Il Racconto dell’Anticristo*
L’incipit di questo racconto presenta il protagonista (l’Anticristo) in modo molto eloquente… la prima impressione è quella di una persona perbene, ricca di qualità morali e buone intenzioni, ma si era dimenticata di qualcuno: di Cristo, appunto!
C’era in questo tempo, tra i credenti spiritualisti, un uomo ragguardevole, il quale era lontano dall’infanzia della mente e del cuore. Egli era ancor giovane, ma grazie al suo genio eccelso a trentatrè anni godeva di fama di grande pensatore, di scrittore e di riformatore sociale. Cosciente di possedere in sè una grande forza spirituale, era sempre stato un convinto spiritualista e la sua vivida intelligenza gli aveva sempre indicato la veritàdi ciò a cui si deve credere: il bene, Dio, il Messia. Egli credeva in ciò, ma non amava che se stesso. Credeva in Dio, ma in fondo all’anima involontariamente e senza rendersene conto preferiva se stesso a Lui”.
“Credeva nel Bene, ma l’Occhio dell’Eternità, che vede tutto, sapeva che quest’uomo si sarebbe inchinato davanti alla potenza del male, appena appena questa riuscisse a corromperlo, non con l’inganno dei sentimenti e delle basse passioni e nemmeno con la suprema attrattiva del potere, ma solleticando il suo smisurato amor proprio. Del resto questo amor proprio non era nè un istinto incosciente, nè una folle pretesa.
A parte il suo talento eccezionale, la sua bellezza e la sua nobiltà, anche le altissime dimostrazioni di disinteresse e di attiva beneficenza, parevano giustificare a sufficienza lo sconfinato amor proprio che nutrive per sè il grande spiritualista, l’asceta, il filantropo. Se gli si rinfacciava di essere così in abbondanza fornito di doni divini, egli vi scorgeva i segni particolari di una eccezionale benevolenza dall’alto verso lui e si considerava come secondo dopo Dio, unico nel suo genere. In una parola egli riconosceva in sè quelle che erano le caratteristiche di Cristo” (…).
Tutto il racconto che segue è pervaso da un senso dell’avvicinarsi della fine: in senso evidentemente essenziale e non temporale; come un drammatico confronto fra la fede in Gesù Cristo e il mondo, la non fede. Certi scenari di follia rivoluzionaria dei decenni scorsi potevano meglio suggerire un’immagine di opposizione frontale: in realtà, dagli anni ottanta è ancor più evidente come questa “lotta finale” assuma volti ed immagini che Soloviev aveva profetizzato in questo dialogo.
“C’è un grande turbamento” ha detto Paolo VI negli ultimi tempi del suo pontificato, “in questo mondo e nella Chiesa, e ciò che è in questione è la fede: Capita che ora mi ripeta la frase oscura di Gesù nel Vangelo di San Luca: Quando il Figlio dell’uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra? (…)”.
Nel racconto di Soloviev il potere del mondo, l’Imperatore (l’Anticristo), proprio per esercitare un dominio assoluto ed incontrastato ha bisogno del servigio della Chiesa. Una Chiesa che diventa in qualche modo assistente spirituale e morale del potere per “coprire”, senza salvare realmente, la divisione e la radicale infelicità dell’uomo.
Così l’imperatore di Soloviev propone ai cristiani delle diverse confessioni, “per dimostrare il suo sincero amore”, concessioni a prima vista altamente generose. Ai protestanti offre la più grande scuola di studi biblici mai esistita. Agli ortodossi promette un grande museo di archeologia cristiana per venerare le “sante tradizioni”: Ai cattolici affida il compito di garantire “il giusto ordine spirituale, nonchè quella disciplina morale indispensabile a tutti”.
Le offerte sono molto generose, ma lo sparuto gruppo di cristiani rifiuterà: è il momento cruciale del racconto:
“Con accento di tristezza, l’imperatore si rivolse a loro dicendo: “Che cosa posso fare ancora per voi? Strani uomini! Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque voi stessi, o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi, condannati dal sentimento popolare; che cosa avete di più caro nel cristianesimo?” Allora simile a un cero candido si alzò in piedi lo starest Giovanni e rispose con dolcezza: “Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacchè noi sappiamo che che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità. Da te, o sovrano, noi siamo pronti a ricevere ogni bene, ma soltanto se nella tua mano generosa noi possiamo riconoscere la santa mano di Cristo. E alla tua domanda che puoi fare tu per noi, eccoti la nostra precisa risposta: confessa, qui ora davanti a noi, Gesù Cristo Figlio di Dio che si è incarnato, che è resuscitato e che verrà di nuovo; confessalo e noi ti accoglieremo con amore, come il vero precursore del suo secondo avvento glorioso”.
Ma così dicendo lo starest vede trasalire l’Imperatore e in quel modo i pochi fedeli rimasti riconosceranno nell’Imperatore l’Anticristo.
Paolo VI, nel brano già citato, proseguiva: “Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia”.
Ma che cosa definisce il piccolo gregge del racconto di Soloviev? Per quei pochi cristiani rimasti il riconoscimento della presenza di Cristo è “Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui”: è l’orizzonte totale, il significato esauriente della vita. Non sono un’avanguardia intellettuale (anzi, gli intellettuali e i teologi si sono gà uniti all’Imperatore) nè si distinguono fondamentalmente per una coerenza morale. Sono piuttosto coloro che non accettano di servire due padroni.
L’affermazione dello starest, culmine narrativo e contenutistico del racconto dell’Anticristo, è il principio della Chiesa nel mondo. E proprio per questo è il principio e il metodo della civiltà. Una civiltà che non permetta l’esistenza di questo imprevedibile e, per certi aspetti, inspiegabile piccolo gregge non è infatti democratica, nè tollerante. Non permette di esistere a nient’altro che non sia omologato od omologabile al suo potere.
*(Questo breve racconto costituisce l’appendice a “I tre dialoghi” di Vladimir Soloviev. Uno dei protagonisti dei dialoghi presenta a supporto delle sue tesi una profezia scovata fra i manoscritti del monaco Pansofilo.
L’opera apparve per la prima volta sul periodico “Nedielja” nel 1899).
(A cura di A.R.)