Il Nostro Tempo ^ 16 dicembre 2001
Settimanale Cattolico di Mialano
“Canto la Speranza”
Nei giorni scorsi ha ricevuto negli Stati Uniti due prestigiosi riconoscimenti
ANNAMARIA BRACCINI
Dietro la mia musica c’è tutta una storia, o meglio, tutta la storia della mia vita. quella di un uomo che ha avuto un’infanzia difficile e che per quindici anni è stato chiuso in collegio, quella di una persona affetta da una malattia grave. Fin da molto giovane mi piaceva cantare e stare in compagnia, così ho fatto molte esperienze e creduto a tanti movimenti come la “Beat generation” o “I figli dei fiori”. Più tardi sono approdato all’anarchia, all’ “Autonomia operaia” e alla droga finché, a metà degli anni Ottanta, qualcosa è cambiato». Ripercorso così, in fretta, ma con la semplicità, e il coraggio di parole chiare, il passato doloroso di Roberto Bignoli, oggi quarantacinquenne, sembra un insieme di ricordi e di vicende che tanti ragazzi di allora hanno vissuto, rimanendovi spesso travolti.
Ed è, così, quasi inevitabile domandarsi, ma soprattutto chiedere direttamente a lui, come si è “salvato”, che cosa è accaduto in quel fatidico 1984 che ha segnato la svolta, portando Bignoli a diventare un cantautore di successo. «Avevo dentro di me il senso di una grande insoddisfazione che trovava risposte sbagliate e inconcludenti. Poi mi sono reso conto che la violenza, in cui non credevo, non sarebbe servita a nulla, così come il lavorare nel mondo dello spettacolo, che avevo sognato da bambino, ma che in quei tempi, non era altro che una serie di fallimenti, fino a quando non ho ritrovato la fede».
Insomma, un musicista folgorato sulla via di Damasco Non proprio perché sono cresciuto in un ambiente cattolico, presso l’Istituto “Don Gnocchi” di Milano, e perché la riscoperta di Dio è stata, inizialmente, difficile da accettare. Non riuscivo, infatti, a capire se quest’ “incontro” indicava la strada giusta o se era frutto di suggestione. Ora so che era ed è la mia vita. Nasce da qui il desiderio di raccontare in musica e parole questa esperienza? Sì, ho pensato che un percorso di questo tipo potesse interessare ad altre persone. Perché, mi sono detto, non esprimere con onestà, senza credere di essere un eroe o un miracolato, le mie vicende, dall’emarginazione all’handicap motorio, dalla violenza alla droga, dall’inquietudine alla serenità che viene da Dio? Ho voluto farlo, specie proponendo tutto questo a determinate realtà, come le carceri, gli ospedali, le comunità di recupero, le scuole e le Università. Il risultato, insieme a quello che ho riscontato nei luoghi privilegiati dell’aggregazione giovanile, quali i teatri e le piazze, è arrivato subito.
È questo stesso desiderio di comunicare che ti ha spinto a girare il mondo con le canzoni? Ho visto l’entusiasmo dell’ America Latina e dell’Europa, ma sono molto contento di essere stato, anche per quest’ultima tournée, conclusasi la settimana scorsa, in Canada e negli Stati Uniti. La risposta di pubblico è stata straordinaria e mi piace ricordare che con altri due bravissimi musicisti, don Mimmo Iervolino e Marco Tavola, abbiamo raccolto fondi per alcuni progetti della Giornata Mondiale della Gioventù 2002 che si terrà appunto a Toronto.
Non a caso è stato un successo di pubblico condiviso dalla critica più attenta. Dopo sette album e circa quindici compilations internazionali è stata comunque una grande emozione ricevere a Washington due prestigiosi riconoscimenti che si possono definire gli Oscar della musica cristiana mondiale, gli «Unity Awards» come migliore artista internazionale e per la migliore canzone. Quella che ho voluto che si intitolasse «Ho bisogno di Te» e che dà il nome all’intero mio ultimo disco multimediale.
Le persone normalmente amano le storie “a lieto fine”, ma sono anche pronte ad accettare un discorso più profondo, legato al credere? Sono orgoglioso di essere riuscito, anche attraverso dibattiti e incontri, a far riflettere anzitutto tanti ragazzi. Non ho la pretesa di convertire nessuno, ma sento di dover portare avanti una sorta di missione, offrendo, a chi ne h. bisogno, un linguaggio di speranza. Credo che, in questo senso, l’Italia sia una terra da coltivare. I giovani ci sono, vengono ai concerti, non vogliono soli stordirsi nelle discoteche del sabato sera, ma hanno timore ad avvicinarsi ad una proposta che spesso li intimidisce. Si tratta di lavorare tutti insieme.
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