dal Messaggero Veneto del 14/10/02

La caccia è viva

Il signor Pietro Micoli, nella sua lettera, ha proposto una visione del mondo venatorio decisamente pessimistica. Mi sembra, però, quanto meno, che egli non tenga in debito conto i mutamenti intervenuti negli ultimi anni riguardanti l’uso dei cani da seguita nel prelievo degli ungulati. Una selezione mirata, infatti, ha favorito l’uso di esemplari che inseguono la selvaggina per 20/30 minuti al massimo evitando di perdersi.

Quanto poi all’indisciplina, i cacciatori rappresentano uno spaccato della società, la quale comprende anche una minima parte di individui violenti o maleducati, i più però rispettano il prossimo e la democrazia: questi cacciatori sono animati da quel sentimento nobile e romantico che ardisco definire poesia.
Da bambino seguivo spesso mio padre a caccia. Condividevo la sua passione. Ho ancora negli occhi una scena bellissima. Una lepre era schizzata dal covo. Egli si mise in ginocchio, come in un rito, e tirò. La lepre fece una capriola, cadde e lui la raccolse ammirandola con soddisfazione. Tanti anni dopo ascoltavo con ansia una muta di cani venirmi incontro nel folto di un bosco. Davanti a loro intuivo la presenza di un grosso animale. Improvvisamente apparve ai miei occhi un bel cervo. Era il primo della mia vita. In quell’istante rividi mio padre. Mi misi in ginocchio e tirai. L’animale colpito fece una capriola, cadde e io rivolsi il mio pensiero a lui che non c’era più.

Le passioni nascono e crescono con l’uomo condizionando tutta la sua vita. La caccia non è né un dovere né una scelta per trascorrere le domeniche, è un amore che, quando è sincero, dura per sempre. Nei suoi gesti atavici rivedo gli inizi dell’uomo quando era costretto a dominare la natura e i suoi elementi per sopravvivere. Si va a caccia quando fa freddo ignorando la fame e la stanchezza, la febbre e il mal di testa. La pioggia e la neve fermano le automobili, ma non i cacciatori. Questo non è forse lo stesso spirito che ha permesso alla razza umana di arrivare fin qui?

È un rito che si ripete. Sorrido a chi afferma di voler tutelare la natura e spruzza gli antiparassitari sui fiori per ammazzare i pidocchi. Sono gli stessi che mal identificano la nostra attività solo con l’attimo dello sparo e non si accorgono di aver perso un po’ del loro Dna. Anzi, forse hanno solo un bersaglio diverso.
Le mattine, mentre sono in attesa di partire, ammiro l’alba e gioisco per la vita che sta nascendo. Quando la sera, al tramonto, rientro, ho l’animo in pace. Non pretendo di essere capito dagli altri, ma da lei, caro Pietro, sì, e la invito a essere più ottimista. La caccia è tutt’altro che morta e lei, dopo 52 licenze, non può non essere ancora dei nostri.

Sandro Levan
Reana
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Vorrei contestare l’opinione del signor Levan (“La caccia è viva” 10/10/02) secondo la quale «i cacciatori rappresentano uno spaccato della società…». Essi non formano una categoria professionale, con una composizione trasversale che rappresenti, poniamo, diverse Weltanschaung. Costituiscono invece quel preciso settore (1%) della società italiana, caratterizzato dalla concezione di continuità logica tra il «sentimento nobile e romantico, che ardisco definire poesia» e l’azione «si mise in ginocchio e tirò», dove con «tirò» si intende «le sparò alle spalle».

Nessuno tra gli italiani che 12 anni or sono ignorarono il ripugnante invito della “Craxi & Co” ad andare al mare invece di recarsi alle urne, e si espressero contro la caccia, ha un corrispondente tra gli affiliati al predetto settore.
Non c’è qui spazio, né ve ne è in alcuna sede per discutere nel merito della pratica venatoria.

Ma sostenere che ogni gruppo sociale può essere bipartito tra “educati/non violenti”, capaci di ammazzare un cervo per evocare proprio padre e “maleducati/violenti”, i quali invece sparano, ma non fanno dediche, è una aberrazione che reca pregiudizio all’immagine degli idraulici e degli insegnanti, dei giornalisti e degli avvocati. Finché il Parlamento seguita a legiferare su assiomi falsi – gli animali non umani sono oggetti – o a ritenere cugini il gioco del golf, con i suoi fastidiosi strappi muscolari, e il gioco della caccia con i suoi duecento milioni di cadaveri/anno – decine dei quali umani –, accetto la caccia come tecnicamente lecita, pur tenendo il mio voto ben lontano da assessori che spacciano per didattico l’uso del fucile. Soprassiedo sul superficiale parallelo insetticida/pallottola o sulle improvvisazioni antropologiche circa il successo evolutivo dell’uomo.

Tuttavia in questo paese risiedono 55 milioni di persone che, pur commettendo talvolta gesti ineducati, non hanno mai sparato a nessuno; molte tra loro, in antitesi al signor Levan, rivendicano la propria appartenenza alla specie (non razza) umana proprio manifestando la non necessità di “dominare la natura”, e “hanno l’anima in pace” se possono godere delle “capriole degli animali” vivi, piuttosto che soffocati dal sangue e in preda agli spasmi dell’agonia; due milioni fra queste hanno optato per una dieta vegetariana, rifiutando l’ipocrisia (questa sì) di uccisioni non perpetrate personalmente, ma commissionate a terzi.

Sarebbe appropriato, pertanto, se i cacciatori, legittimamente orgogliosi del proprio Dna, lo riconoscessero anche quando scotta. È il loro marchio di fabbrica, non quello delle colf o degli studenti. Oggi, che la denunzia circa le insanabili contraddizioni del loro “sport” erompe dall’interno, essi possono mettere in pratica la paventata determinazione nel procedere «quando fa freddo, ignorando la fame e la stanchezza».

Il “freddo” penetra dallo sgretolarsi del muro di omertà che fa della caccia un fenomeno opaco, un buco nero inosservabile. La “fame” è la faida intestina, che dopo aver depauperato le riserve faunistiche del paese, sgomita per qualche socio in più, o per accedere al massacro dei migratori, protetti in tutte le nazioni civilizzate.

La “stanchezza” è la sopraggiunta impossibilità di ripararsi dietro mamma società. Questa, mentre il signor Levan immaginava di perpetuare un passato che suppone eroico, pur titubando progrediva, producendo le riflessioni critiche dei signori Micoli, Di Monte, Duria, Matassi, ma anche coperte sempre più corte, che mettono in luce le distanze tra chi ama la vita e chi invece le spara addosso.

Andrea Marussigh
Udine
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