fosse preparato, a dire il vero, a un certo punto mi è venuto. ma una volta tanto, preferisco fidarmi di quello che ho visto e delle parole di chi in carcere ci vive.
Supero la block-house – chiamano così l’ingresso principale dove si consegna il documento d’identità – alle 9. Qualche minuto d’attesa e poi il vicedirettore, la dottoressa Silvia Della Branca, mi riceve nel suo ufficio. I tempi e i modi della visita erano già stati concordati, ma a scanso d’equivoci mi ricorda che, per disposizione del Ministero, non posso fotografare la cinta muraria, l’interno delle celle e chi vive e lavora in carcere.
Nessuna obiezione. La visita comincia poco dopo.

Entriamo nel cuore dell’istituto, protetto da un sistema di sbarre e porte blindate aperte a distanza. Siamo attesi nell’ufficio dell’educatore, ma prima dobbiamo superare una serie di cancelli che sembra infinita. Si aprono e si chiudono con uno secco suono metallico, che mi risuonerà ancora nelle orecchie parecchie ore dopo. I corridoi sono ampi, spogli, illuminati da una luce tenue. Ci si immerge in un’atmosfera irreale, quasi ovattata, lontana anni luce dal centro cittadino, distante soltanto un paio di chilometri. Ancora qualche minuto di attesa e poi mi accompagnano in biblioteca per le interviste.

Vita da detenuto
Il locale è piccolo, ma le pareti sono piene di libri. E’ li che incontro i detenuti scelti dalla direzione. Prima di cominciare ancora una piccola formalità: devono firmare una liberatoria che esenti l’amministrazione da qualsiasi responsabilità in merito alla pubblicazione.

Due di loro sono friulani, il terzo è un giovane bulgaro. Tre differenti reati, tre storie completamente diverse, ma un unico comune denominatore: le donne. La loro condanna, stando ai racconti è in qualche modo legata a una donna, che, a seconda dei casi, veste i panni della vittima o del carnefice.
L’unico a permettermi di usare nome e cognome è Alfeo Cargnelutti; per questo comincio da lui. Alfeo – Coco per i motociclisti di tutta la regione – è finito a Tolmezzo per omicidio. Quello di una donna albanese che minacciava di rivelare al racket il luogo dove viveva con la sua ragazza, albanese anche lei, strappata alla strada. Viveva a Pozzis, una piccola e sperduta frazione di Verzegnis.

Aveva deciso di vivere in mezzo agli animali che adora. “E poi quel colpo di testa. Quel gesto assurdo che ha sconvolto la mia vita, che mi ha trasformato in ciò che non sono mai stato”. Alfeo, 57 anni fra qualche giorno, è recluso a Tolmezzo da quasi 4 anni. Se tutto va bene, uscirà dal carcere nel 2009. “Appena varcato il cancello mi sono detto: da qui esco in due modi. Da vivo, dopo aver scontato la mia pena, o da morto”. I primi, difficili giorni se li ricorda fin troppo bene: “All’inizio non ci si rende conto. Si va a dormire con la sensazione che sia un brutto incubo. Poi la sveglia e quella finestra con le sbarre che ti riporta alla realtà. Pensavo di non farcela, che sarei impazzito, ma alla fine ci si adatta”.

La giornata comincia alle 7. Terminata la colazione, verso le 8 un agente accompagna il detenuto nel luogo in cui deve svolgere l’attività. “Credo, nonostante tutto, di essere fortunato. Qui mi sento utile, posso lavorare. Sono anche riuscito a prendere la licenza di scuola media inferiore. Leggo moltissimo e spesso ho il conforto della visita di amici e famigliari”. Alfeo è quello che si definisce un detenuto modello, ben voluto anche dagli agenti. Pure i rapporti con i compagni sono buoni.

Gli chiedo cosa lo aiuta a guardare avanti: “Non vorrei ripetermi, ma il lavoro è una medicina senza la quale ci si ammala, si muore dentro. La sera, nel chiuso della cella, ci si ritrova soli con i propri pensieri. E allora penso alla moto che mi faceva sentire libero, alla mia fattoria, ai miei cavalli e mi addormento serenamente”.

Il suo compagno di cella è Marco, un bulgaro di 27 anni condannato per tentato omicidio. La vittima anche in questo caso è stata una donna, sua moglie. Lei però non lo ha abbandonato e da Roma, assieme ai figli, sale spesso fino a Tolmezzo per fargli visita. Mi colpisce il Tau che porta al collo, la piccola croce di legno usata dai francescani. Ne noterò altre, testimonianza discreta del passaggio di un frate. Marco ha già scontato un anno e mezzo.

Prima vendeva oggetti dell’artigianato artistico. “L’Italia all’inizio – spiega – era solo una tappa. Ma il vostro paese mi è piaciuto subito, ho trovato una casa e un lavoro, ho messo su famiglia”. Poi il raptus e la caduta nel baratro che sembrava senza fondo. Lo hanno messo in cella con Alfeo, che lo tratta come un figlio. Dal penitenziario di Tolmezzo è cominciata la sua risalita verso una nuova esistenza: “Ripenso spesso ai fatti che mi hanno portato qui. Non sono mai riuscito a capire come abbia potuto alzare la mano sulla persona che amo.

Ho deciso di usare questo periodo nel migliore dei modi, tenendomi occupato con il lavoro e lo studio”. Anche lui, al pari del compagno ha preso la licenza di scuola media. “Ho capito che se resto chiuso in cella butto via il mio tempo”. Racconta dei momenti difficili, di quando il cellulare lo portava in tribunale per la pronuncia della sentenza. E poi racconta la gioia che gli da la visita dei famigliari. La vista dei suoi bimbi e della moglie gli scalda il cuore per molto tempo, tamponando il dolore della sua esistenza di detenuto. Sperare in qualcosa aiuta. “Mi piacerebbe tanto riprendere il mio lavoro e magari aprire un negozio. Tornerò a Roma, a meno che non decidano la mia espulsione”.

L’ultima chiacchierata la faccio con “l’americano”. E’ il soprannome che gli hanno affibbiato gli altri detenuti 8 mesi fa, quando è arrivato da un carcere del Tennessee, negli Stati Uniti, dove è stato condannato per traffico internazionale di droga. Al rientro da un viaggio in Colombia, paese natale della sua convivente, hanno trovato nella sua valigia un pacchetto regalo. Conteneva cocaina pura. La sua è una lunga storia, di quelle che sembrano uscite da un romanzo d’appendice. Ora ha 37 anni.
E’ partito da Tarvisio pieno di progetti e si ritrova a Tolmezzo dietro le sbarre. “Mi sono preso 7 anni e 4 mesi per traffico di droga a causa di quel pacchetto messo dalla mia ragazza. E pensare che negli Stati Uniti avevo un’avviata attività di lavorazione del marmo. Poi un giorno ho conosciuto quella donna e sono cominciati i miei guai”.

Negli Usa è stata dura: 6 anni di reclusione nelle loro carceri non sono una passeggiata. “Là sei soltanto un numero. A nessuno glie ne frega nulla di te, se respiri o se muori. Sono stati anni difficili, scanditi dai lavori forzati. Sono riuscito a renderli meno pesanti perché sapevo lavorare bene al computer e conoscevo la contabilità”. Poi l’americano ottiene il trasferimento in Italia. La sua vita cambia in meglio.

Già sull’aereo si sente di nuovo un essere umano: “Mi avevano portato incatenato, ma appena sono entrato in aereo gli italiani mi hanno tolto le catene. Ho toccato con mano cosa significhi l’umanità, la pietà. Non scorderò mai quando sono arrivato a Milano. Mi sembrava di essere giunto su un altro pianeta”. Anche a lui chiedo qual è stato il momento peggiore. “L’ho vissuto qualche giorno fa, quando mi hanno detto che la mia pena rischia di allungarsi ben oltre quella stabilita a causa di problemi interpretativi”. Vorrei parlare ancora con loro, tessere un legame più forte. Ma il tempo stringe.

Al lavoro dietro le sbarre

Con il vicedirettore e Mimma Baldassarre, l’unico educatore operante a Tolmezzo – ce ne dovrebbero essere quattro – visito i laboratori di informatica e falegnameria. Poi andiamo in cucina, dove stanno preparando il pranzo. I cuochi – l’assaggio rivela che sono davvero bravi – sono tutti detenuti. Anche qui l’atmosfera è informale, quasi rilassata.

La Baldassarre mi spiega il suo ruolo, quasi una specie di angelo custode che segue ogni singolo detenuto, il lavoro d’equipe con assistenti sociali e psicologi, la scelta di puntare sulla formazione professionale e sul lavoro. “Lo sforzo per recuperarli e notevole, ma purtroppo – mi dice un po’ sconsolata – non sempre i risultati sono all’altezza dell’impegno. I casi di reinserimento sono pochi e la colpa è in gran parte della società, incapace di riaccogliere questi uomini”.

A Tolmezzo molti agenti hanno l’inconfondibile accento carnico. Fra loro Marco, di Tolmezzo (anche lui preferisce mantenere l’anonimato), 27 anni. Il lavoro in un carcere non deve essere tra i più ambìti. Perché mai un giovane che vive nel ricco Nord Est fa una scelta del genere? “Il primo servizio è stato da agente ausiliario. I miei genitori mi hanno consigliato di proseguire ed eccomi qua. Se si cerca di fare il proprio lavoro al meglio, non è un brutto mestiere, anzi può essere interessante. Semmai ad essere pesanti sono i turni. I tempi di recupero sono ridotti e la stanchezza fisica e mentale si fa sentire. Questo lavoro – mi dice quando gli chiedo se rifarebbe la scelta – qualcuno lo deve pur fare. L’importante è farlo bene”.

Chiedo di dare un’occhiata a una cella. Al massimo può essere occupata da due detenuti. Un letto a castello, un tavolino, un piccolo televisore incassato nel muro e, separato da una porta in metallo, un bagno. I detenuti possono appendere poster e fotografie alle pareti. Uno spazio forse piccolo per noi uomini liberi, ma abbastanza spaziosa da consentire un’esistenza dignitosa. In ogni caso, nulla a che vedere con tante vecchie strutture, troppo simili allo Spielberg narrato da Pellico. Il penitenziario in effetti è moderno, anche se alcune infiltrazioni d’acqua dimostrano che, come al solito, gli edifici pubblici andrebbero costruiti con più cura.

Penitenziario modello

Al ritorno passo accanto al plesso dove si trovano i detenuti del 41 bis. E’ totalmente isolata dalle altre strutture. Un tempo c’erano le detenute, oggi i condannati per reati di mafia.
Ancora cancelli che si aprono e si chiudono, e poi finalmente il cortile. Approfitto della disponibilità del vicedirettore per togliermi ancora qualche curiosità.

Per esempio perché, a differenza di altre strutture, il penitenziario di Tolmezzo non abbia mai dovuto fare i conti con le azioni di protesta viste altrove. “Qui, il problema del sovraffollamento non esiste. Al massimo possiamo ospitare due detenuti per cella. Certo siamo al completo, con 240 “ospiti”, ma di più non si può. A parte quest’importante dettaglio a Tolmezzo il clima è più tranquillo perché abbiamo puntato molto sulla formazione dei detenuti.

Corsi di specializzazione, scuola media e superiore nel settore dell’elettronica, teatro, pittura, aiutano il detenuto a vivere meglio la sua condizione. Resta da risolvere qualche problema con i nord africani, più refrattari all’attività di mediazione culturale”. Mi vengono in mente le polemiche sulla costruzione del carcere. Oggi qual’è il rapporto col territorio? “All’inizio è stato difficile, mentre oggi godiamo del supporto di tanti cittadini e delle istituzioni locali”. Insisto con la Della Branca.

Possibile che vada tutto bene? Ci pensa su un po’: “Non voglio fare il solito pianto greco, ma il problema è soprattutto di organico. Con pochi agenti in più i turni sarebbero meno pesanti e la qualità del lavoro migliore. Anche qualche educatore in più, ci permetterebbe di seguire meglio i detenuti. Ma il nostro è un carcere poco ambito a causa della posizione geografica. In ogni caso – mi dice sorridendo – i detenuti non li dimentichiamo in cella”.

La visita è finita. Respiro a pieni polmoni, con il muro di cinta finalmente alle spalle. E penso che quegli uomini non andrebbero prima dimenticati e poi respinti.
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