Questi raccontini, dall’esile trama, ed altri elaborati scritti, metteranno a dura prova le tue conoscenze lessicali della lingua italiana, ricchissima di lemmi che generalmente usiamo poco. Te la senti di affrontarlo? Provaci e sappi che esistono anche i dizionari linguistici che, ahimé, trascuriamo troppo spesso…

IL RISVEGLIO DI FILOMENA  

Filomena, una casalinga di Rubignacco, piccola località di Cividale del Friuli,  si svegliò tardi quella mattina, si levò dalla sua brandina dopo una notte insonne e cominciò ad ambulare nel suo tinello inciampando sul pouf.

Ma subito si risollevò e brancolando cercò le sue paperine. Fortunatamente le trovò proprio sotto il chiffonnier. Indossò cardigan e fuseaux. Si recò in bagno davanti allo specchio: le efelidi ovulari sulla sua cute livida e scarsamente pigmentata spiccavano tra piccole smagliature, segno di una precoce senescenza.

Poi si recò in cucina e trovò molto disordine: la schiumaiola e il ramaiolo erano con la teglia sulla pirofila, l’indivia riccia ancora da lavare, i lazzeruoli sparsi sul pavimento. Dappertutto tracce della festa della sera precedente. Sui vassoi era rimasto un po’ di tutto: oltre alle tartine, c’erano spumoni,  zuccotti, ricciarelli, diplomatici e maritozzi.

La pulcianella era vuota: si ricordò che aveva trangugiato mezzo litro di vermentino e poi…si ritrovò a letto..
Il suo consorte era già in campagna a sarchiare il terreno negli interfilari di viti con la sarchiatrice.

Osservando la martingala della sua giacca munita di alamari che era appesa vicino all’arcile antico ereditato dalla nonna, si ricordò che la sera prima gli aveva promesso di preparagli una buona pastasciutta ma non sapeva scegliere tra sedani e tortiglioni. Poi si decise per i tortiglioni che ripose momentaneamente in una ragutiera in attesa dell’ora di pranzo. Sistemò tutto in ordine, racconciò il suo chignon, poi, rimesso al suo solito posto  lo zerbino, si recò in giardino
per rendersi conto della situazione.

Nell’orto adiacente amava coltivare le sue spezie preferite tra le quali lo zenzero e il coriandolo. Spesso utilizzava i loro rizomi come eupeptici e aromatici per regolare il suo difficoltoso metabolismo. Sul suolo, vicino ad una zolla,  trovò tra l’erba il pennato, quello più adunco, e la roncola che ripose nella capanna antistante, accanto al saracco e al gattuccio.

L’aria era tersa e ogni tanto un effluvio proveniva dai suoi fiori preferiti: zinnie, giaggioli dai colori variegati, Un macaone quasi le sfiorò il viso mentre fanelli e codibugnoli riempivano l’aria di melodie ornitologiche. Una cinciarella e un
fiorrancino litigavano per contendersi un ematoda che cercava di infilarsi nell’humus.

Un biacco scivolò sotto un piccolo anfratto sinuoso del suo umifero terreno. Filomena si soffermò accanto al  suo maestoso leccio tra le cui foglie coriacee occhieggiavano alcune ghiande allungate. Accanto si ergeva  un ontano i cui fiori in amenti pendenti rendevano l’atmosfera più idilliaca. C’era anche un carpino bianco, una farnia, e un acero che mostrava le sue samare sferiche indeiscenti con pericarpo dotato di ali policrome e membranose.

Si recò in seguito presso lo stabbiolo e notò che la scrofa grufolava nel trogolo D’un tratto un refolo lambì i suoi capelli fluenti, mentre una vaga sensazione estatica s’impossessava del suo animo rapito. Tutto appariva così surreale…
Le si avvicinarono il cirneco e lo schnauzer per farsi accarezzare.

Poi rientrò in casa per ultimare le faccende domestiche, con uno stato d’animo diverso ma cosciente della palingenesi interiore che generò in lei un nuovo stupore per la vita.

NOTA:

Il raccontino “Il risveglio di Filomena” è un esempio di testo umoristico e creativo che fa uso di un vocabolario ricco e inusuale, attingendo a termini poco comuni della lingua italiana. Sebbene la trama sia molto semplice — una casalinga che si sveglia e svolge le sue faccende domestiche — l’elemento divertente sta nell’uso di parole particolari e rare, che non solo rendono più “densa” la narrazione, ma provocano anche un effetto comico.

In questo testo, termini come “paperine” (ciabatte), “chiffonnier” (un tipo di mobile), “efelidi” (lentiggini), e “martingala” (una parte di un capo d’abbigliamento) sono esempi di lessico che si allontana dall’uso comune. Il lettore è portato a sorridere, non tanto per la storia in sé, quanto per l’accumulo di queste parole ricercate.

Oltre al vocabolario sofisticato, il racconto evoca anche scene di vita quotidiana in modo poetico e quasi surreale, come l’immagine del giardino pieno di fiori e animali descritti in modo dettagliato e scientifico, e la presenza di strumenti agricoli come la roncola e il pennato. Questo contrasto tra l’esile trama e la complessità linguistica è ciò che dà valore umoristico e intellettuale al racconto.

L’AVVENTURA MATTUTINA DI AMILCARE

Amilcare, un anziano contabile in pensione, si destò quella mattina con una vaga sensazione di torpore. La sveglia a carillon, posata sul suo comodino d’ebano intarsiato, aveva già trillato da un quarto d’ora, ma lui si era limitato a scostare il plaid a quadri, rimanendo tra le lenzuola di flanella. Si levò infine con un brontolio sommesso, infilando i suoi mocassini foderati di lana. Brancolò alla ricerca dei suoi occhiali, che trovò appoggiati accanto a una vecchia foto dentro un dagherrotipo.

Con la vestaglia di tweed addosso e i calzettoni di lana irlandese, Amilcare si diresse verso la cucina. Sul tavolo di mogano, accanto a un mortaio di marmo e a un set di mezzalune per tritare le erbe, c’erano i resti di una cena che sembrava appartenere a un altro tempo: un’insalatiera con foglie appassite di songino, un vassoio di ottone con bucce di feijoa e scorze di kumquat. Accanto, la teiera giaceva mezza vuota, con accanto una guantiera colma di amaretti e canestrelli rimasti intatti.

Amilcare sospirò e cominciò a mettere ordine. Il secchiaio era ancora pieno di stoviglie: pentolini incrostati di sugo, una pentola a pressione dimenticata, un colino d’acciaio con tracce di couscous. Si accinse a lavare tutto con un sapone solido all’olio d’oliva, strofinando con energia. Dopo aver asciugato i bicchieri di cristallo, sistemò le posate nella credenza dietro la cristalliera.

Nonostante il disordine, Amilcare non era turbato. Anzi, si avvicinò alla finestra per dare un’occhiata al cortile. I suoi bonsai erano in perfetta forma, ciascuno sistemato su una mensola di tufo. Il suo preferito, un ginepro secolare, aveva sviluppato nuove ramificazioni che si curvavano elegantemente verso il basso. Tra i vasi in terracotta, alcune viole mammole e garofanini emanavano un profumo delicato che si confondeva con quello del gelsomino rampicante.

Nel giardino, uno scoiattolo si arrampicava agilmente tra i rami di un pruno, mentre uno storno garriva sopra un vecchio lampione. Amilcare notò con soddisfazione che le sue rose canine erano in piena fioritura e che i carpini avevano già cominciato a lasciar cadere le loro foglie.

Sistemato il giardino con il suo fidato rastrello e il falcetto che aveva ereditato dal nonno, Amilcare si diresse verso il capanno degli attrezzi. Lì, tra vecchie zappe e una sega a dorso, trovò il suo vecchio barometro, che da tempo intendeva riparare. Lo sollevò con delicatezza e, notando qualche ruggine sulla superficie, si ripromise di lucidarlo più tardi con del sidol.

Il pomeriggio si annunciava promettente. Decise che avrebbe impiegato il tempo restante per dedicarsi alla sua collezione di farfalle, perfettamente conservate sotto vetro.

Aprì uno degli astucci in pelle e osservò con meraviglia un esemplare di *Papilio machaon*, le sue ali gialle e nere ancora vivide, come se fosse stato catturato il giorno prima.

Infine, dopo aver concluso le sue faccende, si accomodò sulla sua poltrona preferita, accanto a un caminetto di pietra ollare. Prese il suo libro, un’edizione antica con la rilegatura in pelle, e si immerse nella lettura, consapevole che la giornata, nonostante la semplicità delle attività, gli aveva riservato piccoli momenti di profonda gioia.

Nota

In questo racconto ho seguito uno schema simile, utilizzando termini meno comuni e descrivendo le azioni quotidiane in modo dettagliato e “insolitamente formale”. I vocaboli ricercati, come “dagherrotipo”, “guantiera”, “falchetto”, e “songino”, contribuiscono a rendere la narrazione particolare e adatta a mettere alla prova le conoscenze lessicali dei lettori.

(Fisiognomica)

IL SIGNOR ERMENEGILDO VANZETTI

Qui una dettagliata descrizione fisiognomica  di un tipo particolare (caucasico) usando una terminologia piuttosto sconosciuta alla massa abbastanza dettagliata. (condita con un certo umorismo pirandelliano). Il vocabolario ricco ed insolito.

Il signor Ermenegildo Vanzetti, di professione perito calligrafico e dilettante di enigmistica, si presentava come un individuo dalla fisionomia talmente peculiare da sembrare quasi un’esercitazione anatomica per studenti di antropologia.

Il suo cranio, palesemente brachicefalo, aveva una curvatura occipitale appena accentuata, ma il vertice del capo, segnato da una calvizie incipiente e irregolare, rivelava un evidente defluvio dei capelli. Una rada peluria di sottilissimi capillizi aurei si avvolgeva in spirali errabonde attorno a un’area centrale del cranio che era divenuta ormai una lucida sinclinale epidermica, costellata di lentiggini sporadiche.

La sua fronte, alta e sfuggente, si apriva come una pianura carsica: le rughe, disposte in eleganti pieghe longitudinale, si increspavano con una sorta di oscillazione ritmica ogni qual volta egli tentava di evocare un pensiero. Gli occhi, incassati in orbite profonde quasi a creare un’ombra perenne, erano incorniciati da folti sopraccigli a cespuglio che sembravano dotati di vita propria. Questi si arcuavano e si contorcevano ad ogni minima variazione umorale, conferendo a Ermenegildo un’espressione perennemente interrogativa, se non apertamente perplessa.

Il suo naso, chiaramente leptorrino, dominava il volto con una prominenza da augure romano. La sua radice era stretta, quasi accartocciata, ma si apriva in un arco simile a quello di un ponte medievale, per poi discendere verso una punta bulbosa, leggermente arrossata, segno inconfondibile di anni di dedizione al vinello casereccio. Le narici, lievemente asimmetriche, vibravano ogni qual volta Vanzetti emetteva uno dei suoi sospiri sconsolati, creando un piccolo gorgheggio che ricordava una fronda agitata dal vento.

Il labbro superiore, incredibilmente sottilissimo e quasi impercettibile, formava un’esile linea sopra una bocca che sembrava tagliata a vivo. Il labbro inferiore, invece, presentava una protuberanza morbida e carnosa, come se la natura avesse voluto compensare la scarsità del superiore con una generosità inaspettata. L’intero apparato orale, poi, si atteggiava spesso in una piega ironica, come se fosse costantemente sul punto di proferire una sentenza filosofica di discutibile profondità.

Il mento, poco marcato, sfuggiva con una sorta di eleganza impacciata verso il collo, dove una plica cutanea (spesso definita impropriamente doppio mento) si agitava con una leggera ondulazione ad ogni suo movimento. La mandibola, piuttosto stretta e vagamente prognata, conferiva al suo profilo un’inspiegabile somiglianza con alcuni busti di imperatori romani della tarda antichità, di quelli che avevano già intuito la decadenza ma facevano finta di non vederla.

La carnagione del signor Vanzetti oscillava tra una pallida cromia olivastra e sfumature lattiginose, quasi fosse indecisa se appartenere a una nobile stirpe di navigatori veneziani o a un rozzo contadino delle Langhe. Qua e là, qualche macchia senile testimoniava un rapporto non troppo cordiale con il sole, e le guance, malgrado una certa flaccidità senescente, conservavano ancora qualche traccia di rubicondo ardore giovanile, specialmente dopo una bottiglia di barbera.

Ma la vera caratteristica distintiva del nostro Vanzetti era la barba. Oh, la barba! Non era la classica barba incolta da hipster moderno, no. Si trattava piuttosto di una barba rada, filamentosa, quasi monocroma, che si stendeva sulla parte inferiore del viso con la stessa determinazione di una finta edera su un muro di cemento. La consistenza era quella di una paglia consumata, con chiazze di peluria che sembravano non aver mai preso una decisione chiara: crescere o morire.

Il tutto era accompagnato da orecchie piuttosto prominenti, che, viste di profilo, si piegavano leggermente in avanti, come se fossero in attesa di captare ogni più piccola confidenza sussurrata nelle vicinanze. La lobotomia auricolare sembrava parziale, con lobi leggermente allungati e pendenti, probabilmente dovuti all’abitudine di indossare occhiali con aste mal calibrate.

La sua statura media, appena falsata da un portamento leggermente incurvato, e le braccia sottili e quasi ipersteniche, completavano il quadro di un uomo che sembrava costantemente in bilico tra la saggezza del vecchio saggio e la tragicomica indecisione di chi, nonostante gli anni, non ha ancora capito esattamente che ruolo interpretare nel grande teatro della vita.

 

IL VOLTO PARTICOLARE DI GIACOMO

Giacomo è un uomo di mezza età, un po’ trasandato ma non privo di un certo fascino involontario, il cui volto è un mosaico di segreti e di rivelazioni continue. La sua faccia, di quelle che si incrociano ogni giorno per strada senza particolare stupore, ha una forma vagamente ovale, come un uovo appena schiacciato ai lati. La pelle, leggermente olivastra, è tempestata da una moltitudine di pori dilatati, ognuno dei quali sembra anelare a una propria autonoma esistenza.

Le sue sopracciglia, cespugliose e perennemente arcuate come due interrogativi sospesi, dominano lo sguardo con una certa autorità disarmante. In un momento di perplessità — per esempio, quando non trova il telecomando o scopre che il caffè è finito — si contraggono simultaneamente, come se avessero una vita propria, gettando il suo volto in uno stato di costante incertezza cosmica.

Gli occhi, due piccoli cerchi color nocciola, sono incastonati in orbite leggermente infossate, conferendo allo sguardo un’aria di stanchezza cronica. Eppure, in momenti di entusiasmo improvviso (ad esempio, quando finalmente arriva la pizza a domicilio), gli occhi sembrano dilatarsi, come due vecchi amici che si riconoscono dopo anni di distanza. Il loro brillio dura però pochi secondi, prima di tornare nella loro placida indolenza, incapaci di mantenere a lungo un’emozione intensa.

Il naso, una sorta di bastione fortificato al centro del viso, è decisamente sproporzionato rispetto alla bocca sottile e increspata, la quale sembra costantemente indecisa su cosa fare della propria esistenza. La narice destra, leggermente più ampia della sinistra, si espande impercettibilmente quando l’uomo annusa il profumo di lasagne al forno, o di guai imminenti. Quando lo sorprende un odore sgradevole — come quello delle scarpe dimenticate in un angolo del corridoio per giorni — il naso si increspa in una smorfia di disgusto che fa tremare la piccola ruga appena sotto gli zigomi, ruga che, a ben guardare, è un microcosmo di rughe, una sorta di labirinto inciso dal tempo e dalle piccole delusioni quotidiane.

Il sorriso, o meglio l’idea di sorriso, è un evento raro. La bocca si apre in una sottile smorfia, dove l’angolo destro del labbro ha la curiosa abitudine di sollevarsi con un microscopico ritardo rispetto al sinistro, producendo un’espressione che oscilla tra la malizia involontaria e l’incredulità permanente. Quando ride, cosa che accade solo in rare occasioni, come quando il gatto scivola dal divano, si scopre una fila di denti che, seppur non proprio perfetti, sembrano godere di una certa armonia disordinata, quasi un inno all’imperfezione. I due incisivi, appena sovrapposti, si scontrano in un’ironia anatomica che non passa inosservata.

Ma è il mento l’elemento più enigmatico del suo volto. Un piccolo promontorio che, nelle giornate di pioggia e malinconia, sembra ritrarsi come un guscio di tartaruga. Nei momenti di determinazione, invece, quando decide di affrontare la fila all’ufficio postale o di rispondere alla moglie con un deciso “Adesso arrivo!”, il mento si spinge leggermente in avanti, quasi volesse fare da ariete nella sua personale battaglia contro il mondo. Eppure, ogni volta, si ritrae con una certa discrezione, tornando nel suo stato di placido riposo.

E cosa dire delle sue guance? Due morbidi pendii che il tempo ha leggermente scolpito, conferendo loro un’aria vagamente cadente. Quando è assorto nei propri pensieri — per esempio, contemplando la complessità dell’universo (o più probabilmente pensando alla prossima serie Netflix da guardare) — le guance si afflosciano leggermente, accentuando un’aria di vagabonda indifferenza. Tuttavia, al minimo cenno di rabbia (magari per il traffico o una bolletta troppo alta), esse si infiammano, diventando rosse come due pomodori in un mercato all’aperto. Una spettacolare sinfonia di rossori che esplode in un crescendo di calore emotivo.

Infine, il collo: un elemento che non si può ignorare. Lieve, forse un po’ troppo corto per dare pieno respiro al volto, sembra lottare costantemente contro il colletto della camicia, ribellandosi ogni volta che l’uomo cerca di sistemarsi il nodo della cravatta. E quando è confuso, magari durante una discussione su argomenti di cui non capisce nulla ma finge di saper tutto, il collo si irrigidisce in un’impercettibile tensione, come il filo di una marionetta appena tirato. In questi momenti, il volto tutto diventa un palcoscenico in cui ogni muscolo sembra recitare la propria parte in una tragicommedia di quotidianità e follia.

 

 

IL MECCANICO FRANCESCO BISOTTI AGGIUSTA LA VECCHIA DAIATSU

Proviamo a descrivere il meccanico Francesco che sta aggiustando il motore di una vecchia Daiatsu che usa due soli cilindri perché il terzo non funziona. Cerchiamo di essere ricchi di dettagli descrivendo le micro-operazioni mentre smonta e aggiusta e il nome esatto degli attrezzi che usa…
Francesco, il meccanico, è chino sul cofano aperto di una vecchia Daihatsu, un modello datato, con un motore che sembra aver visto giorni migliori. L’aria della sua piccola officina è satura dell’odore inconfondibile di olio motore e grasso industriale, mentre lui, con il viso concentrato e le mani callose, si muove con la destrezza di chi ha dedicato una vita intera a smontare e rimettere insieme ferri arrugginiti. Il motore della Daihatsu è un tre cilindri, ma in questo momento funziona solo su due, un problema che Francesco sta per affrontare con pazienza e maestria.

Si asciuga la fronte con il dorso della mano, lasciando una scia di grasso sulla pelle, e si prepara. Dal suo carrello degli attrezzi, prende una chiave a bussola da 10 mm e la collega a un cricchetto a cricco. Con movimenti rapidi ma precisi, inizia a svitare i bulloni del coperchio delle valvole. Ogni “clic” del cricchetto è ritmato, quasi ipnotico, mentre Francesco lavora. Non parla, si limita a respirare con calma, immerso nella sua routine familiare.

Una volta tolto il coperchio delle valvole, Francesco infila una torcia a LED tra i denti, illumina il blocco motore, e con occhi esperti scruta il terzo cilindro. La diagnosi non lascia dubbi: il pistone è incrostato di residui di combustione, e la candela di accensione è sporca, segno evidente che non c’è stata combustione corretta da un po’ di tempo.

Con la chiave a tubo allungata, svita la candela con precisione, estraendola e osservandola con un leggero cenno di disapprovazione. Prende un calibro per misurare la distanza degli elettrodi, borbotta qualcosa tra sé e sé, poi si dirige verso il bancone per prendere una nuova candela NGK dal cassetto, l’arma segreta dei meccanici di vecchia scuola.

Dopo aver pulito il cilindro con un getto d’aria compressa, torna al lavoro. Monta la candela nuova e, con la chiave dinamometrica, stringe a 20 Newton metri esatti. Il clic della chiave conferma che tutto è a posto. Poi, prende una pinza a becchi fini per sistemare un piccolo cavo dell’accensione che sembra aver preso gioco.

Il prossimo passo è delicato: con il comparatore a quadrante, controlla il gioco valvole per assicurarsi che l’allineamento sia corretto. Una leggera regolazione del dado sul bilanciere, e con un cacciavite piatto Francesco fa un micro-aggiustamento per riportare il gioco valvole a 0,25 mm, come da manuale.

Si ferma un attimo, si allunga per prendere una lattina di olio lubrificante spray e lo applica con cura sulle parti mobili del motore. Poi, con un gesto abile e metodico, rimonta il coperchio delle valvole, stringendo i bulloni con la stessa chiave a cricchetto. Una volta finito, fa scattare il cofano per chiuderlo e si pulisce le mani su un vecchio straccio.

“Proviamo”, dice, infilando la chiave d’accensione e girandola. Il motore tossisce, si lamenta un attimo, poi si avvia. Ora tutti e tre i cilindri cantano insieme come un vecchio coro arrugginito ma funzionante.

Francesco sorride leggermente, guarda la vecchia Daihatsu con l’affetto che si riserva a un vecchio amico. Ha rimesso insieme un’altra piccola macchina, un pezzo di storia sulle strade.